Teatro
Nel momento storico in cui i generi dello spettacolo si sono dissolti o mescolati con altro, ovvero tra l'ultimo scorcio del 20° sec. e l'inizio del successivo millennio, al t. spetta un posto del tutto particolare. In un'epoca dominata dalla mediazione e dalla virtualità, nella quale la comunicazione è decisamente regolata dalla fruizione di grandi masse di spettatori, nella dimensione attuale in cui intrattenimento, informazione e cultura entrano in canali di diffusione globali, il t. ritrova la sua più specifica peculiarità proprio nel suo non essere medium. In questo modo esso pone in evidenza il suo statuto di fondo che è quello di costituire un luogo e un tempo di comunicazione irripetibile, di costruire uno spazio reale dove individui diversi si incontrano, mossi dal desiderio di un rapporto diretto, intellettuale e umano. Pertanto il t. costituisce una delle poche circostanze relazionali in cui entra direttamente in gioco la fisicità dell'individuo, sia nel caso dell'osservatore sia in quello del soggetto agente, rappresentando ormai l'unico territorio nel quale rimangono esclusi, appunto, una mediazione, un filtro, uno schermo fra chi si esprime e chi fruisce di questa esperienza artistica.
Non si può dunque dire che l'epoca della mediazione di massa abbia messo in ombra il t., che lo abbia fatto diventare uno strumento antiquato, un passatempo per nostalgici o un semplice intrattenimento borghese, come, per certi versi, si sarebbe tentati di credere. Lo dimostra il fatto che il genere gode di grande vitalità in tutto il mondo e che sono molti i giovani che decidono di confrontarsi con questo mezzo artistico piuttosto che con il cinema oppure con la televisione, indubbiamente più diffusi. Naturalmente tale considerazione sull'assenza di medialità come caratteristica comunicativa non riguarda soltanto il t., ma tutto lo spettacolo dal vivo, i concerti e anche lo sport. Va preso in considerazione, però, che l'espressione scenica prende forma in un diverso ambito, giacché il suo fondamento è lo scambio di parole, di storie, di idee, di riflessioni e tutto questo ne rafforza la capacità di relazione rispetto alle altre forme di spettacolo dal vivo. Dunque, nonostante le infinite linee di sperimentazione che hanno fatto incrociare la scena con tecnologie ed estetiche della contemporaneità, il t. resta comunque il luogo privilegiato di un'espressione diretta e immediata della parola e del movimento, il luogo in cui prende forma la trasmissione di un senso e di un pensiero attuato secondo la formula di relazione più specifica e più antica dell'essere umano, che è appunto l'espressione verbale e fisica messa in gioco in presenza dell'interlocutore, per quanto passivo questi possa essere. Proprio queste caratteristiche hanno rafforzato l'idea che il t. costituisca un canale artistico particolare, un territorio unico dove possa realizzarsi uno scambio di idee tra individui, realizzato con una forza e un'immediatezza comunicativa che sarebbe difficile ottenere con forme di relazione mediate e mediatiche.
Non è certo un caso che tutta la riflessione sugli ultimi cambiamenti della nostra società sia passata per le sale teatrali, in angoli diversi e lontani del nostro pianeta. Basti osservare, solo per fare un esempio, l'importantissima elaborazione di temi e considerazioni politici e sociali che ha preso corpo nella produzione drammaturgica inglese degli anni Ottanta, messa in atto da un gruppo di giovani e dimostrazione più che evidente della capacità della lingua teatrale di rispecchiare la realtà circostante, oltre che indicatore significativo della sala teatrale come luogo di discussione collettiva, particolarmente vivace per le ultime generazioni. Ulteriori elementi di dimostrazione di ciò possono essere considerati la rivoluzione cecoslovacca della fine degli anni Ottanta, alimentata dall'opera del drammaturgo futuro capo dello Stato, V. Havel (n. 1936), come pure la motivazione dell'assegnazione, nel 1997, del premio Nobel per la letteratura a D. Fo (n. 1926) la cui opera è stata considerata meritevole del prestigioso riconoscimento non soltanto per il suo valore culturale, ma anche per la capacità di mettere in luce i contrasti della società contemporanea.
Per queste sue specifiche e caratteristiche dimensioni il t. appare, in maniera inequivocabile, un luogo politico, nel senso più evidente, ovvero uno spazio in cui la società si confronta con sé stessa. Le espressioni sceniche contemporanee più rappresentative sono infatti proprio quelle che riflettono sul tempo presente o che elaborano estetiche capaci di sviluppare un pensiero nuovo su modi e tempi del nostro esistere quotidiano. Mentre il t. come semplice luogo di intrattenimento ed evasione, seppur ancora presente e vitale da un punto di vista commerciale, sembra destinato a ripetere formule e riti piuttosto stanchi, e in molti casi tenta di rivitalizzarsi con atmosfere, personaggi, linguaggi provenienti dall'ambito cinematografico e televisivo, facendo in modo che la sala teatrale si trasformi soltanto in una variazione 'in presenza' di situazioni ideate per il piccolo o il grande schermo, a tutto discapito della specificità linguistica dei moduli drammaturgici e scenici.
Il t., per come viene largamente inteso al di fuori delle formule più corrive, appare dunque un luogo privilegiato di elaborazione intellettuale di nuove generazioni, di gruppi politici, di sperimentatori artistici; si mostra come l'unico perimetro entro cui si possano mettere alla prova nuove possibilità estetiche e culturali, e verificare la capacità di queste nel suggerire un pensiero innovativo e stimolante per la società civile in cui nascono.
A riprova di quanto sia cambiata l'idea di t. agli inizi del 21° sec., valga la dimostrazione del fatto che, ormai sottratta alla necessità e alle formule del mero intrattenimento, la durata stessa dello spettacolo teatrale è divenuta imprevedibile, con estensioni e restringimenti una volta inimmaginabili. Si pensi a certe narrazioni sceniche dilatate nella loro durata, dal tramonto all'alba come per il Mahābhārata (1985) di P. Brook o estese a un'intera settimana come per il Faust (2000) di P. Stein. E anche quando lo spettacolo si esaurisce in una serata, il suo arco temporale può procedere per cinque o sei ore, come molti lavori di L. Ronconi. Su un altro fronte, più arditamente sperimentale, la durata media di uno spettacolo è quella di un'ora, lunghezza temporale che si sbriciola in frammenti più brevi nel caso di performances e installazioni, per cui un'azione teatrale può avere un suo svolgimento completo in mezz'ora, quaranta minuti o ancor meno, presentandosi spesso in forme non definitive come 'studio' o tappa di avvicinamento a una formulazione finale. Questo indica in maniera inequivocabile che la necessità di una durata canonica di una serata teatrale è divenuta secondaria rispetto alla necessità dell'esposizione di un contenuto, allo svolgimento di un ragionamento o al racconto di una storia.
È stato ancora una volta un attento osservatore della società e delle sue modalità di elaborazione culturale come R. Barthes ad aver percepito l'ampio ventaglio di possibilità comunicative del t. rispetto ad altri riti collettivi. Interessanti sono pertanto alcune riflessioni del pensatore francese a proposito del palcoscenico come luogo in cui prende corpo un'emozione extraindividuale e sociale, e in cui la scena non si trova soltanto a essere degradata, com'è accaduto peraltro dal Romanticismo in poi, a luogo di piccole tragedie personali, di passioni e battaglie tutte interiori, di conflitti e sofferenze confinate nello stretto spazio dell'anima del protagonista del dramma. "La commozione moderna, quando per puro caso si produce, risulta sempre di origine introspettiva", scrive Barthes (1953), "il pubblico piange sul genere di drammi inclusi nel suo orizzonte coniugale o familiare; il teatro ha soltanto il compito di fornirgli un riflesso sbiadito delle sue possibili sventure" (trad. it. 2002, p. 52). Non era così per la tragedia classica, ci indica l'attenta analisi del critico, sottolineando come quel senso della rappresentazione sembri perduto. "Tra gli spettacoli" - prosegue Barthes - "oggi abbiamo una sola forma di rappresentazione da cui è esclusa la passione individuale: lo sport. Il pubblico di una grande partita di calcio certamente non piange, ma si avvicina a un turbamento collettivo espresso senza falsi pudori; accetta una partecipazione del proprio corpo allo scontro cui assiste. Contrariamente al pubblico del teatro borghese, inerte, riservato, che vive lo spettacolo solo attraverso lo sguardo (spesso, peraltro, critico o assonnato), gli spettatori sportivi sono fisicamente capaci di fare propri i gesti dello scontro" (p. 52). Ma, nota ancora Barthes, "la venerazione mostrata per lo sport moderno lascia, purtroppo, intravedere tutta la distanza che lo separa dalle grandi tragedie antiche. Lo sport suscita unicamente una morale della forza, mentre il teatro di Eschilo (Orestea) oppure di Sofocle (Antigone) provocava nel suo pubblico una vera emozione politica, esortandolo a piangere l'uomo invischiato nella tirannia di una religione barbara o di una legge civica disumana" (p. 53). Tale riflessione sembra voler anticipare proprio il solco della ricerca apertosi negli anni Settanta, con quella tensione a uscire appunto da un t. di taglio individualistico e psicologico, verso una dimensione scenica che proponga un'avventura intellettuale, metta in gioco un pensiero, accampi un dubbio, ma sempre in un ambito allargato, in una dimensione collettiva, facendo passare da quel canale aperto e diretto, che è costituito appunto dal palcoscenico, le crisi interiori di una società, le sue perplessità etiche, le sue tensioni civili.
Il termine teatro sembra suggerire così una modalità comunicativa piuttosto che una serie di rituali, di parametri artistici, di formulazioni estetiche oppure un vero e proprio luogo specifico. Appare chiaro, di conseguenza, che il termine stesso, inteso come indicazione di un luogo, non faccia pensare a uno spazio definito, a una tipologia di sala stabilita una volta per tutte, sulla forma della quale si moduli il pensiero del creatore artistico che sa di dover soddisfare le necessità compositive e soprattutto logistiche di quello spazio. Tutto questo avveniva fino a poco tempo fa, quando pensare a un t. riportava alla mente una sala 'all'italiana' con palchi, con platea e con palcoscenico, o comunque una dimensione che contrapponesse un pubblico seduto con la visione frontale di uno spazio in cui agissero gli attori. La situazione scaturita dall'abbattimento della 'quarta parete' è il risultato finale di un lungo cammino inaugurato dalle tante rivoluzioni delle avanguardie storiche e reso definitivo dai fermenti creativi degli anni Settanta, per cui la percezione sia ideale, sia fisica dello spazio scenico risulta completamente e irreversibilmente cambiata.
'Andare a teatro' significa, dunque, soprattutto recuperare una dimensione di relazione e non più entrare in un luogo ben determinato nel quale sappiamo già quale sarà la nostra funzione, il nostro compito, la nostra aspettativa, regolati dal posto e dalla posizione che occuperemo in quella particolare struttura architettonica. 'Andare a teatro' significa altresì predisporsi a un accadimento che si compirà in nostra presenza, ma nulla ci dice dove e come questo potrà manifestarsi. Un capannone industriale, uno spazio urbano da dover attraversare, una casa privata, un luogo naturale, una discoteca. Non vi è spazio dell'esistenza collettiva e privata che non sia stato animato in questi ultimi anni da performances, readings, installazioni, ovvero dalle molteplici e diverse forme in cui si esprime l'azione artistica e teatrale.
Tutto questo ha cambiato radicalmente il modo di concepire e quindi di progettare e costruire i teatri. Persino le grandi utopie di una sala modulare e mobile sul modello di quella disegnata da W. Gropius (1883-1969) nel 1927, con la possibilità di far ruotare la platea creando punti di vista nuovi, magari ponendo la scena al centro dell'assemblea, appaiono superate. Pensare all'edificazione di un t. significa immaginare soltanto un contenitore il più mobile e il più modificabile possibile. Pertanto è necessario non soltanto fare in modo che in quello spazio sia fattibile presentare il repertorio delle opere del passato, riproponendo il rapporto fra platea e palcoscenico per come è stato lungamente inteso, ma anche, e soprattutto, considerare forme e soluzioni più attuali, creare sale attrezzate in modo tale da soddisfare le esigenze degli artisti contemporanei e, infine, immaginare le necessità di chi vi lavorerà in futuro. Tutto questo non può che produrre strutture quanto mai semplificate nell'impianto di base ed estremamente versatili nella loro utilizzazione. Questa problematica si riflette su due piani, sia su quello della creatività artistica sia su quello della partecipazione del pubblico, con infiniti riflessi.
L'edificio teatrale resta comunque un elemento importante della dimensione cittadina, un luogo particolare dello spazio urbano. Nella progettazione di un t. moderno si cerca anche di integrare l'edificio con lo spazio circostante, mettendo in luce l'importanza sociale e culturale di quel luogo. Di questo si è tenuto conto, per es., nel recuperare alcune sale storiche, soprattutto dedicate alla lirica, come il Carlo Felice di Genova o, come nel caso del nuovo corpus di uffici e spazi di servizio realizzati nella ristrutturazione del Teatro alla Scala di Milano, con soluzioni che hanno dato vita a dibattiti e polemiche, dove su un fronte si sono collocati gli 'innovatori' aperti ai cambiamenti delle strutture presenti e alle modificazioni dello spazio cittadino, dall'altro i 'conservatori' per i quali ogni minima variazione volumetrica o formale di realtà architettoniche già esistenti costituiva un attentato all'identità del luogo. Eppure tutte queste discussioni a proposito dell'interno e dell'esterno dello spazio scenico non sembrano aver prodotto esiti particolarmente interessanti o innovativi, almeno nel nostro Paese. Si pensi per lo meno al Piccolo di Milano che ha realizzato la nuova grande sala del Teatro Strehler secondo modalità che sembrano rispondere soltanto a un bisogno di maggior capienza di pubblico e di maggior funzionalità di palcoscenico, così com'è accaduto anche per la sala più piccola della prestigiosa istituzione milanese, il Teatro Studio, progettato secondo criteri e con soluzioni non proprio ottimali per lo spettatore e con una gamma poco articolata di possibili punti di vista, dove, al di là di qualche variazione più eccentrica che sostanziale, la sala appare ancora troppo tradizionale. Altra grande occasione mancata per una rinnovata riflessione sugli spazi della rappresentazione è apparsa la soluzione finale adottata a conclusione di un acceso dibattito apertosi dopo l'incendio della sala settecentesca del Teatro La Fenice di Venezia, ricostruita poi 'dov'era e com'era', con il risultato di un dubbio falso d'epoca che non conserva l'aura dell'originale e ha fatto perdere un'importante opportunità per la progettazione di un nuovo spazio. Fortemente interessante appare, invece, l'esempio del Teatro Nuovo Giovanni da Udine (1997, G. Parmigiani e L. Giacomazzi Moore) nella città friulana, realizzato su misure auree, o i padiglioni di una vecchia fabbrica di Roma recuperati per dare vita al Teatro India (1999), oppure ancora, sempre nella capitale, le nuove sale dell'Auditorium Parco della musica (2002, R. Piano). Dal punto di vista burocratico e di politica dello spettacolo, l'Italia restituisce l'immagine di una gestione confusa e imprecisa dell'attività scenica, così come di tutte le attività culturali, sottoposte spesso alle dominanti logiche dei particolarismi e degli interessi, sempre molto distanti dai territori dell'arte.
Una specifica legge sul t., per es., non è mai esistita e il settore continua a essere perlopiù regolato per decreti. Soppresso il Ministero del Turismo e dello Spettacolo, in virtù del risultato del referendum popolare del 1993, la funzione di coordinamento di questa area fu affidata al Ministero per i Beni culturali e ambientali, dopo Ministero per i Beni e le Attività culturali. L'unica normativa ufficiale che restituisca un'idea del sistema teatrale italiano è quella che regola il finanziamento pubblico di questa branca di attività, la l. 30 apr. 1985 nr. 163. La spina dorsale del sistema teatrale italiano dovrebbe essere costituita dai Teatri stabili, creati tutti sul modello del Piccolo di Milano, ideato da P. Grassi (1919-1981) e G. Strehler (1921-1997) nel 1947 su esempio di alcune realtà francesi come il Théâtre national populaire fondato da J. Vilar (1912-1971), perseguendo il progetto di dar vita a centri di cultura e di spettacolo in stretto contatto con la società, regolati attorno a un'idea di servizio pubblico e impostati sull'espressione di un alto livello creativo mirato a fare del t. un luogo di riflessione per la collettività. Proprio per questo Strehler e Grassi si batterono affinché tali strutture fossero sostenute dallo Stato, rendendo così possibile progettare ed eseguire un'azione culturale a lungo termine. La battaglia condotta dai due operatori culturali milanesi risultò vincente e fortemente innovativa rispetto alla pratica ottocentesca, ancora viva nei primi anni del Novecento, seppur già fortemente usurata, delle compagnie di giro, ospitate di volta in volta in varie sedi, costrette a un nomadismo che non consentiva una riflessione più approfondita e, soprattutto, non creava un contatto con il territorio né riusciva ad ascoltare le esigenze di un particolare contesto sociale e urbano, non potendo sviluppare su un arco di tempo più vasto le linee di un progetto artistico. L'idea di mettere in piedi un polo di riflessione teatrale finanziato con denaro pubblico e con esplicite finalità collettive e di diffusione dell'arte scenica apparve assolutamente rivoluzionario ed è innegabile la funzione che queste strutture hanno avuto nella storia dello spettacolo e della cultura in Italia. Ma, agli inizi del 21° sec., il ruolo degli Stabili appare fortemente in crisi e da più parti si avverte la necessità di ridefinire il profilo e di rimettere a fuoco le funzioni di queste istituzioni.
Dal punto di vista economico, il maggior canale di sostentamento per il t. italiano, pubblico e privato, è costituito dal finanziamento statale erogato secondo le norme stabilite dal FUS (Fondo unico per lo spettacolo) e regolato dalla l. 30 apr. 1985 nr. 163. La legge fa in modo che l'investimento sullo spettacolo sia una voce fissa del bilancio dello Stato, stabilendo le direttive secondo cui i fondi devono essere erogati. Questo canale elargisce, su giudizio di una commissione di esperti, una sovvenzione a tutte le realtà, sia pubbliche sia private, che siano considerate interessanti, secondo parametri che tengono conto sia del livello artistico delle produzioni, sia del volume di affari del soggetto che chiede di essere sostenuto economicamente.
Agli Stabili va una parte cospicua del FUS dedicato al t., e ognuno di questi enti aggiunge alle proprie entrate i finanziamenti delle istituzioni locali. Gli Stabili, dunque, continuano a essere le istituzioni teatrali più fortemente sostenute dal denaro pubblico. Il punto più acceso del dibattito intorno all'organizzazione dello spettacolo in Italia, tuttavia, tocca proprio tale questione. Si è, infatti, arrivati a una vera e propria paralisi nella gestione di molte di queste strutture e al totale svuotamento delle istanze sociali e culturali per le quali erano state create e pubblicamente riconosciute con una formula giuridica e un cospicuo sostegno economico. Un buon numero di queste potenti fortezze istituzionali non si preoccupano affatto di stimolare la vitalità della drammaturgia nazionale e di incentivare la produzione e la messa in scena di nuovi autori, non curano alcuna politica di diffusione dell'arte teatrale, non concedono spazio a formazioni emergenti, non adottano misure di allargamento della propria attività a zone periferiche o al tessuto urbano e regionale circostante. Eppure tutti questi punti appaiono rigorosamente elencati nella legge che stabilisce i criteri secondo cui si può affidare a un t. la definizione di Stabile, ammettendolo al livello più elevato del finanziamento pubblico.
Il modello del Teatro stabile non appare superato storicamente. Lo dimostra il fatto che l'espressione scenica all'estero si basa su una formula analoga, con una rete di t. nazionali ben finanziati dallo Stato che funzionano come centri propulsori dell'attività culturale del Paese, e non vi è dubbio che proprio da questi siano passati e passino le esperienze più interessanti degli ultimi anni. Un tipico caso è costituito dalla Schaubühne di Berlino, luogo storico del grande repertorio drammaturgico non soltanto tedesco, nel quale hanno lavorato figure prestigiose del t. internazionale. Questo vero e proprio tempio teatrale è stato sempre fortemente finanziato anche dopo la riunificazione della città e ha sostenuto per anni un centro di ricerca, la Barake, divenuto punto di incontro di nuove realtà artistiche della capitale tedesca, nel quale sono nate personalità di spicco come il regista T. Ostermeier (n. 1968) e la coreografa S. Waltz (n. 1963). Proprio a questi due giovani, nell'anno 1999, è stata affidata la direzione dell'intera struttura della Schaubühne, creando lo straordinario effetto di un rinnovamento generazionale nella gestione di uno degli spazi più importanti per la cultura di tutto il mondo, aprendo le porte a esperienze fortemente innovative e a linee di pensiero originali, e dando anche l'occasione a due giovani talenti di confrontarsi con modalità gestionali e produttive di più largo respiro, con esigenze di pubblico e di programmazione ben più impegnative di quelle di una sala di ricerca.
Altre categorie riconosciute in Italia dallo Stato nonché ammesse al finanziamento pubblico sono gli Stabili di iniziativa privata, istituzioni radicate nel territorio in cui sono nate e di consolidato prestigio, gestiti da imprenditori autonomi, con unà di livello artistico elevato, solidità economica e un notevole seguito di spettatori. Accanto a questi vi sono i centri di ricerca, ovvero quei palcoscenici sui quali si indagano nuove possibilità dell'estetica teatrale, legati in massima parte a compagnie e figure della sperimentazione.
Un'altra realtà piuttosto discussa è quella dei circuiti teatrali, organizzazioni che, con un sostegno pubblico, provvedono a far girare una serie di spettacoli in un determinato territorio in cui è presente una rete di luoghi teatrali oppure una serie di spazi idonei alla rappresentazione. I circuiti servono a garantire la diffusione dello spettacolo dal vivo in zone in cui la scarsità della popolazione lascia intendere che non sarebbe possibile dare vita a delle strutture attive durante tutto l'anno, e dovrebbero risolvere il risaputo problema della disomogenea diffusione delle attività di palcoscenico in Italia, concentrate nei grandi capoluoghi e con zone largamente scoperte come il Veneto, la Valle d'Aosta, l'entroterra campano, la Basilicata e la Calabria. Ma anche questo sistema, piuttosto complesso, appare oramai sclerotizzato e si è dimostrato, con l'andar degli anni, scarsamente vitale. A cambiare l'aspetto piuttosto statico della geografia teatrale italiana hanno provveduto, invece, nuove realtà creative e centri di ricerca fortemente innovativi, nati in maniera spontanea e spesso non sostenuti da alcuna forma di finanziamento pubblico. Negli ultimi anni, soprattutto nei centri urbani, formazioni emergenti, ma già capaci di una produzione di notevole validità artistica, continuano a creare e a esporre i risultati della loro ricerca nei centri sociali, nuovi luoghi di aggregazione giovanile dai quali vengono fuori i fermenti più vivaci della musica, dello spettacolo, dell'arte e anche del teatro.
Un esempio di rapporto particolare fra istituzione locale e nuove dimensioni creative resta quello di una città come Bologna, dove il Comune ha affidato alcuni spazi alle formazioni emergenti, la cui prima necessità era appunto quella di avere una sede nella quale lavorare, piuttosto che quella di un finanziamento in denaro. Da questa intelligente politica è nata una nuova ondata di sperimentazione teatrale che ha attraversato tutta Italia mostrando risultati senza dubbio interessanti. Ciononostante, questa politica non è servita da esempio ad altre amministrazioni locali.
Da un punto di vista più strettamente artistico bisogna registrare quanto in questi ultimi anni il t. abbia allargato i propri orizzonti incontrando altri generi e perdendo sempre di più il confine di un'identificabile peculiarità creativa e di esposizione spettacolare definita. Anche in questo caso la questione assume aspetti terminologici interessanti. Certo, esiste ancora un 'teatro di prosa', anche se questa espressione risulta piuttosto superata, intendendo un'azione scenica che si muove sulla traccia di un testo drammaturgico precostituito non legato alla musica, ma anche in questo ambito apparentemente ristretto molte sono state le novità e gli sconfinamenti di campo (v. drammatica, letteratura). Essendo ormai piuttosto desueto il rapporto della drammaturgia con la musica secondo quella formula molto diffusa fino alla metà del Novecento che è stata la lirica, ed essendo la scrittura teatrale pensata per il canto oramai fortemente sperimentale e non certo di larga accoglienza, come accadeva per l'opera o l'operetta, l'incontro più interessante e innovativo del t. strettamente inteso con un altro territorio della riflessione e della pratica spettacolare è senza dubbio quello con la coreografia e il movimento che ha dato vita alla fortunata definizione di 'teatro danza', filone produttivo ricchissimo e di successo. In questo nuovo genere, che ha raccolto immediati consensi soprattutto grazie al lavoro della coreografa tedesca P. Bausch (n. 1940), avviene una singolare intersezione tra elementi di provenienza diversa. Da una parte il movimento resta centrale nell'azione scenica, mentre quello che cambia radicalmente è l'atteggiamento narrativo. La storia o gli accenni di storia che emergono nel corso del lavoro non sono più un pretesto per la creazione di numeri regolati secondo le norme del balletto classico e resi più efficaci o espressivi dalla fantasia e dall'intelligenza di un coreografo, ma il gesto nasce insieme al racconto che si vuole proporre, la relazione fra gesto e pensiero, fra elemento narrativo ed espressione fisica si fa indissolubile. E, anche se la parola resta spesso in secondo piano, si avverte una più evidente necessità di discorso, l'esposizione di concetti oppure l'indagine su linee interiori dell'individuo.Tuttavia la riflessione sul gesto e sul movimento si è infinitamente ampliata, così come si sono diversificate le necessità e i modi della scrittura per la scena, dando luogo a innovative calligrafie pensate appositamente per lo spazio scenico e costruite con materiali e con mezzi diversi. E per quanto sia stato fatto moltissimo al fine di arricchire il linguaggio teatrale con elementi di provenienza diversa, molto sembra ancora dover accadere e la gamma creativa degli artisti della scena sembra avere ancora infinite possibilità di scoperta. Il video, dopo un momento felice di sperimentazione che ne faceva fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta un elemento molto presente in t., appare messo da parte, o usato, spesso in forme estreme, soprattutto quando il palcoscenico cerca un confronto con i mezzi di comunicazione di massa o con certe tematiche della società contemporanea.
Ma certamente lo spazio della rappresentazione si è definitivamente allargato non soltanto a nuovi linguaggi, ma anche a nuove figure, includendo nell'azione teatrale persone e non attori, esperienze individuali e non finzioni. Per questo il t. è andato a cercare nuova linfa confrontandosi con i territori del disagio sociale, della detenzione, della disabilità, portando in scena segni veri, espressioni e volti della realtà. Rivendicando così la forza tutta particolare di questa forma comunicativa rispetto alle problematiche più diffuse e difficili del nostro tempo.
Sulla produzione teatrale si vedano anche le voci attore, regia: Teatro, e scenografia: Teatro.
bibliografia
R. Barthes, Pouvoir de la tragèdie antique, in Theâtre populaire, 1953, 2 (trad. it. Sul teatro, Roma 2002, pp. 51-59); M. Panizza, Edifici per lo spettacolo, Bari 1996; L. Trezzini, P. Bignami, Politica & pratica dello spettacolo: rapporto sul teatro italiano, Bologna 2004.