Teatro
sommario: 1. La fine di un'epoca. 2. Pirandello apre la crisi del teatro drammatico. 3. Brecht impone il teatro epico. 4. Parentesi sull'Ottobre teatrale. 5. Il teatro dell'assurdo. a) Eugène Ionesco. b) Samuel Beckett. c) Arthur Adamov. 6. Il teatro della crudeltà. a) Antonin Artaud. b) Jean Genet. 7. Il teatro d'autore nel mondo oggi. a) Germania. b) Inghilterra. c) Francia. d) Altri paesi d'Europa. e) America. 8. Psicodrammi, happenings, feste. a) Lo psicodramma di Moreno. b) lI teatro povero di Grotowski. c) L'happening americano. d) Feste. 9. Conclusione. □ Bibliografia.
1. La fine di un'epoca
Čechov muore nel 1904, Ibsen nel 1906, Strindberg nel 1912. Ancor prima che la guerra mondiale sconvolga le arti e in particolare quella che più è sensibile alle variazioni della società, scompaiono i tre maggiori rappresentanti del teatro della fine del secolo. La loro morte non è solo un fatto accidentale e privato, ma sembra trascinare con sé la scomparsa del genere drammatico al quale ognuno aveva legato il suo nome. Con Ibsen scompare il teatro naturalista, il teatro sociale, il teatro di tesi e di problemi; con Strindberg quello autobiografico, il teatro dell'effusione lirica individuale; con Čechov il teatro d'atmosfera. Questi autori avranno, naturalmente, degli epigoni. In Inghilterra il teatro polemico e sociale di G. B. Shaw, in Russia il teatro populista e rivoluzionario di M. Gor′kij, in Irlanda il teatro epico e nazionalista di S. O'Casey, negli Stati Uniti il teatro verista ed espressionista di E. O'Neill - per citare solo gli esempi più memorabili - hanno lasciato prove magnifiche della loro vitalità.
Si tratta però di opere che, per la tecnica e per la concezione, appartengono all'Ottocento. Ora, la storia del teatro, se il suo scopo non è semplicemente redigere un catalogo di ‛successi' drammatici, può limitarsi a una rapida menzione di opere che non hanno rinnovato in profondità la problematica del genere. È forse sbagliato sostenere che l'Ottocento e le sue diverse espressioni teatrali muoiono con la morte degli ultimi tre drammaturghi, la cui ricerca aveva voluto rimettere in questione la loro stessa arte?
Ma si tratta solo dell'Ottocento? Il teatro del dopoguerra segnerà una rottura netta non solo col teatro ibseniano, cechoviano o strindberghiano, ma con un'esperienza teatrale vecchia di parecchi secoli e di cui Ibsen, Čechov e Strindberg sono stati essi stessi largamente eredi.
Quali tratti definiscono il teatro come è stato praticato fino alla fine dell'Ottocento?
1. Il teatro ‛classico' (chiamiamolo così per comodità, per opporlo al teatro ‛moderno' che appare intorno al 1920) presenta ‛caratteri', cioè personaggi provvisti di una ‛natura umana' fissa, immutabile. La rappresentazione ha appunto lo scopo di rivelare poco a poco allo spettatore questa natura umana e i suoi segreti.
2. Gli elementi fondamentali dello spettacolo classico sono l'azione e il dialogo. Nella rappresentazione sulla scena, gli eventi si dipanano grazie agli scambi, gestuali ma soprattutto verbali, tra i diversi personaggi.
3. Questa concezione dello spettacolo presuppone la stretta aderenza dello spettatore a ciò che gli è mostrato. Lo spettacolo non è dato come spettacolo ma come la vita stessa. È il principio dell'illusione teatrale, della magia, dell'incantesimo scenico. È anche il principio della catarsi aristotelica, della purificazione delle passioni attraverso l'identificazione con la sorte commovente dell'eroe.
4. Il testo scritto regna sovrano: tutti gli altri elementi della rappresentazione - la regia, la recitazione degli attori, la scenografia, l'illuminazione, ecc. - gli sono subordinati. Regia e recitazione degli attori possono essere più o meno efficaci; rimangono comunque confinati in un ruolo subaltemo, non servendo che a ‛illustrare' il testo.
5. Infine, nella sua configurazione materiale, la sala del teatro è divisa nettamente tra il luogo in cui stanno gli spettatori e il luogo in cui si svolge l'azione scenica. Questa divisione è accentuata dal sipario, abbassato davanti alla scena, che si ‛alza' come sulla rivelazione di un altro mondo, e spesso dalla buca dell'orchestra, sorta di abisso destinato a rendere sensibile il carattere remoto e concluso in se stesso dello spettacolo. Sipario e buca dell'orchestra ricordano l'origine sacra del teatro: lo spettatore è invitato ad abbandonare il suo mondo e a lasciarsi prendere dai sortilegi di un universo completo in se stesso, autonomo, assoluto.
Il teatro di Čechov, di Strindberg o di Ibsen obbedisce ancora a queste cinque leggi. Tutta la storia del teatro moderno a partire dagli anni venti è invece la storia della trasgressione di queste leggi, della loro distruzione progressiva, della problematizzazione radicale non solo di questo o quel genere di opere teatrali, ma della forma drammatica nel suo insieme, quale la si conosceva e praticava dal tempo di Aristotele e del teatro del Rinascimento.
Eppure, a un'analisi più ravvicinata ci si accorge che i primi segni della dissoluzione della forma drammatica classica si trovano precisamente in Ibsen, Čechov e Strindberg (P. Szondi - v., 1956 - ha scritto su questo argomento un saggio fondamentale). In Ibsen, i personaggi sono dominati dal loro passato. Il tema dei suoi drammi non è un'azione che si svolge sotto i nostri occhi, ma un ricordo interiore che continua ad agire nell'eroe, isolandolo dal presente e da coloro che lo circondano. In Čechov, la rinuncia alla vita presente, il rifugio nel ricordo e l'aspirazione nostalgica si sostituiscono al desiderio di agire hic et nunc. Il dialogo sussiste ancora, ma il monologo, espressione di un io appartato, ripiegato e distante da ciò che avviene sulla scena, assume un'importanza crescente. In Strindberg, gli avvenimenti e i rapporti tra gli individui hanno luogo solo per una coscienza che vive intensamente all'interno di se stessa e tende a sopprimere il mondo esterno. Cosi, ancor prima della rivoluzione teatrale che scoppierà all'indomani della ‛grande guerra', i due elementi fondamentali dello spettacolo classico, l'azione e il dialogo, sono sottoposti a un lavoro di erosione.
2. Pirandello apre la crisi del teatro drammatico
Luigi Pirandello è nato nel 1867, ma arriva tardi al teatro, e la sua prima opera rivoluzionaria, Così è (se vi pare), è del 1917. Chi è l'enigmatica signora Ponza, moglie del nuovo segretario della prefettura, in una piccola città siciliana? È la seconda moglie di Ponza, come pretende costui (la prima è morta in un terremoto)? Oppure, come pretende la signora Frola, la suocera di Ponza, è invece la prima e unica moglie di Ponza che, in un accesso di follia, egli credette morta e che bisognò fargli risposare come se fosse un'altra? La piccola società provinciale, curiosa e chiacchierona, vorrebbe sapere come regolarsi, e Pirandello, attraverso essa, attacca il culto dei fatti, la convinzione che si possa stabilire con certezza una verità. Tutti i documenti anagrafici sono stati distrutti nel terremoto. Al termine del dramma, la signora Ponza appare infine, ma velata. Confessa di essere nello stesso tempo la figlia della signora Frola e la seconda moglie di Ponza e, per se stessa, ‛nessuno'. La verità è dunque impossibile da conoscere, e ciascuno esiste solo nell'opinione altrui. Si è visto in quest'affermazione, spinta qui fino al paradosso, la prima manifestazione del pirandellismo. Se si colloca quest'opera in un contesto più generale, se la s'inquadra in rapporto a tutta la storia del teatro, si nota che la prima delle cinque leggi del teatro ‛classico' è rovesciata e ridotta a mal partito. L'eroina è il contrario di un ‛carattere', di una ‛natura umana', è ‛eroina' il meno possibile, giacché la sua stessa identità resta un mistero. È ridotta a un profilo, a un'immagine, che ‛cambia' secondo le diverse opinioni che si possono avere di lei. Il principio della stabilità, dell'immutabilità del personaggio è scalzato. Ogni spettatore può montare e smontare a suo piacere la figura della signora Ponza.
Un colpo molto più decisivo alle regole del teatro tradizionale sarà assestato nei Sei personaggi in cerca d'autore, dramma che stabilisce nel 1921 la fama mondiale di Pirandello (dopo essere stato abbondantemente fischiato, a Roma, la sera della prima). In sé, la storia dei sei personaggi, cioè il dramma familiare del Padre (avendo abbandonato un tempo il tetto coniugale, egli incontra per caso, in una casa d'appuntamenti, la sua figliastra, nata da una seconda unione di sua moglie), avrebbe potuto benissimo fornire il tema di un dramma naturalistico nella più pura tradizione ottocentesca e, perché no, ibseniana. Ma la storia dei sei personaggi è solo un elemento di questo lavoro di Pirandello: col far loro recitare il proprio dramma, Pirandello mostra, con allusioni ai suoi predecessori e con trovate sceniche, che un dramma di questo genere è ormai irrappresentabile. Invece di rifare Ibsen, egli si serve di un soggetto ibseniano per procedere a una constatazione di fallimento non solo del teatro ibseniano ma di tutta la tradizione teatrale che ha portato a Ibsen. I Sei personaggi segnano una data capitale nella storia del teatro, in quanto Pirandello sottopone a critica i diversi elementi del dramma classico e sembra fare il processo a ogni forma drammatica (v. Szondi, 1956, cap. 4).
Innanzitutto lo spettatore, quando entra nella sala, trova il sipario alzato e gli attori che stanno provando. Lo spettacolo proposto non è dunque più un mondo concluso in se stesso. Finita l'illusione dell'opera d'arte autonoma e assoluta; ugualmente impossibile l'identificazione con gli attori, che si presentano come attori e non come personaggi. L'arrivo dei ‛sei personaggi' propriamente detti, che fanno irruzione nel bel mezzo delle prove e che si presentano come prodotti di una finzione, potrebbe ristabilire l'illusione teatrale e la comunione sacra con la sala, ma Pirandello si premura di distruggere l'una e l'altra.
1. Critica della sincerità naturalistica alla Ibsen. La Madre supplica che le si lasci il velo che le copre la figura. Il Figlio dichiara di non potere né volere esprimere ciò che prova; egli si giudica dunque inadatto a ogni azione nel dramma. Il suo atteggiamento rende addirittura impossibile l'unità drammatica di luogo, la quale implicherebbe il ritrovamento, alla fine del dramma, di tutti i personaggi nel giardino; ma il Figlio, disgustato da tutta questa tragicommedia, per evitare l'incontro se ne sta chiuso nella sua camera. Come ricostruire il dramma con personaggi che nascondono il loro viso, che non vogliono esprimere ciò che provano, che vogliono fuggire il luogo dell'azione?
2. Critica della drammaturgia soggettiva alla Strindberg. La Figliastra esclama che ci tiene a rappresentare da sé il suo dramma. E il capocomico, incaricato di mettere in scena lo spettacolo, la rimette a posto con parole che pongono sotto accusa la concezione autobiografica del teatro. È impossibile - dichiara - che un personaggio si faccia avanti e invada la scena a danno degli altri. Sarebbe troppo comodo se ognuno potesse, con un bel monologo, venire a spiattellare davanti al pubblico tutta la sua vita interiore.
3. Critica di ogni forma drammatica. Il Padre nega con energia che le parole possano avere un significato obiettivo e servire da veicolo per lo scambio delle idee. Tutto il male è là, dice, nelle parole: ‟Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!" (v. Pirandello, 1958, vol. I, p. 46). Assai più del solipsismo dei personaggi di Strindberg o dei monologhi dei personaggi di Čechov, questa critica del potere universale del linguaggio sembra distruggere la possibilità stessa di rappresentare su una scena degli esseri umani che si parlano. E non è tutto, perché il Padre se la prende anche con la nozione di azione, negando che anche l'azione abbia un senso. ‟Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi veda - si crede ‛uno' ma non è vero: è ‛tanti', signore, ‛tanti', secondo tutte le possibilità d'essere che sono in noi: ‛uno' con questo, ‛uno' con quello - diversissimi! E con l'illusione, intanto, d'esser sempre ‛uno per tutti', e sempre ‛quest'uno' che ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero! non è vero! Ce ne accorgiamo bene, - quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all'improvviso come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non esser tutti in quell'atto, e che dunque un'atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi, alla gogna, per una intera esistenza, come se questa fosse assommata tutta in quell'atto!" (ibid., p. 57).
Abitualmente, un tale rifiuto di lasciarsi giudicare in base alle azioni viene attribuito al ‛pirandellismo', cioè a una visione esagerata della mobilità umana, a una sorta di gioco intellettuale secondo cui l'uomo sarebbe troppo inafferrabile per essere racchiuso in una definizione. Sarebbe forse più giusto vedere in questa tirata del Padre una critica dell'azione, cioè un mettere in dubbio la possibilità stessa di far teatro. Dopo il dialogo, infatti, ecco che anche le azioni destano la diffidenza del drammaturgo. Ora, se né il dialogo né l'azione sono più considerati come espressioni adeguate dell'essere umano, ma come limitazioni indebite della sua vita interiore, molto più mobile e ricca di quanto egli lasci trasparire attraverso ciò che dice o ciò che fa, non viene a mancare il postulato fondamentale di ogni forma drammatica? Come nota Szondi (v., 1956; tr. it., p. 110), ‟in quanto critica del dramma, i Sei personaggi non sono un'opera drammatica ma epica", il teatro epico essendo, secondo la distinzione stabilita da Brecht, quello che rimette radicalmente in causa la concezione aristotelica dello spettacolo.
Il secondo tentativo pirandelliano di ‛teatro nel teatro' è del 1924. Ciascuno a suo modo è, come la precedente, una commedia doppia: da una parte c'è la storia di un'attrice per la quale un giovane artista si è ucciso, dall'altra un commento a questa storia, sotto forma di intervento del pubblico negli intervalli. La storia dell'attrice si presume rappresentata davanti a un pubblico che comprende comuni spettatori, critici teatrali, amici dell'attrice, il suo amante e l'attrice stessa: alla fine di ogni atto, tutta questa gente invade la scena per dire la sua e criticare l'autore. Cosi l'illusione dello spettacolo concluso in se stesso è definitivamente distrutta. ‟Con questa presentazione del corridoio del teatro e del pubblico che figurerà aver assistito al primo atto della commedia, quella che da principio sarà apparsa in primo piano sulla scena quale rappresentazione d'una vicenda della vita, si darà ora a vedere come una finzione d'arte; e sarà perciò come allontanata e respinta in secondo piano", scrive l'autore (v. Pirandello, 1958, vol. I, p. 181). Non è indicato qui il famoso ‛effetto di straniamento' proprio del teatro epico? E quando W. Benjamin (v., 1966) spiega che Brecht rompe la continuità della rappresentazione teatrale con diversi intervalli che compromettono l'illusione del pubblico, impedendogli di identificarsi con l'eroe e costringendolo a riflettere su ciò che vede, non potrebbe quest'analisi applicarsi ai due ‛intermezzi corali' che Pirandello fa seguire a ognuno degli atti della sua commedia? Nella discussione tra avversari e partigiani dell'autore, uno di questi dichiara: ‟Quando venite ad ascoltare le commedie degli altri autori, vi abbandonate sulla vostra poltrona, vi disponete ad accogliere l'illusione che la scena vi vuol creare, se riesce a crearvela! Quando venite invece ad ascoltare una commedia di Pirandello, afferrate con tutte e due le mani i bracciuoli della poltrona, così, vi mettete - così - con la testa come pronta a cozzare, a respingere a tutti i costi quel che l'autore vi dice" (v. Pirandello, 1958, vol. I, p. 190).
L'ultima delle cinque leggi del teatro classico, la subordinazione della regia e della recitazione degli attori al testo scritto, cade a sua volta nella terza commedia del ‛teatro nel teatro', Questa sera si recita a soggetto (1930). Qui la storia messa in scena (un dramma della gelosia in Sicilia) è presentata al pubblico dal regista, il dottor Hinkfuss. Egli afferma di essere lui il vero autore del dramma, non Pirandello, che gli ha semplicemente fornito il canovaccio di una novella. Con l'aiuto degli attori egli farà vivere la storia; e anche con quello degli spettatori, giacché Pirandello prevede numerosi interventi del pubblico. Si interrompe il discorso di Hinkfuss, gli si pongono domande, alcuni spettatori lasciano la sala rumoreggiando. Nelle intenzioni di Pirandello, le battute di questi interventi dovevano variare da una sera all'altra; ricordo della commedia dell'arte, senza dubbio, ma anche riconoscimento di una novità capitale nella storia del teatro del XX secolo: il progressivo tramonto dell'importanza del testo scritto rispetto al ruolo crescente del regista; del resto, il modello per il dottor Hinkfuss era stato il grande M. Reinhardt, uno dei primi, con Stanislavskij e Mejerchol′d, che abbia rivendicato l'autonomia del regista.
Nel corso della rappresentazione, per dimostrare che sono trascorsi vari anni dall'inizio, le attrici invecchiano la protagonista truccandola e travestendola sulla scena. Ecco ancora una innovazione che si riallaccia al teatro epico: s'impedisce all'attore di identificarsi con il suo ruolo, si mostra chiaramente allo spettatore, per impedirgli di identificarsi col personaggio, come il personaggio sia un attore, che entra nel suo ruolo e ne esce a suo talento.
Non bisogna però spingere troppo oltre la tendenza ‛epica' di Pirandello. Alla fine di Questa sera si recita a soggetto, dopo che un'attrice è svenuta per aver interpretato troppo intensamente una scena, i suoi compagni decidono che d'ora innanzi interpreteranno solo ruoli interamente scritti in precedenza, perché l'improvvisazione implica la vita e la vita è un gioco pericoloso. La diffidenza di Pirandello per la vita e la sua ricerca di forme che ne fissino l'incessante mobilità - temi notissimi del suo teatro - provano che a fianco di un Pirandello tentato dalla formula ‛epica' sussiste un altro Pirandello legato alla vecchia formula ‛drammatica'. Enrico IV (1922) - forse il suo capolavoro - racconta la storia di un uomo che sceglie di essere pazzo, che sceglie come forma la follia per sfuggire al pericolo di vivere, che si chiude nella sua follia imperiale per paura della mediocrità quotidiana: mai come in questa commedia il teatro è servito a celebrare la superiorità di un mondo ripiegato su se stesso, autonomo, assoluto, sacro. La scena ridiventa il luogo chiuso dell'illusione drammatica, cioè della stabilità e dell'eternità. ‟Per quanto tristi i miei casi - grida Enrico IV - e orrendi i fatti; aspre le lotte, dolorose le vicende: già storia, non cangiano più, non possono più cangiare, capite? Fissati per sempre" (v. Pirandello, 1958, vol. II, p. 96). Il falso imperatore si recita da solo il proprio teatro, utilizza il teatro e il suo potere di suggestione (scene e costumi medievali, cerimoniale di una corte antica, ecc.) per immobilizzare il tempo intorno a sé e trasformare la sua vita in opera d'arte immutabile.
In ogni modo, la questione non è di accreditare a Pirandello innovazioni attribuite generalmente a Brecht. Tra i due più grandi drammaturghi del nostro secolo non c'è alcuna filiazione. Per rendere giustizia a Pirandello bisognerebbe insistere, per esempio, come hanno fatto A. Gramsci (v., 1953) e L. Sciascia (v., 1961), sulle radici siciliane del suo teatro. Se vale la pena di rilevare le tendenze ‛epiche' di Pirandello, è perché la distruzione dei principi fondamentali della drammaturgia classica è, al di là del caso particolare di Brecht, il grande tema della storia del teatro contemporaneo.
3. Brecht impone il teatro epico
Intorno al 1920 esplode anche il genio di Bertolt Brecht. Dopo qualche tentativo espressionista (Baal, 1918; Trommein in der Nacht, 1920), Mann ist Mann (1925) può essere considerato come il primo manifesto del teatro epico, quello che invita gli spettatori a trasformare il mondo e a trasformarsi essi stessi. In che modo? Riconoscendo innanzitutto che non ci sono ‛caratteri', non c'è una ‛natura umana' coerente e stabile. Osservate questo Galy Gay, un tranquillo scaricatore è appena uscito da casa sua per andare a comprare un pesce, su richiesta della moglie. Si imbatte in un plotone dell'esercito delle Indie, tre soldati che hanno perduto il loro quarto camerata saccheggiando una pagoda. Hanno fretta di ricostituire i ranghi, perché non si scopra il loro misfatto. Galy Gay è appunto l'uomo che non sa dire di no. Segue i soldati, si lascia rivestire dell'uniforme e adotta in men che non si dica i pensieri e gli atteggiamenti di un militare. Smontato come scaricatore e rimontato come soldato, Galy Gay non riconoscerà neanche più sua moglie e diventerà infine il conquistatore sanguinario di una fortezza tibetana. Un uomo è un uomo, cioè un oggetto trasformabile a volontà si definisce per la sua disposizione a ricevere qualsiasi forma, non per la sua fedeltà alla propria natura. La ‛propria natura' non esiste, è un mito borghese. Là dove Pirandello, presentando le due ipotesi sulla signora Ponza, vedeva un mistero, Brecht constata un'evidenza. In Pirandello, l'impossibilità di sapere la verità su qualcuno dipende dalla molteplicità delle opinioni, tutte legittime. In Brecht, la metamorfosi del personaggio si spiega con il gioco delle forze sociali, di cui l'uomo è lo zimbello. Se un uomo non ha ‛verità', se è indifferentemente un tranquillo scaricatore o un guerriero feroce, è perché esiste solo come riflesso delle contraddizioni della società. Al posto delle ‛opinioni', nozione vaga e un po' ‛mondana', Brecht fa riferimento ai mezzi di produzione.
Un altro teatro politico nasceva in Germania nella stessa epoca: quello del regista E. Piscator. Fondatore nel 1920 del Proletarisches Theater, egli non si propone di procurare emozioni ma di incitare al combattimento, di preparare la rivoluzione (v. Piscator, 1929). Dal 1924 al 1927 lavora alla Volksbühne, dove comincia presentando un dramma sull'insurrezione anarchica di Chicago del 1880. Il dramma è allestito come un reportage, con l'inserimento di proiezioni cinematografiche, il che costituiva una novità quasi assoluta (solo Eisenstein, prima di Piscator, aveva usato in Russia questo procedimento). Piscator in seguito insensce nei suoi spettacoli canzoni, discorsi, acrobazie, cartelloni, disegni animati, marionette, tappeti mobili. Nel 1927 Brecht adatta per il suo teatro il romanzo Osudy dobrého vojáka Švejka za světové války del romanziere ceco J. Hašek. È sorprendente che la collaborazione dei due uomini si sia fermata a quel punto e che Piscator non abbia fatto a Brecht altre richieste.
La sua diffidenza verso le creazioni individuali, la sua convinzione che la drammaturgia marxista può essere costruita solo collettivamente per personaggi collettivi, spiegano forse l'insuccesso del suo insegnamento. Piscator ha lasciato la sua impronta sulla storia del teatro senza però lasciare né discepoli né principî che inaugurassero un'era nuova (v. Pandolfi, 1964).
Brecht riprende molte delle sue idee, ma aggiungendo ciò che loro mancava: il confronto dei grandi avvenimenti sociali con l'avventura particolare di alcuni precisi individui. Per esempio, per mettere in scena un dramma storico su una rivolta popolare del Quattrocento, Piscator introduce una serie di proiezioni cinematografiche sull'insurrezione dei coolies a Shanghai. È una trovata propria del teatro epico, ma applicata schematicamente. In Arturo Ui (1941), Brecht inverte il procedimento per mostrare come Hitler ha conquistato il potere, traspone la storia dei nazisti nel mondo criminale di Chicago e li trasforma in gangsters da strapazzo. L'idea è la stessa: provocare con il confronto inopinato di due situazioni storiche lontane nel tempo o nello spazio, una presa di coscienza politica della non ineluttabilità del destino. Senonché, mentre Piscator si accontenta di giustapporre due serie di fatti che restano piuttosto indifferenti allo spettatore, Brecht fa in modo da interessarlo innanzitutto ai personaggi che gli presenta, prima di smontarli come marionette.
Brecht enumera nel 1931 i diversi tratti che distinguono il teatro epico dal teatro drammatico (v. Brecht, 1957; tr. it., pp. 13-14).
Mentre un tempo un buono spettacolo associava lo spettatore all'azione drammatica, lo teneva sotto il fascino della finzione rappresentata, oggi un buono spettacolo deve allontanare da sé lo spettatore, sorprenderlo, provocarlo, impedirgli di credere a ciò che gli si mostra, svegliarlo, interpellarlo. Tenuto ‛a distanza' dallo spettacolo, staccato dall'azione e dall'eroe del dramma, lo spettatore è trasformato in critico, in giudice di ciò che sente e vede. Gli avvenimenti e i personaggi sulla scena non gli appariranno più come qualcosa di evidente e di eterno.
Le sofferenze degli esseri umani, le ingiustizie e le contraddizioni nella società non gli appariranno più come qualcosa di necessario e di immutabile. Egli comprenderà che il male non è scontato, che la cattiva organizzazione della società è uno stato precario e provvisorio. Quasi gli verrà la voglia di intervenire e di trasformare. Tutti i mezzi sono buoni per indicare allo spettatore che lo spettacolo che ha sotto gli occhi potrebbe essere ‛diverso' regia, scenografia, musica, coreografia, intervalli tra i vari episodi, songs nettamente staccati dal testo, titoli, cartelli, soprattutto gli attori, i quali, invece di aderire al testo e identificarsi con i loro personaggi, li smonteranno, mostreranno, denunceranno davanti al pubblico. La scena si trasforma in podio (v. Benjamin, 1966), la ribalta è abolita, i riflettori sono collocati nella sala in mezzo agli spettatori, che sono invitati a fumare, perché comprendano bene che si ‛mostra' loro qualcosa. Brecht ha addirittura scritto una serie di opere brevi espressamente ‛didattiche': i Lehrstücke.
Vediamo ora qualche conseguenza di tutto ciò. Processo all'eroe: Das Verhör des Lukullus (1939). Il grande Lucullo, che fu padrone di Roma e del mondo, compare davanti al tribunale dei morti. Tutte le sue imprese gli sono ora addebitate. La sua salvezza sarà dovuta alla sua ghiottoneria, che lo spinse a portare dall'Asia il primo ciliegio. Processo ai sentimenti: Der gute Mensch von Sezuan (1938). Brecht mette in scena la storia di Chen-Te, una prostituta incaricata dagli dei di essere buona, di provare che la bontà è possibile in questo mondo. Malgrado tutta la bontà reale che è in lei, Chen-Te fallisce, perché un sentimento non dipende dal cuore che lo prova, ma dalle condizioni nelle quali può esercitarsi. In altre parole, non ci sono sentimenti in sé. Per buona ch'ella sia ‛naturalmente', la società condanna Chen-Te a comportarsi con cattiveria. Processo all'unità interiore del personaggio: Mutter Courage und ihre Kinder (1939), storia di una donna che trae profitto dalla guerra come vivandiera e maledice la guerra come madre di soldati. Non e un'eroina contraddittoria, divisa tra il denaro e l'amore, come gli eroi della tragedia classica erano divisi tra la passione e il dovere: è qualcuno che si forma e si trasforma sotto i nostri occhi, in balia degli avvenimenti che la tirano in un senso o nell'altro, qualcuno che non arriva a diventare un unico e medesimo personaggio. Al Berliner Ensemble, il teatro fondato da Brecht a Berlino nel 1949, l'interpretazione della moglie del drammaturgo, Helene Weigel, rendeva mirabilmente il carattere discontinuo dell'impossibile coerenza di Madre Coraggio. Non essendo altro che il prodotto di rapporti sociali che ignora, Madre Coraggio è necessariamente priva di una volontà autonoma e unificatrice.
Processo all'autore in quanto produttore di idee e portatore di un messaggio: l'autore si accontenta di mostrare, con il massimo di precisione scientifica, le forze in gioco nella società. In Brecht si contano pochissime ‛battute' che si possano estrarre dal testo e proporre come soggetto di riflessione. Per esempio: ‟Dovunque si trovano grandi virtù, si può essere sicuri che c'è qualcosa che va di traverso" (Mutter Courage), o: ‟Infelice il paese che ha bisogno di eroi" (Leben des Galilei). Battute, d'altronde, che non enunciano una ‛filosofia' personale, ma una semplice morale dell'uomo medio, del giusto e ragionevole mezzo. Leggendo Mutter Courage, il dramma più celebre di Brecht, si è colpiti constatando a qual punto siano banali le idee espresse. La guerra è cattiva, la guerra è una lotta di interessi economici, la guerra è uno stratagemma dei possidenti per canalizzare le rivendicazioni del popolo, ecc. Di tutte queste affermazioni, di tutte queste polemiche contro i privilegi e contro la violenza, non ve n'è una che non sia condivisa da ogni uomo in buona fede fin dagli inizi dell'umanità. Il teatro di Brecht è fondato esclusivamente su valori stabiliti, riconosciuti, convenzionali, come il lavoro, il coraggio, la famiglia, la pace. Nessuna ‛avventura' alla Dostoevskij o alla Joyce o alla Pirandello (Enrico IV) potrebbe trovar posto in questo mondo dominato da un pragmatismo benpensante, che si rivolta unicamente contro ciò che non sembra difendibile a nessuno. Ionesco afferma che il teatro di Brecht gli sembra un teatro di boy-scouts, e, nella sua ottica, Ionesco ha ragione.
Ciò che può sembrare un limite, una povertà, si spiega con due motivi. Fin dal 1933 Brecht prese la via dell'esilio, e vi rimase per 15 anni. Più di ogni altro tedesco egli sentì l'urgenza di combattere il nazismo, l'ideale razzista e bellicista degli hitleriani. Di qui la necessità di opporre a questa filosofia grossolana un programma anch'esso semplicissimo e immediatamente accessibile a tutti. D'altra parte - ed è un'altra differenza fondamentale rispetto a Pirandello - Brecht è il primo autore di questo secolo che abbia voluto staccare il teatro dal suo condizionamento borghese (tema borghese, pubblico borghese, sistema di produzione teatrale borghese) e creare un teatro autenticamente popolare. Ora un'arte popolare non può indulgere in sottigliezze psicologiche o inquietudini metafisiche. Essa si fonda, e deve fondarsi, su valori stabiliti, riconosciuti, elementari, sulla difesa della famiglia e della pace, del coraggio e del lavoro. Ai genitori tocca assumersi le proprie responsabilità, altrimenti decadranno dai loro diritti: su questo tema moraleggiante Brecht scrive una delle sue migliori commedie, Der kaukasische Kreidekreis (1944).
Generalizzando, si potrebbe dire che Brecht è dalla parte di Molière e dei valori molieriani contro Shakespeare e i valori scespiriani. Brecht è, del resto, un grande genio comico. In che cosa il famoso Verfremdungseffekt, grazie al quale lo spettatore è messo in grado di criticare lo spettacolo, differisce dall'effetto comico immaginato da Molière? È il riso, e non qualche invenzione ‛scientifica', che produce lo scarto tra l'universo dello spettacolo e l'universo dello spettatore. È il riso che fornisce al pubblico l'intelligenza di ciò che vede. L'orribile destino di Madre Coraggio perde il suo doppio carattere d'orrore e di fatalità, perché la visione comica di Brecht è abbastanza ardita da abbracciare lo spettacolo stesso della guerra e della morte.
Tra tutti gli scrittori contemporanei che hanno reagito alla letteratura del ‛personaggio' e dell'‛eroe', da Joyce a Kafka, da Sartre a Beckett, Brecht è il solo in cui questa demistificazione della ‛grandezza' umana non approdi a una letteratura pessimista della distruzione e della paralisi. Parodia, farsa, ironia, satira, umorismo: è feroce ma sempre allegro. Gli avvenimenti sanguinosi ai quali si assiste, le opinioni sciocche o malvage che si ascoltano hanno l'aria di qualcosa di assolutamente frivolo ed effimero, come se si trattasse di un gioco di cui si potrebbero cambiare le regole da un momento all'altro. La credenza nel personaggio è distrutta, ma resta la fiducia nell'uomo.
L'opera che meglio permette di valutare Brecht, la sua originalità come i suoi limiti, è senza dubbio Leben des Galilei, cominciata durante i primi anni dell'esilio e sulla quale ancora lavorava per la messa in scena al Berliner Ensemble, quando morì il 14 agosto 1956. Il tema è, come nelle opere precedenti, la soggezione dell'eroe alle grandi forze della storia. Galileo subisce una prima sconfitta lasciando la Repubblica di Venezia, dove viveva poveramente ma liberamente, e andando a Firenze sotto la soffocante protezione dei Medici. Quanto alla famosa ritrattazione, essa segna, dice Brecht, la rottura tra la scienza e la sua efficacia sociale. Della nuova astronomia, che avrebbe potuto portare un aiuto ai movimenti sociali rivoluzionari dell'epoca, Galileo fece una scienza pura, limitata, indifferente al modo di produzione, indifferente al bene dell'umanità. Per lo scienziato, fu una tragedia. Ora, alla sola lettura del dramma si rischia di essere delusi Brecht, sembra, ha mancato qui un ‛grande tema'; si è rifiutato di scrivere il dramma dell'uomo solo. Egli non impernia l'opera sul conflitto interiore dell'eroe - dato che si tratta appunto di un eroe. Si ha persino l'impressione che abbia scelto apposta un tale tema per mostrare che non bisognava a nessun costo aspettarsi da lui un nuovo Amleto, un nuovo Faust.
Ma ecco: la lettura, appunto, non rende giustizia alla grandezza - grandezza, sì ! - dell'opera. Bisogna aver visto le rappresentazioni del Berliner Ensemble per capire che il genio di Brecht consiste prima di tutto nel suo straordinano senso di uomo di teatro, nella sua concezione completa e sintetica dello spettacolo come produzione organica, in cui le luci, le scene, i costumi, i gesti, le voci, la musica formano un tutto inseparabile dal testo. L'immenso poliedro formato da tre alte pareti di quercia e da un pavimento di lastre di pietra quadrate le cui linee, simili a corde tirate verso il fondo del teatro, creano la profondità, questo poliedro immenso e nudo somiglia stranamente alla scatola cubica ideale che i pittori del Quattrocento scoprirono per rendere la prospettiva, a quel volume perfetto, a quella geometria dello spazio di cui l'esempio più puro resta la Flagellazione di Urbino.
Gli arredi - anch'essi di forma geometrica -, gli strumenti astronomici, i modelli del sistema solare, i disegni sulla lavagna, gli attori infine, con la loro recitazione sobria, stilizzata, i loro gesti lenti, compresa la solenne coreografia della vestizione del papa e i visi alla El Greco dei porporati principi della Chiesa, tutto, questi oggetti e questi personaggi considerati come punti di intersezione delle linee, e la solitudine di Galileo prigioniero al centro di questo balletto geometrico, contribuisce a fare di questo spettacolo il dramma austero del movimento e dello spazio, una grande fuga dove ciò che vi è di migliore nella rigidità e serietà tedesche si allea in modo straordinario al genio chiaro e severo dello stile fiorentino. Freddezza estrema, freddezza astrale, risultato di uno sfarzo figurativo inaudito: si tratta ancora di teatro popolare?
Come autore, Brecht ha avuto molti discepoli; in Germania, ma anche in Francia o in Inghilterra. È tuttavia soprattutto come regista e teorico che il suo influsso si mantiene vivo nel mondo. In Francia J. Vilar, direttore del Théâtre National Populaire dal 1951 al 1963 (v. Dort, 1967), in Inghilterra J. Littlewood, fondatrice del Theatre Workshop nel dopoguerra, e P. Brook, animatore della Royal Shakespeare Company (v. Salem, 1969), in Italia G. Strehler, alla guida del Piccolo Teatro di Milano (v. Guazzotti, 1965), hanno completamente rinnovato l'arte della regia ispirandosi in larga misura ai principî di Brecht, del quale quasi tutti, d'altronde, hanno inserito parecchie opere nel repertorio. Anche R. Planchon e P. Chéreau, due dei migliori registi che lavorano attualmente in Francia, si sono formati seguendo la strada del Berliner Ensemble. Riprendere il repertorio classico e rappresentarne i capolavori alla luce del Verfremdungseffekt approda a una nuova lettura dei testi, talvolta sorprendente. Brecht ha mostrato per primo la strada ‛epicizzando' Antigone di Sofocle, Coriolano di Shakespeare o La madre di Gor′kij. Tra le realizzazioni più notevoli di coloro che hanno seguito questa strada, citiamo le commedie di Goldoni messe in scena da Strehler, Georges Dandin di Molière messo in scena da Planchon, La dispute di Marivaux messa in scena da Chéreau, Musset e Čechov messi in scena da O. Krejča alla testa del Teatro Za Branou di Praga; e infine Shakespeare, più che mai ‟nostro contemporaneo" (v. Kott, 1962), meravigliosamente ringiovanito da Brook.
Si può inoltre affermare che tutta la riflessione sul teatro, particolarmente la riflessione degli autori politicamente ‛impegnati' come J.-P. Sartre, dopo la fine della seconda guerra mondiale ruota intorno al caso Brecht (v. Sartre, 1973).
4. Parentesi sull'Ottobre teatrale
Parlando continuamente di ‛rivoluzione' nel teatro, è indispensabile gettare uno sguardo su ciò che avviene verso il 1920 nel solo paese che abbia fatto la rivoluzione politica, la Russia sovietica.
Fino al 1917 la scena russa è dominata da K. Stanislavskij, fondatore del Teatro d'arte nel 1898 e regista delle opere di Čechov, di Ibsen, di Hauptmann. Ma dopo la guerra, la sua concezione del teatro che dà il maggior spazio alla formazione psicologica dell'attore (secondo i seguenti principî: disciplina interiore e meditazione intensa del ruolo) fa scuola soprattutto all'estero in Francia specialmente, dove J. Copeau, alla guida del Vieux-Colombier, presenta spettacoli spogli e raffinati, e forma a sua volta registi e attori che perpetueranno la tradizione del teatro ‛ben fatto', come L. Jouvet o C. Dullin. In Russia, invece, i rivolgimenti politici e il corteo di idee nuove che accompagnano la Rivoluzione incitano registi e autori ad abbandonare l'esplorazione della vita interiore per tentare formule più ardite, più violente, più adatte al nuovo pubblico. I quadri di genere e le commedie d'atmosfera recitate a mezza voce non interessano più una platea di operai e soldati maturati nella tormenta.
Influenze varie e disparate contribuiscono all'elaborazione del teatro russo d'avanguardia (v. Ripellino, 1959): 1) l'influenza di Marinetti, che ha proclamato nei suoi due manifesti futuristi del 1913 e del 1915 la necessità di ravvicinare il teatro al music-hall e di sostituire l'analisi psicologica con l'esuberanza ginnica degli acrobati: velocità contro lentezza; 2) l'influenza del cubofuturismo russo e del movimento costruttivista, che tentano di introdurre nell'arte i procedimenti meccanici dell'industria, le conquiste della tecnica, le forme geometriche delle macchine; 3) l'influenza del circo e quella del cinema comico americano.
Il costruttivismo trova la sua miglior espressione nella scenografia e nella regia. Tutto ciò che è fondali dipinti, ornamenti realistici, arredi, fronzoli, sparisce a vantaggio di un palcoscenico nudo sul quale si drizzano impalcature, intelaiature metalliche, strutture di passerelle, di ruote e di scale. Un ex discepolo di Stanislavskij, Vsevolod Mejerchol′d, conquistato alla causa comunista, proclama l'‛Ottobre teatrale' e anima con il suo genio le grandi realizzazioni del dopoguerra. Egli mette a punto una nuova teoria, detta biomeccanica, ispirata insieme al costruttivismo e al culto futurista della macchina, al severo spirito scientifico che pervade l'URSS e alle esperienze biologiche di Pavlov. L'attore è considerato una macchina a cui bisogna insegnare a servirsi delle sue membra e dei suoi muscoli come fossero cilindri e pistoni; donde la necessità di uno scrupoloso allenamento fisico e della pratica sportiva. Mejerchol′d allestisce rappresentazioni memorabili di Gogol′ e di altri autori classici, con una mescolanza di precisione scientifica e di virtuosità acrobatica: il tutto su una scena vuota rischiarata solo da proiettori, tra scenari astratti in mezzo ai quali, per farsi beffe del naturalismo borghese, pone per esempio uno sgabello da cucina.
L'incontro di Mejerchol′d e Majakovskij, il più grande poeta russo della Rivoluzione, corrisponde a quello di Stanislavskij e Čechov all'inizio del secolo. Vl. Majakovskij scrive per Mejerchol′d parecchie commedie, particolarmente Klop (La cimice) nel 1929, satira virulenta della piccola borghesia sovietica. La regia combina le buffonerie del circo, le mascherate di carnevale e le architetture austere del cubofuturismo. Ma dopo Banja (Il bagno), nuovo saggio della loro collaborazione nel 1930, la critica ufficiale, di mentalità burocratica e di gusto meschino, attacca violentemente il poeta accusandolo di essere oscuro e troppo complicato per le masse. Majakovskij si uccide qualche settimana dopo. Quanto a Mejerchol′d, è allontanato dalle scene sovietiche man mano che si afferma il realismo socialista, servile e convenzionale, che dà l'impronta all'epoca staliniana e continua ancor oggi a soffocare nell'URSS ogni ricerca originale.
La posterità di Mejerchol′d bisogna cercarla piuttosto in Germania, in Piscator, o se mai nel cinema sovietico e soprattutto nei film di Eisenstein, che esordì come regista teatrale sotto la direzione di Mejerchol′d. Nel suo primo film, Stačka (Sciopero), del 1924, egli si ispira largamente al circo e al music-hall, e in Bronenosec Potëmkin (La corazzata Potëmkin) e General′naja linija (La linea generale), che sono del 1925 e del 1929, lo spazio dato ai primi piani di macchine e di pistoni può essere considerato come un omaggio al più grande rappresentante del teatro rivoluzionario russo.
5. Il teatro dell'assurdo
a) Eugène Ionesco
La frantumazione del linguaggio. - Dopo il 1921 (Sei personaggi), nessuna data ha, nella storia del teatro contemporaneo, maggiore importanza del 1950. La cantatrice chauve, brevissima commedia in un atto di uno sconosciuto, un rumeno di trentotto anni che scrive in francese, fa una fragorosa apparizione in un minuscolo teatro parigino della Rive Gauche. Accolta male all'inizio, riporta un successo trionfale alla sua ripresa nel 1955; ha fatto in seguito il giro del mondo mentre a Parigi ha tenuto il cartellone per anni senza interruzione. Che c'è dunque di tanto straordinario in questo piccolo intermezzo che assomiglia allo sketch di cabaret?
In una scena piccolo-borghese vediamo una coppia di inglesi, il signore e la signora Smith, discutere tranquillamente delle patate al lardo, dell'insalata inglese e dell'acqua inglese che hanno costituito il loro pasto. Quando la pendola suona diciassette colpi, la signora Smith esclama: ‟Guarda! sono le nove". Ella dichiara che lo yoghurt è eccellente ‟per lo stomaco, le reni, l'appendicite e l'apoteosi". Il signor Smith si meraviglia che il giornale, nella rubrica anagrafica, dia sempre l'età delle persone morte, mai quella dei neonati. Parlano poi di Bobby Watson, di cui il signor Smith legge nel giornale l'annuncio mortuario, pur ricordando a sua moglie che è morto da due anni, poi da tre, poi da quattro anni. Si viene a sapere allora che Bobby Watson è una donna, poi che è un uomo, poi che sono due sotto lo stesso nome, e infine che stanno per sposarsi presto.
L'enigma della signora Ponza e lo smontaggio-rimontaggio di Galy Gay sembrano laboriosi esercizi naturalistici rispetto a queste brusche e assolutamente inesplicabili metamorfosi di Bobby Watson! Il personaggio si è volatilizzato perché le parole, a rigore, non vogliono dire più niente. Il linguaggio diventa un seguito di suoni senza significato, di luoghi comuni talmente logori che le cose, le persone designate e il mondo intero volano in pezzi. Il signor Smith può dichiarare freddamente che nel mestiere di commesso viaggiatore non c'è concorrenza il martedì, il giovedì e il martedì, e la signora Smith rispondere altrettanto freddamente: ‟Ah! tre giorni alla settimana?". Nella scena seguente si vedono due invitati della coppia, il signore e la signora Martin, domandarsi l'un l'altro con la maggior serietà e come se non si conoscessero intimamente, se non si sono gia incontrati da qualche parte. A poco a poco scoprono che abitano nella stessa città, nella stessa strada, nello stesso edificio, nello stesso appartamento e che si coricano nello stesso letto: ogni riconoscimento è punteggiato da un ‟Come è curioso, come è bizzarro, e quale coincidenza" di irresistibile effetto comico. L'esplosione del linguaggio, la polverizzazione del mezzo di comunicazione tra gli esseri umani, trasforma la loro esistenza in un vasto gioco d'azzardo, senza leggi di sorta, dove l'identità di ciascuno, il suo stato civile, i suoi affetti, i suoi amori sprofondano senza scampo. Se non c'è niente sotto le parole, se parlare non vuol dire niente, vivere è una ridicola assurdità, che si può trovare indifferentemente tragica o comica. ‟Non ho mai capito la differenza che si fa tra comico e tragico. Essendo il comico l'intuizione dell'assurdo, esso mi sembra più desolante del tragico. Il comico non offre scampo" (v. Ionesco, 1962; tr. it., p. 30).
Secondo Ionesco, l'idea di questa commedia gli è stata data dalle insulsaggini e dai luoghi comuni di un manuale di conversazione franco-inglese. L'orrore della borghesia e in particolare della cellula familiare spiega anche la distruzione della coppia per mezzo del burlesco, motivo che ritroviamo nelle opere seguenti, le migliori dell'autore: La leçon (1951), Les chaises (1952), Victimes du devoir (1953), Amédée ou comment s'en débarrasser (1954). Tutte queste commedie sono brevi e condotte a un ritmo folle, sullo stesso modello. I personaggi hanno nomi intercambiabili, o deformabili, più spesso non hanno affatto nomi, ma titoli, qualifiche di cui fanno pomposamente sfoggio. Cominciano allineando frasi che sembrano dar senso, ma basta che le ripetano e che le rovescino, che ne affrettino la dizione, perché tutto ciò che dicono sembri vanificarsi. L'accelerazione grottesca è l'invariabile risorsa drammatica: la commedia che ha preso l'avvio con un ritmo moderato scivola insensibilmente in una sfrenata fantasia surrealista. Semplici grida inarticolate, onomatopee spodestano definitivamente il linguaggio.
La proliferazione degli oggetti. - Ne Les chaises si vede una coppia di vecchi soli in un'isola. Hanno organizzato un grande ricevimento e spiano l'arrivo dei loro ospiti. Non viene nessuno: solo le sedie ch'essi ammucchiano e che restano vuote invadono la scena.
In Amédée ou comment s'en débarrasser una coppia di vecchi (ancora) veglia sul cadavere del loro amore morto, rappresentato da un corpo gigantesco che cresce senza sosta invadendo tutto lo spazio della camera e obbligando i due vecchi a rifugiarsi sui mobili. Le cose si muovono intorno a uomini immobili. Ionesco porta a termine lo smantellamento del teatro aristotelico cominciato da Pirandello. La proliferazione degli oggetti animati da una vita propria celebra simbolicamente il naufragio dell'agire umano. Ionesco dichiara che i due stati di coscienza che sono all'origine di tutte le sue opere sono l'evanescenza e la pesantezza, il sentimento del troppo poco e il sentimento del troppo. Man mano che il processo alle parole e ai gesti rende irreale la vita in società, le cose si vendicano imponendo una terrificante opacità. L'uomo, svuotato della sua natura umana e della sua finzione sociale, si scontra col pieno degli oggetti. Il teatro dell'assurdo è un teatro dell'angoscia.
Al di là della menzogna. - Desideroso di far rappresentare ‛grandi' commedie in ‛grandi' teatri, ansioso di esporre le sue idee in una forma più esplicita, forse preoccupato anche per una reputazione di ‛rivoluzionario' che ripugna al suo temperamento profondamente conservatore, Ionesco cambia completamente maniera a partire dal 1958 con Tueur sans gages, seguito da Rhinocéros (1959), Le roi se meurt (1962), Le piéton de l'air (1963), La soif et la faim (1966). Lo accolgono la Comédie Française e J.-L. Barrault all'Odéon. Ritroviamo in queste opere la critica del linguaggio, la satira dei luoghi comuni, la polemica contro ogni sistema di pensiero dogmatico (e in particolare contro Brecht, a proposito del quale Ionesco ha una vivace discussione, nel 1958, col critico inglese K. Tynan); ritroviamo anche l'orrore per la famiglia piccolo-borghese, la paura della vecchiaia e della morte insieme ad altri temi, che compaiono per la prima volta e assumono una importanza nuova: l'aspirazione alla libertà, la ricerca della salvezza nel perseguimento di un certo ideale di dignità umana. Temi positivi, questa volta, incarnati in un personaggio che torna di commedia in commedia, Bérenger. Più o meno portavoce dell'autore, Bérenger non ha solo un nome preciso; acquista un'identità, una consistenza ‛psicologica'. L'assurdità della vita rimane il motivo dominante, ma non è più mostrata dal di dentro, è oggetto di discorsi, se ne parla, se ne ragiona. Le parole, invece di disgregarsi oniricamente a una velocità folle, si articolano in una continuità rinsavita. Ionesco diventa moraleggiante, filosolo, predicatore. Al di là della menzogna della vita sociale, che la sua opera antecedente smascherava con un estro cosi penetrante, ciò che egli propone ora sono ... luoghi comuni sull'uomo, altrettanto piatti, altrettanto convenzionali di quelli che egli denuncia in Brecht. Dove arriverà questa metamorfosi? Né Jeux de massacre (1970), né Macbett (1972), né Quel formidable bordel! (1974) sembrano indicare un arresto in questo congelamento dottorale del riso.
b) Samuel Beckett
Altra decisiva avventura nella storia del teatro contemporaneo la prima rappresentazione, nel mese di gennaio 1953 a Parigi, sempre in un piccolo teatro della Rive Gauche, della prima commedia di un romanziere poco conosciuto, Samuel Beckett En attendant Godot. Due esseri dall'aspetto appena umano, mezzo clowns mezzo barboni, su un palcoscenico vuoto. Che fanno? Niente. Aspettano Godot. Solo intermezzo: il passaggio di Pozzo e Lucky, con il primo che tiene al guinzaglio il secondo facendo schioccare una frusta sulle sue spalle. Poco dopo essi ripassano, vittime di un'inesplicabile degradazione: il padrone è diventato cieco, lo schiavo sordo. Quanto ai due protagonisti, Estragon e Vladimir, tentano di impiccarsi perché almeno accada qualcosa: ma la corda si spezza. In Beckett non c'è via d'uscita, nemmeno quella del suicidio. L'umanità consiste in una sorta di no man's land desolata, che non è né la vita né la morte, ma l'attesa indefinita di un avvenimento o di un personaggio che non arrivano mai.
La relazione sadomasochistica di Pozzo e Lucky appare, pur nella sua crudeltà, come un segno di passione, dunque di speranza, in questo universo totalmente anestetizzato; un ultimo sussulto di vitalità prima che il mantello nero del nulla ricopra la superficie terrestre. Di qui la cecità dell'uno e la sordità dell'altro: bisogna che la loro deviazione sia punita, bisogna che tutto rientri nell'ordine, che è quello del nulla, dell'attesa, dell'assenza.
L'irlandese Samuel Beckett (che è nato nel 1906 a Dublino ma risiede in Francia dal 1928 e scrive direttamente in francese) rappresenta lo scandalo dell'esistenza spogliata di tutte le sue giustificazioni. Non solo Dio (God, Godot) è morto, ma tutto ciò che dà un senso alla vita si è misteriosamente volatilizzato. Perfino il tempo e lo spazio non possono più servire da punti di riferimento in un mondo trasformato in un deserto assurdo. Che fare? Parlare, parlare, per darsi l'impressione di esistere. ‟Noi siamo inesauribili" dice Vladimir. Vladimir ed Estragon si divertono, nel senso pascaliano della parola, per eludere l'orrore di una condizione umana diventata insopportabile. Costante parodia del rapporto fraterno e sociale, il loro dialogo sprigiona una sorta di umorismo freddo, di stramberia livida da far rabbrividire.
Il successo immenso e inaspettato della commedia preoccupa, giustamente, Samuel Beckett. Seguendo un'evoluzione inversa a quella di Ionesco, egli si sforzerà di sopprimere dalle sue opere le ultime tracce di realismo. Al posto dei barboni, mostra nella sua seconda commedia, Fin de partie (1957), due vecchi agonizzanti in fondo a delle pattumiere, tra un cieco e un paralitico. Qui l'universalità del disastro si iscrive nella mutilazione fisica dei personaggi. Gli esseri umani sono ridotti a pezzi di carne innominabili che si recitano la commedia dell'esistenza aspettando che finisca. Oh! les beaux jours, la terza grande commedia di Beckett (1963), sposta ancora indietro i limiti della degradazione. Questa volta, non si vede altro che una vecchia immersa in un cumulo di fango fino alla vita, che monologa pateticamente, in mezzo a una manciata di oggetti derisori che tira fuori dalla sua borsa. Al secondo atto, solo la sua testa emerge ancora: immagine concreta dell'impantanamento che è la sorte del genere umano. La vecchia ha un nome, Winnie, ma la sua identità è unicamente corporea; non resta di lei che la voce, il suo monologo febbrilmente recitato, più per paura del silenzio che perché abbia qualcosa da dire. Anche per lei la partita è perduta, la partita è finita.
Di questo lavoro beckettiano M. Renaud diede una splendida interpretazione. Troppo splendida, forse. O c'è nella commedia qualcosa che rovescia le intenzioni dell'autore? Questa rappresentazione del ‛nulla' dà luogo a uno spettacolo di una sorprendente pienezza. Lo spettatore prova una specie di soddisfazione nel vedere compiersi fino alla fine una tragedia che si richiude su di sé come un'opera perfetta. Ci si può domandare se tale chiusura dell'opera su di sé (non era questo il caso di En attendant Godot, commedia basata sulla ripetizione e reiterazione infinite) non falsi radicalmente il senso dell'impresa teatrale beckettiana. ‟Più ancora che Fin de partie, Oh! les beaux jours esige l'identificazione e provoca la catarsi. Recitando sulla scena l'impossibilità di vivere e quella di morire, affermando l'impotenza di ogni parola di fronte alla derelizione di un mondo disumanizzato e alla durata di un'esistenza quasi organica, Winnie ce ne libera immediatamente. L'orrore è sulla scena: vi si esprime pienamente. Non è nella sala" (v. Dort, 1967; tr. it., pp. 275-276).
In queste righe è posto tutto il problema del teatro dell'assurdo. Beckett non può impedirsi di ‛costruire' un'opera con i materiali stessi della ‛decostruzione'. Con i resti di un ‛fallimento' indicibile, egli ci fa vedere qualcosa che ci sembra molto ‛riuscito'. Contraddizione forse insormontabile. L'autore, in ogni caso, si fa sempre più prezioso, come se la sola via d'uscita consistesse nel silenzio.
c) Arthur Adamov
Come Ionesco e come Beckett, Arthur Adamov (nato nel 1908 nel Caucaso e arrivato a Parigi nel 1924), è francese solo d'adozione. Anch'egli esordisce tardi nel teatro e in una piccola sala del Quartiere Latino. Anch'egli, infine, mostra l'assurdità della vita, attraverso personaggi senza nome che potrebbero scambiarsi i ruoli (La parodie, rappresentata nel 1952), o la storia di un uomo cui sono amputati successivamente tutti e quattro gli arti, vittima di un Potere anonimo che gli ordina queste mutilazioni (La grande et la petite manoeuvre, 1950).
Ma in lui, nutrito di Kafka, Strindberg e Freud, in preda a ossessioni personali che lo condurranno al suicidio (1970), l'assurdo è privo di ogni stramberia, l'angoscia volge presto al terrore. Le ping-pong (1955), ritenuto il suo capolavoro, narra in dodici quadri l'avventura pietosa di due uomini, Arthur e Victor, che si lasciano divorare e degradare da una passione unica ma completamente futile e caricaturale, l'amore esclusivo per il biliardo elettrico: simbolo, evidentemente, di una società votata al denaro e ai divertimenti stupidi con i quali maschera la sua crudeltà.
Con Paolo Paoli (1957) la critica del sistema capitalistico diventa il tema più importante di Adamov, che ha scoperto nel frattempo Brecht e inaugura una maniera affatto nuova. Invece di lasciarsi andare, come nelle opere precedenti, alla pura vertigine nevrotica, mette sotto accusa la società industriale, che rende responsabile della disumanizzazione del mondo. Il commercio delle farfalle al quale si dedica Paolo Paoli al tempo della Belle époque permette di smascherare le vere cause della grande guerra. Un altro passo ed ecco Le printemps 71 (1963), storia della Comune, rappresentata attraverso il popolo minuto di un quartiere di Parigi. La svolta di Adamov ha sconcertato molti suoi ammiratori. Sembra quasi che, per superare i suoi conflitti interni, egli abbia cercato di oggettivare i suoi fantasmi in situazioni storiche, come prova l'enorme documentazione raccolta sulla grande guerra o sulla Comune, prima di scrivere le sue ultime opere. Dalla nevrosi all'impegno politico: dilaniato tra questi due poli contraddittori, il teatro di Adamov perde in forza d'urto ciò che acquista in vibrazione patetica.
6. Il teatro della crudeltà
a) Antonin Artaud
Scrittore di genio e profeta di un teatro rivoluzionario, A. Artaud non si è affermato né come attore, malgrado il suo passaggio sulle scene con Dullin e i numerosi ruoli interpretati nel cinema, né come regista, sebbene - fondatore nel 1926 del Théâtre Alfred Jarry a Parigi - abbia messo in scena Il sogno di Strindberg, Partage de midi di Claudel e due commedie di R. Vitrac (tra cui Victor ou les enfants au pouvoir, critica violenta della piccola borghesia e primo esempio di una stramberia ‛alla Ionesco'), né infine come autore drammatico (la sua unica opera teatrale, Les Cenci, fu un insuccesso). Come teorico, invece, egli ha lasciato in un volume pubblicato nel 1938, Le théâtre et son double, una serie di testi folgoranti che, riscoperti dopo il 1960, esercitano un'influenza enorme sul teatro contemporaneo. Per reazione al brechtismo e in opposizione alla formula intellettuale e fredda del teatro epico, si è trovata in Artaud una concezione magica e mistica dello spettacolo. Bisogna esaminare da vicino questi testi, bibbia della nuova generazione americana ed europea.
Le théâtre et la peste stabilisce un parallelo tra la peste, ‟malattia che scava l'organismo e la vita sino allo schianto e sino allo spasimo" (v. Artaud, 1938; tr. it., p. 141) e il ‛vero teatro' che è ‟la rivelazione, la trasposizione in primo piano, la spinta verso l'esterno di un fondo di crudeltà latente", ‟il momento del male, il trionfo delle forze oscure (ibid., p. 148) che sonnecchiano in noi. La mise en scène et la métaphysique avvia il processo al teatro occidentale, accusato di dare importanza esagerata alla parola e al linguaggio articolato, mentre la scena dev'essere un luogo fisico, riservato a un linguaggio fisico e concreto, ‟che si rivolge anzitutto ai sensi, invece che rivolgersi anzitutto allo spirito come il linguaggio della parola" (ibid., p. 155). ‟Si può così sostituire alla poesia del linguaggio una poesia dello spazio" (ibid., p. 156). Viene quindi questa dichiarazione fondamentale: ‟È la regia a costituire teatro, assai più che il testo scritto e parlato" (ibid., p. 158).
Artaud non nega l'importanza della parola nel teatro: chiede soltanto che serva a esprimere qualcosa di diverso dalla piatta realtà dei rapporti psicologici e sociali, che essa riprenda ‟le sue possibilità di scuotimento fisico", che dimentichi le sue ‟fonti bassamente utilitarie" (ibid., p. 163) e ritrovi la sua funzione religiosa di incantesimo. Sur le théâtre balinais è la testimonianza della fortissima impressione prodotta su Artaud dalle rappresentazioni del teatro di Bali all'Esposizione coloniale di Parigi del 1931. Questo spettacolo dice ‟riporta il teatro a un piano di creazione autonoma e pura, in una prospettiva di allucinazione e di sgomento" (ibid., p. 170). Il teatro di Bali manifesta ‟un impulso psichico segreto che è la Parola di prima delle parole" (ibid., p. 176), ‟una situazione anteriore al linguaggio e in grado di scegliersi un linguaggio proprio: musica, gesti, movimenti, parole" (ibid., p. 178). Théâtre oriental et théâtre occidental approfondisce questa riflessione: al teatro occidentale, che è solo un ‟ramo della letteratura", Artaud oppone il teatro orientale, ‟arte indipendente e autonoma" (ibid., p. 185), il solo capace di ‟esprimere obiettivamente verità segrete" (ibid., p. 186), di risalire fino allo spirito attraverso la distruzione delle apparenze, di ritrovare attraverso la comunicazione con l'universo il senso dell'assoluto. ‟La sfera teatrale non è psicologica, ma plastica e fisica" (ibid., p. 187). En finir avec les chefs-d'oeuvre, di un tono più polemico, invita a liquidare una buona volta la ‟superstizione dei testi e della poesia scritta" (ibid., p. 195) e dà la formulazione del ‟teatro della crudeltà" (ibid., p. 196): un teatro elementare, magico, che agisca sull'organismo dello spettatore e, invece di lasciarlo intatto a godere di uno spettacolo ben fatto, lo sottometta a una sorta di tortura liberatrice. ‟Propongo perciò un teatro in cui immagini fisiche violente frantumino ed ipnotizzino la sensibilità dello spettatore travolto dal teatro come da un turbine di forze superiori" (ibid., p. 199). In un tale teatro, ‟lo spettatore è al centro, mentre lo spettacolo lo circonda" (ibid., p. 198): altro suggerimento che sarà devotamente raccolto.
Le théâtre et la cruauté, dove per crudeltà Artaud intende ogni ‟azione immediata e violenta", ogni ‟azione spinta all'estremo", sviluppa due nuove idee che faranno ugualmente fortuna: il teatro deve diventare ‟spettacolo di masse", paragonabile a ciò che avviene nella strada quando il popolo vi discende, e ‟spettacolo totale", che si rivolge meno all'intelletto del pubblico che alla sua sensibilità globale, secondo l'esempio del cinema (ibid., pp. 200-203). Le théâtre de la cruauté (premier manifeste) rivendica per il teatro la necessità di creare una ‟metafisica della parola, del gesto, dell'espressione", facendo appello a ‟certe idee inconsuete" relative alla Creazione, al Divenire, al Caos (ibid., p. 205). Lo spettacolo, concepito come una liturgia collettiva, una festa rituale corale, deve ‟portare fisicamente lo spirito" sulla strada del ‛doppio', deve ‟dare il senso di una creazione di cui conosciamo soltanto un aspetto, ma che si completa su altri piani" (ibid., p. 206). Ed ecco alcuni consigli precisi (ibid., pp. 208 ss.) ai quali attingeranno con gioia i registi degli anni sessanta: abolire l'assurdo dualismo tra autore e regista; dare alle parole all'incirca l'importanza che hanno nei sogni; far scaturire dagli strumenti musicali rumori insoliti, lancinanti, insopportabili; diffondere le luci in modo da produrre sensazioni violente; sostituire la divisione tra scena e sala con un luogo unico (un capannone o un granaio) in modo che lo spettatore sia avviluppato e investito dall'azione; utilizzare ‟fantocci alti parecchi metri", ‛'maschere enormi", ‟costumi millenari, destinati al rito". In conclusione: ‟Nella fase di degenerazione in cui ci troviamo, solo attraverso la pelle si potrà far rientrare la metafisica negli spiriti" (ibid., p. 214). Le théâtre de la cruauté (second manifeste) indica quali temi intende trattare il nuovo teatro: temi cosmici, universali, rivolti non più all'uomo psicologico e sociale ma all'uomo totale, con i suoi sogni e il suo inconscio. Un esempio: La conquête du Mexique, illustrazione di un conflitto tra popolo e popolo, tra religione e religione, tra cosmogonia e cosmogonia. Un athlétisme affectif, infine, abbozza una nuova arte dell'attore, fondata sulla conoscenza scientifica dei punti di ‟localizzazione fisica dei sentimenti" (ibid., p. 198).
b) Jean Genet
La vera posterità di Artaud comincia solo intorno agli anni sessanta, con la frantumazione del teatro d'autore e l'avvento del teatro gestuale, secondo la profezia più audace del Théâtre et son double, e con l'insurrezione contro ‛la dittatura della parola'. Fino agli anni sessanta i registi influenzati da Artaud sviluppano, secondo il proprio temperamento, l'una o l'altra delle sue intuizioni, senza però riuscire a mettere in atto il programma nella sua interezza. J.-L. Barrault (del quale Artaud saluta come un avvenimento il primo spettacolo nel 1935) dà molta importanza al gioco fisico dell'attore, alla pantomima, al controllo della respirazione (v. Barrault, 1972). Il suo spettacolo più riuscito (1943), Le soulier de satin di P. Claudel, è una grande festa liturgica, cui concorrono svariatissimi mezzi di espressione (da notare questa curiosa fortuna di Claudel, poeta cattolico e conservatore, erede della tradizione simbolista ottocentesca, ma le cui opere baroccamente sovraccariche prefigurano certe aspirazioni moderne a un'arte totale, polimorfa, incantatrice). J. Vilar, non meno sensibile ad Artaud che a Brecht, crea nel 1947 il Festival di Avignone, con spettacoli all'aperto in cui tenta di risacralizzare il teatro con cerimonie largamente popolari (v. Vilar, 1955). Si potrebbe dire la stessa cosa del lavoro di P. Brook in Inghilterra e di quello di P. Stein in Germania. R. Blin invece, che ha messo in scena a Parigi la maggior parte delle opere di Beckett, insiste di più sull'aspetto di crudeltà e di violenza. Qual è il regista del dopoguerra che non debba qualcosa ad Artaud (v. Virmaux, 1970)? Ma se tutti tendono allo ‛spettacolo totale' e allo ‛spettacolo di massa', la divisione tradizionale tra scena e sala nei teatri dov'è confinata la loro attività impedisce loro di realizzare completamente la rivoluzione propugnata in Le théâtre et son double. Essi restano ‛registi' al servizio di un testo, cosi come uno dei pochi autori inscrivibili nella discendenza di Artaud, J. Genet, resta un ‛autore' (e quale straordinario artigiano della parola!). Blin ha messo in scena due delle sue commedie e Brook un'altra, tre mirabili cerimonie della violenza e della crudeltà, ma ancora spettacoli segnati dal doppio e tradizionale dualismo scena-platea e autore-esecutore.
Nato a Parigi nel 1910 da genitori sconosciuti, abbandonato da bambino, accusato di furto all'età di dieci anni e messo in casa di correzione, Genet sceglie orgogliosamente la delinquenza e pone la sua opera sotto la triplice rivendicazione provocatoria del furto, dell'omosessualità e del tradimento. Oltre ai romanzi, egli scrive cinque commedie, oggetto di scandalo al loro apparire, il cui primo significato è la glorificazione dei paria, degli esclusi e delle vittime della società: domestiche in Les bonnes (1947), detenuti comuni in Haute surveillance (1949), negri in Les nègres (1959), puttane in Le balcon (1960), algerini della guerra d'Algeria in Les paravents (1966). Niente sarebbe più sciocco che cercare in queste commedie un messaggio sociale o politico. Genet si pone deliberatamente su un altro piano - quello della messa nera e della liturgia profanatrice - in cui è senz'altro un discendente di Artaud, sebbene le differenze tra i due scrittori siano più importanti degli elementi comuni (v. Dort, 1971). Artaud cerca di mettere il teatro in comunicazione con le forze pure ed elementari dell'assoluto, di restituirgli una dignità metafisica. Per Genet, al contrario, si tratta di celebrare una festa senza contenuto. I suoi nègres non sono veri negri, non più di quanto le sue bonnes siano vere domestiche. Essi giocano ai negri o alle domestiche, secondo l'idea che gli altri si fanno di loro. Il bordello del Balcon è una grande casa di illusioni, dove un impiegato del gas si pavoneggia negli abiti di un vescovo. La cerimonia secondo Genet si riduce a un'esaltazione della pura apparenza; il teatro diventa il luogo dove ciascuno si trasforma in immagine di se stesso, come l'ha sognata o come l'hanno sognata gli altri per lui. La vanità del trompe-l'oeil sociale è così svelata con uno splendore aggressivo: marionette giganti, piattaforme rialzate, maschere, gesti rituali compongono una liturgia che rompe con la tradizione drammatica occidentale. Ma sotto non c'è niente, solo l'apoteosi del falso e del fittizio, che sono la sorte tanto del teatro quanto della vita.
Genet risacralizza bensì il teatro, ma soltanto perché lo spettacolo abbia il bagliore di una profanazione. È la negazione della vocazione religiosa e mistica del teatro alla Artaud, il quale assegna allo spettacolo come scopo supremo la liberazione della vita. Non fa egli vanto al teatro balinese di estirpare dallo spirito di chi lo guarda ogni ‟idea di simulazione, di imitazione irrisoria della realtà" (v. Artaud, 1938)? La derisione, la parodia: parole chiave per Genet. Ma Genet, con la magnificenza della sua parola sovraccarica di immagini, è ancora più estraneo al teatro dell'assurdo, al quale la sua opera viene talvolta riallacciata. Egli è solo, grande poeta, fanciullo perduto, iconoclasta, seguace di un sogno sontuoso di rivincita, di degradazione universale e di autodistruzione.
7. Il teatro d'autore nel mondo oggi
Il teatro di testo (o d'autore) rappresenta attualmente solo un settore, e il meno interessante, della produzione teatrale. Nel pullulare di opere che continuano a essere scritte prima di essere rappresentate, si può operare una doppia distinzione: a seconda che si riallaccino all'una o all'altra delle quattro grandi tendenze drammatiche che hanno caratterizzato il secolo - il teatro critico di Pirandello, il teatro epico di Brecht, il teatro dell'assurdo e il teatro della crudeltà -, o a seconda della loro origine nazionale. È una distinzione che appare presto quasi impossibile e necessariamente arbitraria, giacché, da una parte, nessuno degli autori drammatici attuali si iscrive in una linea esclusiva (la più recente vita teatrale è carattenzzata dalla mescolanza - già percettibile, per esempio, in Adamov - di influenze diverse e contraddittorie) e, dall'altra, parecchi scrittori di teatro, e non dei minori, usano una lingua che non è la loro lingua materna o fanno rappresentare le loro opere in un paese che non è il loro.
a) Germania
L'influenza di Brecht e l'orrore della tragedia nazista spiegano il predominio del teatro politico. P. Weiss, nato nel 1916 nei pressi di Berlino e diventato cittadino svedese, si è fatto conoscere con uno spettacolo dato a Londra da Brook nel 1964, Marat-Sade, in cui propone una rilettura della Rivoluzione francese attraverso una rappresentazione dell'assassinio di Marat messa in scena dai pazzi del manicomio di Charenton sotto la direzione del marchese de Sade. Si riconosce l'influenza di Brecht nella semplicità didattica di una prosa intramezzata da strofe cantate, l'influenza di Artaud e di Genet nella violenza delle fantasie e nel gioco vorticoso delle illusioni. Die Ermittlung (1965) fa il processo agli aguzzini di Auschwitz.
R. Hochhuth, nato nel 1931, si è basato su uno studio minuzioso degli archivi per denunciare l'atteggiamento di Pio XII di fronte al problema ebraico durante l'ultima guerra (Der Stellvertreter, 1963) o la politica di Churchill riguardo ai bombardamenti delle popolazioni civili (Soldaten, 1967). La stessa preoccupazione documentaria si riscontra in T. Dorst, nato nel 1925, che narra in Toller (1968) la fallita rivoluzione bavarese dei Consigli nel 1919. Quanto a G. Grass, nato nel 1926, conosciuto soprattutto come romanziere, egli è passato dallo stile grottesco delle sue prime opere al dramma storico impegnato.
Ma i due più importanti drammaturghi di lingua tedesca sono due svizzeri M. Frisch, nato nel 1911, e Fr. Dürrenmatt, nato nel 1921. Frisch critica aspramente il conformismo borghese, la buona coscienza soddisfatta e lo spirito meschino di neutralità, tipici di un certo comportamento svizzero, in Herr Biedermann und die Brandstifter (1958) e in Andorra (1961), un misto di teatro didattico e teatro dell'assurdo.
Dürrenmatt, anch'egli vittima della ‟nevrosi dei neutrali" (v. Esslin, 1970), mette in luce con un umorismo corrosivo gli istinti omicidi che sonnecchiano dietro la rispettabilità esteriore dei benpensanti. Da Romulus der Grosse (1949) fino a Die Physiker (1961), le sue opere denunciano l'impostura della società tecnologica, ma, invece del didascalismo di Brecht, egli preferisce l'estro satirico, la parodia, spinta fino al fantastico e al macabro.
b) Inghilterra
Paese di ricchissima tradizione teatrale, l'Inghilterra non ha dato i natali a teorici del teatro. Se c'è stata una rivoluzione a partire dal 1956 (v. Salem, 1969), si tratta di un cambiamento sociologico assai più che di un rinnovamento dei principî drammatici. Il declino della potenza inglese dopo la seconda guerra mondiale comporta in effetti una contestazione radicale del vecchio establishment. Il 1956 è l'anno in cui G. Devine mette in scena al Royal Court, una sala piuttosto miserabile di Chelsea, Look back in anger di J. Osborne (nato nel 1929), violento attacco alla classe dirigente e alle istituzioni britanniche. L'insolenza e il tono iconoclastico non erano certo una novità nel teatro inglese: è noto, ad esempio, il virtuosismo su questo terreno di un Oscar Wilde o un Bernard Shaw. Ma si trattava di una satira che serbava le maniere della buona società. La novità, con Osborne, consiste nel presentare come eroe un giovane diplomato proveniente dalla classe operaia, che si esprime in un linguaggio sciatto, e nel rivolgersi a un pubblico che non è più il pubblico benestante e colto del West End londinese. L'immenso successo riportato dalla commedia provoca la fioritura di un teatro di critica sociale e nazionale, i cui rappresentanti più notevoli sono, con Osborne, J. Arden (nato nel 1930), autore di Serjeant Musgrave's dance (1959), denuncia brechtiana del militarismo, e A. Wesker (nato nel 1932), autore di The kitchen (1961), quadro della vita nelle cucine di un grande ristorante. Tra gli altri drammaturghi rappresentati al Royal Court, citiamo A. Jellicoe (The knack, 1962), A. Owen (Progrers to the park, 1959), W. Hall, N. F. Simpson e, tra i più giovani, E. Bond (nato nel 1935), che denuncia la miseria della vita familiare e dà scandalo mostrando la lapidazione di un bambino (Saved, 1965), o J. Hopkins (nato nel 1931), autore di This story of yours (1968), autocritica di un agente di polizia.
Il 1956 è anche l'anno in cui J. Littlewood e il Theatre Workshop mettono in scena al Royal Theatre, situato in un quartiere povero e popoloso dell'East End londinese, The quare fellow, di B. Behan, un irlandese di genio, vagabondo e ubriacone, che descrive gli effetti degradanti della prigione su un gruppo di detenuti e, nella sua seconda opera, The hostage (1958), rappresenta un episodio della guerra di liberazione irlandese con una violenza lirica e satirica più vicina a Synge e a O'Casey che a Brecht. Si deve alla Littlewood anche la scoperta di S. Delaney (A taste of honey, 1958) e di B. Kops (The Hamlet of Stepney Green, 1957). Il suo spettacolo più celebre resta Oh, what a lovely war (1963), creazione collettiva improvvisata, in cui le tecniche del music-hall servono a esprimere l'orrore e lo scandalo della guerra.
Un altro animatore del giovane teatro inglese è P. Hall, direttore della Royal Shakespeare Company e dell'Aldwych Theatre a Londra. Egli fa conoscere una pleiade di giovani autori non meno contestatori J. Whiting (The devils of Loudun, 1960), H. Livings (Nil Carborundum, 1962), G. Cooper (Everything in the garden, 1962), D. Rudkin (Afore night come, 1962), D. Mercer, le cui opere si riallacciano alla corrente inglese dell'antipsichiatria, C. Dyer, che mette in scena per la prima volta una coppia di omosessuali (Staircase, 1966).
La ricchezza di questa generazione è tale che si possono solo menzionare nomi che meriterebbero ciascuno uno studio particolare. Notiamo alcuni tratti comuni l'origine proletaria (Wesker è stato pasticciere, Owen cameriere di ristorante e camionista, Delaney maschera di teatro, Kops venditore di libri usati a Soho, Bond operaio in fabbrica), l'esercizio del mestiere di attore (Osborne, Whiting, Owen, Livings, Dyer), l'origine ebraica nell'East End londinese (è il caso di Wesker e di Kops), il lavoro per la televisione e il cinema; sono tratti che basterebbero a spiegare la rottura con le generazioni precedenti, dominate da due aristocratici poeti, T. S. Eliot e C. Fry.
Il più conosciuto di questi drammaturghi è H. Pinter (nato nel 1930), anch'egli un ebreo dell'East End, anch'egli attore, autore di una decina di commedie che hanno fatto il giro del mondo: The room (1957), The birthday party (1958), The caretaker (1960), The collection (1962), The lover (1963), Landscape (1968). Le commedie di Pinter mettono in scena quasi sempre personaggi che, chiusi in una camera, vivono nell'attesa di un pericolo invisibile, che potrebbe benissimo celarsi proprio dentro di loro. L'influenza di Beckett si unisce a una scrittura musicale molto personale. Pinter suggerisce, con un senso mirabile dell'ambiguità, le tensioni subconscie che stridono sotto gli atti e le parole più banali e avvelenano subdolamente i rapporti umani.
Mentre si nota una certa rinascita del dramma storico di tipo brechtiano con il Luther di Osborne (1961) e le opere di R. Bolt e di P. Shaffer, ci si può domandare se il teatro dei ‛giovani arrabbiati' non stia nuovamente e insensibilmente indirizzandosi, sulle orme di Pinter e grazie al recupero operato dalla nuova società liberale, verso la tradizionale commedia inglese di costumi, più impertinente che veramente rivoluzionaria.
c) Francia
Dopo la voga dei drammi filosofici ‛impegnati' di J.-P. Sartre (Les mouches, 1943; Huis clos, 1944; Les mains sales, 1948; Le diable et le bon Dieu, 1951; Les séquestrés d'Altona, 1959) e di A. Camus (Caligula, 1945; Les justes, 1949), pesanti congegni che hanno presto mostrato i loro artifici, il teatro di lotta politica non ha più molti fautori in Francia, se si escludono A. Gatti (La vie imaginaire de l'éboueur Auguste Geai, 1962; Chant public devant deux chaises électriques, 1966) o M. Vinaver (Ler Coréens, 1956), e alcuni africani di lingua francese, come l'algerino K. Yacine (Le cadavre encerclé, 1958) o il martinicano A. Césaire (La tragédie du roi Christophe, 1963) che, in una lingua ricca di immagini, esprimono il dramma dei popoli colonizzati.
Se Beckett ha trovato più seguaci in Inghilterra, in Francia è Ionesco che ha la discendenza più numerosa: B. Vian (Les batisseurs d'empire, 1959), F. Billetdoux (Tchintchin, 1959), R. Dubillard (Naïves hirondelles, 1961 e La maison d'os, 1962), R. de Obaldia (Génousie, 1960 e Du vent dans les branches de sassafras, 1965), R. Weingarten (L'été, 1966 e Alice dans les jardins du Luxembourg, 1972), spesso rappresentati in caffè-teatri fuori del giro delle sale teatrali vere e proprie, esplorano, ciascuno col suo particolare temperamento, la strada del feroce sarcasmo e della stramberia patetica.
Un posto a parte spetta a J. Vauthier. Nato in Belgio nel 1910, esprime nelle sue commedie convulse la frenesia della coppia votata alla distruzione reciproca (Capitaine Bada, 1952 e Les prodiges, 1958) o la solitudine dell'uomo impotente davanti al destino (Le personnage combattant, 1956).
Il libanese G. Schéhadé (nato nel 1910) nelle sue commedie di una squisita e tenera fantasia (La soirée des proverbes, 1953; Histoire de Vasco, 1956; L'émigré de Brisbane, 1965) rinnova la tradizione del teatro poetico che aveva avuto il suo più illustre rappresentante, tra le due guerre, nella persona del delicato e prezioso J. Giraudoux e che conobbe, all'indomani della seconda guerra mondiale, una stagione fastosa e barocca con J. Audiberti (Le mal court, 1947), H. Pichette (Les épiphanies, 1947) e il belga M. de Ghelderode, nato nel 1898 ma scoperto a Parigi dopo la liberazione, autore di una trentina di opere truculente, di un espressionismo violento e spesso blasfemo.
Ancora più vicino al teatro della crudeltà si trova un altro drammaturgo straniero di lingua francese, lo spagnolo F. Arrabal (nato nel 1932), sebbene i suoi ispiratori, più che Artaud, siano F. Garcia Lorca, il geniale poeta di Bodas de sangre e di Yerma, e Rafael Alberti. Valendosi dei migliori tra i giovani registi di Parigi - J. Savary per Le labyrinthe (1967), J. Lavelli per L'architecte et l'empereur d'Assyrie (1967), V. Garcia per Le cimetière des voitures (1967) - Arrabal lascia la sua immaginazione sbrigliarsi in fantasie che portano il suo ‛teatro panico' ai limiti della frantumazione verso l'happening e lo psicodramma.
È da notare che i tre registi menzionati sono argentini stabilitisi in Francia: non possiamo considerarli, in qualche modo, l'avanguardia di un futuro teatro latino-americano?
d) Altri paesi d'Europa
Sebbene le sue due commedie, Iwona, ksiéżniczka Burgunda (Iwona, principessa di Borgogna) e Ślub (Il matrimonio) siano del 1935 e del 1946, W. Gombrowicz, polacco stabilitosi in Argentina nel 1939, arriva alla notorietà solo nel 1964. Per i suoi temi (un mondo in macerie, esseri corrotti, un linguaggio in decomposizione), quest'opera fa pensare a una nuova trasformazione del teatro dell'assurdo, mentre bisogna riallacciarla a Shakespeare (è una parodia derisoria dell'Amleto) e soprattutto all'universo romanzesco di Gombrowicz, autore tra i più singolari, ossessionato dal tema dell'immaturità.
Beckett e Ionesco esercitano una profonda influenza nei paesi dell'Europa orientale, dove le loro commedie acquistano risonanze politiche: Godot, che non arriva mai, sembra un simbolo della libertà sempre promessa e mai ottenuta, mentre il messaggio finale di Chaises ha l'aria di una parodia dei vuoti proclami della propaganda totalitaria. Il polacco S. Mrożek, nato nel 1930, esiliato politico dal 1968, utilizza mirabilmente le tecniche del teatro dell'assurdo per rendere la realtà sinistra della vita nelle democrazie popolari: in Policja (La polizia, 1958) e soprattutto in Tango (1965), satira dell'ideologia rivoluzionaria sotto forma di un grottesco litigio di famiglia.
e) America
Nato con O'Neill all'inizio del nostro secolo, il teatro d'autore americano è contrassegnato da una duplice tendenza: quella realistica, con le sue preoccupazioni politiche e sociali, e quella psicanalitica. Attori come James Dean e Marlon Brando, formatisi al Group Theatre (fondato nel 1931) e poi all'Actor's Studio (1947) sotto la direzione di L. Strasberg ed E. Kazan, si muovono a loro agio in entrambi i generi.
All'indomani della guerra, due autori impersonano queste due tendenze. A. Miller, nato a New York nel 1915, esprime la fede degli Americani del Nord nel progresso e nella democrazia attraverso una serie di commedie, solidamente costruite intorno a un grosso caso sociale: l'industriale profittatore di guerra in All my sons (1947), il lavoratore vittima del mito del successo in The death of a salesman (1949), lo straniero immigrato in View from the bridge (1955). T. Williams, al contrario, nato nel 1914 nel Mississippi, esprime la decadenza del Sud attraverso tragedie sessuali che si svolgono nell'opprimente calura di una natura arcaica; protagonisti sono donne perdute e adolescenti svirilizzati da madri castratrici: The glass menagerie (1945), A streetcar named desire (1947), Suddenly last summer (1958).
Nel più notevole dei drammaturghi della nuova generazione, E. Albee (nato nel 1928), l'influenza del teatro dell'assurdo è riconoscibile soprattutto nella sua prima commedia, Zoo story (1960), storia di un giovane che costringe uno sconosciuto incontrato in un parco ad ascoltare la sua confessione prima di farsi uccidere da lui: solo modo di stabilire una comunicazione impossibile. Ma le fantasie inconsce che alimentano questa commedia, tra le altre la fantasia dell'omosessualità, fanno di Albee piuttosto un successore di Williams, come si vede nella sua opera più celebre, Who is afraid of Virginia Woolf? (1962), dramma della frustrazione psichica vissuto da una coppia sterile.
Beninteso, questo quadro (al quale si potrebbero aggiungere M. Schisgal e i più giovani J. Richardson, A. Kopit, I. Horovitz, tutti divisi tra un freudismo americanizzato e una stramberia alla Ionesco) non rende conto della straordinaria ricchezza del teatro americano degli ultimi venti anni. Questo nuovo teatro si è sviluppato off-Broadway, cioè al di fuori di quei templi della borghesia e della finanza che sono le grandi sale di Broadway, in piccoli locali del Greenwich Village o nei campus universitari, con compagnie itineranti prive di struttura ufficiale. Ma, soprattutto, si è sviluppato ‛fuori testo', sotto forma di creazioni collettive e in seguito a un lavoro corporale e gestuale indipendente dall'elaborazione letteraria, e di conseguenza liberato dall'antica subordinazione all'autore. In questo paese senza tradizione letteraria, la religione europea del testo lascia il posto a nuovi riti, nuove cerimonie. Forse l'esempio viene dal teatro negro, rappresentato da alcuni scrittori notevoli, come J. Baldwin (Blues for Mister Charlie, 1964), LeRoi Jones ( che sessualizza il problema negro) o Ed Bullins (influenzato da Beckett e da Genet). Il teatro negro trova però la sua espressione più tipica in spettacoli di strada improvvisati, con musica, danza e canto.
8. Psicodrammi, happenings, feste
La grande rivincita di Artaud è che oggi è cambiata la concezione stessa del teatro. Si sopporta sempre meno di sedersi in una poltrona e assistere passivamente a uno spettacolo preparato in anticipo, concluso in se stesso. Psicodramma, happening o festa, lo spettacolo ‛fuori testo' è vissuto in comune da coloro che lo fanno e che lo guardano fare, e si definisce per l'interazione degli uni con gli altri, che cercano insieme di esorcizzare i loro demoni e di rinascere a una vita nuova.
a) Lo psicodramma di Moreno
Indipendentemente dallo scrittore francese, che ignora, uno psichiatra rumeno inaugura tra le due guerre una forma terapeutica di spettacolo, tappa non trascurabile del nuovo teatro. Nato a Bucarest nel 1892, J. L. Moreno studia medicina e filosofia a Vienna, dove conosce Freud, da cui si separa presto. Fonda nel 1921 il Teatro della spontaneità (Das Stegreiftheater) in cui i malati recitano i loro casi, il che ha l'effetto di liberarli dalle esperienze traumatizzanti del loro passato. Moreno emigra nel 1925 negli Stati Uniti e organizza alla Carnegie Hall sedute estemporanee collettive: uno spettatore parla del suo problema, sale sulla scena e lo rappresenta col concorso spontaneo dell'uditorio. Nel 1936 viene costruito a Beacon il primo ‛teatro terapeutico'. Al contrario della psicanalisi ‛sdraiata e parlata' di Freud, lo psicodramma è una psicanalisi ‛in piedi e agita' (v. Moreno, 1947-1959). Cinque elementi entrano in gioco: uno spazio scenico; un protagonista che recita liberamente la sua vita interiore; un animatore dello spettacolo, che è insieme regista, terapeuta e analista; degli io ausiliari che assistono l'animatore ma possono anche rappresentare i personaggi reali o simbolici del dramma vissuto dal paziente-protagonista; il pubblico, che assiste il paziente ma può diventare esso stesso paziente e salire sulla scena in qualsiasi momento. Si è fatto notare (v. Fanchette, 1971) che i misteri medievali, l'Amleto di Shakespeare o gli spettacoli della commedia dell'arte sono degli psicodrammi ante litteram. I principî che caratterizzano lo psicodramma di Moreno - viavai tra scena e pubblico, spontaneità degli attori liberi da ogni modello scritto, sovranità assoluta del corpo che parla nella sua totalità, sostituzione del linguaggio affettivo all'espressione razionale - si ritrovano nelle esperienze più innovatrici del teatro contemporaneo, particolarmente nell'happening americano, e coincidono d'altra parte con alcuni dei punti di vista di Artaud.
L'esercizio pedagogico praticato dagli psicanalisti col nome di ‛presentazione dei malati' rientra nella storia del teatro? Davanti a una piccola cerchia di allievi, un analista interroga un malato (schizofrenico o paranoico) e lo sgrava a poco a poco della sua verità interiore. In questo caso si tratta di una ‛psicanalisi seduta', che fa pensare alla maieutica di Socrate. J. Lacan, per esempio, praticava quest'arte con i pazienti dell'ospedale psichiatrico Sainte-Anne di Parigi. Certo, il pubblico ascoltava in un silenzio assoluto, ma tra il medico e il malato accadeva qualcosa di imprevisto e di imprevedibile, s'instaurava una relazione, pubblica dunque teatrale, che somigliava all'happening per la violenza di ciò che scaturiva in quel momento dal fondo dei traumi rimossi. Capitava che il malato cadesse dalla sedia o si sciogliesse in lacrime o si chiudesse in un mutismo completo.
b) Il teatro povero di Grotowski
Tuttavia, l'erede più diretto di Artaud sembra essere oggi il polacco J. Grotowski (nato nel 1933), che nel 1959 fonda a Opole, in Slesia, il Teatro 13 Rzedow, prima di aprire a Wroclaw il suo Teatro-laboratorio. Per teatro povero Grotowski intende innanzitutto una serie di rifiuti: rifiuto dei costumi, rifiuto della sala e rifiuto della scena. Debbono restare faccia a faccia soltanto l'attore e lo spettatore: l'attore costretto a scavare dentro se stesso in una sorta di esorcismo psicanalitico, e lo spettatore costretto anche lui a mettersi a nudo, strappandosi alle sue abitudini fisiche e mentali. Una tale concezione del teatro presuppone un pubblico molto ridotto, raggruppato intorno allo spettacolo, o addirittura associato allo spettacolo come nella realizzazione del Faust di Marlowe, in cui il pubblico è installato attorno a due lunghe tavole e Faust a un tavolo più piccolo da dove fa la sua confessione come il priore di un convento medievale ai suoi ospiti.
Lo spettacolo più celebre di Grotowski è l'allestimento di El príncipe constante di Calderón: l'attore, quasi nudo, diventa un uomo che lavora pubblicamente col suo corpo, per mezzo di contorsioni, di stati di trance, di lamenti, di grida rigorosamente padroneggiate e calcolate in modo da violare l'intimità dello spettatore, da comprometterlo, da liberare in lui le grandi pulsioni rimosse (v. Grotowski, 1968; v. Temkine, 1968; v. Copfermann, 1972).
c) L'happening americano
Altra forma di teatro povero, di teatro nudo, di teatro crudele è l'happening americano, ma questa volta senza riferimento a testi classici. L'happening ha inizio in campo pittorico con le ricerche di J. Pollock o A. Kaprow, e in campo musicale con le esperienze di J. Cage. Non è più l'opera che conta, ma l'azione del farla. Si tratta di creare un'arte il più possibile vicina alla natura, un'arte ‛in divenire', casuale, aleatoria, gratuita (v. Jotterand, 1970); al limite: tele completamente bianche, concerti completamente silenziosi, popolati solo dalle reazioni degli spettatori, dalle ombre dei visitatori o dai rumori della strada. Ogni happening è un'occasione per rimettere in questione se stessi. Tra gli esempi più semplici citiamo: viaggiare in treno senza biglietto, conservare il silenzio per un giorno intero, chiamare al telefono la polizia. Lo scopo è far prendere coscienza alla gente dell'ambiente che la circonda, della sua alienazione nella società. Un vero happening può svolgersi una sola volta, come il giorno, per esempio, in cui una coppia, dopo una mimica erotica, fece a pezzi un pollo vivo e lo gettò in pasto agli spettatori. Diventato, nelle mani degli studenti e dei negri, non più una semplice farsa surrealista, ma la punta di diamante della contestazione politica, l'happening può nascere in ogni momento, sui campus, nei parchi, nella strada, nelle aule dei tribunali, attorno alla Casa Bianca, come un appello alla lotta contro l'American way of life, ma più spesso a una lotta non violenta, ispirata al buddismo Zen.
Come può allora ciò che deve per definizione restare allo stato precario di avventura istituzionalizzarsi nella forma di uno spettacolo teatrale? Il problema del Living Theater (v. Biner, 1968; v. Lebel, 1969), fondato nel 1951 a New York da J. Beck e J. Malina, sta tutto qui. All'inizio esso rappresenta testi letterari (Jarry, Brecht, Pirandello). Nel 1959 Connection, commedia di J. Gelber sulla droga, e nel 1963 The brig, di K. H. Brown, sulla vita in un carcere militare di marines, segnano un'adesione più stretta ai temi della generazione beat e della nuova mistica orientale. A partire dal 1964 il Living Theater, passato in Europa, presenta unicamente spettacoli fondati sull'improvvisazione collettiva, come Mysteries and smailer piecez (1964) o Paradise now, che provoca uno scandalo al Festival di Avignone del 1968.
Si ritrovano in questi spettacoli, sempre più vicini all'happening, i grandi principi di Artaud: partecipazione del pubblico, provocata da pause di completa immobilità, da momenti di silenzio assoluto, dal passaggio degli attori nella platea, da litanie riprese in coro; linguaggio aggressivo, a base di nudità fisica, di strisciamenti, di torsioni, di grida. Nel 1970, temendo la commercializzazione dei suoi procedimenti, il Living Theater decide di scindersi in piccoli gruppi e di portare il teatro nella strada.
L'immenso successo di Hair, in origine falò di festeggiamento organizzato da hippies per bruciare le loro cartoline-precetto, mostra come la rivendicazione della libertà sessuale e politica possa diventare un musical di consumo borghese. Anche il nudismo di Oh! Calcutta! è diventato uno dei più solidi trionfi di Broadway.
Tra i numerosi gruppi che da una decina d'anni si propongono di fare un teatro di intervento puntuale svincolato da ogni istituzione, un free theatre o radical theatre al riparo dal tanto paventato ‛recupero', citiamo 1) l'Open Theater fondato nel 1963 da J. Chaikin, transfuga del Living Theater e organizzatore di spettacoli che hanno qualcosa del teatro aleatorio, della cerimonia, della pantomima, della messa del corpo, della meditazione mistica sull'amore e sulla morte, della lotta politica, talvolta con la collaborazione di un vero scrittore come J. C. Van Itallie (v. Jotterand, 1970); 2) il Café Cino, il Café La Mama e tutti i caffè-teatri che si sono diffusi in America e in Europa; 3) il Bread and Puppet Theatre (v. Kourilsky, 1971), che raccoglie intorno a un giovane tedesco emigrato a New York, P. Schumann, un piccolo gruppo di attori che utilizzano maschere e marionette giganti e recitano - spesso con la collaborazione di passanti, soprattutto bambini, e in una chiesa sconsacrata come in mezzo alla strada - una sorta di misteri medievali pieni di allusioni a situazioni contemporanee, come Fire nel 1966 (una settimana della Passione rivissuta da un villaggio vietnamita) o Cry of people for meat nel 1969 (storia della creazione del mondo attraverso scene liberamente tratte dalla Bibbia); 4) infine gruppi ancora più impegnati politicamente, come la San Francisco Mime Troupe di Rony G. Davis, che utilizza le tecniche della commedia dell'arte, o El Teatro Campesino fondato nel 1965 in California da L. M. Váldez come mezzo di intervento nei grandi scioperi sostenuti dagli operai agricoli di origine messicana (v. Jotterand, 1970; v. Dort, 1971).
d) Feste
Psicodramma, happening, esortazione alla liberazione sessuale, invito alla rivolta politica: un po' di tutti questi ingredienti si ritrova oggi in tutti gli spettacoli innovatori del mondo, anche quelli che non appartengono a una scuola precisa e non si richiamano a un determinato movimento. Fare del teatro una grande festa in cui gli spettatori partecipino fisicamente all'azione questa sembra essere l'aspirazione comune. Le sommosse dei campus americani, gli scontri di piazza in Italia, l'insurrezione studentesca del maggio 1968 a Parigi fanno parte, d'altronde, di queste feste: qui, la vita precede l'arte, gli avvenimenti propongono modelli ai registi, la strada diventa il centro di una improvvisazione collettiva, di un gigantesco happening di protesta e di liberazione. La presa dell'Odéon, nel maggio 1968, su iniziativa di uno dei teorici dell'happening, J.-J. Lebel, simboleggia bene la fine di una certa epoca del teatro e l'inizio di un'altra: la sala dell'Odéon, situata al centro dell'iperculturale Quartiere Latino di Parigi, vecchia sala all'italiana con la separazione tra scena e platea per mezzo della buca dell'orchestra e con la sua forma di conchiglia che isola il teatro dal resto del mondo, viene trasformata per qualche settimana in foro pubblico, dove ciascuno, salito sul palcoscenico o dal suo posto in sala, può prendere la parola ed esporre liberamente i suoi problemi.
Ma perché ci sia teatro occorre un minimo di formalizzazione. Alcuni grandi registi sono arrivati a creare pure feste, a base di gioia di vivere e di espansione fisica. L'italiano L. Ronconi, impadronendosi del testo dell'Ariosto, fa declamare le ottave dell'Orlando furioso da attori posti su carrelli che altri attori tirano e spingono da ogni parte in mezzo alla folla degli spettatori in piedi che si dispongono come possono e afferrano al volo frammenti di una narrazione di cui sfugge loro la continuità: spettacolo all'aperto, discontinuo, aperto e mobile, rappresentato in Italia, gratuitamente, nelle piazze delle città e a Parigi sotto la volta di un padiglione delle Halles in demolizione. Lo stesso principio della simultaneità e della discontinuità dei diversi elementi dello spettacolo ispira il Grand Magic Circus di J. Savarv, gruppo formato da studenti di diversi paesi, che raccontano a modo loro la storia di Robinson Crusoe o De Moïse à Mao, 5.000 ans d'aventures et d'amour. Lo spettacolo può aver luogo in un teatro o in un granaio o sotto il tendone di un circo. Quando è possibile, gli spettatori si siedono per terra, intorno a una pista rotonda come quella di un circo, mentre ai quattro angoli della sala scene secondarie permettono agli attori di moltiplicare la rappresentazione e di associarvi il pubblico.
Con l'americano R. Wilson, direttore della Byrd Hoffman School of Birds, la festa tende verso lo psicodramma. Pittore e architetto (come i creatori dell'happening), influenzato da J. Pollock, Wilson è interessato alla rieducazione di bambini disadattati, per i quali ha messo in scena The deafman's glance, spettacolo di lunghezza inusitata, totalmente silenzioso, quasi immobile per la lentezza del ritmo, che traduce le visioni di un giovane sordo in una serie di quadri surreali di mirabile bellezza plastica. Wilson organizza anche spettacoli che durano ventiquattro ore di seguito, durante i quali il pubblico si sposta da un luogo all'altro del teatro o del locale scelto per la rappresentazione e scopre, alla svolta di un corridoio o in qualche angolo, ora corpi completamente nudi coricati per terra, ora uccelli impagliati, ora qualcosa d'altro adatto a suggerire i misteri della morte e della resurrezione.
La festa può anche divenire azione politica. È il caso di US, spettacolo presentato nel 1966 da Brook sulla base di documenti sulla guerra del Vietnam, o di 1789, spettacolo presentato da A. Mnouchkine e dal Théâtre du Soleil nella vecchia fabbrica di cartucce di Vincennes, situata alla periferia di Parigi, sorta di montaggio degli avvenimenti della Rivoluzione francese costruito su un testo collettivo.
9. Conclusione
La storia del teatro nel nostro secolo presenta grandi mutamenti, che prospettano a loro volta grandi alternative. Il primo mutamento riguarda il contesto sociale. All'inizio del secolo il teatro era esclusivamente borghese: sotto l'influenza di Brecht e dei suoi seguaci ha acquistato diritto di cittadinanza un teatro popolare. Ma questa metamorfosi sembra oggi del tutto insufficiente a tutti coloro che rifiutano la condizione stessa dell'attività teatrale secondo il vecchio schema, cioè il predominio del testo scritto sul fatto scenico, la separazione tra scena e platea, la passività del pubblico. Ogni forma di teatro, borghese o popolare, che non sia una creazione immediata libera dal giogo della ‛cultura' e realizzata con la partecipazione degli spettatori, è respinta nella preistoria del teatro dai sostenitori della libera spontaneità, aleatoria, collettiva, liberatrice.
Il secondo mutamento riguarda il ruolo rispettivo dei diversi artefici dello spettacolo. Con Pirandello, come con Ionesco, Beckett o Genet, si è ancora nel regno dell'autore. Con Stanislavskij, Mejerchol′d, Piscator, poi con Brecht - che recita volta a volta i due ruoli - il primato passa insensibilmente al regista. Ai nostri giorni, si parla di uno spettacolo di Vilar, di Strehler, di Brook. Ma sotto l'influenza di Artaud, di Grotowski e dell'happening americano, il regista stesso è detronizzato a vantaggio degli attori, che diventano i veri creatori dello spettacolo, il linguaggio del corpo essendo considerato il solo che sfugga all'alienazione imposta agli individui dalla società tecnocratica. In un mondo asservito, che altro resta all'uomo se non il suo corpo, la sua nudità, la sua sessualità?
Teatro di testo o teatro di corpi, teatro di sala o teatro di strada, teatro di divertimento o teatro di liberazione, festa ricreativa o azione politica, compagnie istituzionalizzate o comunità informali: ecco le alternative in cui si dibatte oggi il teatro. Tutte le forme di spettacolo coabitano attualmente nel mondo, e nessuno può dire se negli anni futuri il teatro si libererà definitivamente dell'universo della cultura scritta, al quale apparteneva dopo Shakespeare, o se invece la magnifica esplosione che l'ha condotto dalla penombra chiusa delle sale nella luce vivificante dei crocicchi sarà stata solo un fuoco d'artificio senza domani. (V. anche critica letteraria, narrativa).
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