Televisione
Già negli anni Sessanta, Roberto Rossellini sosteneva, subordinando a questa sua convinzione una lunga e consistente attività televisiva, che la sola differenza fra cinema e t. fosse da identificarsi nelle condizioni di ricezione e di consumo del prodotto, piuttosto che nei diversi modi linguistici e nei diversi metodi di ideazione e di produzione. In realtà, in una vicenda che fin dall'inizio si è svolta fra ostilità di principio e connessioni interessate, i problemi sono molto più complessi. Mentre infatti l'evoluzione tecnologica e le necessità strategiche delle due istituzioni e delle due industrie hanno contribuito a ridurre differenze e distanze e a superare le antiche ipotesi di una presunta naturale polarizzazione, la tentazione fondata di pensare a universi anche solo relativamente separati, soprattutto in Europa e soprattutto quando i punti di vista risultano di volta in volta quello del cinema oppure quello della t., non è mai venuta meno. Da un lato, infatti, sono il cinema e la sua industria, forti di un apparato, di una tradizione e di una storia ormai patrimonio della moderna mitologia, meno preoccupati che nel passato dell'assedio dei nuovi media ma talora ancora chiusi in una difesa corporativa, a esprimere e a rivendicare orgogliosamente la loro singolarità, la loro vocazione di autonomia e di creatività, il loro destino avventuroso, la loro irriducibilità a un ordine consolidato. Dall'altro sono le tecnologie del video (aggiuntesi alla t. generalista ‒ destinata cioè a un pubblico il più esteso possibile ‒ intaccandone l'antica egemonia), che sembrano aver acquisito un ruolo centrale, soprattutto economico, nel sistema dei media, e che hanno costretto istituzioni e industria del cinema a fare i conti, attraverso il moltiplicarsi dei modi di diffusione del segnale, con modalità di consumo, e quindi con un mercato, radicalmente trasformati, con inevitabili effetti diretti su natura e qualità del prodotto stesso. Da qui la necessità di un'analisi ravvicinata.
La prima questione, propriamente teorica, riguarda la diversa specificità linguistica dei due media. Cinema e t. sono cioè linguaggi vicini che esprimono tuttavia modelli semiotici diversi.
Christian Metz (1971), ancora oggi ritenuto uno dei più autorevoli teorici del cinema, pur attribuendo loro come comuni una serie di tratti fisici pertinenti, e dunque un certo numero di codici specifici, individuava quattro classi di differenze.
a) Differenze tecnologiche. I modi di produzione dell'immagine sono difformi, l'uno fotografico, l'altro elettronico, dove la continuità è data nel primo caso dalla velocità di scorrimento dei singoli fotogrammi (24 fotogrammi al secondo), nell'altro dalla ricomposizione in unità dei punti e delle linee generate elettronicamente (con un lieve aumento a 25 fotogrammi al secondo della velocità di scorrimento). Alla chiarezza e alla definizione dell'immagine fotografica si contrappone così quel tanto di imprecisione e di indeterminatezza dell'immagine televisiva, fra l'altro per sua natura fortemente ridotta in dimensione. Proprio sulla dimensione dello schermo, e appunto su qualità e definizione dell'immagine, ha d'altronde operato il cinema statunitense quando ha voluto rispondere negli anni Cinquanta e Sessanta al successo della t. che, a sua volta, è andata più tardi contrapponendo, a una sostanziale lunga persistenza della tecnologia cinematografica, una strumentazione di ripresa, di trasmissione e di distribuzione del segnale sempre più agile e qualitativamente sofisticata fino allo sviluppo dell'alta definizione e del digitale. Una strumentazione che negli anni Novanta il cinema ha fatto in parte propria, ma che mantiene tuttavia profondamente diversi lo studio cinematografico e lo studio televisivo, e quindi i processi complessivi di produzione dell'immagine.
b) Differenze di programmazione del medium. Se il cinema è il luogo della singolarità e del prototipo, anche quando fa ricorso ai generi e alla serialità di un personaggio, di un attore, di un tema che ritornano di film in film, nella t. confluiscono linguaggi e generi che trovano coesione nel loro essere un flusso continuo, solo motivato dalla maggiore o minore intelligenza e compattezza di un palinsesto. News, spot pubblicitari, live e talk show, variety show, si alternano in discontinuità dentro una griglia, e solo nella continuità dell'emissione trovano senso compiuto, quando addirittura non vedono modificarsi il proprio senso. Da questo punto di vista, se alcuni dei generi sopra citati si definiscono propriamente come generi televisivi o ne acquisiscono la natura, il cinema, soprattutto quando è pensato per una preliminare distribuzione in sala, appare da subito qualcosa di diverso, di distinto, dall'autonomia e dall'identità implicite. Nel dipanarsi del palinsesto il film resta una parentesi più o meno nobile che mal sopporta persino i breaks pubblicitari, che pure sono diventati parte integrante delle abitudini visive dello spettatore. Anche nel momento in cui, a partire dagli anni Ottanta e Novanta hanno avuto origine reti tematiche dedicate esclusivamente al cinema, e pur se il cinema occuperà spazi sempre più ampi nei palinsensti, esso continuerà a essere vissuto come 'altro' rispetto alla t., come luogo di un immaginario proprio che si aggiunge e si oppone all'immaginario televisivo.
c) Differenze socio-politico-economiche. Cinema e t., per la loro diversa storia, vivono ciascuno con caratteristiche peculiari il rapporto con politica, società, industria e cultura di ogni singolo Paese, e quindi la loro reciproca relazione. Negli Stati Uniti, per es., la t. può svilupparsi tumultuosamente e liberamente senza i lacci di un sistema politico che la vincoli; un sistema che, al più, cerca di dare regole alla concorrenza con apposite leggi antitrust. La competizione con il cinema, che peraltro già negli anni Cinquanta e Sessanta riusciva a opporre al suo primo inevitabile ridimensionamento la tradizione e la forza della sua industria, è solo commerciale, e al solo mercato sono affidati giudizio di merito, possibilità e condizioni di coesistenza. In Europa, al contrario, il controllo politico e sociale sulla t., una volta accertati ruolo e influenza della stessa, favorisce un modello di t. concepita e organizzata come servizio pubblico, cui siano insieme assegnati compiti di informazione, educazione e divertimento, come da missione dichiarata dalla britannica BBC già alla fine degli anni Quaranta. Ma, dopo che proprio in Gran Bretagna fu autorizzata nel 1954 la prima esperienza televisiva commerciale europea su base interregionale (ITC), finanziata dalla sola pubblicità, è stato necessario attendere altri vent'anni prima che fosse consentito a imprese televisive private e commerciali di nascere e rapidamente prosperare accanto a legittime aziende pubbliche. In modo non uniforme nei diversi Paesi, secondo forza o inadeguatezze delle singole aziende nazionali di servizio pubblico, si è andato sviluppando dalla metà degli anni Settanta un sistema misto, privato e pubblico, che per anni ha cercato, senza trovarlo, un suo equilibrio interno. In un primo momento anarchicamente in Italia, poi via via in Francia, Spagna, Germania, Inghilterra e nell'Est europeo. Il rapporto del cinema con le istituzioni e con l'economia, a sua volta condizionato, anche se in misura molto minore, dal potere politico, non potrà che risentire di assetti in continua mutazione. Se infatti le relazioni fra cinema e t. hanno potuto trovare negli anni del monopolio pubblico una regolamentazione non difficile fra poteri forti che consenta al cinema una difesa legittima contro la diffusione e lo strapotere della t., con l'affermarsi delle reti commerciali, che proprio sull'abuso dei film fondano la loro fortuna, e con la conseguente competizione fra reti pubbliche e reti commerciali, in molti Paesi europei, come per es. in Italia, ogni linea di resistenza rischia di cadere. Da qui è derivata una lunga fase di confronto e di conflitto difficile da ricomporre, tale da sollecitare costanti e complesse mediazioni politico-istituzionali.
d) Differenze psicosociologiche e affettivo-percettive. Il piccolo schermo della t. riduce drasticamente l'immagine, vissuta com'è ad altezza d'occhio dallo spettatore che con essa dialoga e che ha la sensazione di dominarla e di governarla, a differenza di quella del cinema davanti alla quale esso è in qualche modo espropriato della sua capacità di controllo. Un'immagine, quella della t., letta più che vista, da abbandonare o cui ritornare secondo volontà e necessità, fattore ormai integrato nelle abitudini e nell'arredo domestici. Tanto più che l'uso ormai generalizzato del telecomando, conferendo allo spettatore una sorta di definitivo potere di cancellazione e di resurrezione dell'immagine, gli consente di individualizzare costantemente la visione, di costituirsi un proprio personale percorso. La lontananza e l'autorevolezza dell'immagine cinematografica (con la possibile 'sala vuota' del cinema) di contro all'intimità e alla complicità dell'immagine televisiva (con la necessaria 'sala piena' della t.), spiegano fra l'altro la diversa natura dei due divismi e spiegano anche la contrapposizione fra il carisma dell'attore di cinema e il calore familiare del personaggio televisivo che 'si conosce ed è amico'.
Due tecnologie dunque, e quindi due scritture, due immaginari, due modi di visione, che se non sono riducibili all'opposizione fra un cinema capace di esprimere "the enormous width of history" e una t. come essenzialmente "talking-heads medium" (Big picture, small screen, 1996) e se vanno pensate all'interno di un'analoga area d'esperienza, non potendo che avere rapporti di complementarità e di mutua dipendenza, restano, in linea di principio, universi separati, ciascuno con una propria natura e una propria logica.
Un secondo ordine di problemi riguarda l'uso, la pratica, la citazione del cinema da parte della t. come ricorso alla capacità di attrazione e di coinvolgimento di una tecnologia, ma soprattutto di una leggenda e di una memoria già consacrate da storia e cronaca. Ogni azienda e ogni rete televisiva conoscono da sempre la necessità e l'utilità del ricorso al film per rafforzare, completare o nobilitare ogni palinsesto, con la garanzia di ascolti spesso alti. Più che come genere specificamente televisivo il cinema è stato (ed è) apprezzato dunque come un valore aggiunto, da distribuire nei punti cruciali della programmazione quotidiana o settimanale per esaltare la tenuta di una rete o addirittura per decretare la fortuna di un'azienda. È il caso dei tre grandi network televisivi statunitensi negli anni Cinquanta (ABC, NBC, CBS), delle reti commerciali in Europa sull'esempio italiano di Fininvest-Mediaset, più tardi del francese Canal 1 e, in misura minore e tutta particolare, dell'inglese Channel 4. Né va dimenticato che è attraverso i film che home video e pay-TV hanno potuto assicurarsi il successo e diventare, a loro volta, per il cinema, in virtù dei profitti ottenuti, significative fonti di finanziamento. Anche se poi l'uso del cinema a fini prevalentemente di audience, oltre a costituire un obiettivo ostacolo a una maturazione e a uno sviluppo della t. come strumento autonomo di immaginazione, di fantasia, di creatività, ha finito con il polarizzare il mercato esclusivamente attorno alle cinematografie statunitense e nazionale, consegnandolo in realtà, data la debolezza sostanziale del cinema europeo e degli altri Paesi del mondo negli ultimi decenni, al cinema statunitense e inducendo un riconosciuto effetto di 'desertificazione' nei confronti di tutte le altre cinematografie.
Ma non è solo il film nella sua integrità e nella sua storia a diventare componente fondamentale di un palinsesto televisivo. È piuttosto il cinema stesso ‒ tecnologia, mito e cronaca ‒ a permeare l'intera produzione e programmazione televisive, determinando generi specifici (per es. miniserie, TV movies, telefilm di serie), offrendo materiali editi e inediti a tutta l'ampia gamma dell'immaginario televisivo, e infine utilizzando largamente la t. come conoscenza e promozione, come creazione e divulgazione di eventi cinematografici.
Percorrendo dal punto di vista storico le vicende del complesso rapporto esistente fra cinema e t. si possono individuare le tre fasi successive, benché talora cronologicamente sovrapposte nelle singole situazioni, dell'opposizione e della differenza, dell'integrazione difficile e dell'interconnessione.
La fase iniziale (dalle origini a tutti gli anni Sessanta) è generalmente segnata in un primo tempo dalla definizione di un'estetica (lo 'specifico televisivo') fondata sulla ripresa diretta e, sul fronte della fiction, sul teledramma (live drama): su ciò insomma che Paddy Chayefsky ‒ autore di Marty che, prima di essere un film (1955), fu una sorta di manifesto televisivo dell'epoca (1953), in entrambe le versioni diretto da Delbert Mann ‒ chiamava "l'universo meraviglioso dell'ordinario". Ma negli Stati Uniti il live drama era stato presto abbandonato a favore del filmed drama, direttamente derivato dalla tradizione del cinema: e l'analisi teorica si è presto mossa verso suggestioni nuove, a esplorare più in profondità e in modi inediti la natura del nuovo mezzo (McLuhan 1964). In Europa, al contrario, una prevalente sensibilità teatrale-letteraria e la naturale vocazione di aziende televisive di servizio pubblico sembrano fissare il primato, appunto di provenienza teatrale, di una produzione tutta da studio, del personaggio e del dialogo, e sembrano insieme favorire una programmazione di più esplicita ispirazione radiofonica (di 'parola' cioè), cui appartengono il programma culturale e l'informazione.
In quegli anni dunque, proprio in conseguenza della supposta derivazione della t. da teatro e radiofonia, si misurarono e si alternarono in Europa due modi diversi e complementari di fare televisione. Da un lato il palinsesto televisivo si consolidava in una serie di appuntamenti fissi, dalla struttura fossilizzata, con un sostanziale squilibrio a favore della tradizione spettacolare e di un'immagine e di un modo di raccontare compatti, definiti, assertivi (home show). Dall'altro lato, proprio in sintonia con la fioritura di un ampio dibattito in chiave marcatamente sociologica e politica, la t. andava scoprendo la sua possibilità di essere 'tecnica del reale', più vivace e pragmatica, alla ricerca di un nuovo e diverso rapporto con il pubblico: un pubblico talvolta inizialmente estraneo al cinema e che sembrava preferire, anche per una scelta dell'emittenza, generi non cinematografici (il quiz, lo sceneggiato da studio, l'informazione, i primi fortunati varietà). Alla tecnologia del cinema la t. ricorreva in Italia in quegli anni solo per il documentario, la grande inchiesta e le prestigiose rubriche cultural-informative.Tuttavia, mentre il pubblico della t. andava crescendo, assicurandole già un ruolo centrale fra i mezzi di comunicazione, il cinema ‒ benché il pubblico delle sale cominciasse a decrescere, sia pure in modo differenziato nei diversi Paesi europei, più vistosamente e immediatamente in Inghilterra, più lentamente in Italia e Francia ‒ restava il reale mass medium di quel periodo, anche perché l'orientamento pedagogico di reti televisive tutte pubbliche gli consentiva di conservarsi interprete autentico dell'immaginario collettivo. Il cinema europeo degli anni Sessanta riuscì infatti a rafforzare il suo rapporto con le singole società nazionali e, anche in connessione con la ristrutturazione industriale in corso e con la crisi generazionale e creativa attraversata dal cinema statunitense in quegli anni, crebbe in influenza e prestigio. Nel 1964, per es., nella sola Italia vennero prodotti quasi 300 film, spesso collegati ai molteplici problemi del Paese, e altrove Free Cinema, Nouvelle vague, e anche Neuer Deutscher Film, costituivano testimonianza di comuni vitalità e felicità produttive mai più da allora ripetutesi.
Mentre dunque in Europa la diffidenza fra le due istituzioni sembrava consolidarsi e gli imperativi del servizio pubblico, così come una maggiore attenzione alla qualità e alla supposta specificità dei due media, sembravano sanzionare l'estraneità fra le due industrie, negli Stati Uniti, già a partire degli anni Cinquanta, si era andata creando una situazione assai più dinamica. I network televisivi avevano avvertito subito la necessità di potenziare la loro capacità di attrazione su un pubblico che progressivamente si allargava, e avevano deciso quindi di aprire al cinema. Il primo passo importante (1956) fu l'acquisizione da parte della t. dell'intero catalogo di una storica società di produzione, la RKO, travolta dalla crisi e in chiusura, presto seguita dalla cessione ai network dei 'magazzini' Warner Bros. e Paramount. Sino al punto di svolta generalmente indicato nella programmazione su ABC (1966) di The bridge on the river Kwai (1957; Il ponte sul fiume Kwai) di David Lean ceduto per un passaggio televisivo dalla Columbia a due milioni di dollari e visto da 70 milioni di spettatori: inequivocabile segno, se ce ne fosse stato bisogno, dell'effetto di coinvolgimento e di seduzione del cinema sul pubblico televisivo.Il passaggio più significativo tuttavia fu contemporaneamente, già in pieni anni Cinquanta, il varo da parte di Hollywood, e proprio per la t., di una serie di operazioni produttive di successo (da I love Lucy, 1951-1957, a Cheyenne, 1955-1963), con il conseguente massiccio trasferimento del western seriale in t., sino a una prima produzione di film direttamente commissionata dai network (TV movies): sigillo definitivo, nella successione cronologica molto ravvicinata dei processi, dell'abbandono pragmatico della separatezza fra le due industrie e del riconoscimento di opportunità e di convenienza, per l'una e per l'altra, di una coesistenza commerciale e di un'unitaria strategia di marketing.
Proprio negli anni in cui sembrava cedere alla t. la sua storia e sembrava metterle a disposizione il suo apparato industriale, il cinema statunitense reagì e ritrovò la sua identità, giocando la doppia carta del talento d'autore e della sua capacità di essere 'fabbrica'. Mise un freno all'emorragia di pubblico degli anni Cinquanta e Sessanta attraverso il film come 'evento': dal grande schermo (Cinemascope, widescreen, Vista Vision, 3D ecc.) e dall'accettazione definitiva del colore propria di quegli anni, al radicale rinnovamento generazionale degli anni Settanta, all'epicità dei whiz kids (i giovani maghi George Lucas, Steven Spielberg, Francis Ford Coppola), agli effetti speciali e alla ricerca di nuove frontiere dell'immaginario negli anni Ottanta e Novanta.Più che di due industrie si deve parlare da allora negli Stati Uniti di una dinamica produttiva complessa e di un sistema integrato di reciproche relazioni. Fra l'altro, infatti, se il cinema statunitense ha potuto comunque contare su un mercato domestico (Stati Uniti e Canada) molto forte, favorendo così prezzi competitivi per l'esportazione grazie alla possibilità di tenerlo sotto controllo in attesa di un aumento della domanda, il sistema televisivo, da parte sua, per potenza finanziaria, costante progresso tecnologico e prodigiosa attitudine all'innovazione, si è mantenuto in grado di coprire da solo i due terzi di tutti i costi di produzione dell'industria cinematografica (Bonnell 1989).
Con l'inizio degli anni Settanta si aprì in Europa una lunga vicenda di integrazione fra cinema e t., dapprima faticosamente vissuta dal solo servizio pubblico, successivamente accelerata dalla diffusione e dal successo delle t. generaliste commerciali, dalle pay-TV e soprattutto dall'esempio statunitense.
In tutti i Paesi europei la crisi dell'istituzione cinema, della quale già si erano avute avvisaglie nei decenni precedenti, maturò rapidamente e drammaticamente con il ridimensionamento drastico di produzione, distribuzione ed esercizio e con l'egemonia, che diventò poi inarrestabile, del film statunitense. Fu allora inevitabile prendere atto che il cinema non sarebbe più stato in grado di privarsi della disponibilità economica e della grande audience televisiva, così come d'altronde le grandi imprese televisive non avrebbero ormai più potuto fare a meno della macchina produttiva e del carisma del cinema. Fu altresì inevitabile prendere atto della necessità, di fronte ai limiti del libero mercato in materia di produzione culturale, di dotarsi di una legislazione idonea a sostenere finanziariamente il cinema e a regolamentarne la programmazione televisiva.
Del resto già negli anni Sessanta si era timidamente tentata la strada del telefilm di serie, con le prime casuali puntate nel lungometraggio d'autore: valgano per tutti gli esempi in Francia di La prise du pouvoir de Louis XIV (1966) di Roberto Rossellini e in Italia l'esperienza d'eccezione di una prima miniserie filmata, Mastro don Gesualdo (1964) di Giacomo Vaccari. Solo negli anni Settanta tuttavia presero definitivamente corpo le due più significative linee di produzione che, nei decenni successivi, hanno attraversato le vicende del rapporto fra i due media: la miniserie e il TV movie da una parte, e il film d'autore dall'altra.
La miniserie e il TV movie. - Entrambi si collocano all'incrocio fra due scritture diverse, quella dello sceneggiato da studio della tradizione europea e quella del racconto cinematografico, da cui vengono mutuati uomini (credits e cast), impegno produttivo e strumentazione tecnologica e linguistica. Esemplare fu in questo senso in Italia l'operazione inaugurale: Odissea (1968), otto ore, produttore Dino De Laurentiis, regista Franco Rossi, versione cinematografica di due ore.
Da Rossellini a Luigi Comencini, da Franco Zeffirelli a Giuliano Montaldo, da Alberto Lattuada a Damiano Damiani, da Vittorio De Seta a Dino Risi, da Federico Fellini a Michelangelo Antonioni, uomini di cinema prestigiosi chiamati a cimentarsi, e quasi sempre con successo, con strutture narrative e con modi di comunicazione a essi talora estranei. In molti titoli, spesso ispirati alla letteratura italiana dell'Ottocento e del Novecento (A. Manzoni, C. Collodi, G. Verga, E. De Amicis, L. Pirandello, I. Silone, C. Levi, C. Bernari, E. Morante ecc.) o alle grandi figure della storia nazionale e non (Socrate, i Medici, M. Polo, C. Colombo, E. Fermi, G. Garibaldi ecc.), ha continuato a correre il filo rosso di una volontà di divulgazione popolare e di pedagogia del gusto cui il servizio pubblico televisivo, persino la stessa t. commerciale, non sanno né sapranno rinunciare.
Lo stesso accadde in altri Paesi europei, come in Francia, dove Claude Chabrol, Édouard Molinaro, Jean Delannoy, Christian-Jaque, Claude Autant-Lara vennero chiamati a raccontare i capolavori di G. de Maupassant, Stendhal, H. de Balzac, A. Dumas, G. Flaubert, sino a G. Simenon e a S. de Beauvoir. O in Germania, dove Rainer W. Fassbinder si andò a cimentare con A. Döblin (Berlin Alexanderplatz, 1980). O in Inghilterra, dove C.J.H. Dickens, J. Conrad, J. Austen, Th. Hardy, H. Fielding, W. Scott, oltre a tutto Shakespeare, sono stati all'origine di miniserie e TV movies di gran pregio.
Una nota a parte meritano qui tre memorabili operazioni di racconto televisivo, anomale nella loro unicità: le due miniserie di Ingmar Bergman (Scener ur ett äktenskap, 1973, Scene da un matrimonio e Fanny och Alexander, 1982, Fanny e Alexander); le due serie Heimat ‒ Eine Chronik in elf Teilen (1984; Heimat) e Die Zweite Heimat ‒ Chronik einer Jugend (1992; Heimat 2 ‒ Cronaca di una giovinezza) di Edgar Reitz; i dieci episodi del Dekalog (1989; Decalogo) di Krzysztof Kieślowski. Tre meditazioni sofferte e intense sull'uomo e sul suo destino, tutte profondamente radicate in storia e cronaca di ognuno dei Paesi d'origine (Svezia, Germania, Polonia).
Il film d'autore. - La stessa attenzione per l'uomo e la sua storia appare strettamente connaturata all'altra area di incontro fra cinema e t., quella del film d'autore, più direttamente legata al cinema, anche quando è pensata come esclusivamente destinata al video. Quasi a cercare, scommettendo sull'autore, contro il sostanziale anonimato del prodotto televisivo, nuovi spazi oltre il cinema commerciale d'evasione e a favorire, quando possibile, quel rinnovamento generazionale che è spesso precluso dal mercato delle cinematografie nazionali. Un ruolo essenziale in questo senso è stato affidato in un primo tempo alle reti televisive pubbliche, soprattutto alla RAI in Italia e a ZDF in Germania. Alla RAI si devono, per es., esordi e conferme di autori come Bernardo Bertolucci, Ermanno Olmi, Gianni Amelio, Marco Bellocchio, Massimo Troisi, e anche la partecipazione in coproduzione a film di Fellini, Rosi, Ettore Scola, Liliana Cavani, Elio Petri. A ZDF spetta il merito di aver accompagnato tutta la migliore stagione del giovane cinema tedesco, con più di uno sguardo attento a quanto di nuovo sembrava suggerire l'Est europeo (Andrzej Wajda, Krzysztof Zanussi, Andrej Tarkovskij, Juraj Jakubisko, Jiří Menzel, Roman Polański ecc.).
Era implicito che l'intervento finanziario delle reti televisive a favore del cinema fosse dettato più da fattori culturali e da volontà politiche che da motivazioni commerciali, e che nascesse dunque, come impegno marginale e aggiuntivo, dal loro essere servizio pubblico. Anche se poi vi era una doppia ragione di convenienza sul piano dell'acquisizione e dell'innesto di professionalità del cinema e sul piano del prestigio nazionale e internazionale che ne derivava, sanzionato per es., per la RAI, dalla Palma d'oro vinta al Festival di Cannes sia da Padre padrone (1977) di Paolo e Vittorio Taviani sia da L'albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi.
Due casi diversi ed esemplari vanno comunque isolati dal contesto generale europeo, quelli dell'inglese Channel 4 e della francese Canal 1, che al cinema devono autorevolezza e fortuna, e che con il loro lungo e felice impegno produttivo hanno fatto da detonatore per un atteggiamento nuovo nei confronti del cinema in Inghilterra e in Francia, sfidando le reti pubbliche e commerciali concorrenti a misurarsi sullo stesso piano.
Contestualmente al massimo sforzo produttivo da parte di tutte le imprese televisive europee e al mutare del paesaggio audiovisivo, nell'ambito del mercato cinematografico si è prodotto un autentico terremoto. L'irruzione delle t. commerciali e la successiva fortuna dell'home video e delle nuove forme di diffusione televisiva hanno determinato l'esplosione del mercato e un clima di forte concorrenza. A quel punto home video e pay-TV hanno imposto 'finestre' (windows) a protezione e garanzia di un ordinato e proficuo sfruttamento del prodotto. Gli appuntamenti annuali di mercato, da rari e poco frequentati, sono diventati numerosi e affollatissimi (Cannes, Los Angeles, New Orleans, Milano, Las Vegas, Hong Kong, Montecarlo, ecc.). Con il venir meno degli accordi di garanzia fra le istituzioni cinematografiche e quelle televisive è nata, tra gli anni Ottanta e Novanta, la stagione degli output deal, cioè di accordi complessivi pluriennali volti ad assicurarsi, da parte di una o più reti televisive, l'intero prodotto, di stagione e di catalogo, di una major o di un produttore indipendente.Infine, è un dato di fatto che le nuove leggi di sistema (cinematografiche e televisive), che sono precariamente chiamate a disciplinare un ambito in costante e rapidissimo mutamento, non possano ignorare che l'intervento di capitali televisivi è indispensabile e decisivo per la produzione di un film. A sostenere gli investimenti televisivi sul cinema, molti Paesi, su suggerimento esplicito dell'Unione Europea (cfr. le due direttive Télévision sans frontières, 1989 e 1997), hanno proposto un sistema di 'quote' obbligatorie di programmazione televisiva per titoli nazionali e più ampiamente di Paesi membri dell'Unione.
Con la rivoluzione telematica sono ampiamente mutate le tecnologie del prodotto e i percorsi del consumo e il cinema sembra cedere al primato del video. Le nuove tecnologie di distribuzione dei film e le tecnologie digitali (v. digitale, cinema) hanno imposto una domanda e un consumo diversi e complementari rispetto a quelli tradizionali delle sale, non sostituendoli ma in sostanza aggiungendosi a essi attraverso un naturale 'effetto di cumulo' (Bonnell 1989). Home video, pay-TV, pay per view, video on demand, cui vanno associate tutte le opportunità offerte dal computer, moltiplicano le possibilità d'uso di un prodotto. Il cinema è diventato la materia prima necessaria ad alimentare e a sostenere costantemente il flusso ininterrotto del video che da parte sua, oltre ad ampliare lo spettro dei suoi generi specifici, si impadronisce, attraverso la fiction, di aree da sempre di competenza esclusiva del cinema stesso.
Con il moltiplicarsi dei mezzi di diffusione del segnale, poi, al centro del sistema si è collocato chi è in grado di garantire ricchezza di software, e nessuno meglio delle majors americane poteva contare su cataloghi sterminati e su un prodotto sempre fresco. Infatti, con l'allentarsi delle tradizionali norme antitrust, le majors si sono trovate nella condizione favorevole di costruire nuovi network, e di impadronirsi delle maggioranze azionarie di quelli tradizionali. Ugualmente in Europa, sia pure in modi meno spettacolari, i grandi gruppi hanno assunto un ruolo privilegiato.Gli anni Novanta in ogni caso, al di là delle pressioni della multimedialità (v. multimediali, sistemi), sono stati ancora caratterizzati dall'eredità narrativa e dai meccanismi produttivi tradizionali degli anni precedenti. Tuttavia la pratica e il consumo del video hanno comunque determinato nel cinema alcuni profondi e decisivi cambiamenti. Il video agisce anzitutto sulla natura del film, nel senso di favorire indeterminatezza, eccentricità, non definizione di un testo spesso considerato come work in progress. Si pensi all'uso che di un film fanno le reti televisive, frantumandolo, interrompendolo con spot e news, deformandolo con didascalie e sigle di ogni genere, utilizzandolo come pretesto per parlare d'altro, e soprattutto rendendolo parte di un flusso indistinto. Ancora più specificamente, si pensi all'azione diretta e indiretta esercitata dal video sul corpo stesso del film. Come, per es.: a) le serie televisive di successo (Fame, 1982-1987, e Mr. Bean, 1989-1995) derivate o all'origine di film di altrettanto successo; b) le doppie versioni cinematografiche e televisive (illustre ascendente The last emperor, 1987, L'ultimo imperatore, di Bernardo Bertolucci, quest'ultimo in una versione televisiva full screen a cura dello stesso suo direttore della fotografia Vittorio Storaro); c) i ripensamenti dell'autore, o per necessità espressiva (Nuovo Cinema Paradiso, 1988, di Giuseppe Tornatore) o per necessità di mercato (Heaven's gate, 1980, I cancelli del cielo, di Michael Cimino); d) la rimessa in questione della sacralità del finale, ora aperto a sviluppi seriali (Rocky, la saga di Indiana Jones ecc.), ora da comprendere dentro un piano complessivo che travalica il singolo testo (la saga di Star wars).
Con l'estrema sofisticazione delle tecnologie sonore e il gioco progressivamente più raffinato e coinvolgente degli effetti visivi e del montaggio, il cinema si propone sempre più come una totalizzante avventura dello sguardo. Al rigore dell'immagine classica se ne sostituisce una sovrabbondante di dettagli, ricca, per accumulo, di dati visivi. Ugualmente, alla dilatazione narrativa del racconto tradizionale si sostituiscono forme di concentrazione attraverso un montaggio frammentato e destrutturato. Così, alla chiusura e alla singolarità-originalità del cinema classico si contrappongono apertura e serialità: modularità, saturazione, concentrazione, apertura e serialità si oppongono, in una griglia possibile, a linearità, rarefazione, dilatazione, chiusura e singolarità, e si pongono a fondamento di una visualità che sempre più avverte il contagio dei nuovi media.
Grazie alle tecnologie elettroniche si modificano i processi della preproduzione e della postproduzione, con significative conseguenze sul prodotto. Ciò che era tradizionalmente affidato alla creatività personale e di gruppo può diventare in preproduzione oggetto di ipotesi, congetture, simulazioni, a verificare bontà ed esiti di una sceneggiatura, ma anche costi e qualità di una scenografia. E non è certo irrilevante che diventi possibile, prima di procedere alle riprese, una definizione in scala delle compatibilità espressive e di spesa. Ancora di maggior efficacia è il ruolo delle tecnologie elettroniche nella fase della postproduzione, dove le inesauribili possibilità degli effetti speciali, il raffinato perfezionamento dei processi di riproduzione del suono e le nuove procedure di editing elettronico possono modificare i modi di gestione e di manipolazione dei materiali. Quella che era la fase terminale del processo espressivo, una sorta di necessaria rifinitura, potrebbe così diventare il momento più autenticamente creativo.
Tutta la tecnologia nel mondo ormai globalizzato è andata muovendosi nella direzione dei media domestici, pensando al salotto di casa come al luogo verso il quale far arrivare, in modi sempre più articolati e complessi, tutta la realtà contemporanea. Si pensi, per es., a tutta la problematica legata alla 'qualità migliorata', e all'adozione internazionale (Stati Uniti ed Europa) del formato 16/9 dell'apparecchio televisivo in luogo del tradizionale 3/4. Fonografo, fotografia, telefono, radio, t., videoregistratore, sino al digitale, non sono state in fondo che tappe diverse di un itinerario quasi obbligato, che tende a portare in casa un segnale nelle migliori condizioni di ricezione. E la t. generalista è stata chiamata a convivere con i nuovi media.
Il cinema non può comunque non essere, per la capacità di attrazione, per la forza della sua storia, ma anche per la sua 'incompatibilità', il motore del nuovo ecosistema dei media. Se, infatti, le due tendenze emergenti della t. sono la possibilità data allo spettatore di scegliere, pagandolo, il programma preferito e la tematizzazione dell'offerta attraverso reti consacrate a un pubblico specializzato e settoriale, il cinema resta fondamento di ogni bouquet di programmi ed è sostenuto da una domanda che, nonostante la proliferazione di reti e canali, è molto forte. Non a caso esso è, con lo sport, canale premium, rigorosamente a pagamento, così che si possano aggiungere a esso tutti gli altri canali basic (con un'ulteriore offerta di cinema classico e non). La tecnologia consente al segnale televisivo di giungere nelle case attraverso diverse autostrade elettroniche (terrestre-hertziana, satellitare, via cavo, digitale terrestre, telefonica, per videoregistrazione). Ora, se nel mondo molte case sono dotate di apparecchio televisivo, di supporto multimediale videoregistratore e di sistema multicanale (cavo-satellite), e se insieme il processo di convergenza fra telecomunicazione, informatica e audiovisivo è molto avanzato, non è immaginabile pensare al cinema fuori dall'inevitabile processo di globalizzazione, che preme verso alleanze prima impensabili e che pone fra l'altro una serie di problemi giuridici nuovi legati all'utilizzazione dei diritti di trasmissione fuori dal singolo territorio nazionale.
Anche le due nuove tecnologie, digitalizzazione e alta definizione (HDTV), riguardano direttamente il cinema, investendo natura e qualità del segnale. L'alta definizione permette infatti di consolidare l'home cinema, mentre la digitalizzazione, con la costruzione di una serie di 'piattaforme universali', permette flessibilità, quantità, accessibilità, interattività. Da qui la suggestiva possibilità per l'utente di passare da un palinsesto predeterminato da altri, unilaterale, a un palinsesto sempre più individuale, che dia anche diritto di risposta e che consenta di influenzare le scelte della fonte emittente. Per non parlare delle ulteriori possibilità offerte da Internet (v. telematica) e dei supporti multimediali ottici (CD-ROM, DVD-ROM ecc.).
Dal contrasto e dalla separatezza iniziali si è dunque passati alla necessità e alla ineluttabilità di un raccordo fra l'ansia innovatrice del cinema, le sue diversità e marginalità, e le grandi tendenze del video. Coesistenza, complicità e convergenza sono infatti generalmente indicate come i punti fermi di un rapporto già d'altra parte sperimentato e praticato felicemente in lunghi decenni dal modello statunitense: punti fermi verso i quali anche le istituzioni e le industrie cinematografiche e televisive europee si sono indirizzate.
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