Teoria critica della società
L'Istituto per la Ricerca Sociale fu fondato nel 1922, a Francoforte, da un gruppo di intellettuali marxisti. Essi, in un primo tempo, avevano pensato di chiamarlo 'Istituto per il marxismo', ma poi questa idea fu abbandonata per motivi di opportunità accademica. Benché, infatti, l'Istituto fosse autonomo finanziariamente (grazie a una generosa donazione privata), ottenne l'affiliazione all'Università di Francoforte e fu riconosciuto dal Ministero dell'Istruzione. Esso divenne così il primo organismo universitario tedesco dichiaratamente marxista e formato interamente da marxisti.Il primo direttore dell'Istituto fu un economista, Kurt Albert Gerlach, che però morì pochi mesi dopo aver assunto la carica. Gli successe Karl Grünberg, già professore di scienze politiche all'Università di Vienna, fondatore (nel 1910) dell'"Archiv für die Geschichte des Sozialismus und der Arbeiterbewegung", al quale collaboravano eminenti pensatori e studiosi marxisti (fra gli altri, Lukács e Korsch). Nel discorso ufficiale con cui assunse la carica di direttore (1924), Grünberg ribadì l'ispirazione marxista dell'Istituto, ma precisò che tale ispirazione non avrebbe implicato, sul piano teorico, l'adesione ad alcuna ortodossia e, sul piano politico, l'adesione ad alcun partito.
Sotto la direzione di Grünberg, l'"Archiv für die Geschichte des Sozialismus und der Arbeiterbewegung" divenne praticamente l'organo scientifico dell'Istituto, nel cui ambito operava un gruppo di intellettuali di altissimo livello, alcuni dei quali destinati a un grande avvenire: Max Horkheimer, Friedrich Pollock, Karl August Wittfogel, Franz Borkenau, Henryk Grossmann, e, verso la fine degli anni venti, Leo Löwenthal e Theodor Wiesengrund Adorno. Più tardi, agli inizi degli anni trenta, entrarono a far parte dell'Istituto Herbert Marcuse ed Erich Fromm.
Ma un vero e proprio salto di qualità si ebbe nel 1929, allorché Grünberg dovette dimettersi, per motivi di salute, dalla carica di direttore, e gli successe Max Horkheimer. Fu sotto la direzione di quest'ultimo che l'Istituto conobbe la sua migliore stagione e assunse quelle caratteristiche culturali che siamo soliti attribuire alla Scuola di Francoforte.
Max Horkheimer, nato nel 1895 a Stoccarda, si era laureato nel 1922 in filosofia, ma all'Università aveva coltivato anche studi di psicologia, sotto la guida del gestaltista A. Gelb. Egli era un intellettuale marxista indipendente, di formazione eterodossa rispetto al bolscevismo, in quanto le sue prime simpatie ideologiche erano andate a Rosa Luxemburg. Quando divenne direttore dell'Istituto, Horkheimer si sentiva estraneo sia ai comunisti, ai quali rimproverava di saper soltanto ripetere meccanicamente i principî del marxismo, sia ai socialdemocratici, ai quali rimproverava di essersi integrati nella società borghese. La concezione storico-politica e sociologica che Horkheimer venne elaborando in quegli anni emerge con particolare chiarezza nel contributo che egli diede a uno dei lavori più importanti prodotti dall'Istituto sotto la sua direzione: Studi sull'autorità e la famiglia (1936). Nel suo saggio Horkheimer partiva da una considerazione che era del tutto in linea con le posizioni elaborate fino a quel momento dalla Scuola di Francoforte. È indubitabile, egli affermava, che la forma sociale attualmente predominante in Europa, la quale si estende anche all'America e imprime il suo marchio a tutti i territori coloniali, tenda al declino, nonostante l'uniformità dei processi che si ripetono nel suo ambito. Essa, infatti, è lacerata da due antagonismi fondamentali: all'interno, dal conflitto fra le classi sociali; all'esterno, dalla lotta tra i grandi gruppi di potere nazionali.
Pagato in questo modo il proprio tributo alla tradizione marxista, Horkheimer svolgeva però una serie di considerazioni assai interessanti, che andavano al di là della concezione marxista classica. Intanto, egli non si faceva soverchie illusioni circa la velocità del processo di decadenza o di declino della società capitalistica. E ciò perché questa società è 'tenuta insieme' da una serie di complessi meccanismi, strettamente intrecciati tra loro: economico-sociali, ma anche (e non secondariamente) psicologico-culturali. Horkheimer sottolineava l'inadeguatezza di qualunque interpretazione 'economicistica' della società. Certo, egli diceva, occorre vedere nel processo economico "il fondamento determinante dell'accadere", ma ciò è possibile soltanto se si considerano "tutte le rimanenti sfere della vita sociale nella loro connessione con esso, una connessione che è in continua trasformazione". Occorre, insomma, inserire tutta la cultura nella dinamica storica, e prendere in considerazione le abitudini, le usanze, l'arte, la religione, le ideologie sociopolitiche e le filosofie, che nel loro intreccio costituiscono di volta in volta i fattori dinamici della conservazione o della disgregazione di una determinata forma sociale. D'altra parte, le varie forme culturali testé citate si connettono strettamente alla costituzione psichica degli individui, nel senso che costituiscono i modi e gli strumenti con i quali e attraverso i quali gli uomini 'vedono' e vivono la realtà sociale. Scrive Horkheimer a questo proposito: "Per comprendere il problema del perché una società funziona in un determinato modo, del perché è stabile o in dissoluzione, occorre conoscere quella che è di volta in volta la costituzione psichica degli uomini nei diversi gruppi sociali, sapere come il loro carattere si è formato in connessione con tutte le potenze di formazione culturale dell'epoca" (v. Horkheimer, 1968; tr. it., p. 279). Tale connessione fra economia (rapporti sociali di produzione), psicologia e cultura era appunto al centro delle riflessioni di Horkheimer.Per quanto riguarda la descrizione degli aspetti economico-sociali del capitalismo, Horkheimer si rifaceva a Marx, e si può dire che ne dava per presupposte tutte le analisi. "Il fatto sociale che, riconosciuto come dato per natura, sanziona nel modo più immediato i rapporti di dipendenza esistenti, è la differenza di proprietà. Chi è povero deve lavorare duramente per poter vivere, e anzi, quanto più si gonfia l'esercito strutturale di riserva dell'industria, deve anche considerare questo suo lavoro come un grande beneficio e privilegio [...]. La vendita della forza-lavoro 'per sua libera scelta' determina il continuo aumento del potere dei dominanti; la differenza tra il guadagno e il patrimonio delle due classi cresce fino a raggiungere dimensioni fantastiche" (ibid., p. 316). Se in passato, nella prima fase del capitalismo, le qualità personali potevano ancora costituire una possibilità di ascesa, nella fase successiva, con la crescente irrazionalità del sistema, anche ciò viene meno. Qui tutto ormai è abbandonato al caso, e il riconoscimento di questa accidentalità si manifesta attraverso l'adorazione del puro successo, questo Dio del mondo moderno.
Senonché, detto ciò, si tratta di capire perché mai un meccanismo di questo genere abbia la capacità di resistere e di riprodursi, perché mai la maggioranza degli uomini si rassegni a tanta irrazionalità e la accetti come inevitabile, perché insomma ogni giorno si metta in moto un congegno sociale che, considerato alla luce di una razionalità superiore, dovrebbe essere immediatamente soppresso e sostituito.
Secondo Horkheimer per intendere tali processi non basta fare riferimento alla "nuda costrizione", cioè alla forza coercitiva e alla violenza materiale delle classi dominanti sulle classi dominate (attraverso i tribunali, la polizia, ecc.). Se si trattasse solo di questo, la rivoluzione sarebbe all'ordine del giorno in molti paesi capitalistici. In realtà il dominio di classe è infinitamente più complesso, più raffinato e più vischioso, e dunque più resistente: esso si basa infatti sulla "interiorizzazione della costrizione", sia attraverso le istituzioni sociali, sia attraverso le ideologie e le forme culturali. Fra le istituzioni sociali, la famiglia svolge un ruolo primario ed essenziale. "In quanto è una delle più importanti agenzie educative, la famiglia - osserva Horkheimer - provvede alla riproduzione dei caratteri umani come sono richiesti dalla vita sociale, e dà loro in gran parte l'indispensabile capacità di assumere lo specifico comportamento autoritario dal quale dipende in larga misura il sussistere dell'ordinamento borghese" (ibid., p. 322). Nella famiglia, infatti, il figlio, quale che sia il giudizio che egli dà di suo padre, deve subordinarsi a lui e conquistare la sua approvazione, se non vuole provocare gravi dinieghi e conflitti. "Di fronte al figlio in ultima istanza il padre ha sempre ragione; egli rappresenta il potere e il successo, e l'unica possibilità che il figlio ha di preservare interiormente l'armonia tra gli ideali e l'agire obbediente - che prima della conclusione della pubertà è scossa assai di frequente - è quella di attribuire al padre, ossia a colui che ha la forza e il patrimonio, tutte le qualità riconosciute come positive" (ibid., p. 331). L'autorità paterna viene così non solo obbedita, ma profondamente interiorizzata, fino al punto di idealizzarla e di adorarla. Ciò avviene in tutte le famiglie della società borghese, appartenenti ai più diversi strati sociali. Accade così che non solo dalle classi della grande borghesia, ma anche da quelle degli operai e degli impiegati provengano sempre di nuovo generazioni che non solo non mettono in discussione le strutture del sistema economico e sociale, ma al contrario le riconoscono come naturali ed eterne. Finché, dunque, la cellula fondamentale della vita sociale e la cultura su di essa fondata non saranno modificate in modo sostanziale, la società continuerà a produrre tipi caratteriali autoritari (strettamente funzionali a quel rapporto autoritario per eccellenza che è il rapporto lavoratore salariato/capitalista).
I rapporti di subordinazione all'interno della famiglia, se garantiscono i rapporti di subordinazione all'interno della società e fanno corpo con essi, costituiscono anche la base delle ideologie cristiano-borghesi, che a loro volta contribuiscono a cementare gli stessi rapporti di subordinazione sociale. Tipico il caso del protestantesimo; ma lo stesso può dirsi di molte filosofie e di molte concezioni etico-politiche. "Tutta la letteratura politica, religiosa e filosofica dell'epoca moderna è permeata dalla glorificazione dell'autorità, dell'obbedienza, dello spirito di sacrificio, del duro compimento del proprio dovere" (ibid., p. 314).
In breve, la conditio sine qua non per sciogliere il resistente collante ideologico-istituzionale che garantisce la sopravvivenza della società borghese è la dissoluzione della famiglia borghese, fondata sull'autorità paterna, e la creazione di una comunità familiare di tipo nuovo. Questa nuova comunità non deve più basarsi sull'egoismo, sulla proprietà, sull'accumulazione di ricchezza, ecc., né su rapporti autoritari all'interno della famiglia medesima, bensì sull'eguaglianza, sull'amore e sulla solidarietà fra i singoli membri della famiglia per un verso, e fra le varie famiglie per un altro verso; così come deve basarsi sulla emancipazione della donna, e dunque sulla eguale dignità dei coniugi (la quale deve comprendere anche la loro libertà sessuale).
La profonda sensibilità degli esponenti della Scuola di Francoforte per i processi di 'interiorizzazione', attraverso i quali i meccanismi sociali sono vissuti dagli individui, li portava ad avere un grandissimo interesse per la psicologia, e in particolare per la psicologia del profondo. Questo interesse costituisce un fatto importante nella storia del marxismo occidentale e, più in generale, nella storia della cultura europea di ispirazione socialista. Su questo terreno si impegnarono Horkheimer, Fromm, Adorno e Marcuse. E non c'è dubbio che il loro tentativo rispondeva a un'esigenza profonda: quella di superare una visione puramente economicistica del marxismo, e insieme di fecondare quest'ultimo con alcune delle ricerche più ardite e avanzate della cultura contemporanea.
Le prime formulazioni in tal senso risalgono a Horkheimer. Poiché, egli scrive nel 1932, la storia si sviluppa secondo i diversi modi in cui si compie il processo vitale della società umana, non c'è dubbio che le categorie storiche fondamentali non sono quelle psicologiche, bensì quelle economiche. E tuttavia la psicologia, come scienza sussidiaria, è indispensabile ai fini della comprensione della storia. Non si tratta solo dell'importanza dei grandi personaggi storici (e quindi della loro psicologia individuale), bensì di qualcosa di più generale e di più significativo. Gli individui, infatti, non sono mere maschere di rapporti economici: essi vivono sì all'interno di determinati contesti socioeconomici, che imprimono il loro marchio a tutta la loro situazione esistenziale, ma sono dotati di una particolare struttura psichica. Sicché solo attraverso la psicologia si potrà spiegare "in che modo cambiamenti strutturali della vita economica si traducano in cambiamenti di tutte le espressioni vitali dei membri dei diversi gruppi sociali per il tramite della costituzione psichica che essi possiedono in un dato momento" (v. Horkheimer, 1968; tr. it., p. 20). E non solo. È necessario anche ricostruire in che modo si realizzano i meccanismi psichici attraverso i quali possono restare allo stato latente quelle tensioni fra le classi sociali che la situazione economica spinge al conflitto; è necessario capire perché determinati gruppi sociali nutrono fiducia nella stabilità e necessità della gerarchia data e delle potenze sociali dominanti; è necessario, infine, spiegare la partecipazione degli strati inferiori della società ad azioni collettive dalle quali non hanno da attendersi nessun immediato miglioramento della loro situazione economica (per esempio, a guerre). Dare di tutto ciò una spiegazione immediatamente economica, ovvero 'economicistica', sarebbe sbagliato, perché "in questo caso non si terrebbe conto della grande importanza psicologica che ha per gli uomini l'appartenenza a un'unità collettiva rispettata e potente, se essi sono stati educati a considerare come valori il prestigio personale, la carriera, la sicurezza, mentre d'altro lato la loro situazione sociale rende loro impossibile la realizzazione individuale di questi ordini assiologici". "Se noi impariamo dalla psicologia che la soddisfazione dei bisogni che stanno alla base di questi atteggiamenti è una realtà psichica che non deve essere considerata meno intensa dei piaceri materiali, potremo già comprendere molto meglio tutta una serie di fenomeni della storia universale" (ibid., pp. 21-22 e 25-26).
Un'indagine di questo genere non può fare a meno degli strumenti della psicanalisi, e in particolare della distinzione freudiana fra impulsi non differibili (legati essenzialmente all'autoconservazione: fame, sete, ecc.) e impulsi differibili (sessuali in senso lato o libidici), modellabili e suscettibili di soddisfazione fantastica. Infatti, secondo Horkheimer, le azioni degli uomini non sono determinate solo dalla loro tendenza fisica all'autoconservazione, e neppure solo dall'immediato istinto sessuale, ma, ad esempio, anche dal bisogno di estroflettere le loro forze aggressive, e inoltre dall'esigenza che la loro persona sia riconosciuta e confermata, dal bisogno di ottenere sicurezza all'interno di una collettività, e da altri impulsi ancora. Fra gli impulsi non differibili e quelli differibili o 'plastici' esistono complicate connessioni che si realizzano nel corso della storia e che hanno grande importanza.
Significativi sviluppi in questa direzione di ricerca tracciata da Horkheimer si trovano nei lavori di un giovane psicanalista, Erich Fromm, membro sia dell'Istituto psicanalitico di Francoforte che dell'Istituto per la Ricerca Sociale. In un ampio saggio pubblicato sul primo numero (1932) della "Zeitschrift für Sozialforschung" (la rivista dell'Istituto, che aveva sostituito il "Grünbergsarchiv") - Metodo e compito di una psicologia sociale analitica - Fromm cercava di combinare psicanalisi e marxismo per la costruzione di una psicologia sociale. Il principale obiettivo del suo lavoro era quindi quello di mostrare che fra l'opera di Marx e quella di Freud non solo non c'era contrasto insanabile, ma che anzi esse erano affini, ed entrambe indispensabili per una ricerca sociale avanzata.
La psicanalisi, secondo Fromm, è una psicologia scientifica materialistica: essa individua infatti come 'motore' del comportamento umano un insieme di pulsioni e di bisogni che vengono 'alimentati' dagli istinti, i quali hanno un fondamento fisiologico. In modo analogo alla suddivisione popolare degli istinti in fame e amore, anche Freud considera due gruppi di istinti come forze motrici della vita psichica umana: gli istinti di autoconservazione e quelli sessuali.
Freud - afferma Fromm - assume come principio fondamentale della vita psichica il 'principio del piacere', la tendenza cioè delle pulsioni istintuali alla massima scarica apportatrice di piacere. Senonché, il principio del piacere deve fare i conti col 'principio di realtà', nel senso che la realtà esige spesso dai singoli la rinuncia o la dilazione del piacere per evitare un dolore più grande o per ottenere un maggiore piacere futuro. Inoltre, nella concezione freudiana, la struttura istintuale dell'uomo è condizionata da due fattori: la costituzione ereditaria e le vicende della vita, soprattutto quelle della prima infanzia. Questo secondo elemento è molto importante, tanto che lo specifico compito psicanalitico consiste proprio nella ricerca dell'influsso delle esperienze vissute, in particolare di quelle infantili, sulla costituzione istintuale. Sotto questo profilo - sottolinea Fromm - il metodo psicanalitico è squisitamente storico: esso esige infatti la comprensione della struttura istintuale nel quadro delle vicende della vita.
Di grande rilievo e significato è per Fromm la distinzione freudiana fra istinti di conservazione e istinti sessuali: i primi sono di natura imperativa, i secondi sono dilazionabili; i primi non possono essere rimossi, mentre i secondi sono reprimibili; i primi non sono sublimabili, i secondi invece lo sono, nel senso che al posto della soddisfazione diretta di un desiderio sessuale può esserci una soddisfazione remota dall'obiettivo sessuale originario. "Di particolare importanza - afferma Fromm - è inoltre il fatto che la soddisfazione degli impulsi di autoconservazione ha sempre bisogno di strumenti reali, mentre la soddisfazione degli istinti sessuali spesso può avvenire mediante fantasie, senza l'uso di strumenti obiettivi. Parlando concretamente, questo significa che la fame degli uomini si può soddisfare soltanto col pane, ma che per esempio i loro desideri di essere amati si possono soddisfare con la fantasia di un Dio benevolo e amoroso, oppure le loro tendenze sadiche con qualche sanguinoso spettacolo popolare" (v. AA.VV., 1972, pp. 101-102). Questa trasformabilità e permutabilità nell'ambito degli istinti sessuali sarebbe una delle chiavi per la comprensione della vita psichica nevrotica come di quella sana, ed è un elemento essenziale della teoria psicanalitica. Essa rappresenterebbe però anche un fattore sociale di somma importanza, in quanto permette di capire perché siano offerte alle masse, e da loro accettate, proprio quelle soddisfazioni che sono gradite alle classi dominanti.
La teoria psicanalitica viene dunque interpretata da Fromm come biologico-materialistica e storica a un tempo: materialistica perché il suo punto di partenza è costituito dagli istinti, in primo luogo dagli istinti di conservazione, che mantengono sempre, ovviamente, un primato indiscusso, e poi dagli istinti sessuali (in senso lato), che anch'essi non possono rimanere insoddisfatti. E tuttavia - e qui si manifesta il carattere storico della teoria - questo secondo tipo di istinti è 'dislocabile', plasmabile, trasformabile, e può essere soddisfatto sia con rappresentazioni ideologiche (come per esempio le religioni), sia con determinati comportamenti sociali.
Da tutto ciò Fromm ricava la conclusione che la sociologia con cui la psicanalisi ha la maggiore affinità è il materialismo storico. "I maggiori punti di contatto - egli diceva - li troviamo nel fatto che sono entrambe scienze materialistiche. Esse non partono dalle 'idee', ma dalla vita terrena, dai bisogni; e si incontrano specialmente nella loro comune valutazione della coscienza, che a loro sembra essere non il motore del comportamento umano, bensì il riflesso di altre forze nascoste" (ibid., p. 104).
E tuttavia, nonostante questi punti di contatto fra marxismo e psicanalisi, Fromm non si nasconde anche i punti di contrasto. In primo luogo, egli riconosce che il materialismo storico vede nella coscienza l'espressione dell'essere sociale, mentre la psicanalisi vi vede l'espressione dell'inconscio.Fromm cerca di sfuggire a questa difficoltà rilevando che Freud non aveva mai posto come oggetto della psicologia l'uomo isolato, sciolto dalle sue connessioni sociali. Del resto, Freud stesso aveva affermato, in Psicologia delle masse e analisi dell'Io, che, poiché il singolo non può essere considerato a prescindere dai suoi legami con coloro che costituiscono il suo ambiente familiare, la psicologia individuale è al tempo stesso psicologia sociale. Dunque, secondo Fromm, se per Freud oggetto della psicologia è sempre soltanto l'uomo socializzato, l'uomo nella sua interdipendenza sociale, anche l'ambiente e le condizioni di vita dell'uomo devono svolgere un ruolo decisivo sia per il suo sviluppo psichico che per la comprensione teoretica di esso.
Un'altra difficoltà nella quale Fromm si imbatteva consisteva nel fatto che la psicanalisi spiega lo sviluppo di un individuo in base alle vicende della prima infanzia, e quindi con riferimento a un periodo in cui il singolo ha ancora rapporti assai scarsi con la società e vive quasi esclusivamente nel circolo familiare, sicché i rapporti socioeconomici non possono avere una grande importanza. Ma a ciò Fromm ribatteva che, se è vero che i primi influssi decisivi sul bambino provengono dalla famiglia, è parimenti vero che la struttura globale della famiglia, tutte le relazioni emozionali all'interno di essa, tutti gli ideali educativi da essa rappresentati, sono essi stessi condizionati dallo sfondo sociale e di classe della famiglia, dalla struttura sociale da cui essa trae le sue origini. E tuttavia, c'erano altre difficoltà sulla strada dell'integrazione fra psicanalisi e marxismo, difficoltà che, questa volta, apparivano a Fromm insormontabili. Due, in particolare, erano gli elementi della concezione freudiana da lui criticati e respinti. In primo luogo il fatto che Freud avesse riconosciuto l'esistenza nell'uomo, accanto alle pulsioni erotiche, delle pulsioni distruttive: Eros e Thanatos venivano a costituire entrambi, per il fondatore della psicanalisi, la struttura pulsionale della personalità umana. Fromm non accettava questa posizione freudiana (da lui considerata speculativa e non empirica); e si capisce bene il perché. Essa, infatti, metteva radicalmente in forse la prospettiva marxista di una palingenesi sociale, di una comunità che divenisse realmente tale grazie alla soppressione della proprietà privata, e quindi fosse interamente caratterizzata da rapporti di amore, di solidarietà, di benevolenza reciproca.
L'altro punto sul quale Fromm dissentiva da Freud riguardava la valutazione del 'complesso edipico'. Secondo Fromm, la psicanalisi aveva assolutizzato il 'complesso di Edipo' (cioè la rivalità del figlio con il padre per il possesso della madre), in quanto ne aveva fatto un meccanismo psicologico universale, sebbene ricerche comparate di psicologia e di antropologia culturale avessero mostrato che questa specifica attitudine emozionale è tipica soltanto della famiglia patriarcale e non riveste un carattere così universalmente umano.
Ma, riconosciuti questi punti di dissenso dalla psicanalisi, Fromm riteneva, per i motivi già detti, che essa avesse sviluppato concetti fecondi e senza dubbio fondamentali, che dovevano essere integrati nel materialismo storico. E a questo punto di vista gli esponenti della Scuola di Francoforte tennero fermo anche negli anni successivi.
La forte sottolineatura degli aspetti psicologici e antropologico-culturali del dominio di classe fatta dagli esponenti della Scuola di Francoforte non significava affatto che essi trascurassero gli aspetti più strettamente economico-sociali e politici della dinamica del capitalismo. Su questo punto, anzi, si registrò una vivace dialettica nell'ambito dell'Istituto per la Ricerca Sociale.
Henryk Grossmann aveva sostenuto, alla fine degli anni venti, che le tendenze economiche del sistema capitalistico lo avrebbero portato fatalmente al crollo (l'opera di Grossmann La legge dell'accumulazione e del crollo del sistema capitalistico fu pubblicata nel 1929). Ma i principali esponenti dell'Istituto, raccolti intorno a Horkheimer, non aderirono alle idee di Grossmann e imboccarono un'altra via. In questo nuovo approccio teorico si impegnò soprattutto uno stretto collaboratore di Horkheimer, Friedrich Pollock, in una serie di saggi apparsi negli anni 1932-1933 sulla rivista dell'Istituto, la "Zeitschrift für Sozialforschung". In questi lavori Pollock respinse esplicitamente qualunque teoria del crollo, ma ciò non lo indusse affatto a formulare previsioni rosee sul futuro, poiché egli riteneva che il sistema capitalistico fosse avviato verso una depressione cronica e verso un'irrazionalità complessiva sempre crescente.
Il punto fondamentale dal quale egli partiva nella propria analisi consisteva nel rilievo che, a differenza di quanto avveniva nel capitalismo concorrenziale, nel capitalismo monopolistico si realizzava uno stretto intreccio fra economia e politica: in questa nuova fase l'intervento dello Stato nella sfera economica costituiva non più l'eccezione bensì la regola per il funzionamento del sistema. Secondo Pollock, ciò era dovuto in primo luogo al processo di concentrazione e di centralizzazione del capitale, che aveva raggiunto livelli straordinari (già nel 1927, nell'industria americana, oltre il 44% del capitale apparteneva a 200 imprese circa, molte delle quali collegate fra loro attraverso 'cartelli' e trusts). Senonché, l'aumento colossale delle dimensioni delle aziende conferiva ai loro dirigenti un crescente potere non solo economico ma anche politico. Per un verso, infatti, le imprese 'facevano' i prezzi; per un altro verso, questi prezzi potevano essere conservati solo con una politica doganale, richiesta e ottenuta dalle grandi imprese, che teneva lontana la concorrenza straniera dai mercati interni.
Ma il profondo intreccio fra economia e politica non si manifestava solo qui. Esso si manifestava anche e soprattutto nel sostegno diretto che lo Stato dava in misura crescente alle singole imprese. Queste, infatti, avevano raggiunto dimensioni tali che nessun potere statale poteva stare a guardare il loro fallimento restando inerte. In questo modo, però, le grandi aziende incameravano i profitti e scaricavano le perdite sui contribuenti. Di qui il sorgere di un capitalismo, oltre che 'controllato', anche parassitario, assistito o 'garantito'. Si trattava, secondo Pollock, di un mutamento fondamentale, strutturale, del sistema capitalistico; di un mutamento destinato, oltretutto, a estendersi ulteriormente e ad approfondirsi. Ma la modificazione strutturale realizzata dal 'capitalismo garantito' intaccava gravemente il meccanismo del mercato, cioè quel congegno che - sia pure attraverso crisi cicliche e conseguenti distruzioni di ricchezza - permetteva, bene o male, l'autoregolamentazione del sistema, e quindi il suo funzionamento. Perciò, lungi dallo stabilizzarsi, il 'capitalismo garantito' avrebbe aggravato in modo sensibile tutti i difetti e tutti gli inconvenienti del capitalismo concorrenziale. In modo particolare sarebbero aumentati gli investimenti 'equivoci' su vasta scala e si sarebbero acuite le sproporzioni fra i singoli rami dell'economia (v. Pollock, 1973). Da questa analisi Pollock ricavava la conseguenza che il sistema capitalistico, mentre sul piano economico avrebbe aggravato la propria irrazionalità complessiva, sul piano sociopolitico, col superamento della fase liberistico-liberale, sarebbe passato a una fase autoritaria.
Sotto questo profilo l'esito totalitario della storia tedesca era, secondo Pollock, tutt'altro che casuale, e non poteva essere valutato in nessun modo come una parentesi (come invece ritenevano alcuni autorevoli marxisti). Per un verso, infatti, nel capitalismo maturo un gruppo sempre più ristretto di feudatari economici e di loro funzionari si avviava a essere il vero e proprio usufruttuario dell'ordinamento capitalistico; per un altro verso, il parlamentarismo era poco adatto a questa nuova fase in quanto corrispondeva a una concentrazione meno avanzata del potere economico. Di qui la nascita del nuovo Stato autoritario. Esso produceva, secondo Pollock, un singolare effetto 'ottico', poiché, abolito il condizionamento del parlamentarismo, e potendo disporre dell'intero apparato del dominio psicologico sulle masse, i governi di questa nuova fase sembravano essere indipendenti dalle classi e stare imparzialmente al di sopra della società. Senonché, si trattava appunto solo di una illusione ottica. L'avvento del totalitarismo esprimeva in realtà la quintessenza del capitalismo maturo o 'controllato', in cui veniva annientata, prima di tutto, la resistenza della classe operaia, sia attraverso i metodi del condizionamento di massa, sia attraverso la disoccupazione (che funzionava come strumento di divisione dei lavoratori e come deterrente a un tempo). Da questo punto di vista, Pollock non faceva molte distinzioni fra Germania e Stati Uniti (non a caso, nei saggi ai quali abbiamo fatto riferimento, egli assimilava la storia sociopolitica americana a quella tedesca, e passava con facilità dall'una all'altra). E in ciò egli esprimeva certo le convinzioni più profonde dei principali esponenti della Scuola di Francoforte.
Non era dunque per un omaggio puramente formale che Herbert Marcuse, nella sua prima analisi organica del nazionalsocialismo, rinviava esplicitamente ai lavori di Pollock. In un saggio pubblicato sulla "Zeitschrift für Sozialforschung" nel 1934, La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, Marcuse sosteneva infatti che il nuovo Stato autoritario era figlio legittimo del liberalismo, nel senso che ne costituiva il risultato inevitabile e la logica conclusione. Naturalmente, era una tesi ardua da sostenere, e l'autore non se ne nascondeva le difficoltà.
Come spiegare, infatti, la violenta polemica degli esponenti ideologici dello Stato autoritario-totalitario contro il liberalismo? In realtà tale polemica era basata, secondo Marcuse, in parte su un equivoco, in parte su una 'ideologizzazione' del liberalismo, che ne occultava i caratteri più veri ed essenziali, che erano quelli economico-sociali. Infatti, i principali 'peccati' che la nuova concezione totalitaria rimproverava alla società liberale erano le 'idee del 1789', l'umanesimo e il pacifismo da rammolliti, l'intellettualismo, l'individualismo egoistico, l'abbandono della nazione e dello Stato alla lotta degli interessi di determinati gruppi sociali, l'egualitarismo astratto, la partitocrazia, l'effetto disgregatore del tecnicismo e del materialismo. Senonché, secondo Marcuse, quasi nessuno di questi 'peccati' era caratteristico del liberalismo storico. In realtà, il liberalismo non sempre aveva fatta propria la causa del pacifismo e dell'internazionalismo, anzi era stato uno dei più forti propugnatori di una nazione potente, e aveva combattuto anche troppe guerre nazionali. Inoltre, nel periodo dominato dal liberalismo, lo Stato era intervenuto spesso nella vita economica, soprattutto nei riguardi del proletariato, quando la libertà e la sicurezza della proprietà apparivano minacciate. Le classiche rivendicazioni politiche del liberalismo (libertà di parola e di stampa, sistema rappresentativo e parlamentare, divisione ovvero equilibrio dei poteri) non erano mai state realizzate completamente e, a seconda delle varie situazioni sociali, erano state limitate o del tutto sospese.
La nuova concezione totalitaria occultava tutto ciò e dava una rappresentazione distorta del liberalismo; e ciò perché, secondo Marcuse, essa aveva bisogno di occultare un fatto ben più importante e fondamentale: che lo Stato autoritario accettava ed ereditava largamente la struttura sociale del liberalismo stesso, il cui fondamento era costituito dall'organizzazione della società basata sull'economia privata, cioè sul riconoscimento della proprietà e dell'iniziativa degli imprenditori. "Proprio questa organizzazione della società - affermava Marcuse - rimane alla base anche dello Stato totalitario e autoritario; essa è stata sanzionata espressamente in una serie di dichiarazioni programmatiche. Le forti modificazioni e limitazioni di questa organizzazione, compiute ovunque, corrispondono alle esigenze monopolistiche dello sviluppo dell'economia capitalistica stessa, e non mettono in discussione il principio dell'organizzazione dei rapporti di produzione" (v. Marcuse, 1965; tr. it., pp. 10-11). E infatti, se si guardava con attenzione, la polemica contro il borghese svolta dalla nuova concezione autoritario-totalitaria era diretta sempre e soltanto contro una figura determinata del borghese (contro il tipo del piccolo commerciante con la sua meschinità) e contro una forma determinata del capitalismo (rappresentata dalla libera concorrenza di singoli capitalisti autonomi): cioè contro figure e forme che erano già state superate dallo sviluppo economico. Quello che non era tramontato, invece, e che costituiva l'elemento di continuità fra liberalismo e totalitarismo, era l'ordinamento socio-giuridico che solo rendeva possibile il borghese: la proprietà privata dei mezzi di produzione.
Tale continuità di fondo spiegava, secondo Marcuse, anche gli importanti elementi di continuità ideologica che, al di là di tutte le polemiche, sussistevano fra liberalismo e totalitarismo nazifascista: in primo luogo, l'odio spietato contro il socialismo marxista; e poi la fede nelle eterne leggi naturali che reggono la vita sociale. Né era da trascurare il fatto che il culto carismatico-autoritario del capo era già stato prefigurato dal liberalismo con la celebrazione del geniale capo d'azienda, del boss 'nato', ecc. Dunque, a veder bene, molti elementi della concezione totalitaria dello Stato erano già impliciti nella concezione liberale. Né ciò doveva stupire, secondo Marcuse, perché, se è vero che liberalismo e autoritarismo fascista corrispondevano a due diverse fasi dello sviluppo capitalistico (l'uno al capitalismo fondato sulla libera concorrenza fra piccoli imprenditori autonomi, l'altro al capitalismo monopolistico fondato sulle grandi unità economiche, sui 'cartelli' e sui trusts), è anche vero che "il passaggio dallo Stato liberale allo Stato totalitario e autoritario si compie sulla base dello stesso ordine sociale. Tenendo presente questa base economica unitaria, si può dire che sia il liberalismo stesso a 'generare' lo Stato totalitario e autoritario, che ne è il perfezionamento in uno stadio avanzato dello sviluppo. Lo Stato totalitario e autoritario fornisce l'organizzazione e la teoria della società che corrispondono allo stadio monopolistico del capitalismo" (ibid., p. 19). In questa ottica, Marcuse riteneva che l'esito totalitario fosse inevitabile per tutti i paesi capitalistici avanzati, nei quali l'economia assumeva sempre più connotati monopolistici. Sotto questo profilo, la Germania di Hitler e l'America di Roosevelt avevano imboccato lo stesso cammino, e qualsiasi differenza fra loro era destinata a scomparire.
Come si vede, lo schema proposto da Marcuse mostrava di non avere strumenti sociopolitici e culturali per intendere i motivi del persistere della liberaldemocrazia in alcuni grandi paesi capitalistici avanzati, e tendeva a vedere anche questi ultimi attraverso la categoria dell''autoritarismo'. Si trattava di un modo a dir poco manicheo di considerare gli sviluppi politici del mondo contemporaneo, di una visione che, ispirata a un marxismo per molti versi elementare ed estremistico, perdeva il senso delle proporzioni e delle distinzioni. Ciò, del resto, fu rilevato nell'ambito stesso della Scuola di Francoforte, per esempio da Franz Neumann.Tutta questa tematica venne ripresa nel 1942 da Horkheimer, nel suo saggio su Lo Stato autoritario, che diede un'impronta decisiva alla linea teorico-politica dell'Istituto per la Ricerca Sociale. Horkheimer introdusse però un'aggiunta di grande importanza: per lui lo Stato autoritario o totalitario dominava ormai dappertutto, e cioè sia nei regimi fascisti, sia nei regimi democratici, sia nell'Unione Sovietica. È opportuno vedere come Horkheimer argomentava questa sua generalizzazione (che utilizzava i saggi scritti da Pollock nella seconda metà degli anni trenta, nei quali quest'ultimo aveva ulteriormente elaborato e perfezionato l'analisi da lui sviluppata all'inizio del decennio).
Nei regimi cosiddetti democratici - secondo Horkheimer - ha luogo una serie di processi paralleli e interdipendenti che avviluppano la società in una maglia di acciaio, dalla quale il singolo è completamente schiacciato: nelle grandi aziende e nei cartelli la scissione fra proprietà e controllo genera delle burocrazie manageriali onnipotenti, che agiscono e si riproducono del tutto indipendentemente dai singoli azionisti, ridotti a puri rentiers, cioè a parassiti privi di qualunque potere decisionale; nello Stato, l'esecutivo, oltre a essere legato per mille fili alle burocrazie industriali, detiene tutte le leve di comando del capitalismo di Stato, e perciò diviene un potere mostruoso che regola e fa funzionare la società come un'azienda, predeterminandone esigenze, bisogni, gusti, modi di vita, ecc.; i grandi sindacati operai, a loro volta, si burocratizzano, al pari di tutte le grandi associazioni, e finiscono per essere dominati da cricche potentissime, che non rispondono più ad alcuno, e che si riproducono per autoselezione, attraverso strutture gerarchiche e metodi autoritari.
Liquidati in questo modo gli Stati democratici, Horkheimer riservava però i giudizi più aspri all'URSS, da lui equiparata al fascismo. "Il fascismo e più ancora il bolscevismo, dovrebbero aver insegnato che proprio ciò che appare folle al ragionamento obiettivo di un esperto è invece la realtà di tutti i giorni e che la politica, secondo un'espressione di Hitler, non è l'arte del possibile ma dell'impossibile" (v. Horkheimer, 1978, pp. 88-89). Si tratta di un giudizio tanto più rimarchevole ove si tenga presente che esso venne pronunciato durante la guerra, allorché la grande maggioranza degli intellettuali di sinistra simpatizzava per l'URSS, non solo perché vedeva in essa una componente essenziale del fronte antifascista, ma anche perché la considerava la prima realizzazione socialista della storia (sia pure con dei 'difetti', dovuti alle circostanze eccezionali). Per Horkheimer, al contrario, la Rivoluzione bolscevica era completamente fallita: invece di dar vita alla democrazia dei consigli, si era istituzionalizzata come autorità; in Russia la disciplina e l'ordine avevano salvato lo Stato, ma avevano spazzato via la rivoluzione; tutti i produttori erano diventati operai salariati dominati e sfruttati dallo Stato capitalista, sicché, inevitabilmente, il regolamento della fabbrica era stato esteso a tutta la società. Ma un dominio così completo e capillare dello Stato sulla società poteva realizzarsi solo con la coercizione, con la polizia politica e col terrore di massa. Il potere dominante giustificava tutto ciò con l'edificazione del socialismo, cioè con l'estinzione, in futuro, dello Stato. Ma questa era solo una menzogna. "Non c'è cosa al mondo - osservava Horkheimer - che possa legittimare più a lungo la violenza della sua indispensabilità ai fini della cessazione della violenza stessa" (ibid., p. 86). E ancora, più sarcasticamente: "Poiché l'illimitata quantità di beni di consumo e di lusso appare come miraggio, viene legittimata la cristallizzazione del dominio che era destinato a estinguersi nella prima fase. Con le spalle coperte dai cattivi raccolti e dalla carenza di alloggi, si annuncia che il governo della polizia segreta scomparirà solo quando si sarà realizzato il paese della cuccagna" (ibid., p. 83).
Per Horkheimer, l'URSS costituiva la forma più perfetta di Stato autoritario fondato sul capitalismo di Stato, poiché, mentre nei regimi fascisti il profitto, anche se veniva estratto e distribuito sotto il controllo statale, aveva pur sempre un ruolo fondamentale, e la sua distribuzione creava, in certa misura, attriti, difficoltà e contrasti, nello statalismo integrale, invece, tutti i problemi di questo tipo scomparivano, e il potere era un mostruoso Moloch che plasmava e dominava molecolarmente tutta la società.
Queste analisi di Horkheimer presentavano certamente aspetti nuovi e originali, che avrebbero avuto successivamente ampi sviluppi nel pensiero filosofico-politico e politologico (da Hannah Arendt a Raymond Aron): basti pensare alla categoria di 'totalitarismo', applicata a sistemi politici - come la Germania nazista e la Russia staliniana - caratterizzati sì da molteplici differenze, ma accomunati anche da parecchie affinità (partito unico, culto del capo carismatico, soppressione delle libertà civili e politiche, fanatizzazione delle masse, annientamento fisico degli avversari politici, uso del terrore su larga scala, ecc.). Aver sostenuto questo punto di vista agli inizi degli anni quaranta costituisce certo, da parte di Horkheimer, una prova notevole di coraggio e di indipendenza intellettuali. Anche se l'originalità della sua posizione è poi compromessa dal fatto che sotto la categoria di totalitarismo egli comprende anche gli Stati liberaldemocratici, cioè quegli Stati i cui sistemi politici sono caratterizzati dalla salvaguardia dei diritti civili e politici, dal pluralismo sociale e culturale, dal parlamento eletto a suffragio universale, dalle garanzie date a tutti i partiti, ecc. Elementi, questi, che ovviamente non possono essere trascurati o sottovalutati a causa dei meccanismi, certo potenti, di burocratizzazione, di conformismo e di standardizzazione, tipici della società di massa.
Dopo la conquista del potere da parte del nazionalsocialismo in Germania, l'Istituto per la Ricerca Sociale era stato trasferito negli Stati Uniti, a New York, presso la Columbia University, e i suoi principali esponenti (oltre a Horkheimer, Theodor W. Adorno, Herbert Marcuse, Leo Löwenthal, Erich Fromm, Karl Wittfogel) si erano trovati a vivere nel paese capitalistico più sviluppato. Questa esperienza ebbe una grandissima importanza per lo sviluppo della loro riflessione, che si incentrò sui caratteri sociali e culturali della società industriale moderna.
Nel 1941 Marcuse pubblicò sugli "Studies in philosophy and social sciences" (la rivista dell'Istituto pubblicata in lingua inglese, che aveva sostituito la "Zeitschrift für Sozialforschung") un saggio, Alcune implicazioni sociali della moderna tecnologia, che contiene una rapida sintesi di molti temi sviluppati più tardi dall'autore.
La tecnica in sé, secondo Marcuse, può promuovere libertà come autoritarismo, abbondanza come scarsità, abolizione come intensificazione del lavoro. Senonché, nel corso della sua indagine, l'autore non solo attenuava, ma addirittura sopprimeva questo carattere 'neutrale' della tecnica, per vedere nella 'società tecnologica' la società totalitaria per eccellenza.
Nel XVI e nel XVII secolo, sosteneva Marcuse, l'individuo aveva espresso determinati criteri e valori fondamentali (religiosi, politici ed economici) che nessuna autorità esterna aveva potuto conculcare. Tali criteri e tali valori avevano ispirato forme di vita, sociale oltre che personale, adatte al pieno sviluppo delle facoltà e delle capacità dell'uomo: perciò esse avevano rappresentato la 'verità' della sua esistenza. L'individuo si riteneva capace, in quanto essere razionale, di ritrovare queste forme col proprio pensiero, e di tradurle nella realtà. Il compito del potere politico era soltanto quello di garantire al singolo questa libertà e di rimuovere tutte le restrizioni all'esercizio della razionalità umana. Ciò avveniva nell'ambito di una struttura economico-sociale costituita da una miriade di piccoli imprenditori indipendenti in concorrenza tra loro. Di fronte a essi lo Stato si limitava a tutelare le regole del gioco, e l'individuo, attraverso la propria capacità di intrapresa, provvedeva ai propri bisogni personali e a quelli di una parte della società.
Nel corso del tempo, però, il processo di produzione delle merci sgretolò la base economica su cui si era costruita la razionalità individualistica. La meccanizzazione e la razionalizzazione dei processi produttivi costrinsero i concorrenti più deboli a subire il predominio dei grandi colossi industriali. Questa nuova situazione trasformò la razionalità individualistica in razionalità tecnologica, la quale non limitò il proprio influsso ai soggetti operanti nelle imprese giganti, bensì plasmò la società a tutti i livelli. Ne nacque il tipo di razionalità che predomina ancor oggi, la quale stabilisce criteri di giudizio e incoraggia atteggiamenti che predispongono l'uomo ad accettare e persino a interiorizzare le imposizioni del sistema. Il 'libero' soggetto economico è divenuto oggetto di un'organizzazione e di una pianificazione su larga scala, e la conquista individuale si è trasformata in efficienza standardizzata. "Quest'ultima - scrive Marcuse - è caratterizzata dal fatto che il rendimento individuale è motivato, guidato e misurato da criteri esterni, criteri che appartengono a determinati compiti e funzioni. L'individuo efficiente è quello il cui rendimento è un'azione solo nella misura in cui è la reazione più appropriata alle oggettive pretese del sistema, e la sua libertà si limita alla selezione dei mezzi più adeguati per raggiungere una meta che lui non ha stabilito" (v. AA.VV., 1981, p. 142). I rapporti fra gli uomini sono sempre più mediati dai processi meccanici, i quali funzionano secondo le leggi della fisica e sono finalizzati alla produzione di massa. La razionalità si trasforma così da forza critica in razionalità tecnologica, cioè in un atteggiamento di adeguamento e di acquiescenza. "L'autonomia della ragione perde di significato nella stessa misura in cui pensieri, sentimenti e azioni dell'uomo vengono plasmati dalle esigenze tecniche del sistema che lui stesso ha creato. La ragione si è trovata una comoda nicchia di quiete nel sistema del controllo standardizzato della produzione e del consumo. Qui essa regna attraverso le leggi e i meccanismi che assicurano l'efficienza, l'utilità e la coerenza del sistema" (ibid., p. 148). L'individuo diventa così un accessorio di un apparato o di un complesso di apparati che gli impone le proprie regole, la propria legalità, le proprie necessità.
Questo quadro, tracciato da Marcuse, dell'asservimento dell'uomo contemporaneo al funzionamento della società industriale avanzata o società tecnologica era condiviso, nella sua ispirazione di fondo, da tutti i membri dell'Istituto per la Ricerca Sociale. E infatti la critica degli stili di vita e dell'ideologia di tale società, e, prima ancora, del cammino secolare che ha portato a essa (critica nella quale si impegnarono soprattutto Horkheimer e Adorno), fu sviluppata nella stessa direzione. Nacquero così, negli anni quaranta, due opere assai note: Dialettica dell'illuminismo di Horkheimer e Adorno e L'eclisse della ragione di Horkheimer.Nella prima opera (scritta negli anni 1942-1944 e pubblicata nel 1947) il tema centrale era "l'autodistruzione dell'illuminismo": il fatto, cioè, che la pretesa dell'uomo di accrescere sempre più il proprio dominio sulla natura si rovescia necessariamente nel suo contrario, nell'asservimento dell'uomo e nella sua degradazione. L'illuminismo qui non designa più un'epoca storico-politica e culturale determinata, bensì viene dilatato sino a comprendere tutto il complesso degli atteggiamenti degli uomini tesi a dominare e a trasformare la natura: dalla creazione dei primi utensili agli albori dell'Homo sapiens fino ai grandi laboratori della fisica contemporanea.
Questa enorme dilatazione del concetto di illuminismo rispondeva a un'esigenza precisa: quella di criticare tutta la civiltà occidentale, in quanto impegnata sin dagli inizi in un'opera di dissacrazione della natura, opera che ha generato inevitabilmente un mondo infernale per gli uomini. Secondo i due autori, infatti: "L'illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l'obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all'insegna di trionfale sventura. [...] Gli uomini pagano l'accrescimento del loro potere con l'estraniazione da ciò su cui lo esercitano. L'illuminismo si rapporta alle cose come il dittatore agli uomini: che conosce in quanto è in grado di manipolarli. [...] Ogni tentativo di spezzare la costrizione naturale spezzando la natura, cade tanto più profondamente nella coazione naturale. È questo il corso della civiltà europea" (v. Horkheimer e Adorno, 1947; tr. it., pp. 11, 17, 21). Con questa pretesa di conoscere la natura per trasformarla e plasmarla ai propri fini, l'uomo ha voluto rendersi simile a Dio, e ci è riuscito pienamente: "Come signori della natura, Dio creatore e spirito ordinatore si assomigliano. La somiglianza dell'uomo con Dio consiste nella sovranità sull'esistente, nello sguardo padronale, nel comando" (ibid., p. 17). Sguardo padronale, comando, dominio della ragione strumentale sulle cose: tutto ciò determina la sventura dell'uomo occidentale, la cui pretesa 'civiltà' è in realtà un processo inarrestabile di decadenza e di imbarbarimento, che va da Odisseo a Hitler.
In Eclisse della ragione (composta nel 1944 e pubblicata anch'essa nel 1947), Horkheimer sostenne che col progredire dell'illuminismo la ragione soggettiva trionfa sempre più sulla ragione oggettiva: la ragione soggettiva essendo quella ragione alla quale interessa esclusivamente il rapporto fra mezzi e fini, a prescindere dalla questione se i fini siano razionali in se stessi. L'idea che un fine possa essere ragionevole in sé, indipendentemente da qualsiasi vantaggio che esso possa arrecare, è completamente estranea alla ragione soggettiva.
Questo modo di concepire la ragione è, secondo Horkheimer, il sintomo più importante di un profondo mutamento avvenuto negli ultimi secoli nell'ambito del pensiero occidentale. Per molto tempo, infatti, è prevalsa una concezione diametralmente opposta della ragione. Secondo quella concezione, la ragione esisteva non solo nella mente dell'individuo ma anche nel mondo oggettivo: nei rapporti fra gli esseri umani e fra le classi, nelle istituzioni sociali, nella natura e nelle sue manifestazioni. "Grandi sistemi filosofici, come quelli di Platone e di Aristotele, la filosofia scolastica e l'idealismo tedesco, furono impostati sulla base di una teoria oggettiva della ragione. Partendo da questa si era cercato di stabilire una gerarchia di tutti gli esseri in cui erano compresi l'uomo e i suoi fini" (v. Horkheimer, 1947; tr. it., p. 12). Il grado di ragionevolezza della vita umana dipendeva dalla misura in cui essa si armonizzava con la totalità. Questa concezione non negava l'esistenza della ragione soggettiva, ma la considerava solo un'espressione limitata e parziale di una razionalità universale dalla quale venivano dedotti i criteri per tutti gli esseri. In questa concezione contavano i fini, non i mezzi.
Questo grande retaggio della civiltà occidentale è andato perduto. Pensatori come Platone, Aristotele, Giordano Bruno e Spinoza - i quali ritenevano che la filosofia dovesse essere lo strumento per spiegare e rivelare il contenuto della ragione oggettiva, in cui si specchiava la vera natura delle cose e da cui si potevano derivare le giuste norme di vita - sono ormai considerati pensatori 'metafisici', che nulla o ben poco hanno da dire al pensiero moderno. A questa dissacrazione hanno contribuito tutte le filosofie empiristiche e illuministiche, e, naturalmente, quelle neoempiristiche e neoilluministiche.
Infatti sia nel moderno positivismo (in tutte le sue varianti), sia nel pragmatismo, la ragione, privata della propria autonomia, diventa un puro e semplice strumento. Nel pragmatismo, soprattutto, le idee, i concetti, le teorie sono solo schemi e progetti d'azione, e quindi sono veri solo quando e in quanto hanno successo. Queste sedicenti 'filosofie' sono peraltro il riflesso di una situazione ben precisa, in cui la ragione è ormai completamente aggiogata al processo sociale, sicché l'unico criterio della sua validità è cercato nel suo valore strumentale, nella sua funzione di mezzo per dominare gli uomini e la natura. I concetti sono diventati puri e semplici strumenti di lavoro, estremamente funzionali e razionalizzati; ogni loro riferimento ad altro è stato eliminato come un'ultima traccia di superstizione. Si potrebbe dire che il pensiero è stato ridotto al livello dei processi industriali. Del resto, esso è diventato, in quanto ratio formale, parte integrante del funzionamento dell'industria. A questa critica delle ideologie e delle filosofie contemporanee la Scuola di Francoforte congiungeva una critica non meno aspra della 'cultura di massa'. In questa direzione si impegnò soprattutto Adorno, con una vasta produzione saggistica incentrata su quello che egli riteneva uno degli aspetti più nefasti della 'società tecnologica': l'industria culturale, che manipola l'individuo, lo priva di ogni capacità di giudizio autonomo e di critica, e lo rende omogeneo al 'sistema'. Di qui le famose pagine di Adorno sui mass media (cinema, radio, televisione, rotocalchi, pubblicità, dischi), che non solo trasmettono l'ideologia dei ceti e degli apparati che detengono il potere, ma sono essi stessi tale ideologia, indipendentemente dai contenuti che trasmettono. E ciò perché l'obiettivo dei mass media non può non essere quello di creare un linguaggio 'universale', cioè fruibile da tutti, e quindi non può non essere quello di sopprimere tutte le differenze individuali (intellettuali, di gusto, ecc.), di ottundere la ragione, di creare un conformismo di massa. Con ciò la critica del 'sistema' illuministico-tecnologico svolta da Adorno mostrava di essere una critica radicale e totale, che nulla concedeva alla vecchia società, sicché l'ipotizzata società nuova non poteva non configurarsi come qualcosa di 'totalmente altro'. La 'dialettica negativa' (di chiara ascendenza hegeliana, e assai affine all'ispirazione della sinistra hegeliana) postulava quindi un vero e proprio salto nell'utopia. Adorno ha dato un importante contributo anche allo sviluppo di quelle indagini sociopsicologiche che, come abbiamo visto, costituirono fin dall'inizio uno degli obiettivi principali della Scuola di Francoforte, secondo il programma tracciato da Horkheimer. Nella seconda metà degli anni quaranta, infatti, Adorno si impegnò, in collaborazione con altri membri dell'Istituto per la Ricerca Sociale, in una vasta ricerca su La personalità autoritaria (New York 1950). Tale ricerca, condotta su un campione di 2.000 individui, scelti nei ceti medio-alti, si proponeva di indagare, attraverso opportune interviste e test, "un nuovo tipo antropologico", la personalità autoritaria appunto, ovvero le dinamiche sociopsicologiche dei tipi umani prodotti dalla società industriale avanzata. Per descrivere la "sindrome autoritaria", Adorno utilizzava ampiamente le teorie di Freud sul complesso edipico (tipico, secondo Adorno, di quella famiglia autoritaria che costituisce la cellula elementare della società contemporanea), e sosteneva che negli individui nei quali i conflitti edipici sono scarsamente risolti, l'aggressività verso la figura paterna viene da essi trasformata da un lato in obbedienza masochistica e dall'altro lato in ostilità sadica distorta.
Questo quadro psicologico ha, secondo Adorno, rilevanti conseguenze sociopolitiche, poiché la repressione interna degli impulsi si accompagna con la repressione sociale e politica esterna, ovvero il primo tipo di repressione richiede e giustifica il secondo. In tal modo Adorno dava una spiegazione sociopsicologica delle tendenze autoritarie latenti nella società contemporanea, tendenze che avevano trovato nei totalitarismi del nostro secolo la loro espressione più compiuta. La concezione elaborata dalla Scuola di Francoforte sulla condizione della cultura nella società industriale avanzata affrontava poi un altro tema essenziale: il destino dell'arte in tale società. Per intendere bene le idee della Scuola a questo proposito, bisogna rifarsi al saggio di Walter Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, pubblicato nel 1936 sulla "Zeitschrift für Sozialforschung". In questo saggio Benjamin sosteneva che ciò che vien meno nella nostra epoca è l'"aura" dell'opera d'arte, il suo hic et nunc, la sua essenza più profonda: la società industriale capitalistica, insomma, porta con sé la morte dell'arte. Nella nostra epoca, infatti, l'opera d'arte diviene sempre più un'opera predisposta alla riproducibilità, e perde in tal modo la propria unità/autenticità, sicché l'intera funzione artistica si trasforma. Per illustrare questo intreccio di problemi, Benjamin sottolineava le profonde differenze fra l'attore teatrale e l'attore cinematografico. La prestazione artistica del primo viene offerta al pubblico da lui stesso, in prima persona; la prestazione artistica del secondo viene offerta invece attraverso un'apparecchiatura. Ne discendono alcune fondamentali conseguenze. La prestazione artistica dell'attore teatrale costituisce una totalità (di azioni-gesti-sentimenti) che lo spettatore percepisce direttamente; la prestazione dell'attore cinematografico, invece, non è una totalità, bensì viene sminuzzata in una serie di momenti staccati fra loro ('girati' in tempi diversi, a seconda degli 'interni' e degli 'esterni', dell'organizzazione generale, ecc.), ricomposti solo successivamente, col montaggio, e poi offerti al pubblico. Così, mentre l'attore di teatro adegua la propria interpretazione al pubblico durante lo spettacolo, ciò è impedito all'attore cinematografico, che risponde soltanto a indicazioni che gli provengono dall'esterno. In breve, mentre l'aura che sul palcoscenico circonda Macbeth non può essere distinta da quella che, grazie al pubblico, avvolge l'attore che lo interpreta, la peculiarità delle riprese negli studi cinematografici sta invece in ciò, che esse pongono l'apparecchiatura al posto del pubblico, sicché l'aura che circonda l'interprete viene meno, e quindi viene meno anche l'aura che circonda il personaggio interpretato. Senonché il film, secondo Benjamin, è solo l'esempio più complesso e più completo di un fenomeno più generale: l'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica è un'opera ormai priva d'aura, che non invita più alla contemplazione e al raccoglimento, a una intensa vita spirituale, ma solo al divertimento, allo svago, all'introiezione di immagini che, proprio per il procedimento tecnico mediante il quale vengono create, e per l'altissima diffusione che possono avere, sono sempre più prodotti 'manipolati' in vista del dominio psicologico sulle masse. Il 'sistema' si è impadronito anche del mondo spirituale ed estetico degli uomini, e lo manovra e lo plasma mediante l'industria culturale.
Questa analisi di Benjamin esercitò, come si è detto, una profonda influenza sugli esponenti della Scuola di Francoforte. E tuttavia Horkheimer e Adorno corressero la visione di Benjamin in un punto essenziale. È vero, anche per loro, che la società tecnologica porta con sé la morte di tutti i valori spirituali (e quindi anche dell'arte); ma la vera opera d'arte è quella che testimonia drammaticamente tutto ciò, e quindi può sopravvivere, in conflitto con la società medesima. Ovvero, come afferma Horkheimer, l'arte sopravvive in quelle opere che "esprimono senza compromessi l'abisso che si apre tra l'individuo monadico e il suo ambiente barbarico - nella prosa di Joyce, ad esempio, e in quadri come Guernica di Picasso". Se tali opere presentano forme espressive grottesche e dissonanti, ciò è dovuto proprio al fatto che la coscienza che sta dietro di esse vive come tagliata fuori dalla società. "In quanto queste opere inospitali - scrive Horkheimer nel 1941 - tengono fede all'individuo contro l'infamia dell'esistente, esse preservano il contenuto autentico della grande arte del passato, sono molto più profondamente affini alle madonne di Raffaello e alle opere di Mozart di tutto ciò che oggi ripete pappagallescamente la loro armonia, in un'epoca in cui la spensieratezza si è trasformata in maschera della follia e i volti tristi della follia sono diventati l'unico indizio di speranza" (v. Horkheimer, 1968; tr. it., vol. II, p. 310). Di qui il profondo apprezzamento che tanto Horkheimer quanto Adorno hanno sempre mostrato per Kafka, lo scrittore che più di ogni altro ha espresso la solitudine e l'impotenza dell'uomo contemporaneo, l'incubo della sua esistenza quotidiana dominata da forze mostruose, enormi, misteriose e inafferrabili, la sua totale assenza di illusioni e di progettualità.
Nel 1950, dopo diciassette anni di esilio, Horkheimer e Adorno ritornarono in Germania, dove ricostituirono, a Francoforte, l'Istituto per la Ricerca Sociale. Ma poiché la maggior parte degli altri membri dell'Istituto rimase negli Stati Uniti, l'attività di quest'ultimo si giovò dell'apporto di una generazione più giovane (il cui esponente più importante è stato Jürgen Habermas), la cui formazione e le cui esigenze culturali e politiche determinarono una fase sostanzialmente nuova della 'teoria critica'.Ma i testi del primo periodo della Scuola di Francoforte - periodo che sembrava ormai concluso e, per così dire, consegnato alla storia della cultura - conobbero negli anni successivi al 1968 un'improvvisa e larghissima fortuna, sia negli Stati Uniti che in Europa. Essi divennero per oltre un decennio i libri canonici di una nuova sinistra libertaria e rivoluzionaria, che negava tutti gli assetti sociali e politici esistenti sia a Ovest che a Est, e che invocava una società 'totalmente altra', sul tipo di quella che era stata teorizzata, appunto, da Horkheimer, Adorno e Marcuse. Quest'ultimo aveva pubblicato nel 1964 il saggio su L'uomo a una dimensione, destinato ad avere anch'esso un'enorme fortuna presso la 'nuova sinistra'. Questo grande revival politico-culturale della Scuola di Francoforte mostrava, se pur ce ne fosse stato bisogno, quale carica rivoluzionaria fosse contenuta nelle sue analisi sociologiche e filosofiche. (V. anche Alienazione; Marxismo; Società industriale; Tecnica e tecnologia; Utopia).
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