terrorismo
Una guerra senza regole
Il concetto di terrorismo è piuttosto controverso ed è stato definito e interpretato in vari modi. Al di là di distinzioni e precisazioni di natura storica o politica, le definizioni concordano sul fatto che il terrorismo porta a compimento atti violenti finalizzati a incutere terrore nella popolazione di un paese o in alcune categorie di persone, con l’obiettivo di destabilizzare l’ordine costituito o – al contrario – di mantenerlo o restaurarlo. A ricorrere al terrorismo possono essere singole persone oppure gruppi più o meno organizzati su basi ideologiche, religiose, etniche o di altra natura
Sulla definizione del termine terrorismo esistono divisioni e diversità di vedute, poiché si tratta di un concetto che spesso s’intreccia con la politica e l’ideologia. Il terrorismo può essere infatti considerato un metodo di lotta politica condotto attraverso l’uso della violenza, illegittimo perché – oltre che vietato dalle leggi – non è giustificato dalle condizioni nelle quali viene praticato. Ed è sull’assenza o meno di quelle giustificazioni che si verificano differenze e divisioni.
In sostanza, se chi commette un atto illegale e violento – un omicidio, un attentato dinamitardo, un rapimento, un dirottamento aereo o altro – agisce in un contesto democratico nel quale avrebbe la possibilità di esprimersi attraverso condotte legali, viene catalogato come terrorista. In caso contrario può essere considerato un resistente, un partigiano, addirittura un combattente per la libertà, a seconda del grado di illegittimità attribuito al regime o al sistema che si vuole combattere.
Per contro, anche un’autorità costituita – e dunque di per sé non illegale – come un governo può ricorrere a metodi terroristici compiendo o avallando comportamenti contrari alle leggi o al rispetto dei diritti umani: ne sono un esempio gli atti repressivi nelle dittature dell’America Latina della seconda metà del Novecento, con i sequestri, le uccisioni o le ‘sparizioni’ degli oppositori.
Sul piano storico, viene chiamato governo del terrore il regime instaurato dai giacobini al tempo della Rivoluzione francese, tra il 1792 e il 1794. Nel 19° secolo sono state definite terroristiche tante azioni contro governi o regimi più o meno autoritari, sia in Italia sia nel resto d’Europa. Anche alcune azioni di rivoluzionari, anarchici o irredentisti, fino al secolo successivo, furono considerate e represse come atti di terrorismo. Dopo la Seconda guerra mondiale si è assistito ad azioni definite terroristiche soprattutto per rovesciare o comunque mettere in difficoltà i governi nazionali.
Negli ultimi tempi, specialmente di fronte all’espandersi di azioni terroristiche su scala internazionale, organismi come le Nazioni unite hanno tentato di dare del fenomeno una definizione universalmente accettata, ma senza successo. In anni recenti lo studioso italiano di diritto internazionale Antonio Cassese ha proposto la seguente definizione: «È terrorista chiunque: A) commetta un’azione criminosa contro civili o anche contro militari non impegnati in un’azione bellica; B) compie l’atto al fine di coartare un governo, un’organizzazione internazionale o anche un ente non statale; questa coartazione può avvenire diffondendo terrore nella popolazione civile o con altre azioni; C) per una motivazione politica o ideologica, quindi non per fini di lucro o per impulsi personali di vendetta o altro».
Con l’espressione terrorismo internazionale s’intendono quegli atti violenti che hanno obiettivi di carattere appunto internazionale, di solito compiuti da persone che non sono cittadini del paese in cui colpiscono. L’esempio recente più clamoroso è l’attentato congiunto compiuto l’11 settembre 2001 negli Stati Uniti d’America contro il World Trade Center di New York – abbattimento delle cosiddette Torri gemelle attraverso l’impatto di due aerei civili dirottati – e la sede del ministero della Difesa degli usa – attacco al Pentagono, con lo stesso metodo –, che causò circa 3.000 vittime e che è stato rivendicato da al Qaeda, una delle più diffuse fazioni del radicalismo islamico. Quegli attentati provocarono la reazione del governo statunitense, sfociata nelle guerre in Afghanistan e in Iraq. I governi in carica in quei paesi, accusati di foraggiare e aiutare gli autori degli attentati antiamericani, furono rovesciati, determinando reazioni violente – dentro e fuori gli Stati occupati – classificate a loro volta come atti di terrorismo.
Il terrorismo nazionale è, invece, quello che agisce all’interno di un unico paese e ha obiettivi limitati alla situazione politica locale, come per esempio ottenere l’indipendenza di alcune aree geografiche della nazione.
A parte episodi isolati come fu l’attentato al segretario del Partito comunista italiano Palmiro Togliatti – avvenuto a Roma nel 1948 – l’Italia ha avuto a che fare con il terrorismo soprattutto a partire dagli anni Sessanta del 20° secolo.
In Italia il terrorismo interno può essere suddiviso in tre categorie a seconda della matrice ideologica: quello irredentista, quello di destra sfociato nel cosiddetto stragismo e quello di sinistra.
Nella prima categoria rientrano gli attentati susseguitisi in Alto Adige, compiuti da gruppi di lingua tedesca che miravano all’indipendenza di quella regione, contro tralicci dell’alta tensione, centrali elettriche e stazioni ferroviarie, per poi concentrarsi contro le forze dell’ordine (9 vittime tra il 1964 e 1966).
Perpetrata da gruppi appartenenti all’estrema destra, questa seconda forma di terrorismo si è sviluppata soprattutto attraverso azioni volte a colpire indiscriminatamente e risoltesi in vere e proprie stragi.
Tra le più sanguinose, che hanno dato vita alla cosiddetta strategia della tensione, figura la strage del 12 dicembre 1969 a Milano (Banca nazionale dell’agricoltura, 17 morti e oltre 80 feriti), seguita poi dagli attentati del 1974 (Brescia, piazza della Loggia, 28 maggio, 8 morti e oltre 90 feriti; San Benedetto Val di Sambro, treno Italicus, 4 agosto, 12 morti e oltre 100 feriti), fino alla strage alla stazione di Bologna (2 agosto 1980, 85 morti e oltre 200 feriti).
Le inchieste giudiziarie sono riuscite solamente in alcuni casi a risalire alle responsabilità di questi attentati mai rivendicati ufficialmente, a volte con verdetti controversi, ma le indagini si sono sempre concentrate su ambienti di estrema destra. Dallo stesso ambiente sono derivati omicidi e ferimenti di singole persone considerate nemiche, firmati da diverse sigle, tra cui la più nota è quella dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), attivi tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta.
A partire dal 1970 in Italia sono stati compiuti diversi attentati rivendicati da gruppi armati appartenenti all’estrema sinistra, di cui i più noti sono le Brigate rosse e Prima linea. Caratteristica di questo tipo di terrorismo è quella di compiere azioni che non colpiscono indiscriminatamente – bombe nelle piazze o sui treni –, ma che sono rivolte solamente contro obiettivi prestabiliti, come magistrati, giornalisti e altre categorie, e che sono sempre rivendicate. I morti provocati dalle organizzazioni armate di sinistra in Italia tra il 1974 e il 2002 ammontano a circa 130, mentre almeno 50 sono i militanti dei gruppi clandestini morti per mano delle forze dell’ordine, deceduti per errore durante la preparazione di attentati o uccisi da militanti dei propri gruppi di appartenenza. L’azione più eclatante del terrorismo di sinistra, e che ha provocato le maggiori conseguenze sul piano politico, è quella portata a termine dalle Brigate rosse il 16 marzo 1978 a Roma, con il rapimento dell’allora presidente della Democrazia cristiana (il partito di maggioranza relativa) Aldo Moro e l’uccisione dei cinque uomini addetti alla sua scorta. Dopo 55 giorni di reclusione in una cosiddetta prigione del popolo, Moro fu ucciso il 9 maggio 1978. In quello stesso anno le organizzazioni armate di sinistra firmarono il maggior numero di omicidi, che cominciarono a diminuire costantemente a partire dal 1980.
Dopo l’omicidio del senatore democristiano Roberto Ruffilli (Bologna, 16 aprile 1988), il fenomeno fu considerato praticamente esaurito, finché il 20 maggio 1999 le Brigate rosse sono ricomparse a Roma rivendicando l’uccisione di Massimo D’Antona, consulente del ministro del Lavoro, e il 19 marzo 2002 a Bologna, rivendicando l’omicidio di Marco Biagi, che ricopriva lo stesso ruolo in un diverso governo.