TERRORISMO
(App. IV, III, p. 627)
Del termine t. non esiste una definizione unanimemente accettata (ciò che è ''terrorismo'' per gli uni, può essere ''guerra di liberazione'' per gli altri). È tuttavia possibile individuare alcuni elementi che aiutano a una delimitazione del concetto. Innanzitutto, il t. non è un fenomeno tipico solo delle democrazie moderne. Episodi assimilabili in qualche modo al t. sono stati rintracciati in un passato molto remoto: dalle congiure di palazzo ai tempi dell'impero romano o dei principati rinascimentali agli attentati dinamitardi contro i sovrani autocratici e alle azioni di guerriglia di movimenti anticoloniali in periodi più recenti. Il t. contemporaneo ha assunto, comunque, caratteristiche peculiari. Se in passato la violenza denominata terroristica aveva colpito direttamente colui che era considerato un ''despota'', il t. del 20° secolo si è rivolto anche contro la ''gente normale'', con l'obiettivo di diffondere la paura a interi gruppi della popolazione. I mezzi di comunicazione di massa hanno permesso inoltre ai gruppi clandestini dei paesi più periferici di utilizzare la violenza non per ''punire'' uno o più ''malvagi'', ma per attirare l'attenzione dell'opinione pubblica internazionale.
Nelle definizioni più moderne, il concetto di t. assume due connotati particolari. In primo luogo, la violenza terroristica è in genere una violenza di tipo simbolico. Anche se le azioni terroristiche hanno spesso esiti drammaticamente concreti, esse non sono comunque intraprese con l'obiettivo di arrecare al nemico la maggior quantità possibile di danni materiali, quanto piuttosto con quello di diffondere alcuni messaggi, utilizzando la violenza come una sorta di amplificatore. A partire dall'etimologia del termine, è stata infatti definita come terroristica quella violenza politica che si pone l'obiettivo − o ha l'effetto − di ''terrorizzare''. Questa definizione sottovaluta una rilevante connotazione del fenomeno: il messaggio delle organizzazioni terroriste è, infatti, fortemente differenziato rispetto ai diversi gruppi della popolazione − se si vogliono intimidire alcuni, da altri si vuole invece raccogliere consensi. È vero comunque che, in entrambi i casi, l'importante non è tanto l'esito ''militare'' del singolo episodio, quanto l'effetto simbolico che produce.
L'aggettivo ''terroristico'' viene, inoltre, riservato alla violenza considerata come illegittima e pericolosa. Mentre alcune forme di violenza sono state, nei fatti, accettate come mezzo di rinegoziazione dei rapporti di forza nel sistema politico, il t. è stato considerato come una patologia. L'illegittimità della violenza è stata a sua volta definita in relazione a due elementi: gli attori che praticano la violenza e la sua quantità. È chiaro, quindi, che quello di t. è un concetto relativo: quali attori siano autorizzati a praticare violenza e quale sia una quantità ''eccessiva'' di violenza sono questioni a cui si può rispondere in maniera differenziata a seconda delle diverse circostanze storiche e delle diverse aree geografiche. Poiché in ogni ordinamento politico e sociale una certa quantità e un certo uso della coercizione sono inerenti al normale funzionamento del sistema, occorrerebbe individuare per ciascun contesto storico specifico la soglia di tolleranza varcata la quale la violenza viene considerata ''eccessiva''.
Tipologia della violenza terroristica. - Il fenomeno del t. ha destato le maggiori preoccupazioni soprattutto quando ha cominciato a diffondersi nelle democrazie occidentali. Proprio in queste, infatti, eventi di grande portata storica, come le rivoluzioni in Cina e a Cuba e i movimenti di liberazione in Algeria e Vietnam, furono riletti da alcuni gruppi radicali come dimostrazione che la violenza poteva essere uno strumento vincente di lotta politica. Alle esperienze di quei paesi lontani si richiamarono così organizzazioni clandestine tra loro diverse, come i gruppi del t. transnazionale, le organizzazioni indipendentiste e le formazioni ''rivoluzionarie'' occidentali. Ad essi si contrapposero altre formazioni radicali, decise a difendere con la violenza gli interessi di altre etnie o classi sociali. Si svilupparono così, negli anni Settanta, almeno tre tipi ''moderni'' di terrorismo.
Un primo tipo, quello che difatti portò alla diffusione del termine nel linguaggio politico e in quello dei mass media, è il t. transnazionale, cioè l'utilizzazione di violenza radicale da parte di gruppi che si considerano i rappresentanti di alcune nazioni senza territorio (come i palestinesi o gli armeni). Questi gruppi utilizzavano in genere forme di azione che (come i dirottamenti aerei) colpivano principalmente cittadini di stati del ''primo mondo'', con l'obiettivo di attrarre l'attenzione dell'opinione pubblica più influente sulle tragedie dei loro popoli. Tra le prime azioni di questo tipo, quelle che più colpirono l'opinione pubblica furono, nel 1972, il massacro di undici atleti israeliani perpetrato dal gruppo palestinese Settembre Nero nel villaggio olimpico di Monaco di Baviera, e l'attacco da parte di militanti dell'Esercito rosso giapponese contro l'aeroporto israeliano di Lod, che costò la vita a 26 persone.
Un secondo tipo è il t. a base nazionalista, cioè l'utilizzazione di violenza da parte di organizzazioni che, richiamandosi a identità etniche o religiose, chiedono l'indipendenza di alcuni territori. Limitandoci soltanto al mondo occidentale, negli anni Settanta sono nate o si sono rafforzate organizzazioni terroriste quali quelle degli indipendentisti radicali baschi (Euskadi Ta Askatasuna, ETA) o irlandesi (Irish Republican Army, IRA), ma anche i meno conosciuti Front de Libération du Québec (FLQ) o il Front de Libération National de la Corse (FLNC). Questi gruppi, che si concepivano principalmente come ''eserciti'', hanno sempre privilegiato le azioni militari contro coloro che venivano considerati come rappresentanti di una potenza straniera. I gruppi del t. indipendentista si sono in alcuni casi scontrati con gruppi lealisti che − come i Groupe Antiterroriste de Libération (GAL) nei Paesi Baschi, l'Ulster Volunteer Force e l'Ulster Defence Association nell'Irlanda del Nord, e il Front d'Action Nouvelle Contre l'Indépendance et l'Autonomie (FRANCIA) in Corsica −volevano combattere con le armi il t. dei separatisti, dedicandosi a una sorta di sanguinoso ''vigilantismo''.
Il t. d'ispirazione ideologica rappresenta un terzo tipo, fortemente disomogeneo all'interno non solo per quanto riguarda i fini perseguiti, ma anche per le tattiche specifiche utilizzate. Infatti, il t. d'ispirazione ideologica di destra (come, per es., Ordine Nuovo in Italia o i Deutsche Aktionsgruppen in Germania) è stato spesso coinvolto nell'organizzazione di azioni che, come le stragi di passanti inermi, miravano a produrre un panico generico, delegittimando la democrazia e favorendo le spinte verso regimi autoritari. Il t. d'ispirazione ideologica di sinistra ha, invece, colpito prevalentemente coloro che venivano considerati come "nemici del popolo", o quantomeno come ingranaggi del sistema di sfruttamento capitalistico. Tra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo si è conclusa, per es., la parabola di alcune organizzazioni terroriste di questo tipo (quali l'Esercito rosso giapponese o i Weather Underground negli Stati Uniti), mentre altri gruppuscoli, tra cui le Brigate Rosse (BR) in Italia e la Rote Armee Fraktion (RAF) nella Repubblica Federale di Germania, sono sopravvissuti nel decennio successivo. Se nelle democrazie più forti le forme estreme di violenza politica non hanno costituito un serio pericolo per i diritti e le libertà dei cittadini, soprattutto in America latina i gruppi guerriglieri, come i Montoneros in Argentina o i Tupamaros in Uruguay, hanno trascinato nella loro tragedia i deboli governi democratici dei paesi in cui si erano sviluppati, restando poi vittime della repressione sanguinosa condotta spesso dall'esercito e dagli ''squadroni della morte'', formati da terroristi di destra con forti appoggi nelle istituzioni.
Il terrorismo negli anni Ottanta. - Le domande che s'imposero con maggiore drammaticità in quegli anni riguardavano in primo luogo le motivazioni che portavano dei cittadini, ai quali la democrazia offriva la possibilità di esprimere il proprio dissenso in maniera legale e pacifica, a ''prendere le armi''. Ossia, perché giovani socializzati alla politica in regimi democratici radicalizzassero la loro attività politica fino al punto di scegliere la lotta armata; quali immagini della realtà li spingessero ad applicare al mondo occidentale idee di rivoluzione che provenivano da realtà così diverse; quali sistemi di valori e motivazioni li convincessero a scegliere la clandestinità e a giustificare gli omicidi politici, e soprattutto se il t. rappresentasse una minaccia per le democrazie occidentali. Gli anni Ottanta hanno visto, quasi ovunque, democrazie capaci di sconfiggere il t., senza venir meno ai loro principi fondamentali. Se guardiamo alle molte organizzazioni terroristiche esistenti negli anni Settanta, possiamo osservare che, con poche eccezioni, nel decennio successivo esse appaiono sconfitte o sulla difensiva. Nello stesso tempo, si sono però sviluppate nuove forme di violenza politica, che sembrano destinate a dominare la scena negli anni Novanta: il fondamentalismo religioso, la guerra più o meno aperta tra etnie contrapposte, e il t. razzista.
Per quanto riguarda il t. legato al fondamentalismo religioso, gli anni Ottanta si sono aperti con un'escalation di alcuni focolai di conflitto, già visibili nel decennio precedente. Si ricordino a questo proposito il sequestro, avvenuto alla fine del 1979 e durato fino al 1981, di cittadini americani, tenuti in ostaggio nell'ambasciata degli USA a Teherān; nel 1981, l'assassinio da parte dei fondamentalisti islamici del presidente egiziano A. al-Sādāt; nel 1983, il massacro di circa 800 Palestinesi, compiuto dagli uomini della Falange, organizzazione della destra cristiana libanese, nei campi di Ṣabrā e Šātilā a Beirut; nel 1985, il dirottamento di un Boeing 727 della TWA in servizio da Atene a Roma e i sequestri di cittadini occidentali a Beirut da parte dei terroristi libanesi della ǧihād islamica. A queste azioni si devono aggiungere gli attentati con le auto-bomba delle squadre suicide vicine al movimento radicale sciita degli Ḥizb-Allāh, oltre che gli omicidi e i ferimenti compiuti da terroristi libici appoggiati dal colonnello M. Gheddafi, o iraniani sostenuti dai leaders khomeinisti, contro oppositori dei rispettivi regimi in esilio in vari paesi occidentali. Per quanto riguarda gli anni Novanta, i recenti negoziati tra Israele e i rappresentanti del popolo palestinese potrebbero − se non nel breve, almeno nel lungo periodo − allentare la tensione in quello che è stato il principale focolaio del t. transnazionale negli anni Settanta. Tendono a radicalizzarsi invece i conflitti, talvolta sfociati in guerra aperta, in altre aree del Medio Oriente e nell'Africa settentrionale. Le sfide che dagli anni Ottanta sembrano estendersi anche al presente decennio, sono soprattutto quelle legate al t. fondamentalista islamico, che si sospetta sia direttamente finanziato da stati quali l'Iran, la Libia o l'῾Irāq. Lo strumento principale di questi gruppi è l'attacco indiscriminato contro cittadini del ''primo mondo'', considerati simboli delle degenerate democrazie occidentali. I più tragici, recenti esempi sono l'attentato compiuto nel febbraio 1993 al World Trade Center di New York (che provocò la morte di sei persone e il ferimento di oltre mille), e il dirottamento di un aereo Air France nel dicembre 1994 (conclusosi con la morte di tre ostaggi e dei quattro dirottatori). A questi crimini si deve aggiungere lo stillicidio di attentati da parte dei fondamentalisti islamici in Libano, Egitto e Algeria contro turisti, giornalisti, tecnici, diplomatici occidentali, oltre che contro politici, giornalisti e artisti locali, accusati di ''occidentalizzazione''.
Il t. a base nazionalista era, all'inizio degli anni Ottanta, ancora virulento in Europa: tra il 1968 e il 1988 i morti in attentati terroristici nell'Irlanda del Nord sono stati 2762, e 672 sono state le vittime in attentati terroristici perpetrati in territorio spagnolo. Per quanto riguarda l'Europa occidentale, comunque, grazie a una serie di riforme che hanno garantito maggiore autonomia politica e un miglioramento delle condizioni di vita dei gruppi più disagiati, gli anni Ottanta hanno visto se non risolversi, almeno attenuarsi i conflitti tra cattolici e protestanti in Ulster, tra indipendentisti e ''lealisti'' nei Paesi Baschi spagnoli, e tra francofoni e anglofoni nel Quebec. Queste riforme hanno fornito le basi per il negoziato, togliendo a poco a poco spazio ai sostenitori della lotta armata. Si sono fatti invece sempre più drammatici i conflitti etnici nelle parti del mondo dove la democrazia è debole o ancora da costruire. Mentre si moltiplicavano gli episodi di violenza nel conflitto tra Tamiḷ e Singhalesi in Srī Laṅkā, in India gli scontri tra la maggioranza hindu e la minoranza sikh sono culminati, nel 1984, nell'assassinio di I. Gandhi da parte di due sue guardie del corpo sikh e in successivi disordini nel corso dei quali 2000 sikh vennero uccisi per vendetta. Se in Kaśmir e Pañjab gruppi radicali chiedono la separazione dall'India, organizzazioni clandestine operano in Europa così come in Asia per ottenere, con la violenza, l'indipendenza delle aree popolate dai Curdi in ῾Irāq, Iran e Turchia. A questi conflitti bisogna aggiungere quelli, ancora più esplosivi, negli ex paesi del Patto di Varsavia, dove l'unità nazionale era stata a lungo imposta con la forza da regimi autoritari e dove, dopo il crollo di quei regimi, si sono aperte lotte spesso sanguinose sui nuovi assetti territoriali. Nella ex Iugoslavia troviamo il più tragico caso di radicalizzazione del conflitto tra gruppi etnici.
A proposito del t. d'ispirazione ideologica, la forma più presente in Italia, gli anni Ottanta testimoniano di un graduale ritorno alla democrazia in molti paesi dell'America latina, dove l'unica organizzazione clandestina ancora radicata era Sendero Luminoso, un gruppo che, sullo sfondo di un'ideologia maoista-populista, è riuscito a mobilitare adepti fra gli indios sfruttati del Perù. In Europa, gli anni Ottanta sono stati caratterizzati dalla parabola discendente del t. d'ispirazione ideologica marxista leninista, e dalla trasformazione del t. di destra, che trovava espressione nella violenza razzista degli skinheads e nell'intreccio con i servizi segreti deviati e la criminalità organizzata.
Il terrorismo in Italia negli anni Ottanta. - Per quanto riguarda l'Italia, gli anni Ottanta si sono aperti con una serie impressionante di attacchi terroristici da parte di formazioni sia di destra che di sinistra. Alle 10,25 del 2 agosto 1980 una bomba, attribuita al t. di destra, esplose nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione ferroviaria di Bologna, uccidendo 85 persone e ferendone oltre duecento. Nello stesso anno, i gruppi neofascisti Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR) e Terza Posizione furono responsabili di sette omicidi, di nemici politici e ''traditori'', ma soprattutto di poliziotti, carabinieri e giudici (tra di essi, il sostituto procuratore M. Amato, ucciso a Roma nel giugno 1980). Terroristi di destra, in contatto con la criminalità organizzata, vennero coinvolti anche nella strage del Natale 1984, quando una bomba esplose su un treno in transito in una galleria tra Firenze e Bologna, uccidendo 15 persone. Soprattutto nella seconda metà del decennio, infine, anche in Italia il t. di destra mise in atto i primi attentati di matrice razzista. Come era già avvenuto nel precedente decennio, anche nel corso degli anni Ottanta i terroristi neofascisti italiani entrarono in contatto con altri gruppi della destra radicale in Europa, responsabili di una serie di attentati antisemiti (in particolare, in Germania, con il Wehrsportsgruppe Hoffmann e i Deutsche Aktionsgruppen, coinvolti in numerose azioni contro cimiteri ebraici, sinagoghe e ostelli per immigrati, oltre che nella strage del 1980, quando una bomba esplose uccidendo dodici visitatori dell'Oktoberfest di Monaco). Nella seconda metà degli anni Ottanta, sull'esempio di quanto stava avvenendo in altri paesi europei, gruppi della destra radicale (come il Movimento Politico Occidentale) reclutarono aderenti nelle subculture giovanili legate ai gruppi di tifosi di calcio violenti (i cosiddetti ultras) e agli skinheads, coordinandosi, all'inizio degli anni Novanta, nel gruppo Skinheads d'Italia.
A sinistra, il biennio 1980-81 vide uno stillicidio di ferimenti e assassinii di dirigenti d'impresa e amministratori pubblici, psichiatri e giornalisti, carabinieri e poliziotti, guardie giurate e sorveglianti, attivisti dei partiti di governo ma anche dell'opposizione.
Tra le persone assassinate in quei due anni vi sono il dirigente del Petrolchimico di Marghera S. Gori, il direttore della Icmesa P. Paoletti, il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura V. Bachelet, il procuratore capo della Repubblica di Salerno N. Giacumbi, il consigliere della Corte di cassazione G. Minervini, il giudice G. Galli, l'assessore regionale al Bilancio della Campania P. Amato, il giornalista W. Tobagi, il direttore del personale della Magneti Marelli R. Briano, il direttore tecnico della Falck M. Mazzanti, il direttore sanitario delle carceri di Regina Coeli G. Furci, il generale dei carabinieri e responsabile dell'Ufficio coordinamento degli istituti carcerari E. Galvaligi. Nello stesso periodo, le Brigate Rosse cercarono di dimostrare la loro ''potenza di fuoco'' attraverso una serie di sequestri di persona. Il 12 dicembre 1980 venne rapito il giudice G. D'Urso, responsabile presso il ministero di Grazia e Giustizia per la gestione delle carceri di massima sicurezza, il quale sarà liberato a più di un mese di distanza, dopo che alcuni proclami dell'organizzazione clandestina erano stati diffusi dai mass media. Nel 1981, l'''offensiva di primavera'' consistette in quattro sequestri gestiti in contemporanea dalle colonne brigatiste di Napoli, Venezia, Milano e Roma: il 27 aprile venne sequestrato a Napoli C. Cirillo, esponente regionale della Democrazia Cristiana; il 20 maggio, a Venezia, G. Taliercio, direttore del Petrolchimico a Porto Marghera; il 1° giugno, a Milano, il direttore dell'organizzazione del lavoro all'Alfa Romeo, R. Sandrucci; l'11 giugno, R. Peci, il fratello di un ex brigatista, Patrizio, che aveva collaborato con gli investigatori. Mentre Cirillo e Sandrucci furono rimessi in libertà, dopo rispettivamente il pagamento di un riscatto mediato dalla camorra e la pubblicazione dei comunicati delle BR in alcuni giornali, Taliercio e Peci vennero uccisi.
La "campagna di primavera" rappresentò comunque l'ultimo "successo militare" delle BR. Nel gennaio del 1982, il sequestro del generale statunitense J.L. Dozier, responsabile delle truppe NATO nel Sud Europa − rivendicato come un momento della costruzione di un "fronte combattente in Europa e nel Mediterraneo" contro "i piani della borghesia di preparare una terza guerra mondiale" − si concluse con la liberazione dell'ostaggio grazie all’intervento del Nucleo operativo centrale di sicurezza (NOCS) della Polizia di Stato, e con un conseguente fallimento ''militare'', che mise definitivamente in crisi la struttura organizzativa delle BR. Nella primavera dello stesso anno, mentre si moltiplicavano le defezioni dalle organizzazioni armate, le BR proclamarono la "ritirata strategica", interrotta solo da una rapina durante la quale due guardie giurate vennero uccise al solo scopo di dare maggiore pubblicità all'azione.
A partire dal 1983, le BR − divise in Brigate Rosse/Partito Comunista Combattente (BR/PCC) e Unità Comuniste Combattenti (UCC) − sopravviveranno a stento agli arresti, ma non rinunceranno alla lotta armata. Tra il 1983 e il 1987, gli omicidi si susseguirono anche se al ritmo rallentato di un'azione per anno.
Il 3 maggio 1983 venne ferito alle gambe dalle BR/PCC G. Giugni, professore universitario, che aveva partecipato alla stesura dello Statuto dei lavoratori. Il 15 febbraio 1984 a Roma fu assassinato, ancora dalle BR/PCC, il generale statunitense R.L. Hunt, comandante delle truppe di pace delle Nazioni Unite in Sinai. Il 27 marzo 1985 lo stesso gruppo uccise il professore universitario E. Tarantelli, esperto economico della CISL. Il 10 febbraio 1986, le BR/PCC assassinarono a Firenze l'esponente repubblicano L. Conti, vicino all'allora ministro della difesa G. Spadolini. Il 21 febbraio 1986, a Roma, le UCC ferirono alle gambe A. Da Empoli, consulente economico del PSI. Il 13 febbraio 1987, una rapina a un furgone postale a Roma, culminata nell'omicidio dei due poliziotti di scorta, portò alle BR/PCC più di un miliardo di refurtiva. Il 20 marzo 1987 un comando composto da due uomini delle UCC sparò uccidendo il generale L. Giorgieri, direttore generale del dipartimento per le attività aereospaziali del ministero della Difesa. Infine, il 16 aprile 1988 due militanti delle BR/PCC uccisero il senatore democristiano R. Ruffilli.
Fu in quest'ultima fase che le BR tentarono un'alleanza con altri gruppi terroristici in Europa. La metà degli anni Ottanta vide infatti un'ondata di attentati, soprattutto contro installazioni NATO, da parte di quello che verrà chiamato ''euroterrorismo'': i residui gruppi BR in Italia, la RAF in Germania, le Cellules Communistes Combattents (CCC) in Belgio, Action Directe (AD) in Francia. In Germania, dopo un lungo silenzio, comandi della RAF uccisero, tra il 1985 e il 1986, il presidente dell'impresa Motoren- und Turbinen-Union, E. Zimmermann; tre dipendenti di una base americana vicino a Francoforte; il dirigente della Siemens K. Beckurts con il suo autista; e il diplomatico G. von Braunmühl. In Francia, tra il 1983 e il 1986, otto persone rimasero ferite in attentati di AD, che, nel 1985, fu anche responsabile dell'omicidio del generale R. Audran. In Belgio, soprattutto a partire dal 1984, le CCC organizzarono una dozzina di attentati contro sedi o impianti della NATO, di società multinazionali, di banche e uffici pubblici, nel corso dei quali due persone persero la vita.
L'implosione delle organizzazioni terroristiche. - Analizzando il caso italiano, possiamo osservare che negli anni Ottanta giunse a compimento un processo di progressiva ''implosione'' dei gruppi clandestini, conseguenza del loro trovarsi sempre più isolati dall'ambiente esterno. Tale processo comportò una serie di trasformazioni nella struttura organizzativa dei gruppi, così come nelle loro forme d'azione e nella loro ideologia. Sempre più accentrati e compartimentati, quanto più la repressione diveniva incisiva e diminuivano le aree di tolleranza all'esterno, i gruppi clandestini furono anche soggetti a sanguinosi conflitti interni, che sfociarono in frequenti scissioni. Per limitarsi alla storia delle BR, la fine degli anni Settanta e la prima metà del decennio successivo videro una lunga serie di scontri interni: dalle incomprensioni tra il nucleo storico rinchiuso nelle carceri speciali − che accusava i leaders esterni di "deviazioni burocratiche e militariste" −all'abbandono nel 1979 di un gruppo di militanti, critici dell'uccisione del leader della DC A. Moro, fino alle scissioni vere e proprie della Colonna Walter Alasia e del Fronte Carceri, che darà poi vita, nel 1981, al Partito della guerriglia del proletariato metropolitano. A questo gruppo, la cui breve parabola si concluderà nel 1982, si contrapposero alcuni dei dirigenti dell'organizzazione ancora in libertà, che, criticando l'esaltazione del ruolo del "proletariato extra legale" e l'ipotesi di una "guerra sociale totale", organizzarono le già menzionate BR/PCC. Tra il 1984 e il 1985, mentre i militanti del gruppo in libertà non oltrepassavano le poche dozzine, dalle BR/PCC si staccò un nucleo che, criticando i sostenitori della linea ''ortodossa'' per la loro incapacità di creare "canali di trasmissione con il movimento di massa", fondò le UCC. Nella loro pur breve storia, i due gruppi non mancheranno di scambiarsi violente accuse di "soggettivismo" e di "incomprensione del leninismo". Dopo la loro scomparsa, ancora un fantomatico gruppo cercherà di "mantenere in vita il discorso della lotta armata": le Cellule comuniste per la costruzione del partito comunista combattente, che nel novembre del 1990 scriveranno una "lettera aperta ai comunisti italiani", criticando gli errori strategici precedenti e proponendo un "lavoro dal basso", attraverso una penetrazione nelle organizzazioni della sinistra e nei sindacati.
Insieme alle strutture organizzative, si trasformarono anche le strategie d'azione. Sempre più isolati, i gruppi clandestini divennero anche sempre più violenti. Quattro fasi sono, infatti, chiaramente rintracciabili nella storia del t. di sinistra. Fino al 1973 compreso, il t. di sinistra non aveva né ferito né ucciso. Tra il 1974 e il 1976 il numero dei morti era salito tragicamente (5 nel 1974, 7 nel 1975, 10 nel 1976), ma era ancora limitato rispetto alle drammatiche cifre degli anni successivi. La terza fase, iniziata nel 1977, vide un netto incremento degli omicidi, con 29 morti nel 1978, 23 nel 1979, 29 nel 1980, 14 nel 1981 e 17 nel 1982. Una quarta fase si aprì nel 1983, anno in cui le organizzazioni clandestine cominciarono a essere stremate dagli arresti. A partire da quell'anno e fino al 1987, le azioni dei gruppi armati della sinistra, come si è detto, declinarono in numero fino a scomparire. Man mano che il tempo passava, non solo le azioni si facevano più cruente, ma si riduceva anche l'attenzione a ''giustificare'' la punizione con le colpe delle vittime, la cui selezione seguiva sempre più una logica tutta interna all'organizzazione terroristica. Gli assassinii del presidente della DC A. Moro (1978), del sindacalista G. Rossa (1979), di R. Peci (1981) e di due guardie giurate (1982) furono così brutali da spingere molti degli stessi militanti delle organizzazioni clandestine a ripensare criticamente le loro scelte. All'inizio degli anni Ottanta, questi elementi di crisi vennero messi a frutto da quelle leggi che, come si dirà in seguito, introdussero riduzioni di pena per chi fosse uscito dalle organizzazioni clandestine, accettando di collaborare con le autorità inquirenti.
Quanto alla produzione ideologica dei gruppi clandestini di sinistra, essa ha subito, nel corso della loro storia, mutamenti rilevanti. Innanzitutto si è trasformata l'immagine che i gruppi armati volevano diffondere di sé: da "braccio armato del movimento" o "movimento armato" erano divenuti "esercito", da Ronda o Squadra o Brigata, Partito. Successivamente, era venuta meno anche l'interpretazione dell'azione armata come stimolo all'avviarsi di un processo rivoluzionario guidato dalla classe operaia. L'organizzazione si era "autonomizzata dalle dinamiche sociali" − per usare il linguaggio brigatista −e il suo compito era divenuto la testimonianza di un rifiuto che sopravviveva alla "pacificazione delle classi". Nel documento di rivendicazione dell'attentato del 1983 contro Giugni, per es., le BR/PCC si autocriticheranno per la "fiducia" accordata in passato al "movimento di massa del proletariato metropolitano". I gruppi armati superstiti rinunciarono, quindi, a legittimarsi come "guida" o "erede" o "esempio", iniziando ad affermare puramente e semplicemente la loro esistenza come unica via di una liberazione che doveva essere esistenziale prima che politica o economica. Pur dividendosi per sottili divergenze ideologiche, sia le BR/PCC che le UCC si presentarono come il partito combattente, parte cosciente delle masse, mentre la lotta armata veniva vista come il principale strumento di azione. Il nemico era divenuto man mano più immanente, e più pervasivo il suo potere. Negando ogni distinzione tra colpe soggettive e responsabilità oggettive, si affermava una divisione manichea tra il bene, cioè l'organizzazione terrorista stessa, e il male, di cui facevano parte alla stessa stregua le forze di polizia e gli "sgherri" sindacalisti, gli uomini politici fino all'estrema sinistra e gli "scissionisti" dei gruppi armati. Una trasformazione era avvenuta, infine, nella struttura del linguaggio. I documenti utilizzavano sempre meno termini e principi presi a prestito dal marxismo-leninismo o da altre ideologie diffuse nei movimenti collettivi, che erano serviti in passato a spiegare l'attività delle organizzazioni in termini comprensibili all'esterno. Con il passare del tempo, si formò un gergo riservato agli iniziati. Documenti e proclami divennero così sempre più criptici, non solo per l'opinione pubblica ma anche per la cerchia molto più ristretta degli stessi militanti dei movimenti collettivi.
Sembra che un simile processo di progressivo isolamento sia rintracciabile, nonostante le minori informazioni disponibili sul fenomeno, anche per il t. di destra. Dal punto di vista organizzativo, la prima metà degli anni Settanta aveva visto la crescita di organizzazioni con una struttura gerarchica e verticistica, quali Ordine Nuovo (ON) e Avanguardia Nazionale (AN). Nate e sviluppatesi grazie ad alcune protezioni nei servizi segreti italiani e stranieri, queste organizzazioni erano state caratterizzate da una forte compartimentazione. Venute meno queste protezioni, esse si erano dissolte, ma il residuo di alcune reti organizzative contribuì alla nascita di una seconda generazione del t. di destra. Nella seconda metà del decennio, nuovi gruppuscoli si costituirono nell'area del neofascismo. Come mostra la storia dei NAR, uno dei gruppi più longevi, molte delle formazioni terroristiche della destra nacquero all'interno dell'ala più radicale del MSI, dove trovarono, oltre a un appoggio logistico, i reticoli di conoscenze necessari al loro emergere. Soprattutto nelle due grandi città, Roma e Milano, gli scontri armati sempre più violenti con gli avversari politici portarono a una rapida radicalizzazione di piccoli nuclei di estremisti di destra. Anche per la destra, gli anni Ottanta testimonieranno della progressiva implosione di questi gruppuscoli, in bilico tra t. politico e criminalità comune. Se la repressione falcidiò drasticamente le loro fila, essi accentuarono comunque la loro struttura verticistica, mentre le lotte interne per la leadership sfociavano in continue spaccature. Successivamente, piccoli gruppi, scarsamente dotati di capacità di coordinamento, si ricostituiranno per reclutare militanti nelle aree del tifo calcistico violento e delle subculture giovanili.
Anche a destra, gli anni Ottanta videro un ulteriore imbarbarimento nelle forme d'azione dei gruppi clandestini. Nati, come si è detto, negli scontri sempre più sanguinosi con i giovani della sinistra, i gruppuscoli terroristici della destra parteciparono a una progressiva radicalizzazione in cui dalle scazzottate si passò ai ferimenti, dai coltelli alle armi da fuoco, dagli omicidi preterintenzionali a quelli premeditati. Con un ritmo molto più rapido che nel caso della sinistra, i militanti neofascisti si concentrarono nelle azioni armate contro gli avversari, abbandonando gli obiettivi più politici e, con essi, la speranza di organizzare il disagio giovanile.
Mentre i superstiti delle bande neofasciste si dedicavano alle rapine di denaro e armi, stringendo rapporti con la criminalità organizzata, le vendette all'interno dell'organizzazione contro i presunti traditori presero la forma di barbari omicidi. Come testimoniano le indagini sulla strage del Natale 1984 e gli attentati del 1993 a Roma e Firenze, terroristi di destra, fuoriusciti dalle organizzazioni armate neofasciste, divennero i manovali di una violenza che trova negli intrecci tra criminalità organizzata e progetti eversivi le sue principali origini. Negli anni Ottanta, le azioni del t. di destra sono consistite infatti, prevalentemente, in conflitti accidentali con le forze dell'ordine, rapine a mano armata, omicidi di presunti traditori, e ancora stragi, in una scena eversiva sempre più difficile da decrittare, dove il ruolo di imprenditori della violenza era svolto da servizi segreti deviati o dalla grande criminalità organizzata.
Sotto l'aspetto ideologico, anche a destra si passò dalla teorizzazione della violenza come mezzo per difendere Dio, patria e famiglia, a un'esaltazione della violenza fine a se stessa. Più ancora che a sinistra, i gruppuscoli clandestini che, inizialmente, parlavano il linguaggio conosciuto negli ambienti della destra radicale, cominciarono a coniare un proprio gergo, sempre più incomprensibile all'esterno. L'escalation violenta culminò con il passaggio (teorizzato per es. dai NAR) dalla fase della ''guerra per bande'' tra giovani di opposte ideologie a una ''guerra contro lo stato'', rappresentante di un sistema corrotto. Mentre la clandestinità accentuava i caratteri, già presenti nella subcultura dell'estremismo nero, di esaltazione del ''coraggio'' individuale, i terroristi di destra, braccati da polizia e carabinieri, farneticavano sul proprio ''eroismo''. Concludendo, sia nella destra che nella sinistra, nelle ultime fasi della loro storia, le organizzazioni terroriste persero non solo la capacità ma anche l'aspirazione ad agire con obiettivi ''politici'', concentrandosi piuttosto in una ''guerra privata'' con gli apparati dello stato.
Dinamiche interne, condizioni esterne ed evoluzione del terrorismo. -Questo tipo di evoluzione del t. deriva in parte dall'innescarsi di dinamiche interne, determinate dalla scelta stessa della clandestinità, dove ogni decisione successiva ha prodotto effetti non voluti, riducendo il raggio di azioni possibili per il futuro. La necessità di mantenere condizioni di clandestinità ha, infatti, spinto questi gruppi a rinunciare agli strumenti di propaganda che i regimi democratici garantiscono agli attori politici. La loro illegalità ha cominciato a tenerli fisicamente lontani dai luoghi del conflitto sociale, facendo perdere loro ogni capacità di elaborare strategie propagandistiche efficaci. L'isolamento si è accentuato quando la logica stessa delle loro azioni li ha costretti a scontrarsi con l'apparato repressivo dello stato, e il bisogno di sottrarsi alla repressione li ha allontanati ulteriormente dai luoghi dell'azione collettiva.
La necessità di trovare risorse finanziarie ha coinvolto questi gruppi in atti di banditismo comune, esponendoli a scontri armati con la polizia. Stretti dalla pressione delle forze dell'ordine, i contatti con l'esterno si sono a poco a poco ridotti a un'incalzante richiesta di aiuto logistico. L'urgenza di ottenere risorse per la sopravvivenza di un numero sempre maggiore di militanti in latitanza ha accentuato la dipendenza da altri attori ai margini della legalità, quali la criminalità organizzata o i servizi segreti. Per nascondere le smentite alle dottrine della lotta armata provenienti da un isolamento sempre più visibile, i gruppi clandestini hanno elaborato ideologie criptiche, ad alto potere simbolico per i convertiti, ma incomprensibili ai non iniziati. Dovendo contare sui mass media per la diffusione dei loro messaggi, i gruppi terroristi hanno cercato di ''fare notizia'' attraverso repertori sempre più violenti, finché le loro forme d'azione sono divenute tanto cruente da far crescere la riprovazione anche negli ambienti più propensi all'utilizzazione della violenza. Quest'isolamento si è ripercosso sulla vita quotidiana dei militanti clandestini, costretti in sempre maggior numero alla latitanza. Il mantenimento dell'impegno nel gruppo clandestino era favorito, infatti, dall'innescarsi di una serie di meccanismi che riducevano le possibilità di uscita dalla clandestinità. Se l'ingresso nelle organizzazioni clandestine avveniva in maniera graduale e, spesso, poco cosciente, una serie di condizioni sia materiali che ideologiche rendeva difficile l'abbandono. Da un punto di vista materiale, per i militanti ricercati dalla polizia e isolati dal mondo esterno, le organizzazioni terroristiche rappresentavano l'unica fonte di risorse materiali necessarie alla latitanza. Dal punto di vista psicologico esse divennero l'unica fonte riconosciuta di ''verità''. L'isolamento aumentava inoltre la solidarietà all'interno dei piccolissimi nuclei clandestini, accrescendo la dipendenza del singolo dal gruppo. La vendetta per i ''compagni'' o i ''camerati'' morti, la liberazione di quelli in prigione, la ''coerenza'' verso la propria identità di ''eroe negativo'' furono le principali motivazioni a continuare in un'avventura senza sbocco, spesso fino all'arresto, in alcuni casi fino alla morte. Questa radicalizzazione ha, a sua volta, accentuato l'impegno di magistratura e polizia contro il t., finché la disparità delle forze in campo ha portato alla distruzione militare dei piccoli gruppi armati. Che queste dinamiche siano collegate alla scelta della clandestinità sembra confermato dall'evoluzione di organizzazioni terroriste operanti in altri paesi, non solo, per es., per la RAF tedesca, ma anche per i gruppi terroristici più ''radicati'', quali l'IRA in Irlanda o l'ETA in Spagna. Comunque, va rilevato che l'involuzione delle organizzazioni clandestine è dipesa anche da trasformazioni che hanno interessato soprattutto due realtà dell'ambiente esterno: i movimenti collettivi, al cui interno i gruppuscoli violenti erano emersi; e gli apparati dello stato, specializzati nella lotta al terrorismo. Le organizzazioni del t. italiano si costituirono infatti all'interno di due cicli di protesta, uno della fine degli anni Sessanta e l'altro della metà degli anni Settanta. Gli effetti del declino del primo ciclo, particolarmente lungo nel caso italiano, si sommarono all'innescarsi di nuovi conflitti, portando all'adozione di forme d'azione particolarmente violente. La radicalizzazione dei repertori della protesta fu, in primo luogo, facilitata dalla risposta istituzionale. Mentre l'estremismo neofascista riceveva protezioni da parte dei servizi segreti, coinvolti anche nelle stragi del t. nero, l'intervento ''duro'' delle forze dell'ordine durante le manifestazioni di protesta contribuiva a una radicalizzazione che sarebbe proseguita per tutto il decennio. Negli anni Settanta, le tensioni nell'alleanza di governo, unite alle strumentalizzazioni che del pericolo terrorista venivano fatte da varie parti, indebolì la capacità di risposte politiche da parte delle istituzioni, contribuendo a far definire la protesta come una questione di ordine pubblico.
Questa situazione fomentò, sia a destra che a sinistra, una sorta di retorica del momento storico ''decisivo''. A sinistra, ciò si riflesse in quella che un militante di allora ha chiamato "identità cospirativa": a prescindere dalle reali probabilità di un colpo di stato, l'esempio del Chile e, ancora di più, la sfiducia nella lealtà alla democrazia delle forze al potere alimentò la paura di imminenti svolte autoritarie. Parallelamente, nella destra si affermava una visione cospiratoria, dove la ''sovversione rossa'' appariva come minacciosamente in agguato, mentre centri occulti del male pianificavano la disgregazione della società. A sinistra come a destra, la lotta armata divenne, per molti, una delle poche strade praticabili per opporsi, rispettivamente, all'eversione nera o alla sovversione rossa. Entrambe le subculture si nutrivano di una sostanziale sfiducia nella democrazia e nel monopolio dello stato nell'uso della forza. A sinistra, ci si organizzò in modo semimilitare per resistere a colpi di stato considerati come imminenti; a destra, un'intera generazione di estremisti ingaggiò un conflitto armato con gli avversari, convinta che la debole democrazia avrebbe ceduto il passo a un regime autoritario. La sfiducia nella democrazia nutrì poi la cultura della clandestinità, contribuendo alla convinzione della legittimità di ''dichiarare guerra'' agli avversari politici e allo stato.
I gruppi clandestini s'inserirono in queste dinamiche, scegliendo bersagli che potessero portare loro le simpatie dei gruppi radicali ma legali. Come avevano fatto negli anni Settanta, anche nel decennio successivo i gruppi armati cercarono di agire in modo da raccogliere il sostegno degli attivisti di vari movimenti di protesta. Nel corso degli anni Ottanta, gli attentati degli epigoni delle BR s'indirizzarono, per es., verso due tipi di bersaglio. Come si è detto, a partire dal 1983, le BR/PCC si allearono alla RAF tedesca, alle belghe CCC e alla francese AD in una campagna "per la costruzione di un fronte antiimperialista in Europa". Tra il 1983 e il 1988, la metà circa delle azioni delle Brigate Rosse (in particolare, gli omicidi di R.L. Hunt, L. Conti e L. Giorgieri) vennero rivendicate come rivolte contro la "politica di guerra dei governi europei e dell'imperialismo americano". In questo modo, i brigatisti speravano di raccogliere consensi nel movimento per la pace, mobilitato in quegli anni contro l'istallazione dei missili a testata nucleare della NATO in diversi paesi europei, sfruttando le frustrazioni degli attivisti dei movimenti pacifisti per il temporaneo insuccesso delle loro mobilitazioni. Questo tentativo fallì però in tutta Europa, anche perché l'ideologia del movimento della pace aveva impedito serie radicalizzazioni. Non maggiore successo ebbe l'altro filone di attentati, mirante a inserirsi nelle tematiche sociali e politiche che erano apparse più conflittuali all'interno del nostro paese: in particolare, gli attentati contro G. Giugni ed E. Tarantelli, rivendicati come opposizione al patto sociale e difesa della scala mobile; e quello contro R. Ruffilli, rivendicato come un'azione contro il progetto di riforma istituzionale ''neo-autoritaria''. Anche in questo caso, infatti, l'utilizzazione di forme d'azione radicali isolava le BR: non solo per le frange più radicali del movimento della pace, ma anche per i sindacati autonomi organizzati nei COBAS (Comitati di Base), l'''antagonismo'' non si esprimeva attraverso repertori violenti.
In generale, per i movimenti collettivi presenti in Italia, gli anni Ottanta furono infatti anni di moderazione e pragmatismo. In primo luogo, ci fu un profondo cambiamento strategico nei movimenti vicini alla sinistra. Dopo la fase di bassa mobilitazione negli anni precedenti, l'azione collettiva assunse caratteristiche completamente differenti: l'impatto dell'ideologia socialista si ridusse ed emersero molte delle caratteristiche organizzative e culturali − quali il decentramento e il pragmatismo − spesso descritte come peculiari ai nuovi movimenti sociali. Insieme agli ecologisti e ai pacifisti, attivisti del movimento femminista e del movimento degli studenti si sono mobilitati in comuni azioni di protesta, quali la campagna contro l'intervento italiano nella Guerra del Golfo o quella contro la mafia e le sue protezioni politiche. Se i movimenti di protesta non sparirono certo dalla scena politica, un elemento a loro comune fu la scelta di un repertorio non violento, che mirava ad attrarre l'attenzione, e la simpatia, dell'opinione pubblica attraverso forme d'azione innovative, ma non radicali. Questa moderazione della protesta a sinistra contribuì a invertire la spirale di scontri violenti con l'estrema destra, nonostante gruppi neofascisti sopravvivessero aggregati attorno ad alcune riviste, o infiltrati negli ambienti del tifo calcistico violento.
In questa loro evoluzione moderata, i movimenti sono stati aiutati dalle trasformazioni nella società circostante. Per quanto riguarda la sinistra, i rapporti dei movimenti con i loro alleati politici sono stati, in questa fase, aperti a frequenti cooperazioni su singoli temi. Ancora una volta all'opposizione dopo l'esperienza dei governi di unità nazionale, il PCI è diventato più ricettivo alle azioni di protesta, aprendosi a collaborazioni in diverse campagne comuni. Nel febbraio 1991, al suo congresso di fondazione, il Partito Democratico della Sinistra (PDS) si è dichiarato disponibile verso "tutte le forze di sinistra, progressiste, alternative ed ambientaliste". Per quanto riguarda la destra, l'aspirazione del MSI a legittimarsi come forza politica democratica ha spinto quel partito a tenere sotto tutela l'ala estrema del neofascismo. Gli stessi rigurgiti razzisti, che erano stati in un primo tempo fomentati nel tentativo di riprodurre in Italia i successi della destra radicale francese, sono stati poi trattati in modo ambivalente dalla destra ufficiale.
Anche le controparti dei movimenti si sono aperte, in questa fase, a negoziati pragmatici. Finita l'ondata di t., è iniziata una strategia di ''riconciliazione'', mentre si riduceva l'uso della forza nel controllo dei movimenti collettivi. Quest'ultimo punto ci riporta a una trasformazione che ha riguardato particolarmente le organizzazioni clandestine: la specializzazione delle forze dell'ordine nelle azioni di controllo delle manifestazioni di piazza. Mentre, negli anni Settanta, strategie repressive basate su un uso diffuso della forza avevano portato qualcuno a solidarizzare con i terroristi − o comunque avevano minato la fiducia nell'imparzialità degli organi dello stato − negli anni Ottanta l'intervento di polizia e carabinieri è divenuto più specializzato e mirato sui gruppi radicali. All'inizio degli anni Novanta, le leggi sui collaboratori di giustizia (l. 15/80 e l. 304/82), che prevedevano forti sconti di pena per chi avesse aiutato nelle indagini, accelerarono il processo di disgregazione dei gruppi clandestini, cui diedero impulso soprattutto la collaborazione di P. Peci, per quanto riguarda le BR; di R. Sandalo, per l'altro gruppo clandestino di una certa rilevanza, PL (Prima Linea); e di C. Fioravanti per i NAR. Nel 1987, la l. 34/87 sui cosiddetti "dissociati" (cioè coloro che abbandonavano le organizzazioni clandestine, pur senza denunciare i compagni) favorì la possibilità, per i terroristi già in crisi d'identità, di rompere il patto associativo senza tradire i loro compagni. Al contempo, a partire dal marzo 1981, le indagini sulla loggia massonica P2 − definita dalla Commissione parlamentare d'inchiesta come una setta segreta che combinava affari e politica, con l'obiettivo di distruggere l'ordine costituzionale del paese − toglieranno al t. di destra alcune protezioni dall'interno delle istituzioni. All'''euroterrorismo'' si reagì inoltre con un'intensificazione della collaborazione fra le polizie europee, già iniziata alla metà degli anni Settanta con la creazione del gruppo TREVI (Terrorismo, Radicalismo, Estremismo e Violenza Internazionale), cui partecipavano rappresentanti delle polizie dei dodici paesi della Comunità Europea. Specializzazione e collaborazione portarono a numerosi successi: tra il 1984 e il 1985 una serie di arresti scompaginò, rispettivamente in Belgio e in Francia, le CCC e AD; in Italia, nel 1985, vennero arrestati gli ultimi superstiti dei NAR e, tra il 1987 e il 1989, furono smantellati gli ultimi gruppuscoli del t. rosso, le UCC e le BR/PCC; in Germania, il crollo della Repubblica democratica tedesca e il processo di riunificazione ha anche portato a nuovi arresti di militanti ed ex militanti della RAF, rimasti privi di protezioni all'estero. Tra la fine del decennio e l'inizio del successivo, la percezione della pericolosità dei rigurgiti neonazisti ha portato, in Italia come in altri paesi europei, a un inasprimento della legislazione contro la discriminazione e la violenza razzista.
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Diritto. - La nozione di terrorismo. - Nel nostro linguaggio giuridico il termine ''terrorismo'' è di uso relativamente recente. La prima fonte normativa che vi fa ricorso è infatti costituita dall'art. 289 bis c.p. ("Sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione"), introdotto con l'art. 2 D.L. 21 marzo 1978 n. 59 ("Norme penali e processuali per la prevenzione e la repressione di gravi reati"), convertito, con modificazioni, nella l. 18 maggio 1978 n. 191. Il termine è poi ripreso da successivi testi legislativi: così, fra i principali, dal D.L. 15 dicembre 1979 n. 625 ("Misure urgenti per la tutela dell'ordine democratico e della sicurezza pubblica"), convertito, con modificazioni, nella l. 6 febbraio 1980 n. 15; dalla l. 29 maggio 1982 n. 304 ("Misure per la difesa dell'ordinamento costituzionale"); dalla l. 18 febbraio 1987 n. 34 ("Misure a favore di chi si dissocia dal terrorismo"), fino al ''nuovo'' codice di procedura penale, approvato con d.P.R. 22 settembre 1988 n. 447 (art. 380 comma 2 lett. i).
Un dato che richiama l'attenzione di chi si accinge a ricostruire la nozione giuridica di t. è costituito dal fatto che nelle varie fonti legislative prima ricordate tale termine si accompagna alla locuzione "eversione dell'ordine costituzionale", che ha formato oggetto della norma interpretativa contenuta nell'art. 11 l. 304 del 1982, dalla quale è stata dichiarata corrispondente, per ogni effetto giuridico, a quella di "eversione dell'ordine democratico" adottata nelle precedenti disposizioni. L'unica norma nella quale alla finalità di eversione dell'ordine costituzionale è attribuito un autonomo rilievo è quella contenuta nell'art. 270 bis c.p., aggiunto, nel codice penale, all'art. 3 D.L. 625 del 1979: qui, infatti, mentre la rubrica ("Associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine costituzionale") puntualmente richiama, seppur in modo congiunto e non disgiunto come nelle altre disposizioni, le due finalità di cui si parla, il testo dell'articolo non le riproduce entrambe, ma, nel descrivere gli scopi dell'associazione, li identifica nel compimento di "atti di violenza con fini di eversione dell'ordine costituzionale".
Il breve excursus sulla produzione normativa serve per fissare l'esigenza di non percorrere vie di ricostruzione della nozione di t. al di fuori delle disposizioni di legge che, giova ancora notare, non offrono alcuna definizione del termine, ma optano per l'individuazione di una finalità, quella terroristica o eversiva, che viene assunta, in particolare, ora a circostanza aggravante di ogni possibile reato (art. 1 D.L. 625 del 1979), ora a elemento costitutivo di peculiari fattispecie criminose (artt. 270 bis, 280, 289 bis c.p.); il che conferma l'esigenza di ricercare il significato delle nozioni mediante un procedimento ermeneutico che si muova all'interno dello stesso sistema normativo che le prevede. Del resto, il tentativo di dar contenuto a quei concetti − e in particolare a quello di t. − ricorrendo a diverse discipline, come la politica, la sociologia, la morale e anche le convenzioni internazionali, si è rivelato improduttivo, sia per la pluralità di significati a esso attribuito dai cultori di quelle scienze, sia per la non riconducibilità delle definizioni proposte a quelle più propriamente tecnico-giuridiche: basti qui ricordare (Vigna 1981, pp. 21 ss.) che, secondo uno studioso di filosofia morale, "atto terroristico è ogni atto, compiuto come parte di un metodo di lotta politica (cioè volta ad influenzare e conquistare o difendere il potere statale), che comporta l'uso di violenza estrema (l'inflizione della morte fisica o psichica, o di sofferenze o lesioni fisiche o psichiche) contro persone innocenti (nel senso di non combattenti)" (Pontara 1979, p. 58). Neppure i lavori parlamentari − fra i più significativi, quelli relativi alla procedura di conversione del D.L. 625 del 1979 − offrono spunti interpretativi di rilievo: in essi, infatti, il termine t. è stato assunto in una pluralità di accezioni, per la verità fra loro non conciliabili né riducibili. Così le azioni terroristiche furono definite come "fatti che determinano l'obiettiva e generalizzata intimidazione dell'opinione pubblica, o siano diretti, con mezzi idonei allo scopo e comunque usati con violenza, a limitare o condizionare o coartare l'esercizio dei compiti istituzionali dei pubblici poteri" (cfr. l'emendamento 1.5 proposto dal sen. Crollalanza, in Senato della Repubblica, VII legislatura. Assemblea, seduta 10 gennaio 1980, 3759); o come quelle che diffondono "sia tra le persone che esercitano una pubblica funzione, sia tra la generalità dei cittadini il terrore politico" (cfr. relazione sen. Coco nel resoconto stenografico della 73ª seduta pubblica del Senato del 10 gennaio 1980).
Alcuni studiosi propendono per riconoscere un'autonomia concettuale alla finalità di t. rispetto a quella di eversione dell'ordine costituzionale, identificando la prima con "l'intento di spargere il terrore nella collettività" (Palazzo 19822, pp. 108 ss.) o con lo scopo di "spargere il panico nella collettività o presso determinati gruppi" (De Francesco 1981, p. 36) o notando, ancora, che "il terrorismo può costituire uno scopo in sé, può autogiustificarsi" (Gallo e Musco 1984, p. 40).
Rinviando a un secondo momento l'analisi del problema relativo all'autonomia concettuale − o meno − delle finalità di t. e di eversione, conviene subito notare che le teorie che riconducono la prima al solo scopo di spargere il panico o il terrore non paiono condivisibili, e ciò per diversi ordini di ragioni. La prima sta nel fatto che l'assumere la diffusione della paura e del terrore, come mero intento perseguito dall'agente, a contenuto della finalità di t., rende la relativa valutazione estremamente incerta e fonda, inoltre, il giudizio di disvalore, penalmente sanzionato, su un semplice movente-scopo del tutto interiore, ponendo all'interprete problemi di compatibilità della nozione, così definita, con i principi fondamentali dell'ordinamento penale, anche per il rilievo che quegli effetti sono conseguenze non ineluttabili, ma solo eventuali, dell'agire terroristico. V'è poi da notare che la teoria qui messa in discussione trascura di considerare il particolare momento storico in cui furono emanate le prime disposizioni contenenti il riferimento al t., nozione che mantenne sicuramente, nella ratio legis, il suo significato più attuale, cioè quello di manifestazione di violenza politica. Si vuol dire, insomma, che non appare procedimento ermeneutico da seguire quello che pretendesse di assegnare a norme, la cui emanazione ebbe come immediati precedenti causali ben precisi fatti di violenza politica (la strage di via Fani e il sequestro di A. Moro per quanto riguarda il D.L. 59 del 1978; l'irruzione di un ''commando'' armato nei locali della scuola di amministrazione aziendale di Torino, con numerose ''gambizzazioni'' ivi realizzate dai terroristi, per ciò che attiene al D.L. 625 del 1979), una possibile estensione applicativa a fatti assolutamente diversi da quelli che sostanziano la ratio legis. Ne consegue che, a parer nostro, la finalità di t. si concreta nello scopo di usare la violenza quale strumento per il perseguimento di obiettivi politici. In tale opinione conforta anche il rilievo che il legislatore, pur quando ha dettato norme ''di favore'' per gli autori di delitti commessi per finalità di t. o di eversione dell'ordine costituzionale (cfr. i già citati D.L. 625 del 1979 convertito nella l. 6 febbraio 1980 n. 15; l. 29 maggio 1982 n. 304; l. 18 febbraio 1987 n. 34), ha sempre avuto di mira soggetti che avevano violentemente agito in vista della realizzazione di obiettivi di tipo politico.
Terrorismo ed eversione dell'ordine costituzionale. - Questione diversa ma influente anch'essa, potenzialmente, su una più puntuale definizione della nozione di t., è se questa abbia un'autonoma valenza rispetto a quella di eversione dell'ordine costituzionale cui, come si notava, nei testi legislativi sempre (tranne che in quello del cit. art. 270 bis c.p.) si accompagna.
Del dibattito relativo alla distinzione dei due concetti è traccia fin dai lavori parlamentari, poiché (cfr. Resoconto stenografico del dibattito svoltosi nella 73ª seduta pubblica del Senato, 10 gennaio 1980, pomeridiana) il relatore al D.L. 15 dicembre 1979 n. 625 rilevava − ma forse ottimisticamente − come nel linguaggio comune e anche in quello giuridico le due espressioni, non solo perché contenute in un precedente testo di legge (art. 289 bis c.p.), abbiano già un loro significato sufficientemente precisato, che permette l'esatta individuazione del contenuto normativo e un'applicazione pratica sufficientemente univoca del testo. Offrendo un'indicazione orientativa sul significato delle espressioni in questione, il relatore osservava anche che "il termine terrorismo indica la diffusione, sia tra le persone che esercitano una pubblica funzione sia fra la generalità dei cittadini, del terrore politico, cioè della convinzione che dal corretto esercizio delle proprie funzioni o dei propri diritti pubblici e politici, o dal corretto adempimento dei propri doveri pubblici e politici possano derivare conseguenze per loro direttamente o indirettamente dannose". A proposito dell'espressione "eversione dell'ordine democratico", si affermava che essa "indica ogni attività rivolta a stravolgere i principi democratici, prescritti dalla Costituzione, con la violenza e cioè alterando con questa il corretto metodo ed il pacifico svolgimento della dialettica politica come prescritto dalla Costituzione".
Queste indicazioni, quali emergono, nella sostanza, dai lavori parlamentari, appaiono scarsamente appaganti, se non altro perché lo stesso relatore, in sede di dibattito sull'art. 3, riconosceva che "nell'esperienza concreta molto spesso i fatti di terrorismo hanno uno scopo di eversione dell'ordine democratico", aggiungendo che "se è vero che molto spesso il terrorismo si presenta come una finalità mediata, nel senso che vuole raggiungere la ulteriore finalità di eversione dell'ordine democratico, non possiamo però escludere che in altre occasioni l'azione di terrorismo sia fine a se stessa o abbia una finalità diversa dall'eversione dell'ordine democratico", con ciò inficiando le indicazioni in precedenza offerte sul significato delle espressioni in discussione. Da un lato, infatti, riconoscendo che, nel concreto, è difficile operare una disgiunzione fra le stesse e, dall'altro, ipotizzando che l'azione terroristica può sia essere fine a se stessa sia proporsi una finalità diversa dall'eversione dell'ordine democratico, si finiva con il colpire in radice l'elemento, ritenuto qualificante, ravvisato nel fine di spargere in ogni caso un terrore ''politico''.
Come si è notato, le due finalità (di t. e di eversione) sono previste distintamente nelle varie disposizioni che le contemplano, salvo in quella (art. 270 bis c.p.) che punisce l'associazione per finalità di t. e di eversione dell'ordine costituzionale che, pur riproducendole entrambe nella rubrica − ma, questa volta, l'una all'altra congiunte − contiene, nel testo, il riferimento al compimento di atti di violenza per la sola finalità di eversione dell'ordine costituzionale. Fu appunto questa considerazione, unita a quella che si fondava sull'espressione "ordine democratico", poi ''sostituita'' con quella "ordine costituzionale", che ci fece optare (Vigna 1981, pp. 38 ss.) per una definizione unitaria delle due finalità che si risolvevano, in definitiva, nello scopo di far valere istanze politiche mediante la violenza, anziché attraverso il metodo democratico previsto dalla Costituzione; metodo democratico nel quale veniva pertanto identificato il preciso oggetto di tutela delle disposizioni che quelle finalità prevedono.
Tale opinione trovava il conforto di un'autorevole dottrina (Dalia 1980, p. 22) e fu anche recepita da una decisione della Corte di Cassazione (Cass. pen., 21 ottobre 1983). Appare tuttavia suscettibile di ripensamento alla luce, principalmente, del disposto dell'art. 11 l. 29 maggio 1982 n. 304, che precisa il significato di "ordine democratico" in quello di "ordine costituzionale", inteso, quest'ultimo, come quel "complesso di principi e di istituti nei quali si esprime la forma democratica dello Stato secondo la Costituzione" (De Francesco 1981, p. 37); o come "riespressione dell'insieme dei principi fondamentali che nella Carta costituzionale servono a definire la struttura e la natura dello Stato" (Gallo e Musco, 1984, p. 42); o, ancora, come quel che "attiene a quei principi fondamentali che informano il nucleo intangibile destinato a contrassegnare la specie di organizzazione statale cui si è voluto dar vita: tali principi sono contenuti, prevalentemente, nei primi cinque articoli della Costituzione, la cui norma chiave è quella prevista dall'art. 2 che riconosce e garantisce i diritti inviolabili sia del singolo sia delle formazioni sociali e prevede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale" (Cass. pen., 22 maggio 1984, n. 8552, in Riv. pen., 1985, p. 616).
Il concetto di ordine costituzionale, così definito, appare maggiormente specifico rispetto a quello, più genericamente politico, che può essere perseguito come obiettivo dell'azione terroristica (si pensi, per es., a un attentato compiuto per richiamare l'attenzione sui problemi politici di altri paesi, fatto che riveste sicuramente i caratteri dell'azione terroristica per l'obiettivo politico perseguito mediante la violenza, ma che non è certo realizzato in vista dell'eversione dell'ordine costituzionale). È chiaro che, nella pratica, le azioni terroristiche si pongono, normalmente, come strumentali all'eversione dell'ordine costituzionale, ma esse possono mantenere una loro autonomia concettuale quante volte l'obiettivo politico perseguito non s'identifichi con quello, specifico, nel quale si risolve l'ordine costituzionale. D'altra parte − e anche questo è un dato dal quale può trarsi l'autonomia della relativa finalità − l'eversione non implica necessariamente il ricorso ad atti connotati dalla violenza.
Tra le norme più recenti in materia di repressione del t., di notevole importanza sono la l. 18 febbraio 1987 n. 34, con misure a favore di chi si dissocia dal t., la l. 17 maggio 1988 n. 172, istitutiva della Commissione parlamentare d'inchiesta sul t. in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi (Commissione ricostituita poi nel 1992 e nel 1994), e la l. 20 ottobre 1990 n. 302, recante disposizioni a favore delle vittime del t. e della criminalità organizzata.
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