TEATRO
(XXXIII, p. 353; App. II, II, p. 948; III, II, p. 902; IV, III, p. 583)
È ormai impossibile pensare ''il teatro'' al singolare. La pluralità de ''i teatri'', delle tradizioni e delle estetiche fra loro a volte non comparabili, rende problematico e insieme ricco di sapore ogni tentativo di ricapitolazione che abbia per oggetto quel singolare collettivo che è il ''teatro'' nel 20° secolo.
Prima di procedere all'effettivo aggiornamento del panorama converrà quindi una breve ricapitolazione dello sfondo. Lo stato divaricato della scena novecentesca fin dall'inizio aveva visto gli avamposti e i t. d'avanguardia dividersi dal corpo del t. ordinario. Nel corso del tempo si è generata pertanto una molteplicità di fuochi teatrali formalmente e spiritualmente lontani. Dagli avamposti che hanno segnato l'avventura teatrale del secolo − dal Teatro d'Arte di Mosca al Berliner Ensemble, dal Vieux Colombier al Teatr Laboratorium di Wrocłav, dal Living Theatre all'Odin Teatret − sono sorte diverse tradizioni, o microculture, che hanno punteggiato come enclaves quello che prima era stato il territorio unificato de ''il teatro''. Ognuna di queste enclaves ha suscitato attorno a sé un proprio contesto culturale.
Teatri separati o paralleli. - Poiché vi sono molti ambienti teatrali, vi è anche molteplicità di prospettive ideologiche, di estetiche, di impostazioni storiografiche. L'effettivo decorso storico ha così contraddetto le molte voci che lungo tutto il 20° secolo avevano previsto e predicato una riorganizzazione complessiva del sistema teatrale e del suo rapporto con la società, senza di che il t. − dicevano − sarebbe sparito per la preponderanza degli spettacoli maggioritari, registrati o teletrasmessi. Invece il t. non si è riorganizzato nel suo insieme, e non è neppure sparito: si è suddiviso, parcellizzato, distinto in centinaia di ben individuate varietà, a volte di corta durata, a volte longeve, caratterizzate dall'impronta di personalità artistiche precise.
Nella seconda metà del 20° secolo c'è stata una doppia cesura, che all'ingrosso può essere ricondotta agli anni Sessanta e Settanta. Gli anni Sessanta avevano visto le avventure di alcuni gruppi d'eccezione e di individui capaci d'imporre opere e pratiche teatrali che esulavano dai confini considerati per loro naturali. Non erano rotture o ''provocazioni'' di tipo ideologico o estetico. Erano qualcosa di più: aspiranti tradizioni alternative. Quando il Living Theatre (v. App. IV, ii, p. 349), per es., venne per la prima volta in tournée in Europa nel 1961 con The connection, fu ancora ammirato e premiato come un ensemble artistico che compiva esplorazioni utili e interessanti anche dal punto di vista del t. ordinario. Quando ritornò con Mysteries and smaller pieces, nel 1964, parve già un altro pianeta.
Ecco un piccolo e molto lacunoso elenco di nomi relativi al panorama teatrale non italiano: il Living Theatre, fondato da J. Beck e J. Malina; il Teatr Cricot 2, fondato da T. Kantor; il Teatro Galpón di Uruguay, fondato da Atahualpa del Cioppo; il Teatr Laboratorium, fondato da J. Grotowski; il Bread and Puppet Theatre, fondato da P. Schumann; l'Odin Teatret, fondato da E. Barba; il teatro La Candelaria di Bogotà, fondato da S. García; più recentemente gli argentini Libre Teatro Libre e Comuna Bajres; gli Els Comedians, collettivo catalano; i peruviani Yuyachkani e Cuatrotablas e molti altri ancora, che non è possibile elencare. Basta ricordare nomi siffatti per comprendere che non si tratta di semplici compagnie teatrali, ma di qualcosa di simile a tribù teatrali, microculture non certo insulari, ma distinte, che andrebbero esaminate così come si esaminano, normalmente, nella loro separatezza e nei loro contatti, le distinte ''tradizioni'' del t. eurasiano.
La seconda scossa nel sistema del t. occidentale unificato, negli anni Settanta, dipese in gran parte dalla prima, ma non ne fu il semplice prolungamento: dalla logica del rifiuto si passò alla separatezza. Gli uomini e i gruppi che guidarono la rivolta teatrale degli anni Sessanta avevano aperto brecce nelle mura del teatro. Negli anni Settanta decine e centinaia di gruppi crebbero fuori di quelle mura non più compatte. Non erano fuoriusciti, ma nati e cresciuti già in terra di nessuno. Nel risolvere i problemi della propria esistenza e del proprio sviluppo produssero nuove forme organizzative, nuovi costumi, una nuova mentalità. Per provvedere al proprio autodidattismo, crearono una vasta rete informale di pedagogia teatrale, una grande ''scuola'' sommersa e invisibile, della cui importanza e delle cui dimensioni è possibile rendersi conto solo a posteriori, se si esamina l'insieme di quel brulicare di attività che nel loro realizzarsi − prese una per una − sembravano sminuzzate e mai tanto imponenti quanto le grandi iniziative dei t. ordinari.
La ''terra di nessuno'' era uno spazio libero dai vincoli delle convenienze teatrali: nella ''terra di nessuno'' fare t. poteva voler dire entrare in un'arte quasi senza leggi perché fatta d'autodisciplina, che si poteva cercare di reinventare in pochi, allacciando relazioni di lavoro non preordinate, con scarsi mezzi, senza bisogno di materiali, senza bisogno di palcoscenici e sale teatrali, ma in piccole sedi, nelle piazze e per le strade, con spettacoli che non rispondevano ai repertori della letteratura drammatica e nascevano da immagini libere, spesso da riflessioni autobiografiche sommariamente travestite, da soggetti che soltanto al termine del processo compositivo trovavano la loro sanzione drammaturgica e il loro titolo.
Agli occhi ortodossi del t. ordinario tutto ciò pareva disordine, incapacità, far per scherzo. Dovunque vivessero, i gruppi del t. parallelo, pur attingendo a fonti economiche sostanzialmente non diverse (pubbliche o private) da quelle dei t. del sistema ordinario, erano profondamente diversi, restavano in un'altra orbita. È bene sottolinearlo, perché nel mondo della pubblicistica teatrale (e quindi della documentazione più evidente e di superficie) non vi è stata mai piena coscienza dell'importanza del fenomeno che ha visto il proliferare dei gruppi teatrali sorti fuori di quelle immaginarie mura che unificano il t. maggioritario. Anzi, data la mentalità prevalente, predisposta a rimanere suggestionata dal paradigma della ''notizia'' e del ''successo'', quei t. sono risultati in gran parte invisibili. Agli occhi della normale pubblicistica teatrale, il fenomeno diventava visibile solo in occasione di grandi incontri di gruppi, come il Convegno del Teatro di Base a Casciana Terme nel 1977, e, lo stesso anno, l'Atelier internazionale del Teatro di Gruppo a Bergamo; l'incontro dei t. di gruppo latinoamericani ad Ayacucho, nelle Ande peruviane, nel 1978; quello del 1979 a Madrid e a Lekeitio, nei paesi baschi; quello del 1988 a Lima. Anche certi festival, come quello di Nancy e soprattutto quello di Santarcangelo di Romagna, nei dieci anni in cui fu guidato da R. Bacci, fra il 1978 e il 1988, evidenziarono l'estensione e il peso culturale delle numerose realtà teatrali autonome che erano sorte al di fuori dalle istituzioni e dai programmi del t. egemone.
Appena dalla cronaca dei giornali si passa alla storia degli ultimi decenni del 20° secolo, non si può non riconoscere l'importanza, dal punto di vista estetico e sociologico, dei t. separati o paralleli. Ponevano fra l'altro in maniera esplicita il problema centrale del t. della fine del 20° secolo: quello della trasmutazione dei suoi valori. Trasmutazione necessaria − coscientemente o no − per l'intero complesso dei t., perché, mentre il mondo degli spettacoli registrati e teletrasmessi tende a farsi paese, i t. traggono senso dal loro essere la minoranza o il resto dello spettacolo, e diventano significativi per il fatto stesso di non essere come la maggior parte degli altri spettacoli. Una dura superstizione induce molti a pensare che ciò che più rimane sia anche ciò che più vale. Attorno alle enclaves, vi sono le grandi e stabili istituzioni teatrali, talmente grandi, in qualche caso, talmente stabili, ricche e famose da far dimenticare che la storia dei t. è storia soprattutto di uomini e donne, storia di gruppi di persone − e quindi storia di vive memorie − e non di edifici, statuti, bilanci, nomi e tradizioni gloriose e pietrificate. Superstizione deleteria nei confronti di coloro che operano fuori dai confini del t. ordinario, anche perché nutre l'indifferenza, che per le arti teatrali è peggio della ferocia (mentre i grandi insuccessi possono essere magnifici, un t. che vive nell'indifferenza rischia di restare fra i mai nati).
Nel corso degli anni Ottanta, la vita dei t. paralleli si è fatta ancor più difficile: per congiunture economiche e per il prevalere quasi ovunque di logiche di economia liberista rivolte a limitare l'intervento dello stato a protezione delle arti economicamente deboli, soprattutto in quei campi detti ''sperimentali'' o ''di ricerca''; per il sopravvento di una mentalità che identificava il buon governo della cultura con il buon governo aziendale; e in primo luogo per la caduta, nella generalità, delle grandi tensioni ideologiche che avevano animato i decenni precedenti, e che agevolavano nei gruppi separati il cristallizzarsi della propria identità. Ne è seguito un generale impoverimento del panorama, impoverimento che rischia d'essere inavvertito se si guarda solo il paesaggio dei ''successi'' e degli avvenimenti che han fatto epoca. L'epoca che inizia con gli anni Ottanta, infatti, è fitta di atti mancati, di prospettive chiuse, d'insofferenza nei confronti di coloro che pretendevano far t. non omologati. Mentre il lusso dei t. ordinari veniva solitamente rispettato, mentre alcuni risultati d'altissima qualità mostravano quanta energia possa diffondersi tramite la scena, molti ingegni e molti talenti refrattari e ribelli si persuadevano al silenzio, lontani non tanto dall'attenzione, quanto dal dovuto rispetto.
Teatro pubblico e privato: il quadro italiano. - Mentre in Gran Bretagna, per es., il liberismo di M. Thatcher (al governo dall'aprile 1979) riduce enormemente l'intervento statale a sostegno della cultura e obbliga il t. nei suoi limiti commerciali o strettamente istituzionali, particolarissima ed estrema appare la situazione italiana. Tanto più significativa, in quanto l'Italia era stata negli anni Sessanta e Settanta una sorta di grande laboratorio internazionale di tutto ciò che di nuovo avveniva nel t. mondiale, luogo d'incontro e di scambio di esperienze multiformi, dove accanto alla distinzione (sostanzialmente ipocrita) fra t. pubblico e t. privato erano sorte numerose realtà autonome, laboratori, centri di ricerca, in cui si agitava nei suoi diversi aspetti, spettacolare, pedagogico, teorico, in un fecondo disordine, la multiforme cultura teatrale.
La distinzione tra t. pubblico e t. privato è sostanzialmente ipocrita, da un lato perché i t. pubblici si comportano in genere come gli altri, con compagnie non stabili, con frequenti tournées e un repertorio non dissimile; e d'altro canto perché anche i t. cosiddetti ''privati'' vivono in realtà delle sovvenzioni pubbliche. In Italia probabilmente il solo D. Fo − fra i t. di prima grandezza − sarebbe stato in grado di vivere direttamente degli incassi, senza sovvenzioni. Forse gli si potrebbe aggiungere E. De Filippo, ma non si potrebbe proseguire troppo oltre nell'elenco.
Nei primi anni Ottanta, l'esigenza di risparmiare sulla spesa pubblica, e quindi di evitare gli sprechi e intensificare gli strumenti di controllo e le barriere, infittisce le norme e i regolamenti che governano il flusso delle sovvenzioni. Si cercano criteri almeno formalmente oggettivi, e questi non possono che essere numeri (numeri di spettatori, numeri di dipendenti e di giornate lavorative), che quindi precostituiscono una visione uniformata e aziendalistica dei teatri. Paradossale visione, dati i reali termini economici (le ''aziende'' teatrali sono previste in perdita per definizione). E, inoltre, visione contraddetta dal comportamento degli stessi organi statali, che fanno affluire i denari stanziati con enormi ritardi, obbligando i t. a prestiti, e quindi costringendoli a rinunciare a parti ingenti (fino a rasentare il 50%) delle loro sovvenzioni che vanno a pagare gli interessi passivi. Le disfunzioni nel sistema statale agevolano concussione, corruzione e clientelismo. Nelle commissioni statali consultive che propongono al ministero le ripartizioni dei finanziamenti sono presenti in forma preponderante i rappresentanti delle categorie da finanziare. Per decenni e ancor oggi, a causa degli interessi in gioco, non si riesce a produrre una legge che regoli gli interventi dello stato nel t.; le regole oscillano quindi di anno in anno secondo le diverse circolari ministeriali. Nel 1985 fu varata una cosiddetta ''legge madre'' relativa al Fondo Unico dello Spettacolo, cui non hanno fatto seguito le ''leggi figlie'' che dovrebbero regolamentare con efficaci normative i finanziamenti per il cinema, il t. di prosa, il t. lirico, i concerti. Il perdurante vuoto legislativo ha continuato così a esser riempito da circolari ministeriali che di fatto legiferano e rimodellano i profili dei t. sovvenzionabili, con esclusioni drastiche proprio nelle zone di frontiera. Un solo esempio: l'importante fenomeno dello spettacolo itinerante, che si svolge per strade e piazze, in luoghi aperti e mobili, e che negli anni Settanta aveva conosciuto un forte impulso estetico e un'altrettanto forte eco teorica, non adattandosi alle misurazioni dei numeri dei biglietti o degli spettatori, tende a uscire dalle forme di t. previste dai regolamenti e quindi − per la forza delle cose − a deprimersi se non proprio a sparire anche dalla pratica.
Intanto i critici di alcuni fra i più importanti giornali italiani hanno impostato nei primi anni Ottanta un'offensiva serpeggiante e denigratoria nei confronti degli artisti teatrali e degli spettacoli che non rispettavano il fair play maggioritario. Questa campagna d'intolleranza è esplosa coralmente nell'estate del 1985, basata su notizie false relative allo spettacolo di ''Magazzini Criminali'' (v. oltre), un gruppo di t. italiano fra i più apprezzati e anticonformisti (si veda la documentazione in Patalogo 9). La cosiddetta ''lottizzazione'' nel frattempo aveva perso i suoi caratteri di compromesso politico per la spartizione delle cariche, assumendo l'aspetto di una vera e propria occupazione del territorio teatrale da parte di piccoli funzionari di partito e delle loro clientele. Il costume politico generale si basava sull'illusione che il sistema delle tangenti e dell'occupazione in nome dei partiti appartenesse ormai alla legge non scritta dello stato, in cui sembrava normale prevedere per ogni provvedimento un immediato tornaconto ai partiti, alle loro frazioni, ai loro singoli rappresentanti. Un sistema che crollerà all'inizio degli anni Novanta, per l'intervento della magistratura.
Negli anni che precedettero il crollo dei partiti tradizionali, il governo dei t. − dai grandi t. dell'Opera ai Teatri stabili, fin alle più piccole realtà regionali e cittadine − perse quasi ogni riferimento a finalità artistiche e culturali. Non vennero gravemente menomati la Scala e il Piccolo di Milano, ma l'Opera di Roma, per es., cadde in un vortice di nomine di incompetenti, di sprechi, di lotte fra fazioni che ne dissiparono quasi interamente il patrimonio e il prestigio. Un uomo di t. dell'importanza e dell'efficienza di L. Ronconi arrivò a dirigere un Teatro Stabile (quello di Torino) solo alla fine degli anni Ottanta, mentre a dirigere i diversi t. stabili venivano nominati per lo più personaggi culturalmente mediocri sulla base di compromessi che ignoravano le scale dei valori artistici e culturali. Sull'altro versante, quello dei t. di minoranza e delle realtà meno istituzionali, l'arroganza delle usurpazioni non è stata minore: entrava in questi casi all'opera la bassaforza dei partiti. All'inizio degli anni Novanta, nel mutato clima seguito alle inchieste della magistratura, con il disfarsi dei partiti tradizionali, alcuni segnali di maggior correttezza sembrano manifestarsi (L. De Berardinis, per es., sempre emarginato dal sistema teatrale italiano, ottiene finalmente un t. a Bologna e è chiamato a dirigere il Festival di Santarcangelo dopo l'interregno di A. Attisani; Ronconi viene chiamato nel 1994 al Teatro Stabile di Roma). Intanto però le inchieste della magistratura toccano anche l'alta personalità di G. Strehler (che viene poi scagionato), e i quadri dirigenti del più prestigioso t. pubblico italiano, il Piccolo di Milano (i t., soprattutto i cosiddetti ''t. pubblici'', a causa delle storture amministrative dello stato, sono sempre stati costretti a irregolarità per poter svolgere la propria attività e sopravvivere malgrado i debiti), mentre in seguito ai referendum abrogativi dell'aprile 1993 viene soppresso anche il ministero dello Spettacolo, aumentando lo stato d'incertezza e lasciando aperta la questione fra accentramento delle politiche culturali o loro decentramento regionale. L'indirizzo economico liberista, la perdurante esigenza di risanamento dei bilanci dello stato, e quindi i tagli alla spesa pubblica, rendono ancora più incerto − all'inizio del 1995 − il futuro dell'assetto economico del t. italiano, delle sue esclusioni e delle sue scelte, in un contesto in cui il sistema teatrale non può sopravvivere − né in Italia né altrove − senza mecenatismo pubblico o privato. Ma poiché si tratta qui di un'attività artistica, non semplicemente commerciale, non dovremmo dimenticare che dietro i problemi di sovvenzione esiste qualcosa di ancor più decisivo, che è l'attenzione o la noncuranza.
Nel maggio 1993 un artista italiano del t. parallelo scriveva una poesia programmatica Per un teatro clandestino ("Ci vuole / un altro sguardo / per dare senso a ciò / che barbaramente muore ogni giorno / omologandosi"). La barbarie dell'omologazione è ciò che caratterizza certo superficiale ottimismo −o piuttosto certa agiata noncuranza − negli anni Ottanta, prima che a prevalere, nel t. come nel resto della cultura, sia lo sgomento della crisi economica e il peso della disillusione della generalità, mentre i massacri, in Europa e fuori, fanno seguito a quel che sembrava lo scoppio della pace, dopo il fatidico novembre 1989, il crollo del muro di Berlino e poi dell'impero sovietico, quando Sarajevo diviene la nuova Akropolis europea. A ben guardare, è anche opponendosi alla circostante ''barbarie dell'omologazione'' e alla contrapposta barbarie della xenofobia e degli estremismi etnici che la previa unità del t. si spezzetta fin quasi a nascondere ogni disegno complessivo. L'artista che nel 1993 scriveva quella poesia od orazione sul teatro clandestino era il giovane napoletano A. Neiwiller, pittore, attore grottesco co-protagonista in tre importanti spettacoli di De Berardinis (Ha da passà 'a nuttata, del 1989; Totò, principe di Danimarca, del 1990; e I giganti della montagna, del 1993), caratterista pensoso o caricaturale nei film Morte di un matematico napoletano di M. Martone e Caro diario di N. Moretti (1992 e 1993), ma soprattutto regista in proprio di spettacoli metafisici e rozzi, in cui la rabbia delle avanguardie storiche s'innestava in quella del degrado napoletano ed evocava in contrappunto la dolcezza di quell'uomo buono che era il loro autore. Neiwiller era per non pochi cultori di t. un vero maestro, un punto di riferimento, una di quelle celebrità clandestine che costituiscono il nerbo dell'attuale vita del teatro. Come accade, emerse a un riconoscimento un poco più vasto in occasione della morte prematura, per leucemia, nel novembre 1993.
Teatri extraterritoriali. - Il modo generalmente impreciso di suddividere i campi teatrali in base alle diverse nazionalità, applicato agli ultimi anni del Novecento, è diventato del tutto improprio. Sono appunto i t. ''nazionali'' che tendono a sparire, conservandosi spesso come spoglie un po' monumentali d'un pensiero esaurito. Sarebbe un errore considerare il parcellizzarsi delle culture e delle microtradizioni teatrali come dilapidazione; al contrario, esso incrementa le differenze che generano senso. La pluralità dei fuochi teatrali (e quindi anche degli orientamenti speculativi di coloro che riflettono sul t.) è in rapporto dialettico con l'approfondirsi e il dilatarsi del contesto di riferimento. I t. davvero significativi vivono in uno scambio intenso con una realtà sociale circoscritta, sia essa cittadina, paesana o regionale (una dimensione da cui vedremo sorgere addirittura un neogenere drammaturgico, quello dei Dramolette di T. Bernhard), oppure sparsa qua e là nei diversi paesi, in fitte reti di rapporti non legati ai normali confini delle lingue e delle case nazionali.
Teatri come il Living o l'Odin, o il Cricot 2 o il Centre international de créations théâtrales non sono più itineranti, né t. internazionali: sono extraterritoriali. Hanno attività che si radicano in paesi fra loro lontani, sono composti al loro interno da persone di diverse nazionalità e dai diversi idiomi materni. In genere, mettono a punto una tecnica poliglotta, che permette loro di tradurre in tutto o in parte le parole degli spettacoli per renderle accessibili ai diversi spettatori. I t. definiti extraterritoriali rispondono in maniera originale alla società multiculturale che caratterizza gli ultimi decenni del secolo, con il verificarsi di nuovi movimenti migratori e soprattutto con l'intensificarsi del sincretismo e dei suoi contraltari: le rivendicazioni etniche e i cosiddetti fondamentalismi.
L'immagine (o il sogno) di quale potrebbe essere il buon t. ordinario d'una tale società − t. capace di non rompere in alcun modo con la tradizione legata al repertorio della letteratura drammatica, ma diverso in ogni sua forma dal t. corrente proprio per la capacità a rispondere alle mutate circostanze − è l'attività di P. Brook (v. App. IV, i, p. 318). Nel suo Centre international de créations théâtrales convergono attori di diverse razze e tradizioni. Recitano secondo lo standard europeo, ma senza far caso alcuno alle differenze di colore, di lingue madri, di tradizioni sceniche d'origine. Nella parte di un inglese è per es. un attore giapponese, un balinese interpreta un oste spagnolo, o un lentigginoso inglese senza trucco la parte di un uomo di colore. I loro spettacoli si svolgono in assetti spaziali semplici − risultato di un sofisticatissimo lavoro di semplificazione − che aiutano a creare un rapporto immediato con lo spettatore, senza venerazione per il valore ''classico'' dei testi. I testi vengono scelti non per la loro qualità letteraria, o per la loro posizione nelle storie delle letterature, ma per la capacità di mettere in moto domande che a partire dagli attori e dal regista possano insinuarsi o dilagare fra gli spettatori. Il repertorio assume così i caratteri d'una scelta di temi transculturali, frutto di una scelta raffinatissima e perciò non esclusiva. Un t. in cui il sapere teatrale di un secolo di ricerche e di regia sa tradursi nella semplicità e nell'efficacia di rappresentazioni che sono come il racconto delle grandi storie narrate con intensità emotiva e ironia da un contastorie, uno storyteller.
Nel 1970 Brook si allontana da Londra per inaugurare a Parigi un Centre international de recherche théâtrale. Nel 1973 il Centre (Brook e altre trenta persone fra attori, tecnici, drammaturghi) viaggia e recita in Africa: dall'Algeria, attraverso il Sahara, ad Agadèz nel Niger, poi a Zinder, quindi in Nigeria fino a Kano, a Jos, sull'altopiano del Benue, cuore della Nigeria, quindi a Ife, presso Lagos, di qui a Cotonou, nel Dahomey, risalendo fino a Niamey, capitale del Niger, raggiungendo Gao, attraverso il Mali, per tornare in Algeria ancora attraverso il Sahara. Nel corso del viaggio s'incontra e confronta con i griot, i contastorie tradizionali, buffoni sacri e sapienti dall'energia effervescente e concitata, adatta a espugnare l'attenzione e l'indifferenza del pubblico. Brook ne deduce, per contrasto, la scoperta o la conferma d'una diversa strada, quella dell'energia calma, ferma su di sé, che si scava un canale attraverso la quiete e apre la mente dello spettatore invece di far irruzione in essa.
Nel 1974, con una sovvenzione del ministero della Cultura francese, il Centre de recherche diventa Centre international de créations théâtrales e trova la propria sede a Parigi, in un vecchio t. semidistrutto (Les Bouffes du Nord). Brook ne guida il restauro affinché la spoglia struttura del t. resti tale, e venga curata solo la nettezza dell'insieme e la sua stabilità. Diventa una grande caverna per gli spettacoli, ospitale per gli spettatori, adatta a quasi ogni assetto dello spazio scenico, senza palcoscenico: un'arena circondata da gallerie e balconate, con uno spazio frontale adatto alla visione. Quel teatrino un tempo pomposo, ridotto ora al suo scheletro, raduna in sé tutte le possibilità delle diverse soluzioni al problema dei rapporti spaziali fra attori e spettatori, mantenendo l'energia d'un luogo a parte, funzionale, comodo e arcaico, ritagliato nello spazio urbano quotidiano.
Alle Bouffes du Nord, Brook mette in scena, con la sua compagnia composta da attori provenienti da 19 differenti paesi, nel 1974 Timone d'Atene di W. Shakespeare, e nel 1975 Les Iks, dal libro dell'antropologo C. Turnbull. Nel 1977 mette in scena il testo di A. Jarry (Ubu Roi) che sta alla base di tutta la drammaturgia d'avanguardia del Novecento. Ne fa uno spettacolo elementare, Ubu aux Buffes du Nord, come una farsa di girovaghi, sicché l'acre buffoneria di Jarry diventa il modo in cui i farsanti vedono, con buon senso, scherno e invidiuzza dal basso, l'enfasi del potere. Nel 1978 mette in scena Misura per misura di Shakespeare, e nel 1979 un dittico farsesco e mistico sulla fame: L'os, da un racconto di B. Diop, e La conférence des oiseaux, drammatizzazione dell'antico poema di Attar (è lo spettacolo che riporta Brook alla fama di cui godeva prima d'abbandonare l'Inghilterra con spettacoli come King Lear, 1962; Marat-Sade, 1964; US, 1966; A midsummer night's dream, 1970). La farsa africana e il viaggio iniziatico degli uccelli in cerca del loro dio costituiscono un dittico sulla fame materiale e spirituale. Nella ''fame'' Brook individua un tema che dovrebbe essere in grado di parlare autenticamente agli spettatori diversi in una società non più divisibile in frontiere culturali nazionali o identificate dai confini delle diverse lingue. Alla fame era dedicato quello spettacolo del 1975, Les Iks, che quasi nessun critico riuscì a comprendere e che parve un segno di decadenza, un incongruo ripiegare del grande regista verso un t. rustico e disadorno e una recitazione naturalistica.
Per il gioco dei contrasti, che Brook ama nella scelta del proprio repertorio, quasi in un intermezzo di reinterpretazione della tradizione, nel 1981 mette in scena Il giardino dei ciliegi di A. Čechov e La tragédie de Carmen di G. Bizet. Sono due esempi di come l'eredità del grande t. europeo possa farsi t. immediato e interessante, capace di parlare direttamente, senza la pompa classica dei t. nazionali o d'Opera. Nel primo caso, il dramma di Čechov è rappresentato sullo sfondo delle mura grigie e nude delle Bouffes du Nord, solo il suolo è reso ricco dagli arabeschi preziosi di tappeti persiani. Fra gli attori di Brook vi è, per l'occasione, M. Piccoli, nella parte di Gaev. N. Parry è la protagonista Liubov. Il personaggio del servo Yasha, il più antipatico ed egoista fra quelli che popolano il testo cecoviano, un cinico piccolo arrivista, è interpretato da un vitalissimo M. Bénichou che fa di Yasha un affamato della vita, ancora tanto indietro e tanto povero da non aver né il tempo né le illusioni sufficienti a occuparsi di morale. Il commerciante Lopachin, interpretato da N. Arestrup, è sensibile, melanconico, spiritualmente nobilissimo, come Če chov lo voleva e come invece la tradizione interpretativa non l'ha mai mostrato. Tutta la rappresentazione (contro i luoghi comuni cresciuti attorno a questo testo) è un inno alla vita, particolarmente effervescente perché colta sull'orlo, quando s'affaccia sulla fine d'una delle sue forme e si specchia in tutta la luminosa e nostalgica energia del suo mutare.
L'altro spettacolo, la Carmen, è la dimostrazione di come il t. d'Opera possa essere liberato dalle sue convenzioni. Brook e J.-C. Carrière, collaboratore per la drammaturgia, hanno ridotto l'opera di Bizet all'essenziale, tagliando tutto il possibile, e lasciando al dramma e alla musica la crudezza di un destino passionale che corre verso la catastrofe. Lo spettacolo va in giro con enorme successo per più anni, con tre diverse formazioni, ognuna composta di quattro cantanti, due attori, una piccola orchestra. Si svolge in un'arena nella quale tutta la vicenda si snoda come se una volta tanto quella storia e quella musica ambientate in Spagna venissero rappresentate in una rustica plaza de toros.
In un'arena, delimitata da piccole pozze d'acqua, si svolge anche il più grande spettacolo che Brook abbia mai allestito, il Mahabharata, che va in scena per la prima volta nel luglio 1985. In vista di ciò Carrière ha scritto un testo che condensa il più ampio poema del mondo. Il lavoro inizia nel 1982. Agli attori stabili di Brook − A. Maratrat, B. Myers, Y. Oida, M. Dioume, M. Bénichou − si aggiungono S. Kouyate del Burkina Faso (un attore-danzatore proveniente da una famiglia di griot), l'italiano V. Mezzogiorno, il polacco A. Seweryn e colui che occupò uno dei vertici dell'arte dell'attore nel Novecento: R. Cieslak, l'attore de Il Principe costante e di Apocalypsis cum figuris di J. Grotowski. Il Mahabharata è uno spettacolo enorme anche dal punto di vista materiale: dura quasi 12 ore, viene rappresentato in tre giornate o in un'unica rappresentazione lunga come gli spettacoli ateniesi o quelli di certi t. classici asiatici. Racconta storie dentro altre storie, con una divertente e virtuosistica complessità iniziale che evolve verso la nuda e rettilinea semplicità del finale. Per la prima volta, con questo spettacolo e con la sua versione cinematografica e televisiva, i personaggi e gli episodi del grande poema indiano divengono familiari a numerosi spettatori occidentali. Sembra una grande sintesi dell'India e della sua mitologia; in realtà, a mano a mano che la storia sapida e fluviale si svolge, emerge il suo carattere universale: uno specchio rozzo e sofisticato del sapere e del potere, delle favole sullo sfondo brutale d'una corsa alla distruzione: un tema che riguarda tutti, una rappresentazione dell'irreparabile, il modo in cui scoppia la carneficina e le generazioni incontrano la propria fine. Il Mahabharata di Brook e Carrière è uno dei più grandi successi della seconda metà del 20° secolo, percorre il mondo, viene recitato a lungo in francese, poi in versione inglese, diventa film, la sua notizia occupa l'immaginazione anche di chi non l'ha visto, si radica nella memoria degli spettatori più come un importante incontro che come un normale fatto estetico.
Dopo l'avventura del Mahabharata, Brook mette in scena nel 1989 il testo sudafricano Woza Albert! ("Alzati, Albert!") di P. Mtwa, M. Ngema, B. Simon, interpretato da M. Dioume e B. Sangaré. Secondo Carrière si tratta d'un "testo da marciapiede", nel senso di un t. d'autocoscienza e propaganda che non ha bisogno di nulla per essere rappresentato. Nel Sudafrica dell'apartheid, attraverso il t. poverissimo delle township, è divenuto un testo molto famoso, interpretato dai suoi autori Ngema e Mtwa, recitato a lungo, quasi il simbolo teatrale dell'immoralità delle separazioni razziali: che cosa succederebbe se Cristo, decidendo di tornare al mondo, arrivasse nel Sudafrica, governato dagli afrikaans sempre con la Bibbia fra le mani e la morale sulle labbra? Che cosa vedrebbe, Cristo, al di là delle belle parole? I due attori fanno lampeggiare decine e decine di personaggi e scene di vita nei ghetti neri.
Nel 1990 Kouyate, che era già al centro del Mahabharata, attore dai grandi poteri, capace di calamitare l'attenzione del pubblico semplicemente restando immobile a guardare altrove, è Prospero ne La tempesta di Shakespeare, mentre Ariel − un Ariel del tutto imprevedibile − è il possente Sangaré (originario del Mali); Calibano − piccolo, pallido − è D. Bennent. I rapporti tradizionali fra i personaggi così come si sono assodati nelle messinscene shakespeariane (Ariel esile, aereo, malinconico − la volatile G. Lazzarini della famosa messinscena di Strehler nel 1978 − e Calibano tenebroso e selvaggio, nero per Strehler) sono qui invertiti. Anche in questo caso la rappresentazione segue la prassi del t.-contastorie, ha l'efficacia di ciò che prima ancora di farsi spettacolo vuol essere un racconto pieno di sapori, porto con acutezza e precisione agli spettatori, come un messaggio o un suggerimento. Il naufragio iniziale, che nella messinscena di Strehler era una grande scena di reinvenzione del t. scenografico barocco, qui è raccontato dal possente Ariel che mostra agli spettatori una barchetta grande quanto un giocattolo.
Nel 1992, ripetendo l'esperimento di Carmen ma con tutt'altra cifra stilistica − dalla concretezza della Spagna alle astrazioni della leggenda di M. Maeterlinck e C. Debussy − mette in scena, con un pianista e 5 cantanti, Impressions de Pelléas, dal Pelléas et Mélisande. Nella parte di Mélisande si alternano soprano asiatiche (la coreana J. Park, la giapponese K. Saito, la cinese Ai-Lan Zhu). Brook e il Centre international de créations théâtrales sembrano saggiare in diverse direzioni: nel 1994 M. Bénichou, D. Bennet, S. Kouyate, Y. Oida e M. Tabrizi-Zadeh recitano L'homme qui..., una ''ricerca teatrale'' più che un vero e proprio spettacolo, in cui Brook e Carrière esplorano − attraverso i racconti clinici del neurologo O. Sacks nel più famoso dei suoi libri, L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985) − quelle bucce sovrapposte e contraddittorie di illusioni che ognuno di noi prende per ''realtà''.
Il t. contastorie di Brook va controcorrente non perché divida gli spettatori o si rivolti contro le convenzioni teatrali, ma perché fa uso del buon senso. Dicevamo un po' paradossalmente che potrebbe essere l'immagine d'un possibile buon t. ordinario d'una società multiculturale, capace di non rompere con la tradizione, diverso dal t. corrente proprio per la sua capacità di rispondere ad antichi compiti in mutate circostanze. Ma benché prestigioso e famoso, resta minoritario perché si rivolge agli uomini di buona volontà.
Teatri ''politici''. - Alla fine degli anni Ottanta avviene il crollo del muro di Berlino; si registra la fine della cosiddetta guerra fredda, la fine dell'impero sovietico e la supremazia incontrastata degli USA; prevale la logica di mercato, e le guerre locali sono sempre più numerose e feroci. Nella Sarajevo assediata, quotidianamente schiacciata dai mortai, si reca durante l'estate del 1993 la scrittrice statunitense progressista S. Sontag, e vi fa teatro. Come se farlo potesse davvero assumere un senso.
Riferisce: "Sono andata a Sarajevo verso la metà di luglio per mettere in scena Aspettando Godot, non tanto perché avessi sempre desiderato di dirigere la pièce di Beckett..., quanto perché questo mi dava una ragione pratica per ritornare ... Non potevo tornare da semplice testimone ... Mettere in scena uno spettacolo significa molto per i professionisti teatrali di Sarajevo, perché permette loro di essere normali, di essere qualcosa di più che meri trasportatori d'acqua o passivi consumatori di ''aiuti umanitari'' ... Lungi dall'essere una frivolezza, mettere in scena uno spettacolo è una seria espressione di normalità". Ed effettivamente, è proprio attraverso l'inutilità o inattualità del t. ambientato fra le macerie da una scrittrice sessantenne, che si distilla il senso di un suo possibile valore. Soprattutto se si tiene conto di quanta rivolta sia contenuta in quelle parole tranquille "seria espressione di normalità".
È interessante che Sontag e i suoi colleghi scelgano, definendolo un testo "che sembra scritto per Sarajevo", Aspettando Godot di S. Beckett, il classico del cosiddetto ''t. dell'assurdo'' apparentemente lontano dalle ansie sociali e politiche. Brecht, negli ultimi anni della sua attività, aveva pensato di metterlo in scena adattandolo al suo modo di far t., ma al Piccolo di Milano, per es. (il cui cofondatore P. Grassi aveva usato per il ''reazionario'' Beckett parole insultanti proprio nell'introdurre una monografia su Brecht), Aspettando Godot è stato messo in scena solo nel 1978 con la regia di W. Pagliaro, mentre Strehler curerà una regia beckettiana solo nel maggio 1982, quando dirigerà (un po' fra parentesi) Beckett atto senza parole tra giorni felici. Eppure − se al di là delle opinioni critiche ci si basa sui puri fatti − si potrebbe dimostrare che paradossalmente è proprio Aspettando Godot il testo più ''politico'' del secondo Novecento. J. Kott, in un articolo del 1985, rievoca lo scherno e la disperazione civile che emanava da quel testo quando lo si ascoltava a Varsavia, all'inizio del 1957, mentre centinaia di samizdats cominciavano a far filtrare frammenti del rapporto segreto sui crimini di Stalin che Chruščëv aveva tenuto al 20° Congresso del Partito comunista sovietico nel febbraio 1956. Il pubblico di Varsavia si vedeva riflesso nell'opera di Beckett: Godot era il socialismo.
È ancora Aspettando Godot a colpire la fantasia di un ergastolano − R. Cluchey − del penitenziario St. Quentin: lui e i suoi compagni vi riconoscono la propria situazione messa a nudo. Siamo nel 1957, lo stesso anno di cui parlava Kott a Varsavia. Dopo aver visto lo spettacolo in prigione, Cluchey fonda un gruppo teatrale nel penitenziario, mette più volte in scena Aspettando Godot assieme a Finale di partita e a L'ultimo nastro di Krapp. Entra in contatto con M. Esslin (autore del celebre libro sul Teatro dell'assurdo del 1968, dove le messinscene di Cluchey vengono menzionate). In seguito entra in contatto con lo stesso Beckett. Alcuni intellettuali, colpiti dal connubio Beckett-ergastolo, scrivono di Cluchey, che diventa un ''caso''. Viene liberato ''sulla parola'' per speciali meriti culturali e fonda una compagnia che conserva il nome che aveva dentro, St. Quentin Drama Workshop, continuando a rappresentare la trilogia beckettiana, per la quale, in un secondo tempo, lo stesso Beckett cura la messinscena (in Italia il St. Quentin Drama Workshop è giunto nel 1984, in una tournée organizzata dal Centro per la sperimentazione teatrale di Pontedera).
Beckett (premio Nobel nel 1969; v. App. IV, i, p. 239) muore ottantatreenne il 22 dicembre 1989 in una clinica parigina. La notizia viene data quattro giorni dopo, a funerali avvenuti. Gli ultimi anni hanno distillato l'esperienza della sua attività teatrale. Nel 1974 aveva curato per la prima volta una messinscena delle sue opere, allo Schiller Theater di Berlino Ovest. Nel 1979 fu regista di Happy days (Giorni felici) al Royal Court di Londra, con l'interpretazione di B. Whitelaw. Nel 1981, per un convegno dedicato alla sua opera dalla Ohio State University, scrisse un testo di poche pagine intitolato Ohio Impromptu, definito dramaticule.
Due uomini, quasi uguali d'aspetto, lunghi capelli bianchi, un grande pastrano nero, sono seduti allo stesso tavolo, ambedue a capo chino, poggiando la fronte sulla mano. Sul tavolo è posato un cappello a larghe tese, di quelli tipici un tempo per artisti e studenti al Quartiere Latino. Uno dei due legge un libro all'altro. È arrivato alle ultime pagine, la fine d'una storia d'amore: c'è un uomo solo, riceve la visita di un altro uomo inviatogli dall'amata, che gli legge in un libro il racconto della loro storia. L'uomo ritorna più volte. Poi una notte annuncia che questa sarà l'ultima lettura − ma non sappiamo se a dirlo sia il personaggio che legge o quello di cui egli legge le parole. Il libro viene chiuso. I due alzano insieme il viso, si guardano lungamente senza espressione, finché si dissolve la luce. I dramaticules sono gli ultimi testi di Beckett per il teatro. Nel 1982 scrive Catastrophe, per la Nuit Vaclav Havel, dedicata dal Festival di Avignone allo scrittore cecoslovacco perseguitato. Lo scrittore non è granché conosciuto fuori del suo paese e del t. di Praga, ma è un dissidente, e il regime dittatoriale cecoslovacco l'ha cacciato in carcere. È un uomo di t., autore e regista. Beckett immagina un altro di quei suoi nudi e radioattivi concetti-in-immagine, ridotti all'essenziale: c'è un uomo in piedi su un cubo alto mezzo metro, immobile, muto, a capo chino, con la falda del cappello che gli copre il volto. Cappello nero, vestaglia nera, piedi nudi. Attorno a lui un regista e la sua assistente, poi anche un datore di luci: dispongono del suo corpo come se fosse un oggetto, decidono come atteggiarlo, come truccarlo, come mostrarlo in tutta la sua miseria di relitto. Alla fine la luce illumina solo la testa dal volto coperto. Il regista guarda il quadro dalla platea. Esclama: "Delizioso! ... Splendido! Avrà tutti ai suoi piedi". Si odono scrosciare gli applausi di un'invisibile platea. L'uomo esposto alza il volto, fissa il pubblico. L'applauso "si dirada, si spegne".
Sullo sfondo della vicenda di V. Havel (Catastrophe gli è dedicato anche al momento della pubblicazione), l'uomo esposto appare un prigioniero: il gioco dei rapporti di forza e di sfruttamento della persona quali possono manifestarsi in vista dell'esposizione teatrale diventa figura della violenza politica in un regime poliziesco. Ma il concetto-in-immagini è affilato e crudele, perché la persona viene composta a vittima e come tale applaudita (il contesto di questo dramaticule infatti è la celebrazione teatrale avignonese). E gli applausi cesserebbero quando dallo spettacolo si passasse alla visione della reale miseria creaturale di chi soffre. Fuori di quel contesto, la metafora teatrale può essere un'autoironia dell'inventore dei relitti umani di Finale di partita e di Giorni felici, mostrando non il dramma delle macerie umane, ma il dramma segreto e infame dell'assistere allo spettacolo delle macerie umane. Beckett nelle sue ultime opere non si ripete ma distilla il senso e la tecnica della sua drammaturgia: un nodo d'immagini ridotto alla sua forma semplice; una partitura rigorosa come quella d'una vera liturgia, ma che non sviluppi intreccio alcuno; l'uso di frasi che non si muovano, che non dialoghino, che non prendano posizione, e mostrino pensieri messi in forma.
Nel 1982, quando il Festival d'Avignone dedicava una notte ad Havel, nessuno avrebbe osato immaginare che di lì a pochi anni il regime dittatoriale cecoslovacco sarebbe crollato assieme all'impero di cui faceva parte, e che il piccolo drammaturgo prigioniero sarebbe stato eletto presidente della Repubblica. Negli ultimi mesi del 1989, quando viene abolita la ''cortina di ferro'' fra Cecoslovacchia e Austria, durante le manifestazioni di piazza a Praga in ricordo della ''Primavera'' del 1968, il t. cittadino è uno dei luoghi di riferimento. Nel corso dei vent'anni trascorsi nella repressione, è restato un'oasi di pulizia e di patriottica indipendenza.
Mentre negli anni Cinquanta e Sessanta il ''t. politico'' s'era andato quasi coagulando in un genere, emerge ormai chiaro che il valore politico del t. deriva più dal contesto che non dall'argomento o dal modo in cui esso è trattato teatralmente. Nel febbraio del 1978, al Berliner Ensemble, l'attore E. Schall, con la regia di M. Wekwerth, interpreta la prima versione di Das Lebens des Galilei di B. Brecht, la versione in cui il protagonista è un eroe del pensiero che riesce a mettere in salvo il suo sapere malgrado l'oscurantismo circostante. Alcuni spettatori notano come gli specialisti brechtiani affluiti a Berlino Est dall'Italia, dalla Francia, dalla Gran Bretagna, vedano lo spettacolo come accademico e ininfluente brechtismo, senza rendersi conto del suo valore criptopolemico nel contesto della poliziesca Repubblica Democratica Tedesca. In Cina − racconta V. Weijie Yu − dopo la dura repressione culminata nella strage dei giovani dissidenti raccolti nella piazza Tien An Men, nel giugno 1989, molti artisti del cosiddetto ''t. parlato'' (cioè d'argomento moderno e di forma europea) si rifugiarono nei t. regionali e tradizionali (i cosiddetti ''t. d'opera'', il più famoso dei quali è l'Opera di Pechino) per sfuggire agli obblighi della propaganda. Negli spettacoli delle opere tradizionali i combattenti morti ritornano sotto forma di spettri, sicché in quelle antiche favole feudali − annota o immagina N. Savarese − gli spettatori possono sentire l'eco delle voci giovani soffocate in piazza Tien An Men. Nel Chile sotto la dittatura di A. Pinochet (1973-89) i t. indipendenti costruiscono una rete di dissidenza appena velata, raccontando spesso parabole. Non si preoccupano della relativa impunità che deriva loro dal fatto di essere politicamente ''non pericolosi'', lavorano alla costruzione del ''paese parallelo''. Anche nel Perù ridotto agli estremi dalla contrapposizione fra la ferocia dell'esercito e quella di Sendero Luminoso, in una guerra interna che vorrebbe monopolizzare ogni forma di vita, far t. diventa, lungo tutti gli anni Ottanta, una "seria espressione di normalità".
Appartiene alla natura stessa del t. − si direbbe − la creazione artistica come cooperazione di menti e culture diverse. Da ciò il suo valore d'uso anche come segno della possibilità di realizzare convivenze difficili. Si veda per es. il senso che assumono, in Israele e fuori, certi gruppi di t. in cui lavorano assieme palestinesi e israeliani. O si veda il valore politico e civile di un t. italiano (Teatro le Albe, di Ravenna, poi denominato Ravenna Teatro) che dall'inizio degli anni Ottanta lavora in collaborazione con immigranti africani, con spettacoli satirici e surreali che a volte si rifanno alla Commedia dell'Arte, come I 22 infortuni di Mor Arlecchino (1993), basato su un canovaccio goldoniano scritto per i comici italiani a Parigi, dove la maschera di Arlecchino viene interpretata dall'attore senegalese immigrato Mor Awa Niang.
Vedremo più avanti come l'Odin Teatret abbia usato il t. come strumento per reagire alle pulsioni xenofobe che sono la pericolosa emanazione delle nuove ondate migratorie in Europa. Che valore ed efficacia politica derivino al t. più dal contesto che non dal contenuto, è quanto mostra persino la vicenda del t. di D. Fo, il cui significato politico, o la cui efficacia, dipendono dal fatto d'essersi da tempo separato dalle istituzioni teatrali di lusso creandosi un proprio contesto di spettatori. Nel 1989 mette in scena assieme a F. Rame Il papa e la strega, e alla fine del 1991, quando ha oltre 60 anni, quando nel mondo del t. italiano alla moda la sua opera sembra perdere interesse, e mentre in diverse parti del mondo fervono le contrapposte celebrazioni per i 500 anni dalla Scoperta o dalla Conquista dell'America, scrive e recita, nel suo idioma padano reinventato, Johan Padan a la descoverta de le Americhe, rinnovando consensi simili a quelli che avevano accompagnato al suo apparire quel successo internazionale che fu − e continua a essere − Mistero buffo.
Conferma l'efficacia d'uso del t., quando sa piazzarsi in attrito e confronto con il contesto, l'esempio particolarmente importante del Sudafrica, dove il Market Theatret nel corso degli anni Settanta riuniva attori bianchi e attori neri, infrangendo i decreti dell'apartheid, ma godendo d'un prestigio e d'un successo tale da dissuadere il governo dal chiuderlo (il più noto fra i fondatori del Market Theatret è il drammaturgo afrikaner A. Fugard). Prevalgono poi − come immagine di dissidenza − t. esclusivamente neri. Ma benché l'opera dell'attore-scrittore M. Ngema, per es., tenda alla creazione di un t. di soli neri, per Woza Albert! (di cui sopra s'è detto, scritto in afrikaans, zulu e inglese) sia lui che P. Mtwa han voluto collaborare col drammaturgo bianco B. Simon, del Market Theatret. Il t. di soli neri è già di per sé, per la sua stessa esistenza, una protesta contro i tentativi di umiliare attraverso la segregazione le popolazioni di colore (nel 1986 il premio Nobel a W. Soyinka, nigeriano di etnia yoruba, drammaturgo e uomo di t., è un riconoscimento importante per tutto il t. africano di estrazione umile). M. Ngema, che ha scritto anche Asinamali, ha letto Stanislavskij e si è ispirato alle visioni di Grotowski, lavorando nelle township. Qui, radunando adolescenti dai 14 ai 18 anni, ha creato il musical Sarafina!, con musica della township, ambientato in una scuola di colore, dove la naturale allegrezza dell'adolescenza e della musica rende ancor più infame la repressione e la crudeltà poliziesca del regime dell'apartheid. Sarafina!, nato in un ambiente umile e molto sobrio, divenne un successo mondiale: nel 1988 trionfò e venne premiato al Lincoln Center di New York, l'anno seguente fu al Festival d'Automne di Parigi compiendo poi una tournée europea. Infine si trasformò in film (1992, regia di D.J. Roodt), dopo che nel 1991 il regime dell'apartheid era stato revocato.
Anche il fenomeno del t. in carcere, che acquista particolare rilevanza fra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta, mostra come il valore d'uso del t. possa assumere una forte efficacia politica. Alcuni congressi internazionali (importanti quelli a Milano nel 1991 e nel 1994) diffondono e confrontano informazioni d'un tipo d'attività che − afferma C. Meldolesi − vanno comprese non come storie marginali, ma al contrario come t. che emerge dalla marginalità all'arte, "immaginazione contro emarginazione", visione conturbante, per lo spettatore in libertà, "delle fonti impure della bellezza reclusa", perché "non c'è arte che si presti, come quella teatrale, alla riattivazione dell'individuo nelle comunità isolate". Una delle esperienze più significative di t. nato nel carcere, all'inizio degli anni Novanta, è quella della Compagnia della Fortezza. È il risultato dello strano incontro, a Volterra, fra i reclusi di quel penitenziario − in gran parte meridionali legati alle grandi associazioni della malavita organizzata e immigranti soprattutto nordafricani legati al mercato della droga − e un minuscolo t. costituito da un regista napoletano e da un'attrice olandese: A. Punzo e A. Henneman, provenienti ambedue da esperienze legate alle ricerche parateatrali grotowskiane, stabilitisi a Volterra senza mezzi, poi chiamati a svolgere attività di animazione nel penitenziario. In tale attività sociale, che nelle idee correnti non riguarda l'arte, Punzo ha gettato invece un'ambizione artistica che nel giro di tre o quattro anni ha portato gli spettacoli della Compagnia della Fortezza a una qualità capace d'impressionare gli spettatori, che ottenevano il permesso di assistere alle recite eccezionali all'interno del penitenziario, e poi coloro che hanno potuto apprezzarle in semilibere tournées. In questo caso, l'efficacia politica e sociale del t. è il risultato diretto della qualità artistica. La Compagnia della Fortezza, con la regia di Punzo e attori reclusi, mette in scena nell'estate del 1990 Masaniello di E. Porta. Nell'estate successiva, presenta 'O juorno 'e San Michele, sempre di Porta, e un anno dopo, dello stesso autore, Il corrente. Avevano iniziato la propria esperienza con il testo La gatta Cenerentola di R. De Simone, ed erano sempre rimasti legati alla drammaturgia napoletana, ma nel luglio 1993 mettono in scena Marat-Sade di P. Weiss, che è il primo spettacolo non professionale a vincere il premio (1994) per il miglior spettacolo nel referendum condotto annualmente fra critici teatrali e teatrologi dalla casa editrice milanese Ubulibri. La forza degli spettacoli di Punzo con la Compagnia della Fortezza dipende proprio dalla capacità di abolire la differenza fra t. professionale e t. d'occasione. All'interno della Compagnia della Fortezza si formano attori come C. Petito che incarnano la scelta artistica di base di questo t.: non l'espressione autobiografica, né la compensazione della realtà carceraria attraverso storie pacificate, ma un t. fatto soprattutto di rabbia, addirittura di vendetta, ma tradotta paradossalmente in finzione. Così, durante tutta la rappresentazione del Marat-Sade- nelle prime repliche tenutesi dentro, prima che lo spettacolo venisse liberato e andasse in tournée - gli internati immaginati da Weiss si scagliavano contro le cancellate che dividono in zone separate il vero cortile del carcere. Le scuotevano in ricorrenti impeti di rivolta. Ma lì accanto, a pochi centimetri dalle loro mani protese, la porta della cancellata carceraria era socchiusa, come per far finta, invece d'essere prigione.
Gli scomparsi che restano. - Un autore schivo e apparentemente chiuso su di sé come il polacco T. Kantor (v. in questa Appendice), pittore scenografo prima che regista e ''autore'' d'un t. fra i più celebrati dalla metà degli anni Settanta in poi, mostra una pulsione verso la trasmutazione dei valori teatrali altrettanto forte di quella che caratterizza i t. di lotta e minacciati. Accade per lui qualcosa di simile a quel che s'è visto per Beckett, dove la rivolta si condensa in forme ignude e apparentemente individuali, per diventare un simbolo pubblico potente. Lo spettacolo che trasformò Kantor da apprezzato scenografo e autore d'avanguardia surrealista a inventore d'una nuova identità di t. fu La classe morta, composta nel 1975 a Cracovia, quindi in tournée in tutta Europa (nel 1976 a Edimburgo, Londra, Amsterdam, nel 1977 al Festival di Nancy e al Festival d'Automne di Parigi; in Italia nel 1978). Nella primavera del 1980, dopo una lunga permanenza in Italia, Kantor compone, con attori polacchi e italiani, Wielopole/Wielopole. Nel 1986, sempre prodotto in Italia, Crepino gli artisti; nel 1988, Qui non ci torno più, rappresentato per la prima volta al Teatro Studio di Milano.
Kantor è al centro del proprio spettacolo, vestito di nero, senza mai prendere la parola, come uno di quei personaggi pensosi che negli antichi quadri osservano la scena effigiata, esterni e interni a essa, termini medi fra gli attori e gli spettatori. È una soluzione che Kantor ha adottato in tutti i suoi spettacoli, da La classe morta in poi. Da un lato è il drammaturgo-regista in scena (come nella famosa quattrocentesca miniatura della Rappresentazione del Martirio di Santa Apollonia, dove J. Fouquet ha effigiato un maestro col libro aperto davanti e una bacchetta in mano, quasi stesse dirigendo gli attori dall'interno dello spettacolo). Dall'altro è un'indicazione fantastica: lo spettacolo è la materializzazione di quel che l'artista sta pensando. In Qui non ci torno più una fila di porte delimita il fondo del palcoscenico, come nel Revisore di N.V. Gogol' messo in scena da V.E. Mejerchol'd nel 1926, uno degli spettacoli-simbolo del Novecento. Kantor dunque è seduto al centro, e improvvisamente, come per un'emorragia della scena, dalle porte traboccano personaggi e figure provenienti da tutti i precedenti spettacoli dell'artista, s'incrociano, recitano come fantasmi, lo assediano. Ritornano le figure de La classe morta e di Wielopole/Wielopole, esseri trasecolati, come statue di gesso semoventi e impolverate, conservate nella penombra della memoria, dove vivono i morti e il passato, dove riecheggiano canti e ricordi che stringono il cuore. Ma tutto questo − sia quando la scena è occupata dai banchi di scuola dove siedono gli invecchiati compagni dell'autore ne La classe morta, sia quando riappaiono sul palcoscenico le staccionate e le allucinazioni del paese natale Wielopole, attraversato dalle manie, dai gesti misteriosi e disperati di tutti i giorni, dai fantasmi della guerra − tutto questo non è mai intimista e sentimentale. È invece crudele come un mondo spogliato dalla psicologia, disseccato nelle sue essenze fisiche e metafisiche. Il t. inventato da Kantor riesce a conciliare gli opposti: memoria soggettiva talmente individuata e distillata da cristallizzarsi in immagini archetipiche. Attori talmente spersonalizzati, talmente capaci di farsi opere d'arte figurativa, da vibrare d'una vita intensa e organica, tanto più efficace, nell'infettare lo spettatore, quanto più è imprigionata dalla sua forma. Kantor muore settantacinquenne nel dicembre del 1990, quando ha quasi terminato di comporre in Francia (co-produzione italiana) quello che prevede come il suo ultimo spettacolo: Aujourd'hui c'est mon anniversaire. Lo spettacolo va in scena nel gennaio del 1991, ma non può essere come è stato concepito dall'autore: al centro la figura del suo poeta-artigiano non c'è più. Sulla stampa, artisti e intellettuali di diversi paesi dibattono pro o contro i diritti d'un t. che deve sopravvivere al suo autore e che sopravvivendo sembra tradirlo.
Nel periodo che va dalla fine degli anni Settanta all'inizio dei Novanta scompaiono gli ultimi testimoni diretti dell'avventura del t. francese iniziata da J. Copeau: muore nel 1980 V. Tessier quasi novantenne, che accanto a Copeau aveva recitato la Célimène del Misanthrope di Molière e la Périchole della Carrosse du Saint-Sacrament di P. Mérimée; muoiono nel 1994 M.-H. Dasté e J. Dasté, preceduti da J.-L. Barrault, che era stato allievo-prodigio e collaboratore di E. Decroux, amico di A. Artaud. Decroux è morto novantaduenne nel marzo del 1991. Fu uno dei massimi maestri del teatro novecentesco, inventore dell'arte e della scienza del mimo, un protagonista quasi mai presente alla superficie di quel t. che fa successo e notizia su per i giornali. Dei t. che hanno fatto la storia della scena novecentesca, si disfa in questi anni anche il Teatr Laboratorium di J. Grotowski (v. App. IV, ii, p. 119), intrecciando la sua scomparsa alle tragiche e premonitrici vicende polacche, fra il 1978, quando K. Wojtyla diventa papa, e il 1980, con il movimento di Solidarność; fra la dittatura di W.W. Jaruzelski nel 1981 e L. Walesa, leader di Solidarność, presidente della Repubblica polacca nel 1990; muore nel 1981 A. Jaholkowski, che era stato al centro di tutti gli spettacoli che avevano fatto la rivoluzione del t. di Grotowski. Nel 1982 Grotowski abbandona definitivamente la Polonia e diventa apolide. Nel 1984 il Teatr Laboratorium viene ufficialmente chiuso per decisione di coloro, fra i suoi membri fondatori, che sono rimasti cittadini polacchi: non vi è più il loro leader, alcuni compagni sono scomparsi (sono morti anche J. Zmyslowski e S. Scierski, suicida. Morirà poco dopo, in un incidente d'auto tale da non escludere l'ipotesi del suicidio, Z. Cynkutis, il protagonista del Dr Faustus del 1963). L'atmosfera in Polonia pare spesso senza uscita. R. Cieslak riesce a lavorare molto all'estero (abbiamo parlato della sua collaborazione con P. Brook); muore negli Stati Uniti di cancro al polmone, nel giugno del 1990, a 53 anni. Nel 1985, sessantenne, è morto J. Beck, che assieme a J. Malina aveva fondato il Living Theatre. Negli ultimi anni si è pagato le cure mediche interpretando magistrali o autoironiche caratterizzazioni in sontuosi film hollywoodiani. Dopo la sua scomparsa, J. Malina e H. Reznikov tengono in attività il Living con nuovi spettacoli e nuove tournées (Tablets, 1989; A German requiem, 1990; Rules of civility and decent behavior in company and in conversation da G. Washington, 1991; Waste, 1991; The zero method, 1992; Anarchia, 1993; Not in my name, 1994). La memoria del proprio passato, della propria strategia di t. ribelle ed efficace, cominciò a essere trasmessa dal Living fin dal 1979, quando pose in scena Prometeo, uno spettacolo dove la reinvenzione della tragedia attribuita a Eschilo si alternava alla rappresentazione della Rivoluzione russa, mentre in luogo del terzo atto Beck e Malina invitavano gli spettatori a recarsi con loro di fronte alle carceri della città per un silenzioso sit-in. Dopo la morte di Beck, l'italiana S. Urbani si dedica alla trasmissione della memoria del Living Theatre: organizza seminari in cui rimette efficacemente in scena Mysteries and smaller pieces secondo la partitura originaria; raccoglie e cataloga materiali d'archivio. Muore suicida a Bologna nel dicembre del 1993. Nel luglio del 1994 muore a quasi novant'anni H. Zuolin, regista del Teatro del Popolo di Shangai, colui che fin dagli anni Trenta aveva introdotto Brecht in Cina, traducendone gli scritti sullo straniamento, dove Brecht s'ispirava alla recitazione cinese dopo aver visto le dimostrazioni di Mei Lanfan. Nel 1989, a 82 anni, alla fine d'una carriera soddisfatta, è morto L. Olivier (v. in questa Appendice), uno dei più grandi attori della seconda metà del secolo. Nel 1983 ha registrato per la televisione il King Lear, incastonando il proprio prezioso lavoro di vegliardo, una memorabile invenzione drammaturgica del personaggio protagonista, in un contesto di routine televisiva a bassa qualità. Seguendo il comportamento tradizionale dei grandi attori, conclude la carriera pubblicando le proprie memorie (Confessions of an actor, 1982) e un libro di ricordi professionali (On acting, 1986). Scompaiono negli stessi mesi le ultime testimoni dei tempi pirandelliani: V. Vergani, a 92 anni, nel 1989 la prima interprete della Figliastra in Sei personaggi; nel 1988, ottantottenne, è morta M. Abba, l'interprete amatissima da Pirandello dal tempo della fondazione del Teatro d'Arte di Roma (1925). Amareggiata nei confronti del t. italiano, da cui è stata sordamente rifiutata dopo la morte di Pirandello, nel cinquantenario dalla scomparsa dello scrittore lascia l'intero epistolario pirandelliano in suo possesso all'università di Princeton, privandone l'Italia, e privandolo, di fatto, della necessaria filologia (le lettere vengono pubblicate da Mondadori nel 1995, a cura di B. Ortolani).
Nell'ottobre del 1984 è morto ottantaquattrenne E. De Filippo (v. in questa Appendice). Nella sua ultima apparizione in pubblico, nel settembre, a Taormina, aveva parlato del t. e del gelo con quel misto di sentimentalismo di maniera e di acre disincanto che gli erano propri: "Se io non fossi stato sfuggente, se non fossi stato uno che si mette da parte, non avrei potuto scrivere cinquantacinque commedie... Perché fare teatro sul serio significa sacrificare una vita. Sono cresciuti i figli e non me ne sono accorto... È stata tutta una vita di sacrifici e di gelo! Così si fa il teatro. Così ho fatto. Ma il cuore ha tremato sempre, tutte le sere, tutte le prime rappresentazioni". Aveva poi parlato di suo figlio Luca, nel quale la sua tradizione d'attore si perpetuava. Era quello stesso erede, oggi attore e capocomico importante, che egli aveva presentato bambino al pubblico nel 1955, in occasione di una ripresa televisiva di Miseria e nobiltà, la famosa commedia del padre di Eduardo, E. Scarpetta. Massimo esponente della tradizione del t. napoletano, negli ultimi decenni della carriera Eduardo (veniva infatti designato per fama col solo nome) fu riconosciuto come il più grande uomo di t. italiano vivente. Nel 1981 era stato nominato dal presidente della Repubblica senatore a vita, dopo aver ricevuto lauree honoris causa e il premio Feltrinelli dell'Accademia dei Lincei. Come senatore non si dedicò ai problemi del t., ma tentò di migliorare le condizioni del carcere minorile Filangieri di Napoli. Impartì lezioni di drammaturgia all'università di Roma, chiamatovi da F. Marotti, con il quale collaborò anche per la sua ultima opera teatrale: la traduzione de La tempesta di Shakespeare in una lingua napoletana arcaica e reinventata. Eduardo recitò egli stesso quella traduzione, registrando le battute di tutti i personaggi e realizzando un'interpretazione sonora dell'intera opera, quasi terminata quand'egli morì. La tempesta interpretata dalla sua voce e dalle marionette di E. Monti Colli è andata in scena postuma al festival del t. di Venezia nell'ottobre del 1985. Eduardo è stato il primo drammaturgo a divenire un classico anche come attore: classico nel senso proprio della parola, come opera che si può frequentare senza limiti, viva nel tempo senza tempo della tradizione. Così come si possono leggere le sue commedie (continuamente riedite), anche le sue interpretazioni possono essere viste, riviste e commentate. Mediante la televisione e le videocassette l'arte di Eduardo autore-interprete si è infatti stabilmente insediata nella memoria anche di spettatori che non hanno mai potuto vederlo dal vivo.
Teatro e spettacolo. - Negli ultimi decenni del Novecento si è manifestata con particolare evidenza la possibilità d'uno scisma virtualmente presente già fin dall'inizio, soprattutto in alcuni aspetti dell'opera di maestri del rinnovamento teatrale come K.S. Stanislavskij, E.G. Craig e J. Copeau, ma ora aperto e deliberato: lo scisma fra t. e spettacolo. Ciò significa che nella cultura di fine Novecento la presenza del t. può anche prescindere dalla rappresentazione e fors'anche dalla presentazione. E. Barba parla, in un capitolo del suo La canoa di carta, della "deriva degli esercizi", che possono a volte idealmente spostarsi lontano dal "continente" delle prove e degli spettacoli, divenendo quasi fine a se stessi, come un modo d'esperire la quintessenza del t., indipendentemente dalla loro originaria funzione propedeutica. Tale fenomeno, che può parere frutto di una disfunzione, d'un perdersi fra le procedure preparatorie, presenta un'altra faccia: la scoperta d'un valore intrinseco al lavoro teatrale: intrinseco nel senso che l'attore stesso può essere fruitore della sua azione, sicché (il passo è breve, almeno come pensiero) essa, l'azione, può esser solo per chi la compie, senza bisogno di finalizzarla a chi deve vederla dall'esterno.
J. Grotowski, nel momento in cui dichiarò di non lavorare più alla composizione di spettacoli, richiamò l'attenzione sul fatto semplice ma quasi sempre trascurato che l'attore è anch'egli uno dei fruitori dell'azione che compie e che fruisce dall'interno. Tale azione può essere talmente sottile ed efficace per chi la compie da indebolirsi o degenerare se è contemporaneamente modellata per essere efficace anche agli occhi e per i sensi d'uno spettatore.
Dal 1986, dopo aver lavorato in California (Irvine University), Grotowski risiede in Italia, presso Pontedera, dove ha fondato, con il sostegno del Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale, il Workcenter of Jerzy Grotowski. È ormai per lui lontanissima l'idea di far spettacoli. L'arte di Grotowski − ebbe a dire P. Brook − è oggi il veicolo per qualcosa d'altro. E Grotowski si è affrettato a prendere l'espressione "arte come veicolo" quale definizione della sua attuale ricerca. Distingue così il lavoro che ora sta svolgendo da quello legato alle arti della rappresentazione: "Dal punto di vista degli elementi tecnici, ne ''L'arte come veicolo'' tutto è quasi come nelle performing arts; lavoriamo sul canto, sugli impulsi, sulle forme in movimento, appaiono anche elementi testuali. E tutto riducendosi allo stretto necessario, fino a creare una struttura altrettanto precisa e finita come nello spettacolo: Azione ... La differenza sta nella sede del montaggio. Nello spettacolo la sede del montaggio è nello spettatore; ne ''L'arte come veicolo'' la sede del montaggio è negli attuanti, negli artisti che agiscono ... Ne ''L'arte come veicolo'' l'impatto sull'attuante è il risultato". Una pratica teatrale senza fine di spettacolo in fondo non è più strana di un'arte marziale senza fine di sangue. Grotowski stabilisce insomma l'indipendenza della pratica teatrale (o attorica) dai suoi fini tradizionali, non diversamente da come le ''arti marziali'' hanno ormai senso soprattutto per chi le esercita. Inoltre, con un gesto innovatore di cui è ancora difficile comprendere tutte le conseguenze culturali, il sapere sottile o iniziatico, che tradizionalmente si è sempre allogato nelle confessioni religiose, o all'ombra delle scienze psicologiche o antropologiche, viene esplicitamente insediato da Grotowski all'ombra del contesto teatrale. È forse la più radicale trasmutazione di valori che si sia avuta nel t. novecentesco. Grotowski, dopo il rinnovamento da lui impresso al t. negli anni Sessanta, è divenuto alla fine del 20° secolo l'esempio storicamente più significativo, più coerente, laico ed estremo d'un modo d'abitare il t. che troviamo virtualmente attivo fin dalla fine dell'Ottocento e che crea il valore profondo umbratile e sottile di quel fenomeno che siamo soliti indicare e dissimulare − spesso addirittura banalizzare − come ''ricerca'' o ''riforma''. Basti pensare a esperienze come quelle di K.S. Stanislavskij e di A. Artaud.
Anche in questo caso, l'apparente isolarsi d'un avamposto teatrale è in realtà il segno d'un'energia che s'incrementa attraverso significative differenze all'interno dei teatri. Quanto più si rafforza la coscienza della possibile efficacia delle pratiche teatrali (attoriche) dal punto di vista del soggetto che le compie, tanto più, sull'altro piatto della bilancia, si rafforza la coscienza di quell'arte dello spettatore che è il frutto dello spettacolo. Quei modi di dire secondo i quali ''spettacolo'' è qualcosa che fa appello all'emotività di superficie invece che al raziocinio, qualcosa di grosso, colorato, chiassoso; quelle espressioni come ''società dello spettacolo'', ''politica-spettacolo'' che indicano la tirannide dell'apparenza, della vacuità, della vivacità al posto della vita, inducono a dimenticare che spettacolo in senso forte vuol dire messa in osservazione, arte dell'analisi e della scossa che permette allo spettatore di osservare con occhio nuovo, divertito o sgomento, una realtà vivisezionata e poi ricomposta secondo principi simili a quelli che il poeta applica alla lingua quotidiana. Invece i politici − o i giornalisti, o i sacerdoti − che, come si dice, ''fanno spettacolo'' non usano nessuna delle tecniche d'un buon professionista dello spettacolo: non ''mettono in osservazione'', ma annebbiano, gonfiano, confondono.
È possibile selezionare, fra gli spettacoli di fine Novecento, gli esempi di diversi itinerari analitici e percettivi. A prima vista emerge una tendenza verso lo spettacolo d'eccezione, che dilata il tempo o lo spazio dedicato normalmente al t. e per ciò stesso muta e deforma il modo ''normale'' d'esser spettatore. Si è detto del Mahabharata di P. Brook, si dirà di Ignorabimus di L. Ronconi, ma si dovrà ricordare anche la notte dell'Orestea di Eschilo messa in scena da P. Stein nel 1980, o quella de Le Soulier de satin di P. Claudel messa in scena da A. Vitez nel 1987, o − lo stesso anno − l'Indiade di A. Mnouchkine. Gli spettacoli che utilizzano un'unità di misura temporale che s'incontra nell'antico t. ateniese o che è usuale per le forme di t. classico asiatico, sono l'esempio d'una diffusa tendenza a erodere i confini dello spettacolo considerato come opus chiuso in limiti precisi.
Un altro caso che mostra mutata l'unità di misura teatrale è lo ''spettacolo-progetto'' che si diluisce in un lungo periodo di tempo senza una vera e propria distinzione fra processo e punto di arrivo. È un modo d'essere del t. che non potrebbe adattarsi a un'economia basata sui biglietti pagati dagli spettatori, ma che s'adatta invece benissimo a un'economia di sovvenzioni. In questo caso, infatti, ciò che ''rende'' è la fama, il rimbombo culturale o giornalistico del progetto, o in altre parole l'immagine che esso riverbera degli organizzatori. Ma vi sono casi in cui la spesa ha vera fecondità culturale. O potrebbe averla. Si pensi, per es., al ''progetto'' per le Troiane di Euripide diretto da T. Salmon nel 1987-88, o al ''progetto'' intorno a Ciascuno a suo modo di L. Pirandello del regista russo A. Vasil'ev in collaborazione con la Scuola d'arte drammatica di Mosca (diretta da Vasil'ev) e con il Centro Teatro Ateneo dell'università di Roma, conclusosi dopo circa due anni di lavoro fra Roma e Mosca nella primavera del 1993. E si pensi, soprattutto, al Progetto Faust, diretto da G. Strehler (v. in questa Appendice) al Piccolo Teatro di Milano, concepito per la nuova sala del Teatro-Studio (inizia nell'ottobre 1987; nel giugno 1988 Strehler legge e interpreta il personaggio di Faust in una serie di rappresentazioni intitolate Faust frammenti; l'anno dopo mette in scena la ricerca-spettacolo Faust, Frammenti parte prima; e nell'aprile 1991: Faust. Frammenti parte seconda). Nello spettacolo-progetto, la dimensione dell'opera conclusa e quella del laboratorio, la rappresentazione e le prove, tendono a confondersi, e soprattutto il prodotto si dispone su un ampio arco di tempo, non è semplicemente qualcosa a cui si assiste, ma qualcosa a cui si prende parte.
Fra gli itinerari teatrali più interessanti fra la fine degli anni Settanta e l'inizio dei Novanta, sceglieremo pochi esempi, costretti per economia di discorso a non elencare vicende altrettanto significative. Non parleremo, soprattutto, di uno dei grandi creatori rivelatisi alla fine dei Sessanta, R. Wilson, che continua la sua attività con la stessa originalità dei primi anni, esplorando i confini fra danza e t., t. in musica e spettacolo scenografico (Wilson è creatore di spazi scenici d'indimenticabile pregnanza). Né parleremo di P. Bausch, che in base alle ripartizioni tradizionali apparterrebbe alla danza, e che invece l'artificiale frontiera fra t. e danza ha contribuito più d'ogni altro artista del Novecento ad abbattere, tant'è che avremmo potuto collocarla in posizione equivalente a quella di Kantor. Non parleremo, inoltre, di M. Castri; di A. Vitez; di K.M. Gruber; di P. Zadek; ma più di un cenno richiede il percorso di A. Wajda (v. App. IV, iii, p. 850), autore di riduzioni teatrali da F. Dostoevskij ambientate (come in un set cinematografico) a due passi dagli spettatori, a volte improvvisate (nel senso che gli attori sceglievano di sera in sera quali episodi raccontare nella loro conversazione a ridosso degli spettatori, come in Nastassia Filippovna del 1981). Per gli spettatori la recitazione intensa e verosimile risulta vita colta sul fatto, ricca di concentrazione e semplicità, in cui l'angoscia e il sacro sembrano sbocciare dall'intensità e dall'oggettualità degli sguardi (com'era soprattutto in Delitto e castigo del 1986). È una strada in cui la tradizione del realismo s'incrocia con le indicazioni delle composizioni sceniche grotowskiane e del loro rapporto fra attori e spettatori. Pratica una simile ricerca anche il regista statunitense A. Gregory, fondatore del t. Manhattan Project, che mette in scena in un appartamento Zio Vania di A. Čechov (lo spettacolo viene filmato da L. Malle nel 1994). Un cenno, inoltre, a V. Garcia o a C. Lievi, attivo − più che in Italia − nei paesi di lingua tedesca; a C. Peymann; o al giovane statunitense P. Sellars, rivelatosi come un geniale regista di trovate spettacolari, capace di coniugare la sensibilità della cultura postmoderna con il gusto della rappresentazione di classici sia dell'opera lirica che del t. di prosa (nel 1980 si rivela con una messinscena di The inspector general (Il revisore) di Gogol'; nel 1982 mette in scena, creando scandalo e sensazione, l'Orlando di G.F. Händel; nel 1983, Le visioni di Simone Machard di Brecht; passa a dirigere nel 1983-84 la The Boston Shakespeare Company, e poi l'American National Company al Lincoln Center di Washington, dove nel 1985 mette in scena l'adattamento teatrale de Il Conte di Montecristo di A. Dumas. Nel 1994 presenta un Mercante di Venezia di Shakespeare ambientato nella società informatica, dove Shylock, l'ebreo shakespeariano, è interpretato da un attore di colore (ma non per indifferenza alla razza, come negli spettacoli di Brook, o come nel film di K. Branagh su Much ado about nothing, del 1993, dove D. Washington impersona il duca, ma proprio per sottolineare una differenza razziale nel modo oggi più evidente o ovvio, secondo una visione del t. come esteriorizzazione ed enfatizzazione dell'implicito. Con altrettanto gusto per l'evidenza, e minore ingenuità, O. Welles aveva messo in scena nel 1936 un Macbeth nero come il Cristophe di Haiti).
Dall'URSS che sta per sciogliersi, s'impone all'attenzione internazionale, alla fine degli anni Ottanta, un artista che sembra essere l'erede della civiltà dostoevskiana e stanislavskiana: A. Vasil'ev. Con i giovani attori della Scuola d'arte drammatica di Mosca mette in scena Sei personaggi in cerca d'autore, spettacolo che riscuote grande successo e nel 1987-88 va in tournée nelle principali capitali del t. europeo, dove viene anche rappresentato un suo spettacolo sperimentale e ambizioso, il fluviale Cerceau di V. Slavkin. Sei personaggi in cerca d'autore era invece uno spettacolo straordinario, che faceva piazza pulita di tutta la retorica del pirandellismo e sapeva rivitalizzare il carattere trasmutabile del capolavoro pirandelliano e il suo nocciolo di dolore e vergogna con pochi giovani attori frammisti agli spettatori, capaci di commuovere senza giochi di messinscena, ma per la pura forza della recitazione. Divenuto una celebrità, Vasil'ev rischia d'essere imprigionato nell'effervescenza occidentale per la riscoperta del t. russo seguita al fatidico Ottantanove. Rischia insomma un'avventura a specchio con quella di J.P. Ljubimov (v. App. IV, ii, p. 349), eccezionale ricercatore mejercholdiano e dissidente in URSS, fondatore del Teatro Taganka, fuoriuscito negli anni Ottanta e impantanato in ambienti teatrali occidentali (soprattutto in Italia) dove il suo lavoro presto annoiò, apparve come avanguardia invecchiata e già vista, e venne lasciato cadere.
L'impressione che in questi anni le novità più importanti vengano dall'evoluzione e dalle metamorfosi dei ''vecchi'' è corroborata dall'itinerario di I. Bergman (v. in questa Appendice), che sembra muoversi pericolosamente fra una forma di tradizionalismo ingenuo e improvvisi ardimenti innovatori, o folgorazioni rivelatrici. Al Teatro Reale di Stoccolma dirige nel 1984 un King Lear di Shakespeare di tono cerimoniale, dove tutti i personaggi restano costantemente in scena; nel 1986 mette in scena Fröken Julie (La signorina Giulia) di A. Strindberg, e quindi un Hamlet interpretato da P. Stormare, che all'inizio si presenta come uno dei giovani che in quegli anni vengono detti seguaci della moda dark, e poi − quando il principe di Danimarca torna dall'Inghilterra −sembra il ritratto da giovane del suo anziano regista. La solidarietà con gli attori è la sola aria buona che l'Amleto di Bergman sembra respirare, in un miscuglio di costumi antichi e moderni, su un palcoscenico dove i morti tornano senza meraviglia alcuna a sorvegliare i vivi, così come avveniva nei ricchi appartamenti di Fanny & Alexander, il film conclusivo del 1982. Nel 1991 mette in scena Peer Gynt di H. Ibsen. Nel 1989 aveva diretto Long day's journey into night (Lungo viaggio del giorno verso la notte) il dramma autobiografico e postumo di E. O'Neill, rappresentato con apparente semplicità, ma con un senso del ritmo sui tempi lunghi che arriva a modellare veramente l'attenzione e la percezione dello spettatore: una monotona lunga parte dello spettacolo lasciata nella verosimiglianza d'una recitazione di buona qualità ma priva di invenzioni (verosimiglianza che si direbbe cinematografica o televisiva), per poi sorprendere, dopo un percorso di quasi 4 ore, con un pre-finale in cui si passa dall'oltraggio naturalista e psicanalitico al buffo, per approdare al finale, quando l'apparizione della madre morfinomane persa nei suoi ricordi d'adolescenza diventa non già una scena tragica e di pietà, ma − per il protagonista, per O'Neill, per Bergman, per noi − la contemplazione quasi sacra, l'impossibile esperienza che un figlio ha di sua madre all'epoca della di lei verginità.
Regista politicamente impegnato a sinistra e perciò dedito soprattutto ai classici, P. Stein (v. in questa Appendice), dopo l'Orestea del 1980, mette in scena nel 1983 Les Nègres di J. Genet a Berlino; nel 1984 Le tre sorelle di A. Čechov; nel 1989, in Italia, Titus Andronicus di Shakespeare. Nel 1990, a Berlino, viene rappresentato Roberto Zucco di B.-M. Koltès, un fatto di sangue, rivolta e suicidio tradotto dall'attualità alla cronaca tragica. È la ricerca di fondo di Stein: la tragedia come strumento per capire in forme nitide il presente, un t. di chiaroveggenza, legato all'esperienza del Berliner, ma anche al senso della ferocia sociale e all'orrore per la storia che caratterizza la tragedia elisabettiana, come nella grande regia del Julius Caesar di Shakespeare per il Festival di Salisburgo, nel luglio 1992.
Simile negli intenti, diversissimo nelle scelte estetiche e stilistiche, l'itinerario in questi anni di A. Mnouchkine (v. App. IV, ii, p. 491), che nel 1979 mette in scena, con i colori del realismo storico, su due palcoscenici affrontati, una riduzione di Mephisto di K. Mann, e nel 1982 inizia un processo che appare di sincretismo scenico ed è in realtà di teatralizzazione, mettendo in scena, di Shakespeare, un Riccardo II in vesti kabuki e La dodicesima notte trasferita in un'atmosfera islamica. Nel 1985 inizia il suo sodalizio con la drammaturga H. Cixous, con la quale compone un lungo spettacolo storico dedicato a L'histoire terrible mais inachevée de Norodom Sihanouk, roi du Cambodge; e nel 1987, L'Indiade, ou l'Inde de leurs rêves. Nel 1992 (traduzione di Cixous) mette in scena Le Eumenidi di Eschilo, servendosi anche in questo caso di parvenze sceniche attinte ai t. classici asiatici, riconosciuti come depositari d'un sapere teatrale superiore a quello della tradizione europea. Del 1994 è La ville parjure, un testo sempre di Cixous.
In Giappone, nel 1976, il regista e teorico T. Suzuki abbandona Tokyo e si reca a lavorare nel villaggio di Toga, nella prefettura di Toyama. Legato alle tradizioni dei t. classici giapponesi, si dedica soprattutto a riadattare e mettere in scena classici del t. occidentale: Le Baccanti di Euripide (1978), una Clitemnestra nel 1983, una sintesi de Le tre sorelle di A. Čechov e Finale di partita di S. Beckett, uno spettacolo sul tema di Re Lear (Tale of Lear) in versione bilingue, con attori giapponesi e americani, nel 1988.
In Italia, sono particolarmente significativi, tra gli artisti affermatisi negli anni precedenti, L. De Berardinis, il teatro ''Magazzini'' e naturalmente C. Bene. De Berardinis, riemerso dopo una lunga crisi personale e professionale, raduna attorno a sé una scuola di giovani, s'impegna, come si dice in gergo, a "far compagnia" rinunciando alle comodità delle performances solitarie nelle quali potrebbe sfruttare il proprio prestigio di caposcuola dell'avanguardia italiana degli anni Sessanta e Settanta. Nel gennaio del 1987 mette in scena (come attore, regista e drammaturgo) Novecento e Mille, uno spettacolo che rievoca il secolo quasi trascorso attraverso scene di t. e pagine di libri (i sei Personaggi del capolavoro pirandelliano entrano in scena interrompendo le prove di Aspettando Godot). Nel 1989, assieme ad A. Neiwiller (v. sopra), compone e recita Ha da passà 'a nuttata, un viaggio nel t. e nella Napoli di Eduardo. Neiwiller, senza truccare né voce né fisionomia, recita il monologo di Filumena Marturano, che è una delle poche pagine classiche della drammaturgia novecentesca italiana. Con questo spettacolo, De Berardinis partecipa al Festival dei Due Mondi di Spoleto e vince il premio dell'associazione dei critici teatrali italiani, quegli stessi che per anni l'hanno ignorato o a volte sbeffeggiato. Nel 1990, sempre con Neiwiller, inventa Totò, principe di Danimarca, e nel 1993 interpreta la parte di Ilse ne I giganti della montagna di L. Pirandello. È uno dei rari casi in cui recita un testo preesistente, senza operare lui stesso la propria scrittura in scena. De Berardinis, che per anni ha fatto coppia con P. Peragallo, ha attraversato l'emarginazione teatrale e il degrado dell'entroterra napoletano, il profondo malessere personale e l'afasia da artista. Ora che tutti gli riconoscono il posto che gli spetta nella nostra cultura, fa della sua compagnia l'equivalente d'una scuola di t., e interpreta la parte d'un'attrice che s'addentra imperterrita fra chi il t. non lo capisce. Alla fine del 1994, torna a uno spettacolo inventato in proprio, Il ritorno di Scaramouche, dove reimmagina per sé la Commedia dell'Arte, recita i tipi di Scaramuccia e di Pantalone e soprattutto brani di Molière (che da Scaramuccia seppe molto imparare). E a un certo punto, abbandonando il palcoscenico, si dirige direttamente verso gli spettatori in platea, si toglie la maschera, e recita loro la gran lode di Don Giovanni all'ipocrisia.
Il t. ''Magazzini'', fondato dal regista-attore-drammaturgo F. Tiezzi e dagli attori S. Lombardi e M. D'Amburgo, si chiamava fino al 1985 ''Magazzini Criminali'' (è questo il t. contro il quale si scatenò la campagna giornalistica di calunnie alla quale sopra s'è fatto cenno parlando degli anni Ottanta in Italia). Nel 1980 ''Magazzini Criminali'' mettono in scena Crollo nervoso, l'ultimo spettacolo che segue le convenzioni dell'avanguardia. Dopo i postmoderni Sulla strada e Congo, del 1982, nel 1984 Tiezzi scrive e dirige Genet a Tangeri, avviandosi alla composizione di un t. di poesia, che per la messinscena si rifà sempre più chiaramente all'eredità di G. Craig e all'ideale del t. giapponese. Nel 1987 Tiezzi dirige Come è di S. Beckett e nel 1988 Hamletmaschine di H. Müller. Nel 1989 inizia infine un progetto che prevede la messinscena di tre spettacoli dedicati alla drammatizzazione delle tre cantiche della Commedia di Dante, adattate da importanti poeti italiani. E. Sanguineti (che una ventina d'anni prima aveva adattato per L. Ronconi l'Orlando furioso) prepara per F. Tiezzi regista e S. Lombardi primattore la Commedia dell'Inferno. Un travestimento dantesco, che va in scena al Fabbricone di Prato nel giugno 1989. Seguono, nel 1990, Purgatorio, la notte lava la mente. Drammaturgia di un'ascensione, di M. Luzi, e nel 1991 Il Paradiso. Perché mi vinse il lume d'esta stella, di G. Giudici. Dei tre, è certamente il ''travestimento'' di Sanguineti l'opera di maggior pregio, mentre è nella messinscena del Paradiso che Tiezzi riesce a materializzare sul palcoscenico l'equivalente delle semplicissime meraviglie inventate da G. Craig nei primi decenni del 20° secolo. Il teatro di poesia (A. Manzoni, P.P. Pasolini, G. Testori) diventa per Tiezzi e Lombardi quel che era stato l'estremismo d'avanguardia negli anni Settanta: un modo per allontanarsi dalle forme di t. egemoni e per mirare in alto o in basso, evitando la mediocre virtù della medietà.
C. Bene (v. App. IV, i, p. 247), un grande del t. italiano d'attore nella seconda metà del Novecento, paragonabile solo a E. De Filippo e a D. Fo per la sua capacità d'essere uomo-t., persegue un t. di poesia come annullamento dello spessore del dramma, della consistenza del personaggio e persino della complessità psicologica dell'attore. Recita nel 1979 e nel 1985 un Otello prosciugato, e sempre nel 1979 il Manfred di G. Byron all'Accademia di Santa Cecilia, con la musica di R. Schumann. Compie letture d'eccezione di Dante, D. Campana, G. Leopardi, F. Hölderlin. Nel 1981 riprende ancora una volta, con variazioni ''gradevoli'', il Pinocchio, lo spettacolo che l'aveva portato al successo d'avanguardia nei primi anni Sessanta. Nel 1983 recita un Macbeth ridotto a meno di un'ora, centrato sul monologo in cui la vita viene detta un sogno sognato da un pazzo. I suoi spettacoli sono sempre più spesso brevi apparizioni folgoranti che ad alcuni paiono la quintessenza del t. del nostro tempo, e altri giudicano poco meno d'una presa in giro. Torna più volte a leggere l'Egmont di W. Goethe e l'Adelchi di A. Manzoni, e a portare in scena tronconi di testi già recitati nella prima parte della sua carriera (Lorenzaccio da A. de Musset nel 1987, La cena delle beffe da S. Benelli nel 1988, Amleto nel 1987 e nel 1994, soprattutto basandosi sulla rilettura di J. Laforgue). Fa notare che a proposito dei suoi personaggi si dovrebbe dire "togliere" piuttosto che "mettere" in scena. Spesso le letture o le recite di C. Bene avvengono in serate eccezionali: legge Dante dalla Torre degli Asinelli di Bologna, recita poesie alternandosi con E. De Filippo al Palaeur di Roma e al Teatro Verdi di Pisa, nel novembre del 1981 e nel marzo del 1982, quasi in un incontro fra consanguinei. Trasforma invece in una rissa il seminario del gennaio 1984, al Teatro Argentina di Roma, assieme a V. Gassman, da lui giudicato un attore immeritevole della propria fama. Quando compare in televisione, approfitta dell'ignoranza dei suoi critici per scatenare violenze verbali (è quel che s'aspettano da lui i ''moderatori'' televisivi che lo invitano, ma Bene mostra con qual altra altezza d'ingegno si possa mettere in scena il litigio, che viene tutte le sere strapagato e mediocremente esercitato dai nuovi divi dell'intellettualità sboccata). Nel 1988-89 Bene è chiamato a dirigere la sezione Teatro della Biennale di Venezia, messa in crisi dall'occupazione selvaggia dei partiti e delle loro fazioni. Viene chiamato come una ''stranezza'', come nome prestigioso all'estero e scandaloso in Italia. Bene fa infatti scandalo, ma non senza una logica. Dice di non voler invitare critici; che il t. non è fatto per loro. Dice di voler ''far teatro'' compiendo ricerche d'arte, ma senza dare spettacoli. Spende molti soldi. Se ne deve andare, e la storia chiassosa finisce in processo.
Un caso eccezionale e significativo nel panorama teatrale di fine secolo è costituito dall'alta capacità produttiva di L. Ronconi (v. App. IV, iii, p. 247), che esplora un amplissimo repertorio teatrale, cerca di sperimentare la teatralità dei testi irrapresentati e considerati irrapresentabili, lavora sulla messinscena dei generi teatrali e sulla teatralizzazione di spazi non teatrali. Organizza grandi costosissimi eventi come Ignorabimus o Gli ultimi giorni dell'umanità, e spettacoli ''poveri'' come La serva amorosa. Costituisce, da solo, un piccolo universo teatrale che (com'era stato quello di M. Reinhardt) si muove a tutti i livelli produttivi con una velocità che ha del prodigioso e imprimendo un'impronta personale e inconfondibile alle scelte più diverse.
Nel laboratorio del Fabbricone di Prato, Ronconi mette in scena, nel 1978, Le Baccanti di Euripide in uno spettacolo dislocato nei diversi anditi d'un palazzo, per gruppi di pochissimi spettatori. Pochi mesi dopo, sempre a Prato, mette in scena la prima e la seconda parte di Calderón di P.P. Pasolini, con le scene di G. Aulenti. Di Pasolini, nel 1993-94, realizza al Teatro Stabile di Torino da lui diretto Affabulazione, Pilade, e di nuovo Calderón. Prosegue l'esplorazione del più grande drammaturgo del Seicento italiano, il G.B. Andreini del quale aveva fatto scoprire nel 1972 La Centaura, messa in scena con gli allievi dell'Accademia d'arte drammatica Silvio d'Amico in uno Studio di Cinecittà. Di Andreini Ronconi mette in scena nel 1984, alla Biennale di Venezia, la spropositata Le due commedie in commedia, e, ancora una volta con gli allievi dell'Accademia, Amor nello specchio (1987). Si afferma intanto come importante regista d'opera (Das Rheingold di R. Wagner nel 1979, al Teatro Comunale di Firenze; nel febbraio del 1980, Die Walküre di Wagner, e nel dicembre Les Contes d'Hoffmann di J. Offenbach; nel 1981, Siegfried e Die Götterdämmerung di Wagner, tutti al Teatro Comunale di Firenze. Nell'agosto 1984 realiza a Pesaro una grande messinscena del Viaggio a Reims, con scene di Aulenti, ripreso alla Scala nel settembre 1985, con l'uso di grandi schermi televisivi a circuito interno, e la teatralizzazione anche dell'esterno del teatro. Nel giugno precedente aveva messo in scena alla Scala l'Orfeo di L. Rossi. A novembre, sempre del 1985, mette in scena all'Opera di Roma il Démophoon di L. Cherubini; nello stesso anno, alla Scala, l'Aida di G. Verdi). Nell'ottobre del 1986 mette in scena La serva amorosa di C. Goldoni a Perugia, movimentando lo spazio scenico con un semplicissimo ribaltamento della collocazione dei mobili, senza macchine e senza espedienti costosi. Ancora nel 1986, nel maggio, va in scena a Prato Ignorabimus di A. Holz, uno spettacolo-fiume, che si rappresenta in genere in due serate, interpretato da sole attrici anche per le parti maschili (F. Nuti, E. Aldini, M. Fabbri, A.M. Gherardi e D. Boccardo, la sola a fare una parte femminile). Le scene sono di M. Palli. Non sono semplici scene teatrali, ma costruzioni che creano un'iperbole architettonica, un ambiente altoborghese ossessivo nella sua pretesa solenne, popolato di oggetti veri, da quelli dei salotti alle vetrine del museo di un naturalista con i suoi strumenti per la misurazione scientifica. Un ambiente-museo nel quale si svolge una sorta di romanzo dialogato che sembra ricapitolare Freud e Ibsen, il naturalismo e il simbolismo, assorbendo lo spettatore nelle anse della storia malata d'una classe e d'un mondo segretamente tarato. Nel novembre 1990 Ronconi compie un'altra grande impresa scenica presentando a Torino, nell'ex sala presse del Lingotto, in uno spazio coperto dall'apparenza sterminata dove un tempo produceva la FIAT, la realizzazione integrale del romanzo in forma di dramma di K. Kraus, Gli ultimi giorni dell'umanità. Ronconi fa recitare contemporaneamente diverse parti del testo, ricostruisce gli scenari mitteleuropei dello scoppio della prima guerra mondiale, obbliga lo spettatore ad aggirarsi in un labirinto di avvenimenti entro i quali è costretto a scegliere. Fra i classici, Ronconi mette in scena L'uccellino azzurro di M. Maeterlinck nel 1979; Medea di Euripide nel 1981 (a Zurigo); John Gabriel Borkman e Spettri di H. Ibsen (1981 e 1982); testi di A. Strindberg, B. Shaw, A. Schnitzler, A.N. Ostrovskij; Fedra di J. Racine (1984), il Pluto di Aristofane (1985), e nel 1987 Il mercante di Venezia di Shakespeare (a Parigi, Comédie Frana̧ise); Mirra di V. Alfieri nel 1988 e, nello stesso anno, I dialoghi delle carmelitane di G. Bernanos, con un finale impressionante, che ribalta quella storia di monache mostrando, dopo l'esecuzione, i loro corpi accatastati nudi. L'anno dopo mette in scena Le tre sorelle di A. Čechov, e nel 1990 Strano interludio di E. O'Neill. Nel 1992, Misura per misura; nel 1993, L'affare Makropulos, di K. Čapek; nel 1994, Venezia salva di S. Weil; e sempre nel 1994, Aminta di T. Tasso, ambientata in un palcoscenico denudato, che con i suoi portoni di ferro, scale e ballatoi sembra una grande caverna o piuttosto la ricostruzione di un'isola deserta sotto il cielo, dove corrono i personaggi amorosi e crudeli immaginati da Tasso, e il lieto fine diviene ambiguo, non si saprebbe dire se inaspettato o solo immaginato da una pietosa ipocrisia. Nel 1995, primo suo spettacolo come direttore del Teatro di Roma, mette in scena un attesissimo Re Lear nella traduzione di C. Garboli (ma le intenzioni registiche non riescono in questo caso a realizzarsi); presenta anche Verso Peer Gynt, un interessante progetto d'interpretazione che egli definisce "esercizi per gli attori", con attori maturi e giovani allievi. Quest'elenco, che per quanto lungo è tuttavia lacunoso, era necessario per rappresentare i lineamenti d'una personalità teatrale che si stacca dalla routine non solo per la grande maestria tecnica e artistica, ma per l'implicita rivendicazione d'una possibile civiltà teatrale capace di squadernare il patrimonio letterario drammatico in saggi d'interpretazione in grado di esplorare tutti i labirinti della nostra scena mentale. Ronconi rappresenta un po' il contraltare di P. Brook: l'immagine di ciò che il t. potrebbe essere se riuscisse a rispondere non tanto alla fame spirituale del nostro tempo, quanto alla sua intellettualità curiosa d'inventariare tutti i meccanismi scenici e narrativi.
Teatro scritto, teatro di poesia. - La letteratura drammatica di fine secolo perde l'autonomia d'un genere assodato. È ormai quasi proibitivo scrivere t. indipendentemente dalla mira verso l'uno o l'altro dei t. possibili, e la drammaturgia torna così a essere strettamente legata a una ben individuata pratica della scena, dalla quale può staccarsi a posteriori come valore autonomo.
Questo vale per S. Shepard (drammaturgo, regista e attore: Buried child, 1979, premio Pulitzer; Seven Plays: True West, Buried child, Curse of the starving lass, The tooth of crime, La Turista, Tongues, Savage/Love, 1981, le ultime due scritte assieme al regista J. Chaikin; Fool of love, 1983, da cui il film di R. Altman del 1985; A lie of the mind, 1986); e vale anche per D. Mamet (n. nel 1947; nel 1978 direttore artistico associato del Goodman Theatre di Chicago, sceneggiatore cinematografico: American buffalo, 1975, a Broadway nel 1977 e al National Theatre di Londra nel 1978; The Woods, Il bosco, 1979; A life in the theatre, 1975; Gelgarry glen Ross, 1982; Sexual perversity in Chicago, Perversioni sessuali a Chicago, 1974, rappresentato nel 1977; Lakeboat, 1981; Oleanna, 1991, rappresentato nel 1992).
Il t. scritto tende a volte a proporsi come attività letteraria fatta per attraversare il lavoro scenico o costituire un asse attorno al quale possa coagularsi l'invenzione d'un regista. Diventa perciò essenziale, almeno al momento della prima proposizione, un efficace connubio fra lo scrittore e il regista che lo elegge come proprio punto di riferimento: è il caso dei testi scritti in un francese letterario aulico da B.-M. Koltès (morto a 41 anni nel 1989), legato inizialmente alle messinscene di P. Chéreau, per il quale ha tradotto anche The winter's tale di Shakespeare (Quai Ouest, 1985; Dans la solitude des champs de coton, 1986; Le retour au désert, 1988; Combat de nègre et de chiens, 1988; Roberto Zucco, 1990). Ed è il caso anche di B. Strauss nei confronti del regista P. Stein (Trilogie des Wiedersehens, Trilogia del rivedersi, 1976, messa in scena da Stein nel 1978; Bekannte, Gesichter, gemischte Gefühle, Visi noti, sentimenti confusi, 1977; Besucher, Visitatore, spettatore, 1988).
Uno dei più importanti drammaturghi di fine secolo, l'austriaco T. Bernhard (v. in questa Appendice), fra il 1979 e il 1986 compone in relazione (cioè soprattutto in attrito) all'attività del regista C. Peymann e al grande vecchio attore B. Minetti (Minetti, 1976). Per dialogare e polemizzare con i frequentatori del teatro scrive i Dramoletti (Dramolette, 1988, composti a partire dal 1971): sono farse, sketch sull'ottusità del tedesco, che conservano volutamente un'atmosfera occasionale, che si manifesta anche nei titoli: Claus Peymann lascia Bochum trasferendosi a Vienna come direttore del Burgtheater, 1986; Claus Peymann compra un paio di pantaloni e viene a mangiare con me, 1986; Claus Peymann e Hermann Beil sulla Sulzwiese, 1987; Assoluzione, 1988; Gelati, 1988; Il pranzo tedesco una tragedia straordinaria del Burgtheater in Germania; Tutto o niente. Una cerimonia tedesca). Nel 1982 scrive Über allen Gipfeln ist Ruth (il titolo di una sentimentale canzone nazista), che mostra il drammaturgo di fronte alla drammatica impotenza della sua arte.
L'altro grande drammaturgo in lingua tedesca, H. Müller (v. in questa Appendice), dissidente nel regime della Repubblica Democratica Tedesca, negli anni Novanta sarcastico e chiaroveggente critico delle trasformazioni tedesche ed europee dopo la caduta del muro di Berlino e il trionfo senza più contrasti dello spirito del capitalismo avanzato, oltre a essere scrittore, è regista e direttore di teatro. Ha allestito spettacoli nelle due Germanie, in Francia e negli USA, e oggi dirige il Berliner Ensemble, dove si compì la sua formazione negli anni Cinquanta, sotto l'egida di B. Brecht (Müller è stato a lungo considerato un eretico del brechtismo). Proprio a causa della concomitanza di lavoro letterario e lavoro di messa in scena, Müller scrive i suoi testi teatrali come puro intreccio dialogico, senza alcuna indicazione di messinscena. In Hamletmaschine (1977) esclude persino la suddivisione del testo fra diversi personaggi. I suoi drammi sono un puro ''parlato'' che spetta poi al regista e agli attori connettere con azioni e immagini sceniche (Der Auftrag, La missione, 1980; Quartet, Quartetto, da Les Liaisons dangereuses di P.-A. Laclos, 1982).
In Italia, il t. di poesia di G. Testori mostra un simile processo di coinvolgimento scenico dell'autore direttamente proporzionale alla ''distanza'' e all'indipendenza letteraria della pagina drammatica. A partire dagli anni Settanta, quando scrive per F. Parenti le trasposizioni guittesche (L'Ambleto, 1972; Macbetto, 1974; Edipus, 1977), la produzione drammaturgica di Testori è in connessione con attori come Parenti o F. Branciaroli, all'interno di una compagnia (la Compagnia degli Incamminati). Proprio a causa di tale connessione (non sembri un paradosso), la pagina tende a non conservare traccia o preannuncio della materializzazione in scena (Interrogatorio a Maria, 1979; Factum est, 1981; Post Hamlet, 1983; I Promessi Sposi alla prova, 1984; Confiteor, 1985; In Exitu, interpretato dall'autore assieme a Branciaroli, 1988; Verbò, 1989; Sfaust, 1990; sdisOrè, 1991; Tre lai. Cleopatràs, Erodiàs, Mater Strangosciàs, 1994, edito postumo).
Un processo analogo si osserva in E. Moscato, poeta, attore, regista, probabilmente il migliore esponente di quella rinascita del t. napoletano che si verifica negli anni Ottanta. Nel 1988 Moscato scrive Partitura, un poema composto per il t., per essere recitato, scomposto in dialoghi, agito, ma che sulla pagina si presenta come un componimento in versi senza traccia alcuna di teatralizzazione. A. Ruccello, autore di Ferdinando, morto trentenne in un incidente automobilistico nel 1986, ha rappresentato il segno di una nuova drammaturgia napoletana dopo Eduardo. Ferdinando (1985) si svolge in una villa isolata nella campagna napoletana dopo la caduta del regno dei Borboni, quando l'Italia unificata dai piemontesi è ancora un capestro per gli aristocratici e le plebi meridionali. In un'atmosfera di disfacimento, nel tanfo della malattia immaginaria della nobildonna padrona giunge un giovane bellissimo apparentemente ingenuo, innocente e perciò pronto a tutto, che pare il nipote della non ancora vecchia signora. Seduce donne e uomini della casa creando con la falsità e l'ipocrisia l'unico equivalente possibile della gioia di vivere. Nei dialoghi si alterna il napoletano comprensibile e abituale con quello strettissimo parlato dalla nobiltà ottocentesca, recuperato con un'attenzione filologica che coincide con la creazione. Le altre opere di Ruccello (Le cinque rose per Jennifer, 1980; Notturno di donna con ospiti e Week-end, ambedue del 1985) hanno al centro del degrado napoletano l'immagine del ''travestito'', che sembra sostituire, nella nuova drammaturgia napoletana, l'antica sguaiataggine tragica del tradizionale Pulcinella. La figura del travestito − dirà Moscato − non è un fenomeno sociologico, è una figura retorica della metamorfosi. Quell'insieme di marcescenza e lussureggiare delle forme che costituisce il sapore fondamentale di Ferdinando ritorna in quasi tutte le opere dei nuovi drammaturghi napoletani (dai quali si distingue in parte, sia per età che per ossessioni, M. Santanelli: Uscita di emergenza, 1981; Regina madre, 1985; Bellavita Carolina, 1987). Ritorna in Saro e la rosa di F. Silvestri (1989) e soprattutto nella drammaturgia di Moscato (Signuri Signuri, 1982, rievocazione de La pelle di C. Malaparte; Festa al celeste e nubile santuario, 1983; Pièce noire, 1985; Ragazze sole con qualche esperienza, 1985; Bordello di mare con città, 1987; Occhi gettati, 1989; Compleanno, 1992). In Partitura, che sulla pagina è un poemetto e sulla scena può essere un monologo, un coro, un dialogo, una cantata per parole e immagini, il paesaggio è la Napoli di oggi e quella di G. Leopardi e de La ginestra. Le due città sembrano travestirsi l'una nell'altra, così come nei travestiti i sessi si scambiano e più che confondersi si moltiplicano all'infinito, come in una fuga di specchi.
Prototipi e prospettive. - Il rapporto fra poesia e scena si fa sempre più rapporto di indipendenza e tensione reciproca: ne sono un sintomo, nell'Italia degli anni Ottanta e dei primi Novanta, la vita scenica dei testi di P.P. Pasolini, che apparivano, nei loro anni, fatti solo per la lettura; e la vitalità del t. di N. Ginzburg, fatto di poesia quasi inavvertita, di pure sottili tessiture di dialoghi. Non altrettanto riconosciuto è ancora il valore letterario di quelle sceneggiature nate per la messinscena ma che potrebbero facilmente prestarsi alla lettura autonoma. L'esempio più macroscopico, in tal senso, è Mahabharata di J.-C. Carrière, uno dei prodotti drammaturgici di maggior pregio degli ultimi decenni del Novecento, e che pure non è recepito nella sua autonomia letteraria. Sembra paradossalmente che la letteratura che si produce attraverso il processo teatrale possa conquistare la sua autonoma fruizione con maggior difficoltà della letteratura prodotta attraverso il processo cinematografico, che sempre più spesso dà luogo alla pubblicazione delle sceneggiature come opere autonome.
È difficile pervenire alla previsione di un paesaggio futuro. Probabilmente, però, esso sarà caratterizzato da ''tribù'' teatrali capaci di ricostruire attorno a sé quell'ambiente fatto di interazioni, contrasti, solidarietà e comune passione che nella generalità si è irrimediabilmente perso. Anche in questo caso, fra le opposte ipotesi di un cambiamento generale del sistema teatrale oppure di un suo invincibile degrado, sarà invece realistica una terza soluzione, cioè microsistemi teatrali capaci di ricostruire nel proprio interno le funzioni essenziali della globalità dei rapporti fra le diverse componenti e i diversi aspetti del fare teatro. Occorre ricordare che lo sfondo del paesaggio è ciò che meno emerge da tentativi di ricapitolazione come questo: non emerge la routine, la perdita di valore del t. nella sua attività quotidiana, il dissiparsi del sapere dell'attore teatrale, sostituito su quasi tutti i palcoscenici da attori e attrici che si servono d'una sorta di pidgin cinematografico o televisivo, in luogo d'una lingua fisica teatralmente efficace, capace cioè di attrarre e modellare, attraverso la sola presenza dell'attore, l'attenzione dello spettatore.
È contro questo sfondo che dovremmo immaginarci stagliarsi quei prototipi di diverse civiltà teatrali che sono sognate, più che prefigurate, attraverso l'attività di P. Brook e di L. Ronconi. C'è almeno un terzo prototipo, legato al nome di E. Barba (v. App. IV, i, p. 228). Fondatore dell'Odin Teatret (1964), che ha sede a Holstebro, in Danimarca, a partire dalla metà degli anni Settanta ha svolto la politica teatrale più efficace e più a vasto raggio. Ha identificato nel 1976, con il Manifesto del Terzo Teatro, una realtà teatrale diffusa in tutto il pianeta, con alcune caratteristiche comuni, estranea all'opposizione Tradizione/Avanguardia che fino a quel momento sembrava la sola articolazione dell'insieme teatrale. Ha raccolto e organizzato un ambiente per la ricerca in cui entrano in contatto studiosi di discipline scientifiche e teatrali, attori, registi, maestri dei t. classici asiatici e delle tradizioni occidentali dei t. codificati (mimo, danza, balletto). Questo ambiente, a partire dal 1980, è l'ISTA (International School of Theatre Anthropology).
Nell'ISTA per ''antropologia teatrale'' s'intende lo studio dell'essere umano in una situazione di rappresentazione organizzata. La ricerca si concentra quindi su quei principi che ricorrono eguali nei t. delle diverse tradizioni e che permettono di trasformare la presenza dell'attore, il livello pre-espressivo del suo comportamento scenico. Fra il 1980 e il 1995, l'ISTA ha tenuto 9 sessioni in Italia, Francia, Danimarca, Gran Bretagna, Brasile, Svezia. In queste sessioni la ricerca empirica sul lavoro dell'attore si alterna a momenti di spettacolo e alla produzione di spettacoli di tipo interculturale, dove gli attori delle diverse tradizioni, conservandone i tratti distintivi, si uniscono in un'azione comune. Fanno parte dell'ISTA − oltre a E. Barba e agli attori-pedagoghi dell'Odin Teatret, T. Wethal, I.N. Rasmussen, R. Carreri e J. Varley, maestri dei t. di balinese, cinese, giapponese e indiano. S. Panigrahi, attrice-danzatrice che sta all'origine della codificazione in danza classica della danza indiana di stile Orissi, fa parte dell'ISTA fin dalla sua fondazione. Naturalmente l'antropologia teatrale, concentrandosi su quel livello di organizzazione elementare che per l'attore sta alla base delle distinzioni degli stili e delle scelte estetiche, considera globalmente t. e danza, recitazione e canto, rappresentazione in stile verosimile e rappresentazione convenzionale e poeticamente deformata della realtà, efficacia sensuale ed efficacia intellettuale dell'azione scenica. E perciò può essere vista come il tentativo di preservare il pregio del sapere dell'attore di t. nel momento in cui esso si stempera e si perde nella pletora degli spettacoli registrati e teletrasmessi.
L'ambiente o piuttosto la rete di relazioni internazionali che s'intrecciano nell'ISTA sono una risposta al problema della marginalizzazione del t. nella società e nella cultura di fine secolo. Oltre a ciò, Barba e l'Odin Teatret organizzano incontri di gruppi di t. soprattutto nei paesi dell'America latina, e diffondono capillarmente, attraverso seminari e dimostrazioni di lavoro, i rudimenti del sapere attorico fra quei ceti teatrali che non possono disporre (anche per il fatto di lavorare in gruppo) delle scuole teatrali o di danza. A Holstebro, in un momento in cui le tensioni xenofobe tornano a percorrere l'Europa ricca, e quindi anche la democratica Danimarca, l'Odin Teatret organizza nel 1991 e nel 1993 due settimane di festa in cui raduna gruppi teatrali e artisti di differenti culture per portare allo scoperto, a livello locale, i fecondi risultati dei ''matrimoni misti'' materiali e metaforici. Il t., anche in questo caso, diventa politicamente efficace per il suo valore d'uso, per la sua capacità di far crollare certe barriere difensive e quindi creare relazioni, corroborare il coibente sociale. Gli spettacoli dell'Odin Teatret non partecipano, invece, dell'ottimismo della volontà che caratterizza la sua azione pratica fra i t. e nel suo contesto sociale. Sono piuttosto combattimenti con l'ombra, un confronto con le forze oscure del tempo storico e biografico.
Dopo Ferai e Min Fars Hus (1969 e 1972) − gli spettacoli che portarono all'Odin la fama internazionale − e dopo un periodo di viaggio nelle ''regioni senza teatro'' del Sud d'Italia e dell'America latina, l'Odin Teatret produce tre spettacoli che sono una tragica e beffarda relazione di viaggio nella storia e nella geografia del nostro tempo, una contemplazione della distruzione delle culture, della crescita del fanatismo e dell'intolleranza (Come! And the day will be ours, 1976; Millionen, Il Milione, 1978; Brechts Aske, Ceneri di Brecht, 1980). Con Oxyrhyncus Evangeliet (Il Vangelo di Oxyrhyncus, 1985) scatena fra due ali di spettatori una ridda di rituali crudeli e totalitari, una ricostruzione attenta e colma quasi di orripilata e disperata allegria di fronte al ricorrere dei fanatismi, inventando la figura chagalliana di un ebreo che continua a cercare il suo Messia malgrado gli orrori cui assiste attraversando i popoli che il loro Messia già l'hanno trovato. E.M. Laukvik, che impersona l'errabondo ebreo chassid, nel 1990 recita Memoria, tre racconti dai campi di concentramento, tre storie tremende e a lieto fine sullo sfondo dei suicidi di J. Amery e di P. Levi, in anni in cui cominciano a levarsi voci non solo per dimenticare, ma per revisionare ed edulcorare le pagine più tremende e insopportabili della nostra storia recente. In Talabot (1988) la biografia d'un'antropologa danese quarantenne (K. Hastrup, collaboratrice da quel momento dell'Odin Teatret) si svolge sullo sfondo parallelo dei conflitti storici dei suoi anni. Le figure dei morti (in grottesche fattezze ispirate ai comici dell'Arte così come vengono descritti da Craig, non si saprebbe dire se corpi buffi o corpi di martiri) si mischiano a quelle dei vivi. Alla fine, dopo il provvisorio lieto fine della storia della protagonista, quando il popolo dei vivi abbandona la scena (il pianeta) lasciandovi le tracce del suo tracotante pic-nic, lo spazio viene di nuovo occupato dal popolo nascosto, i Morti, che leopardianamente irridono gli esseri effimeri che credevano a una terra fatta apposta per loro. Dopo Talabot, Barba e l'Odin Teatret scoprono il sentiero per l'autobiografia come opera d'arte teatrale. Lo spettacolo di R. Carreri, Judith (1987), ne è stato il preannuncio, penetrando, al di là del mito di Giuditta, nei meandri apparentemente incoerenti d'una fantasticheria femminile tenera e feroce, una versione nostra di Durga o Kali. Puro vagabondare dei sovrappensieri è The Castle of Holstebro (Il castello di Holstebro) di J. Varley (1990), un tour de force dell'attrice e del regista, che riescono a dar coerenza drammaturgica a un'assoluta incoerenza narrativa, mentre Itsi-Bitsi, scritto e interpretato da I.N. Rasmussen con la regia di E. Barba (1991), è una vera e propria autobiografia, dove una testimone che s'è salvata rievoca le generazioni perdute dei ''figli dei fiori'' e ne trasmette la cruda dolcezza, e soprattutto qualcosa che si direbbe trascendere la storia raccontata, perché mentre le parole sono documenti d'un'epoca e d'una vita vissuta, le immagini trasportano lo spettatore verso una realtà senza più nomi propri. Con Kaosmos (1993) la demenza sembra non far più paura, perché è demenza dentro la demenza, follia del mondo di ieri incapsulata nella follia del mondo venturo, fra personaggi che vestono costumi che paiono usciti dalle illustrazioni di un libro di favole e lasciano pensare di quei favolosi paesi del centro Europa di cui pure ci parlano, prima e dopo lo spettacolo, i nostri giornali e le nostre televisioni. Un paese di favole, un'Arcadia rammodernata, infestati dalla guerra e dalla modernità. Lo spettacolo si presenta − nel sottotitolo − come un ''rituale''. Lo spettatore non può decodificarvi l'intreccio di storie che lo compongono, può solo divinarne l'una o l'altra e soprattutto può penetrare il senso generale − storico − di quelle figurine romantiche ironiche e suicide in lotta contro il nulla. Barba parla oggi spesso del t. − del suo t. − come d'un rituale "vuoto", nel senso che in esso gli spettatori possono scoprire l'imminenza d'un senso che è loro proprio. "Vuoto" perché nessuna dottrina, ideologia o setta l'ha usurpato o può usurparlo. L'immagine del "rituale vuoto", del t. come liberazione dalla pretesa comunitaria, ci permette quel che oggi è forse la migliore risposta alla nostra sete: il gelo e il calore, il senso di vicinanza e di mistero che s'instaura fra persone che pur abitando uno stesso spazio e una stessa trama d'azioni, sono alla ricerca di una sacralità senza la violenta pretesa di capirsi.
Per individuare un segno del futuro, sarà bene gettare uno sguardo all'intorno, alla ricerca di quelle che oggi possono parere anomalie, stranezze di creatori umili e marginali, e che pure hanno in loro quella paradossale robustezza che è il segno degli organismi in vita.
In Italia, a Settimo, presso Torino, il gruppo Laboratorio Teatro Settimo da alcuni anni mette in scena classici come Romeo e Giulietta di Shakespeare, la trilogia della Villeggiatura di Goldoni, Tartufo di Molière, lasciando i personaggi trascorrere dall'uno all'altro attore, come se narrazione e azione potessero convivere in una serie di contrappunti che sono, in fin dei conti, il contrappunto fra presente e passato che dà volume e risonanza alla parola teatrale. A Bergamo, un gruppo con più di vent'anni alle spalle, Teatro Tascabile di Bergamo, insiste nel mettere a punto tecniche sempre più raffinate di t. di strada, costruendo spettacoli che hanno la stessa forza e la stessa poesia degli spettacoli che si tengono in spazi raccolti. Contemporaneamente i suoi attori sono diventati professionisti di forme classiche di t.-danza dell'India. Il loro modo di essere extraterritoriali consiste nel danzare Kathakali o danza Orissi nei t. indiani, nello sconfiggere, insomma, il fascino dell'esotico. Di Ravenna Teatro si è già parlato. Non lontano, a Cesena, un gruppo che è quasi una compagnia familiare, col nome stralunato di "Raffaello Sanzio", spinge i propri spettacoli fin sul limite dell'intollerabilità sontuosa, trasformando in arte inquietante quella che altrimenti parrebbe una gelosamente conservata rabbia, angoscia, perversità ingenua e adolescenziale. A Pontedera, R. Bacci dirige un centro le cui iniziative hanno avuto grande importanza per la cultura teatrale italiana degli ultimi decenni. Ma mentre al t. viene predicato di riorganizzarsi aziendalmente, Bacci costruisce in tre anni una Trilogia (Laggiù soffia, Era, In carne ed ossa) che prevede la presenza di non più di cinque o dieci spettatori, per i quali lo spettacolo non è la rappresentazione d'una storia, ma un lavoro sulla propria percezione, mentre gli attori, con tecnica consumata, fanno loro attraversare più volte la sottile linea di demarcazione che divide e identifica il finto (non il falso) e il vero.
Tutti questi esempi hanno un elemento in comune: sono t. che pensa in grande ma è fatto in casa. E nell'umiltà di quest'espressione c'è forse un futuro. Vedi tav. f.t.
Bibl.: Lo strumento migliore per un aggiornamento sulle vicende del teatro nazionale e internazionale negli ultimi decenni del Novecento sono i volumi del Patalogo. Annuario dello spettacolo, edito da Ubulibri di Milano e diretto da F. Quadri. Dal 1979 al 1994 sono stati pubblicati 17 volumi.
Le indicazioni bibliografiche che seguono si riferiscono esclusivamente alle citazioni e ai riferimenti specifici compresi nel testo: F. Quadri, Nomadismo, in Patologo 3, Milano 1981; J. Kott, Le sérieux au théâtre, in L'Art du Théâtre, 1 (1985), pp. 123-30; R. Schechner, Between theater and anthropology, Filadelfia 1985; E. De Filippo, Lezioni di teatro, a cura di P. Quarenghi, Torino 1986; F. Quadri, San Genet è passato di qui, in Patalogo 9, 2, a cura di O. Ponte Di Pino, Milano 1986, pp. 155-58; R. Bacci, P. Brook, F. Cruciani, F. Ruffini, F. Taviani, Intorno a "il Performer" di Jerzy Grotowski, in Teatro e Storia, 5 (ottobre 1988), pp. 249-86; P. Brook, Il punto in movimento. 1946-1987, Milano 1988; J. Grotowski, Il Performer, in Teatro e Storia, 4 (aprile 1988), pp. 163-69; V. Di Bernardi, Mahabharata. L'epica indiana e lo spettacolo di Peter Brook, Roma 1989; J. Kumiega, Jerzy Grotowski. La ricerca nel teatro e oltre il teatro. 1959-1984, Firenze 1989; P. Pavis, Le Théâtre au croisement des cultures, Parigi 1990; G. Banu, Peter Brook. Da "Timone d'Atene" a "La tempesta", Firenze 1991; E. Barba, N. Savarese, The secret art of the performer. A dictionary of theatre anthropology, Londra-New York 1991; P. Giacchè, Lo spettatore partecipante. Contributi per un'antropologia del teatro, Milano 1991; AA.VV., Luca Ronconi e il suo teatro: settimana del teatro, 8-15 aprile 1991, a cura di I. Innamorati, Milano 1992; F. Cruciani, Lo spazio del teatro, Roma-Bari 1992; N. Savarese, Teatro e spettacolo fra Oriente e Occidente, ivi 1992; V. Weijie Yu, Il teatro cinese dopo il 4 giugno 1989, in Teatro e Storia, 13 (ottobre 1992), pp. 249-73 (Nota introduttiva di N. Savarese); E. Barba, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, Bologna 1993; P. Brook, La porta aperta, Milano 1993; M. De Marinis, Mimo e teatro nel Novecento, Firenze 1993; G. Manzella, La bellezza amara. Il teatro di Leo De Berardinis, Parma 1993; Y. Oida, L'attore fluttuante, prefazione di P. Brook, Roma 1993; T. Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Milano 1993 (contiene in appendice: J. Grotowski, Dalla compagnia teatrale a L'arte come veicolo); S. Sontag, Godot arriva a Sarajevo, in La Rivista dei Libri (dicembre 1993), pp. I-VII; I. Watson, Towards a third theatre. Eugenio Barba and the Odin Teatret, Londra-New York 1993; J. Beck, Theandric. Il testamento artistico del fondatore del Living Theatre, Roma 1994; C. Meldolesi, Immaginazione contro emarginazione. L'esperienza del teatro in carcere, in Teatro e Storia, 16 (annale 1994, pp. 41-68; L. Jones, Nothing except ourselves: the harsh times and bold Theatre of South Africa's Mbongeni Ngema, Londra 1995; M. Schino, Storie e voci da una "generazione invisibile" del teatro italiano. Attraverso Pontedera, Roma 1995; F. Taviani, Uomini di scena, uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale italiana del Novecento, Bologna 1995.