TERRORISMO
di Luciano Pellicani
Se per terrorismo si intende l'uso sistematico della violenza finalizzato a provocare una paura paralizzante, esso è una delle più antiche e comuni risorse politiche. Tant'è vero che nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio Machiavelli scrisse, senza tema di smentite, che lo studio della storia insegnava che i governanti, al fine di consolidare il loro dominio, non esitavano a "mettere quel terrore e quella paura negli uomini che vi avevano messo nel pigliarlo". Va comunque precisato che il ricorso alla violenza terroristica da parte delle élites del potere per solito è legato a situazioni di emergenza (usurpazioni, rivolte, guerre civili, ecc.) caratterizzate dal collasso del consenso dei governati e, quindi, da una carenza di legittimità. Ancora più eccezionale è il terrorismo contro lo Stato, un fenomeno che si riscontra quando la legittimità dell'ordine esistente è frontalmente contestata da un gruppo organizzato a immagine e somiglianza di un esercito clandestino, il quale ritiene che non vi sia altra strategia efficace per conseguire i suoi scopi che quella degli attentati esemplari. In realtà, dato lo squilibrio delle forze in campo, il terrorismo contro lo Stato ha scarse o nulle possibilità di successo; ciò non di meno, esso può avere un forte impatto sia sull'opinione pubblica interna che su quella internazionale. Talché è stato giustamente detto che la valenza del terrorismo contro lo Stato è prima di tutto e soprattutto di carattere morale: è uno strumento di cui una minoranza oppressa o fortemente alienata si serve per delegittimare il governo e per costringerlo a rendere ancor più palese la sua natura tirannica.
L'uso terroristico della violenza da parte dello Stato, spinto sino al genocidio, è vecchio quanto lo Stato medesimo. Ma, a partire dall'instaurazione della dittatura giacobina, è apparso sulla scena un tipo di terrorismo di Stato sui generis: il terrorismo rivoluzionario, la cui prima teorizzazione si trova nel discorso tenuto da Maximilien Robespierre il 4 febbraio 1794 davanti al Comitato di salute pubblica. In quella storica seduta Robespierre dichiarò che occorreva prendere atto che la guerra che i giacobini stavano conducendo contro la tirannia imponeva di ricorrere a una inedita forma di governo: il "dispotismo della libertà", avente la missione di "domare con il terrore i nemici della libertà". E precisò che il terrore rivoluzionario, oltre a essere la "giustizia pronta, severa, inflessibile", era anche una "emanazione della virtù". Come tale, esso non poteva essere assolutamente confuso con il terrore dell'antico regime: questo aveva come obiettivo la difesa del regno del privilegio e del vizio; quello, al contrario, mirava a instaurare il regno dell'eguaglianza e della virtù.
Secondo Guglielmo Ferrero, la dittatura terroristica del Comitato di salute pubblica fu la manifestazione estrema della 'grande paura' nella quale la Francia era precipitata a partire dalla presa della Bastiglia. La monarchia era agonizzante, ma la Repubblica, priva di un adeguato sostegno popolare, non poteva sostituirla rispettando i principî della democrazia liberale; sicché i giacobini, consapevoli di essere degli usurpatori, non ebbero altro rimedio che proclamare lo stato d'assedio e scatenare la caccia ai nemici, reali o immaginari, della rivoluzione. In realtà, c'era una ragione più profonda che indusse i giacobini a instaurare il Terrore. Essi concepivano la rivoluzione come una rottura radicale con il passato, grazie alla quale si sarebbe realizzato niente di meno che il "passaggio dal male al bene, dalla corruzione alla probità" (Saint-Just). E attribuivano a se stessi la missione storica di espungere dalla Francia il vizio e di instaurare il "regno della virtù". Il che li induceva a invocare l'installazione permanente della ghigliottina e a teorizzare la "crudele necessità di sterminare i nemici della libertà" (Marat).
Coerentemente con la loro visione palingenetica della rivoluzione, nella quale al terrore veniva assegnata una vera e propria funzione catartica, i giacobini, al grido "Faremo della Francia un cimitero, piuttosto che non rigenerarla a modo nostro", instaurarono una dittatura protototalitaria che prese a scovare cospiratori fra la gente di ogni ceto (aristocratici, borghesi, intellettuali, operai) e di ogni orientamento politico (realisti, foglianti, girondini, arrabbiati, babuvisti, indifferenti) e che progressivamente sottopose al suo controllo la quasi totalità della produzione e della distribuzione dei beni. Ne risultò una rivoluzione di segno contrario a quella del 1789, ostile alla libertà dei moderni e al mercato, quindi decisamente antiliberale e anticapitalistica. Tant'è che, mentre Saint-Just tuonava contro la "viziosa" costituzione inglese che aveva sancito l'"impero della ricchezza", Robespierre stigmatizzava la borghesia quale fonte del male radicale. Giustamente, perciò, Marx ed Engels nella Sacra famiglia avrebbero rimproverato agli uomini del Terrore di "aver scambiato la comunità antica, realisticamente democratica, che poggiava sul fondamento della schiavitù reale, con lo Stato moderno rappresentativo, spiritualisticamente democratico, che poggiava sulla schiavitù emancipata, sulla società civile" (Opere complete, Roma 1970 ss., vol. IV, p. 136).
A dispetto del fatto che Marx ed Engels avevano interpretato la dittatura della Montagna come un illusorio tentativo di bloccare lo sviluppo in senso capitalistico-borghese della Francia soffocando la società civile e imponendole una testa politica modellata a immagine e somiglianza di Sparta, la storiografia marxista del XX secolo ha creduto di vedere nel partito giacobino l'ala marciante della democrazia liberale e nel Terrore la dittatura di classe della borghesia capitalistica. Non di questo avviso fu, però, il babuvista Filippo Buonarroti, che prese a propalare per l'Europa l'idea che la Rivoluzione francese non aveva dato ciò che aveva promesso - la "completa redenzione dell'umanità" - poiché il "partito dell'opulenza" aveva rovesciato Robespierre e il governo, caduto nelle mani dei borghesi, era divenuto uno strumento di oppressione del popolo. Fatta questa diagnosi, Buonarroti formulò una terapia basata sulla ripresa delle "idee rigeneratrici" dei giacobini e sulla necessità etico-politica di instaurare una energica dittatura avente come obiettivo primario la soppressione della proprietà privata, causa di tutti i mali che infestavano il mondo. Nacque in tal modo il mito della "rivoluzione incompiuta"; e nacque altresì il mito della "vera rivoluzione", che sarebbe stata l'ultima poiché, dopo aver sconfitto il "partito dell'egoismo", avrebbe estirpato le radici dello sfruttamento e dell'oppressione.
Elaborata in Francia, l'idea che i tempi erano maturi per materializzare l'ideale dell'eguaglianza sostanziale scatenando una guerra di annientamento contro gli ordinamenti esistenti divenne nel giro di alcune generazioni la passione dominante dell'intelligencija russa. Condannati a vivere come un ceto in esilio, i suoi membri erano animati da un inestinguibile odio per la Russia ufficiale che li portava a fantasticare su un evento catastrofico-palingenetico che avrebbe fatto sprofondare nel nulla l'ordine esistente. E il Terrore appariva al loro sguardo di 'fanatici dell'Apocalisse' come la prova che una minoranza di uomini risoluti e asceticamente dedicati alla sacrosanta causa della redenzione del popolo poteva conquistare il potere e aprire il cantiere della società socialista. Innumerevoli furono le sette rivoluzionarie che, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, sorsero in Russia, tutte caratterizzate da una fede mistica nell'infinita potenza catartica della violenza. Fra queste, acquistò una improvvisa celebrità internazionale la setta fondata da Sergej Nečaev, grazie soprattutto alla pubblicazione del Catechismo del rivoluzionario, dove era espressa l'idea, tipica della subcultura nichilistica, che la liberazione del popolo esigeva la "distruzione terribile, totale, generale e spietata dell'immonda società borghese". Non diverso, nella sostanza, il programma delineato da Michail Bakunin in una lettera inviata allo stesso Nečaev: "Distruzione totale del mondo statal-legalitario e di tutta la cosiddetta civiltà borghese, per mezzo di una rivoluzione popolare spontanea, diretta dalla dittatura collettiva dell'organizzazione segreta". Ma si deve all'autore del manifesto "La nuova Russia", il populista Pëtr Zaičnevskij, la più franca e brutale teorizzazione del terrore quale strumento di rigenerazione materiale e morale: "Sotto il regime economico attuale in cui un piccolo numero di persone che detengono i capitali dispone del destino degli altri tutto è falso, tutto è stupido, dalla religione alla famiglia. Una rivoluzione sanguinosa e spietata dovrà rovesciare senza eccezione tutte le basi della società attuale. Non dimenticheremo la lezione che ci viene dall'Europa. Non ripeteremo gli errori dei piagnucolosi rivoluzionari del 1848 e dei terroristi del 1792. Saremo più coerenti. Schiacceremo la tirannia zarista foss'anche a costo di spargimenti di sangue. Saremo tre volte più inflessibili dei giacobini del 1790. Abbiamo fede in noi stessi, nelle nostre forze, nel popolo. Crediamo nella gloriosa missione assegnata alla Russia di edificazione del socialismo. Al grido di 'Alla mannaia!' uccideremo senza pietà i seguaci dello zar, come loro oggi uccidono noi. Li uccideremo sulle piazze se questi bricconi osano avventurarcisi; li uccideremo nelle case, nei vicoli, nelle strade principali! Non dimenticheremo che chi non è con noi è contro di noi, che chi è contro di noi è nostro nemico e i nemici saranno sterminati con tutti i mezzi".Animati da queste idee, i nichilisti russi imboccarono la via del terrorismo. Convinti come erano che il regime zarista fosse un mostro da abbattere a qualsiasi costo e che le masse contadine non si sarebbero mobilitate fino a quando non fosse stato inferto un colpo letale al sistema, essi si sottrassero a quello che chiamavano il 'pantano della vita ufficiale e borghese di tutti i giorni' e si proclamarono avanguardia armata della rivoluzione. Nacque così la figura del cospiratore di professione, pronto a sacrificare la propria vita in una guerra senza quartiere contro i poteri costituiti. E nacque una nuova forma di terrorismo: il terrorismo contro lo Stato, centrato sul mito della bomba 'ultima arma della rivolta', che dopo il clamoroso attentato ad Alessandro II, conclusosi con la morte dello zar (1881), contagiò il movimento anarchico dell'Europa occidentale e spinse i suoi militanti più estremisti a teorizzare e praticare la cosiddetta 'propaganda dei fatti'. Questa fu concepita come l'unica risposta possibile al terrorismo scatenato dalla borghesia contro la Comune di Parigi, repressa in un lago di sangue nel quale erano periti decine di migliaia di rivoluzionari (1871), sicché i giornali anarchici non esitarono a incitare i loro lettori a procurarsi qualsiasi arma fornita dalla scienza e dalla tecnica per distruggere le "istituzioni criminali dello Stato borghese". Alcuni di essi fornirono anche istruzioni sulla preparazione di esplosivi e sulla fabbricazione di ordigni con i quali far saltare uomini ed edifici rappresentativi della "società dell'egoismo e del privilegio". Il culmine dell'esaltazione del terrorismo quale strumento di liberazione dall'oppressione fu raggiunto in occasione dell'esecuzione di Ravachol, quando gli anarchici presero a cantare canzoni che inneggiavano al "suono dell'esplosione" e invitavano a tutto distruggere in nome della "società dei liberi e degli eguali".
Quando, nell'opuscolo Due tattiche della socialdemocrazia, Lenin scrisse che il compito dei bolscevichi era quello di aizzare il proletariato a "regolare i conti con lo zarismo e l'aristocrazia alla plebea, sterminando implacabilmente i nemici della libertà" (Opere complete, Roma 1955 ss., vol. IX, p. 51), i menscevichi lo accusarono di essere un populista inconsapevole che, immemore della lezione di Marx ed Engels, intendeva introdurre nel movimento socialista il culto mistico della violenza e del terrore, tipici della tradizione giacobina. In effetti, il Terrore era il paradigma operativo che Lenin teneva costantemente presente; ma teneva altresì presente che, mentre era in atto la rivoluzione del 1848, Marx aveva dichiarato che esisteva "un solo mezzo per abbreviare, semplificare, concentrare l'agonia assassina della vecchia società e le doglie sanguinose della nuova società: il terrorismo rivoluzionario" (Opere complete, vol. VII, p. 520); e che Engels era giunto a teorizzare la necessità di una "lotta di annientamento e di terrorismo senza riguardi" non solo contro le classi possidenti, ma anche contro i "popoli reazionari" (ibid., vol. VIII, p. 381). Inoltre, nell'Indirizzo al Comitato centrale del Partito comunista, redatto nel marzo del 1850, i padri fondatori del socialismo scientifico avevano ribadito l'idea che la distruzione della società capitalistico-borghese era impensabile senza il ricorso a "misure di terrore" (vol. X, p. 285). Pertanto Lenin poteva a buon diritto vedere nella dittatura rivoluzionaria del proletariato, nella quale Marx ed Engels avevano indicato il passaggio obbligato per giungere al regno della libertà, una versione perfezionata del Terrore.Conquistato il potere con il fortunato golpe passato alla storia con il nome di Rivoluzione d'ottobre, Lenin dichiarò alto e forte che occorreva "instaurare subito il terrore di massa" (Opere complete, vol. XXVI, p. 243), il quale doveva dirigersi non solo contro i borghesi e i sostenitori dello zarismo, ma anche contro i menscevichi, i socialisti rivoluzionari, i sospetti, gli elementi infidi e gli operai retrogradi. Questi costituivano un'unica massa reazionaria ostile alla dittatura del proletariato e dunque tutta da sterminare. Secondo il carismatico leader del bolscevismo, lo Stato comunista aveva la missione storica di "ripulire di qualsiasi insetto nocivo il suolo della Russia, delle pulci: i furfanti; delle cimici: i ricchi, ecc." (ibid., p. 394). La "maledetta società capitalistica" era un "pantano" che doveva essere disinfestato ricorrendo alla "violenza sistematica contro la borghesia e i suoi complici": un'operazione crudele, spietata, ma assolutamente necessaria per sradicare la "cupidigia, la sordida, odiosa, forsennata cupidigia del sacco di denari" (p. 384). Del resto, quale diritto di esistere avevano esseri che non erano uomini, bensì "parassiti" che vivevano, simili a "vampiri", nutrendosi del sangue dei lavoratori? Eliminarli era un dovere morale, oltre che un'operazione indispensabile per radere al suolo il "sanguinario e immondo capitalismo" (vol. XXVIII, p. 392).
Animato da queste certezze morali Lenin, non appena si insediò nel Palazzo d'Inverno, iniziò a costruire il primo Stato totalitario del XX secolo, centrato in maniera tipica sull'uso terroristico della violenza. I tribunali rivoluzionari, che condannavano gli inquisiti sulla base della loro appartenza di classe, i campi di concentramento, dove venivano ammassati gli 'elementi sospetti', e l'onnipotente Ceka, la nuova polizia segreta che i bolscevichi consideravano l''arma d'acciaio in mano alla Storia', furono gli strumenti attraverso i quali la dittatura del proletariato - concepita da Lenin come "un potere che poggiava direttamente sulla violenza e non era vincolato da alcuna legge" (p. 241) - perseguì l'"annientamento implacabile di tutte le forme di capitalismo" (vol. XXVI, p. 451). Dal momento che costruire la società socialista significava abolire la 'mano invisibile' del mercato e sostituirla con la 'mano visibile' dello Stato, instaurando la centralizzazione nazionale delle risorse economiche e il piano unico di produzione e di distribuzione, era imperativo condurre una guerra permanente contro la piccola proprietà contadina, capillarmente diffusa. Infatti, secondo Lenin, la "piccola produzione generava incessantemente il capitalismo e la borghesia, ogni giorno, ogni ora, in modo spontaneo e su scala di massa" (vol. XXXI, p. 14). Pertanto, il partito bolscevico non poteva sottrarsi al dovere di condurre una "guerra implacabile contro i kulaki" (vol. XXVIII, p. 53) che avrebbe dovuto concludersi con il loro sterminio.
Il rovinoso collasso della produzione in Unione Sovietica e le rivolte contadine contro il potere bolscevico costrinsero Lenin ad abbandonare il comunismo di guerra e ad adottare la 'Nuova Politica Economica' (NEP), basata sull'"autorizzazione della libertà di commercio per i piccoli produttori" (Opere complete, vol. XXXIII, p. 373). Ma ciò non lo indusse a modificare la meta finale della rivoluzione - l'economia integralmente pianificata - né, tanto meno, a rinunciare a quello che egli considerava lo strumento indispensabile per sradicare la brama di possesso: il terrore rivoluzionario. Tant'è che il 17 maggio 1922 egli inviò le seguenti direttive a D.I. Kurski che, in qualità di commissario per la giustizia, era stato incaricato di scrivere il nuovo codice penale: "Porre in aperto risalto una tesi di principio, giusta sul piano politico (e non soltanto in senso strettamente giuridico), motivante l'essenza e la giustificazione del terrore, la sua necessità, i suoi limiti. Il tribunale non deve eliminare il terrore; prometterlo significherebbe ingannare se stessi o ingannare gli altri; bisogna giustificarlo e legittimarlo sul piano dei principî, chiaramente, senza falsità e senza abbellimenti. La formulazione deve essere quanto più larga possibile, poiché soltanto la giustizia rivoluzionaria e la coscienza rivoluzionaria decideranno delle condizioni di applicazione pratica più o meno larga" (ibid., p. 325).
Insomma, lo Stato comunista non poteva non essere uno Stato terroristico poiché aveva assunto su di sé la missione storica di eliminare la brama di possesso: una tendenza così naturale e spontanea che poteva essere estirpata solo ricorrendo ai metodi più radicali e spietati. Il partito, pertanto, doveva tenersi pronto per l''assalto finale' contro la piccola proprietà, germe della grande. Obiettivo dichiarato: purificare la Russia sul campo. Il che fu esattamente ciò che Stalin realizzò a partire dal 1930, l'anno in cui il Comitato centrale del PCUS decretò la soppressione delle proprietà fondiarie di 25 milioni di famiglie e la necessità inderogabile di radere al suolo il mercato. L'assalto finale al microcapitalismo delle campagne fu diretto da commissioni di militanti nei quali era stata iniettata l'idea che i kulaki costituivano una classe reazionaria, condannata dalla storia in quanto affatto incompatibile con il socialismo. Appoggiate dalla polizia segreta e dall'esercito, le commissioni nel giro di pochi anni realizzarono la collettivizzazione forzata rovesciando sulle campagne un'ondata di terrore di colossali proporzioni. Non meno di 5 milioni di contadini furono sterminati nei loro villaggi; i superstiti furono deportati nell''Arcipelago Gulag': uno smisurato sistema di campi di concentramento appositamente istituiti per liberare la Russia da quelli che il marxismo-leninismo considerava parassiti che vivevano succhiando il sangue dei lavoratori. Nello stesso arco di tempo, le commissioni programmarono l'arma per distruggere le basi biologiche del nazionalismo ucraino. Il genocidio iniziò nel maggio del 1932, quando l'intero raccolto fu requisito e fu decretata la pena capitale per coloro che venivano sorpresi a spigolare il grano o a cavare barbabietole. Seguirono altre misure draconiane per scovare il cibo nascosto e per isolare ermeticamente l'Ucraina. Nella primavera dell'anno successivo il nazionalismo ucraino non costituiva più un problema poiché l'intera regione era stata desertificata.Completata la collettivizzazione delle campagne e annientata la classe dei kulaki, il terrore rivoluzionario investì lo stesso Partito comunista sovietico. Stalin affidò al capo della polizia segreta, Nikolaj Ežov, il compito di preparare le liste di epurazione. Iniziarono i grandi processi contro la vecchia guardia bolscevica. Nel 1936 Zinov´ev e Kemenev furono condannati a morte per aver creato il 'centro terrorista trockista'; l'anno successivo fu la volta di Pjatakov e Radek, capi del 'centro antisovietico trockista'; infine, nella primavera del 1938, fu liquidato il 'blocco dei destrorsi e dei trockisti', guidato da Bucharin e Rykov. Contemporaneamente, il grande terrore si abbatté sull'Armata rossa: 125.000 militari furono arrestati, processati e giustiziati. Lo stesso destino fu riservato all'80% dei membri del Partito comunista. Non pago di ciò, Stalin estese la 'purga permanente' all'intera popolazione la quale, divisa in gruppi, venne metodicamente decimata. Circa 4 milioni di persone furono condannate per 'attività controrivoluzionarie', la più parte delle quali sarebbero morte di inedia e di stenti nell'Arcipelago Gulag.
Mentre Stalin completava la 'purificazione' della Russia in nome della classe, Hitler iniziava la 'disinfestazione' dell'Europa in nome della razza. Nella Weltanschauung hitleriana, la rivoluzione nazionalsocialista aveva il compito storico di arrestare il processo di degenerazione e di degradazione del mondo, conducendo una guerra di annientamento contro l''onnipotente giudaismo', le cui principali manifestazioni - il capitale finanziario internazionale e il bolscevismo - soltanto in apparenza erano nemiche l'una dell'altra; in realtà, esse avevano lo stesso fine: la distruzione della Germania. Pertanto l'ebraismo internazionale, "corruttore di tutti i popoli", costituiva una potenza satanica che doveva essere combattuta con tutti i mezzi, non escluso il terrore di Stato. Tanto più che, quando i "parassiti sarebbero stati definitivamente sterminati", il popolo tedesco, purificato e redento, sarebbe risorto a nuova vita."Abbiamo il diritto morale di annientare questo popolo [gli Ebrei] che vuole annientarci": con queste parole nel 1941 Himmler diede il via alla 'soluzione finale'. Oltre 5 milioni di persone, senza distinzione di età o di sesso, furono sterminate per la sola ragione che venivano percepite dal Terzo Reich come parassiti portatori di bacilli letali per la razza ariana. L'Olocausto iniziò in Polonia, dove l'intera comunità ebraica fu annientata, e continuò con metodi ancor più spietati, se possibile, nelle zone occupate dell'Unione Sovietica. Nei paesi baltici e in Ucraina migliaia di ausiliari, di poliziotti e di volontari organizzarono pogrom prima dell'arrivo delle 'unità mobili di sterminio', appositamente istituite per estirpare il 'cancro giudaico'. Centinaia di migliaia di Ebrei furono abbattuti; i superstiti vennero ammassati in appositi campi di lavoro che, in realtà, erano centri di uccisione (Totungsanstalten). Lo Stato nazista si trasformò in una colossale industria della morte in quanto tutte le sue strutture, militari e civili, furono mobilitate per compiere nel più breve tempo possibile la purificazione dell'Europa. Gli Ebrei vennero marchiati e trasportati come bestiame, gassati come parassiti, bruciati come spazzatura. Erano una razza inquinata e inquinante, e pertanto il loro destino era segnato: dovevano essere eliminati per impedire che contaminassero con la loro semplice presenza la razza ariana.Va comunque precisato che il programma di purificazione perseguito dal pool genetico tedesco, battezzato dalla propaganda ufficiale 'rigenerazione fisica attraverso l'estirpazione', prevedeva l'annientamento non solo degli Ebrei, ma anche dei gruppi che manifestavano una 'condotta estranea alla comunità' (i disabili, gli zingari, i 'degenerati' e, naturalmente, gli oppositori politici). Del resto, la stessa sorte era stata riservata persino ai militanti nazisti non allineati, come Ernst Roehm e i suoi seguaci, massacrati nell'estate del 1934 in nome della 'salvezza del popolo tedesco', la quale, a giudizio di Hitler, esigeva l'eliminazione di tutto ciò che poteva in qualche modo incrinare la monolitica compattezza del Terzo Reich.
Con la conquista del potere da parte del Partito comunista, anche la Cina conobbe gli orrori del terrorismo rivoluzionario. Migliaia di campi di concentramento - i laogai - furono istituiti per purificare il popolo. Mentre lo scopo dei campi sovietici era quello di annientare i 'nemici del proletariato', il principale obiettivo dei laogai era quello di riformare gli uomini, espellendo dalle loro menti i 'cattivi pensieri'. Di qui il fatto che nei laogai ebbe un posto di primaria importanza una pratica senza precedenti, il lavaggio del cervello, che non veniva utilizzata per ottenere confessioni, bensì per suscitare, attraverso la stimolazione di un intensissimo senso di colpa, una fede incondizionata e appassionata nella rivoluzione. I rigenerandi venivano isolati totalmente dal mondo e sottoposti a una pressione fisica, mentale e morale avente come obiettivo una conversione spirituale totale. Solo quando i 'cattivi elementi della società' si consegnavano anima e corpo al partito iniziava il rimodellamento intellettuale, morale e affettivo della loro personalità. Rigenerati, essi venivano reinseriti nella comunità rivoluzionaria. Ma nei confronti dei refrattari e delle categorie sociali considerate incompatibili con il socialismo i metodi adoperati dal Partito comunista cinese non erano diversi da quelli già sperimentati dal Partito comunista sovietico. In particolare, nel Tibet la lotta per sradicare il buddhismo fu condotta ricorrendo a un uso sistematico e massiccio della violenza (fucilazioni, crocifissioni, torture, ecc.). Il culmine del terrorismo catartico fu comunque raggiunto durante la 'rivoluzione culturale'. Ispirata da Mao Zedong sulla base del principio secondo il quale costruire la società socialista significava radere al suolo il vecchio mondo, la furia pantoclastica delle 'guardie rosse' non conobbe limiti di sorta: tutto ciò che in qualche modo era collegato al passato (biblioteche, monumenti, edifici, ecc.) fu raso al suolo. Contemporaneamente il Partito comunista fu 'purgato' con la massima spietatezza organizzando il linciaggio dei dirigenti che le guardie rosse giudicavano 'nemici del popolo'.
L'ultimo grande bagno di sangue compiuto in nome della rivoluzione comunista ha avuto come teatro la Cambogia. Nel 1975 i 'khmer rossi' conquistano il potere e, sotto la guida di Pol Pot, iniziano la purificazione etnica e sociale del paese. La rivoluzione di Mao serve loro di guida, ma essi aspirano a superare il modello cinese adottando sino alle più estreme conseguenze la politica della tabula rasa. Il loro obiettivo dichiarato è la rigenerazione materiale e morale del popolo cambogiano attraverso l'eliminazione della proprietà privata, della moneta e del commercio. Il cervello della rivoluzione è una struttura misteriosa e onnipotente: l'organizzazione (Angkar). L'Angkar è dappertutto, vede tutto, sente tutto ed è infallibile e inappellabile. È una macchina di rieducazione spirituale e di sterminio fisico. Chi non si piega alla sua impersonale volontà, viene annientato nel modo più brutale. Dopo aver isolato ermeticamente la Cambogia dal mondo intero, i khmer rossi aprono il cantiere della società comunista che dovrà essere pura e incontaminata. Ogni cosa è pianificata, eseguita metodicamente, con rigore implacabile. La cellula del nuovo ordine è la cooperativa, che in realtà è un campo di lavoro forzato. I capi delle cooperative e i guardiani hanno un illimitato potere di vita e di morte, che esercitano nel modo più sadico. L'Angkar dà una caccia spietata agli intellettuali, agli insegnanti e ai liberi professionisti, contaminati dalla 'cultura borghese' e, pertanto, tutti da sterminare. Ogni forma di vita privata è sospetta. Non c'è posto per la famiglia nel nuovo ordine. I figli vengono sottoposti a un indottrinamento intensivo, trasformati in cani da guardia dei genitori e aizzati alla delazione. La volontà di distruggere tutto della vecchia società è spinta sino al genocidio. Quando, nel 1979, i Vietnamiti occuperanno la Cambogia, risulterà che non meno della metà della popolazione era stata sterminata dai khmer rossi.
Numerose sono state le teorie con le quali gli scienziati sociali hanno cercato di dare una spiegazione del terrore totalitario. Secondo Karl A. Wittfogel (v., 1957), esso non sarebbe stato altro che una versione aggiornata e perfezionata dei metodi di governo tipici dei regimi dispotici. Non diversa, nella sostanza, la tesi sviluppata da Yves Ternon (v., 1995) in una sua recente monografia. Ora, è indubbio che, non appena si sfoglia il grande libro della storia universale, ci si imbatte con una frequenza impressionante negli stermini di massa ma non ci si imbatte, di regola, in stermini di massa concepiti come operazioni catartiche il cui fine ultimo è la rigenerazione materiale e morale dell'umanità o di una sua parte privilegiata. Il che induce a pensare che il terrore degli Stati totalitari costituisca un fenomeno sui generis. Il suo scopo, in effetti, non è tanto il dominio totale quanto la trasformazione radicale e definitiva della società e la creazione di una umanità nuova. Non più convincente di quelle di Wittfogel e Ternon è la teoria formulata da Zygmunt Bauman (v., 1989), secondo la quale il terrorismo di Stato spinto sino al genocidio sarebbe un prodotto tipico della moderna civiltà industriale. Certamente, la rivoluzione industriale ha prodotto l'attrezzatura tecnologica per realizzare gli stermini di massa; ma le ideologie che hanno ispirato l'azione terroristica dei partiti totalitari affondano le loro radici in tradizioni di pensiero del tutto estranee allo spirito della civiltà moderna. Tant'è che numerosi studiosi (Norman Cohn, Wilhelm Mühlmann, Vittorio Mathieu, James Rhodes, Jean-Pierre Sironneau, ecc.) hanno sostenuto con particolare vigore che il significato delle rivoluzioni totalitarie del XX secolo e la straordinaria fascinazione che esse hanno esercitato sulle menti possono essere compresi solo tenendo presenti gli antecedenti medievali. In effetti, se si esaminano i movimenti millenaristici e gnostico-manichei del basso Medioevo, non si può non essere colpiti dal fatto che essi appaiono animati da un progetto - purificare il mondo sterminando gli empi - che ritroviamo tal quale negli esperimenti totalitari del XX secolo, siano stati essi concepiti in nome della classe o della razza. Tali esperimenti sono stati compiuti sulla base della certezza ideologica che il terrore permanente era indispensabile per porre fine all'eone della corruzione generale e per spalancare le porte del 'Regno millenario'. Di qui la vocazione imperialistica delle rivoluzioni totalitarie. Dal momento che la loro meta era una renovatio a carattere cosmico-storico, esse non potevano non aspirare al dominio planetario. Di qui altresì la loro aspirazione a prendere nelle coscienze il posto della religione e a risacralizzare il mondo istituendo il culto idolatrico della comunità divinizzata e del carismatico leader che la incarnava: un culto che esigeva l'annientamento implacabile di tutto ciò che costituiva un ostacolo alla creazione del Mondo Nuovo. È accaduto così che i regimi totalitari non solo hanno manifestato un sovrano disprezzo per la legalità e per i diritti degli individui, ma hanno anche introdotto il concetto di 'colpa collettiva', che è sfociato nella creazione di un'istituzione senza precedenti: l'universo concentrazionario, luogo di scarico delle categorie sociali percepite dal 'partito dei puri' come inquinate e inquinanti.
Strettamente legato alla tradizione rivoluzionaria comunista è stato il terrorismo urbano che, a partire dalla seconda metà degli anni sessanta, ha interessato alcuni paesi dell'America Latina (Argentina, Uruguay, Brasile, ecc.). Il passaggio dalla guerriglia rurale al terrorismo urbano avvenne a seguito del manifesto fallimento della strategia elaborata da Che Guevara, la quale si basava sul convincimento che la città era la 'tomba della guerriglia' in quanto tendeva irresistibilmente a 'imborghesire' il proletariato e, conseguentemente, a orientarlo verso il riformismo. L'arresto di Regis Debray e soprattutto la morte di Che Guevara in Bolivia (1967) convinsero i gruppi rivoluzionari a spostare il teatro della lotta armata contro il sistema dalla campagna alla città. Era chiaramente una scelta dettata dalla disperazione, dal momento che lo stesso Lenin, al cui insegnamento i rivoluzionari latinoamericani dicevano di ispirarsi, aveva visto nel terrorismo un'arma punto efficace per abbattere lo Stato borghese. E, in effetti, la tesi di Lenin risultò confermata dai fatti. Dopo la sconfitta, maturata negli anni settanta, i terroristi latinoamericani ammisero che la loro teoria, secondo la quale la radicalizzazione della lotta politica da una parte avrebbe costretto l'establishment a gettare la maschera liberaldemocratica e dall'altra avrebbe indotto le masse lavoratrici a sollevarsi come un sol uomo, si basava su una grave sopravvalutazione delle proprie forze e su una altrettanto grave sottovalutazione delle forze della reazione. Tanto più che queste ultime non esitarono a ricorrere a metodi di repressione quanto mai brutali, che raggiunsero il culmine in Argentina, dove migliaia di cittadini sospettati dalla polizia di complicità con i rivoluzionari furono fatti sparire. Ciò non di meno, per alcuni anni i Tupamaros in Uruguay, i Montoneros in Argentina e i Palmares in Brasile compirono tutta una serie di spettacolari attentati che rafforzarono e alimentarono la fiducia della Nuova Sinistra, scaturita dalla contestazione studentesca, nella possibilità di abbattere il capitalismo radicalizzando la lotta di classe sino a trasformarla in un'aperta guerra civile. È accaduto così che il terrorismo latinoamericano, a dispetto del fatto che costituiva una chiara deviazione dall'ortodossia leninista, ha rappresentato un modello di riferimento per i gruppi più estremisti della Nuova Sinistra e, quanto meno nella Germania occidentale e in Italia, li ha indotti ad adottarne le specifiche forme di lotta armata (sequestri, attentati, ecc.), peraltro con gli stessi fallimentari esiti.
Uscito di scena il terrorismo rivoluzionario della Nuova Sinistra a seguito della sconfitta della Rote Armee Fraktion in Germania e delle Brigate Rosse in Italia, è apparso un nuovo tipo di terrorismo, strettamente legato all'insorgenza del fondamentalismo islamico e al suo programma: la restaurazione della piena vigenza della sharī'a - la via di Allah - attraverso l'eliminazione di tutti gli elementi - idee, valori, istituzioni, uomini - responsabili della contaminazione della sacra immutabile tradizione.Tale contaminazione è iniziata a partire dal momento in cui le potenze europee hanno assoggettato buona parte del Dār al-Islām (il territorio musulmano) ed è continuata anche dopo il processo di decolonizzazione a motivo della straordinaria potenza contaminante della moderna civiltà industriale. Questa è una civiltà costitutivamente imperialistica a vocazione ecumenica nel senso che, oltre a esportare in ognidove merci e tecnologie, esporta idee, valori e modelli di comportamento. Per di più è una civiltà profondamente secolarizzata, nella quale la religione ha cessato di essere la suprema potenza spirituale ed è come assediata dallo scetticismo, dal relativismo e dalla miscredenza. Di qui il fatto che, agli occhi dei custodi della sharī'a, l'Occidente appare come una insidiosa civiltà materialistica e atea, portatrice di un morbo letale per la 'vera fede'. È accaduto così che in alcuni paesi del Dār al-Islām - l'Iran, la Palestina, l'Egitto, l'Algeria, ecc. - sono nati aggressivi movimenti religiosi, fanaticamente animati dalla convinzione che, essendo la società moderna irrimediabilmente 'pagana', bisogna raderla al suolo e che esistono solo due partiti - il 'partito di Allah' e il 'partito di Satana' - coinvolti in un duello mortale che finirà solo quando il secondo sarà stato annientato. Conseguentemente, il partito di Allah deve condurre ovunque una lotta senza quartiere sino alla restaurazione del 'governo di Dio'. Questa, per i fondamentalisti, è la missione che ogni vero musulmano ha l'obbligo di sentire come un incondizionato imperativo religioso. Pertanto il partito di Allah, per proteggere l'Islam dal contagio spirituale, proclama la 'guerra santa' contro l'Occidente; e proclama altresì che tutti i mezzi, ivi compreso il terrorismo, sono legittimi per espellere i veleni che l'imperialistica civiltà occidentale, con i suoi formidabili strumenti di comunicazione e di socializzazione, ha iniettato e inietta nella comunità dei veri credenti. Il terrorismo scatenato in forme selvagge dal partito di Allah non è dunque che la manifestazione estrema della guerra culturale che da anni è in corso fra il mondo occidentale e il mondo islamico. Una guerra che nasce dal fatto che esiste una irriducibile opposizione di principio fra la civiltà islamica, nella quale l'unica autorità concepita e concepibile è quella religiosa, e la civiltà moderna, basata sulla distinzione fra potere temporale e potere spirituale e sulla progressiva laicizzazione delle sue forme di vita. A ciò si deve aggiungere la presenza dello Stato di Israele nel cuore del Dār al-Islām e la formazione di un popolo senza patria, costituito dalle centinaia di migliaia di arabi che nel 1948 abbandonarono la Palestina. Con la costituzione dell'Organizzazione di Liberazione della Palestina (OLP) e del suo braccio armato, al-Fatāh (la vittoria), iniziò la lotta armata dei volontari palestinesi (fedayin) contro lo Stato di Israele, lotta che per decenni fu condotta ricorrendo sia all'arma della guerriglia che a quella del terrorismo. Neanche il trattato di pace stipulato fra l'OLP e il governo di Tel Aviv ha posto fine alle ostilità. Il trattato è stato denunciato come un tradimento politico e religioso dai gruppi irredentistici più estremisti, i quali, spinti dall'onda fondamentalista che ha investito buona parte del mondo islamico, hanno proclamato la 'guerra santa' contro Israele e intensificato gli attentati terroristici.
Rispetto al terrorismo rivoluzionario e a quello islamico, il terrorismo nazionalista ha obiettivi assai limitati. Esso non intende purificare la società annientando gli elementi corrotti e corruttori, bensì costringere lo Stato a riconoscere il diritto alla secessione di una minoranza etnica. Fino alla prima metà degli anni sessanta il terrorismo a base etnica è stato la tipica forma di lotta di una nazione oppressa dal dominio straniero. Ne è un esempio paradigmatico la strategia terroristica adottata in Algeria dal Fronte di Liberazione Nazionale, che, grazie anche all'appoggio dell'opinione pubblica internazionale, costrinse i Francesi ad abbandonare il paese. Ma quando il terrorismo a base etnica ha preso a manifestarsi sotto varie forme in paesi a regime liberaldemocratico come l'India, l'Ulster, il Canada e la Spagna, ha fatto vacillare la convinzione, largamente diffusa, secondo la quale in una società libera esiste sempre un modo pacifico attraverso il quale una minoranza può ottenere quello che desidera. Da più parti è stata contestata l'immagine dei terroristi quali fanatici estranei o addirittura visceralmente ostili ai valori della civiltà liberale; ed è stata parimenti contestata l'idea che i metodi di lotta da essi adottati (attentati, dirottamenti di aerei, distruzione di edifici, rapimenti di personalità per attirare l'attenzione dell'opinione pubblica internazionale) siano del tutto irrazionali. Si è detto che, per quanto moralmente deprecabile, la violenza terroristica, anche in una società nella quale le libertà individuali e di gruppo siano adeguatamente tutelate, può risultare l'unica arma di lotta di cui disponga una minoranza per ottenere ciò che considera un diritto sacrosanto: il diritto a organizzarsi come comunità politica pienamente sovrana. D'altra parte, se è vero che il voto della maggioranza dei membri di una comunità politica non è sufficiente a garantire la legittimità dello Stato quale organo preposto ad amministrare un certo territorio, è altresì vero che è altamente discutibile che una minoranza abbia il diritto di imporre con la violenza una soluzione politica rifiutata dalla grande maggioranza. Mentre il terrorismo nazionalista contro il dominio straniero può rivendicare il diritto di rappresentare l'intera nazione oppressa, tale diritto non può essere riconosciuto a un gruppo terrorista operante in una società liberaldemocratica. Si tratta di un vero e proprio dilemma etico-politico di ardua soluzione, come dimostra l'intricata situazione esistente nell'Irlanda del Nord. Nelle sei contee settentrionali la maggioranza è a favore dell'unione con la Gran Bretagna; la maggioranza dell'intero popolo irlandese è però a favore di un'Irlanda unita. Accade così che gli unionisti possono legittimamente appellarsi alla prima maggioranza per giustificare le loro posizioni e i repubblicani alla seconda. Il risultato è un'impasse da cui, quanto meno sul piano della teoria, è impossibile uscire. Infatti, fra i principî della Convenzione internazionale sui diritti umani delle Nazioni Unite, c'è quello che dichiara che "tutti i popoli hanno il diritto all'autodeterminazione". L'interpretazione di tale principio non presenta particolari problemi quando ci si trova di fronte a una nazione oppressa dal dominio straniero. La stessa cosa non si può dire quando, in una democrazia liberale, una minoranza etnica aspira all'autodeterminazione, dal momento che i diritti di tale minoranza possono risultare in aperto conflitto con i diritti della maggioranza. E le regole del gioco liberaldemocratico non sempre sono in grado di eliminare alla radice tale conflitto. Sicché il secolo sembra chiudersi con la conferma della pessimistica previsione di Ernest Renan, secondo il quale la proclamazione del diritto all'autodeterminazione avrebbe alimentato potentemente i micronazionalismi e creato una situazione di permanente instabilità politica e di latente guerra civile che non avrebbe risparmiato nessuno degli Stati europei. (V. anche Anarchismo; Comunismo; Dittatura; Giacobinismo; Nazionalsocialismo; Rivoluzione; Stalinismo; Violenza).
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di Donatella della Porta
1. Alla ricerca di una definizione
Per essere utilizzabile a fini scientifici un concetto deve avere alcuni requisiti: deve essere neutrale e univoco, comunicabile e discriminante. Importato nel linguaggio scientifico dalla vita quotidiana, il concetto di terrorismo manca di questi requisiti: infatti quelli che alcuni chiamano terroristi sono partigiani, o combattenti per la libertà, per altri. Presentando il terrorismo come il "metodo, o teoria che sta dietro il metodo, in base al quale un gruppo organizzato o partito afferma i suoi obiettivi principalmente per mezzo di un uso sistematico della violenza" (v. Hardman, 1937, p. 575), le più diffuse definizioni del terrorismo fanno confluire nella stessa categoria d'analisi tutti quegli eventi storici in cui la violenza è stata usata come strumento della competizione fra fazioni avverse. Fenomeni eterogenei - dalle attività delle bande criminali organizzate alle contese dinastiche, dalle guerre tra nazioni a gran parte delle interazioni politiche nei regimi autoritari - vengono così confusi insieme in un medesimo concetto, privandolo sia di capacità euristiche che di una qualsiasi utilità descrittiva. Un primo problema da risolvere per una definizione adeguata riguarda la violenza politica, di cui il terrorismo sarebbe una forma estrema. Nella sua accezione quotidiana il termine 'violenza' si riferisce all'uso della forza fisica orientata ad arrecare danni a beni o persone. In modo simile, nelle scienze sociali la violenza è considerata come un 'comportamento il cui obiettivo è infliggere menomazioni fisiche alle persone o danni alle cose' (v. Graham e Gurr, 1969, p. XVII; v. Tilly, 1978, p. 176). La violenza è politica quando la forza fisica è orientata contro un avversario politico. Non prendendo in considerazione la violenza di Stato, la violenza politica è quindi un 'attacco collettivo, all'interno di una comunità politica, contro un regime politico' (v. Gurr, 1970, pp. 3-4). Bisogna dire comunque che un certo grado di forza fisica è insito in molte forme di azione collettiva, che hanno certamente l'obiettivo di produrre danni, senza che esse per questo vengano automaticamente considerate violente. Ogni definizione del concetto di violenza politica è quindi storicamente specifica (v. della Porta e Tarrow, 1986, p. 614).
Vi è inoltre il problema di fissare una discriminante tra il genere 'violenza politica' e la sua specie più sanguinosa, il terrorismo appunto. Mentre l'azione violenta viene, entro certi limiti, accettata come normale in una situazione di conflitto, il terrorismo è stato sempre considerato come una forma d'azione patologica. Poiché in ogni ordinamento politico e sociale una certa quantità e un certo uso della coercizione sono inerenti al normale funzionamento del sistema, occorrerebbe individuare per ciascun contesto storico specifico la soglia di tollerabilità varcata la quale la violenza viene considerata eccessiva - un'operazione certamente complessa. Va in questa direzione, ad esempio, il contributo di Paul Wilkinson (v., 1986²) che per misurare l'entità della violenza propone di combinare alcuni indicatori della 'scala' di violenza (numero di persone impegnate nell'azione, ampiezza del luogo delle operazioni) con gli indicatori della sua 'intensità' (durata della campagna violenta, numero di casi di violenza, potenziale bellico utilizzato). Risultati non migliori vengono da quelle definizioni che, partendo dall'etimologia del termine, presentano come terroristica la violenza politica che si pone l'obiettivo - o produce l'effetto - di 'terrorizzare'. Questa concettualizzazione presenta, in primo luogo, la difficoltà di misurare gli stati psicologici di alcuni individui o gruppi. Se, per esempio, si ammette che 'intimidire' o 'spaventare' sono obiettivi normalmente perseguiti nel corso dei conflitti politici, ben difficile appare l'individuazione di una discriminante tra timore e paura, tra paura e terrore. Sottolineando l'effetto emotivo atteso, questa definizione sottovaluta, inoltre, il fatto che l'obiettivo principale di molte azioni dei gruppi terroristi è quello di raccogliere consenso, piuttosto che di terrorizzare.
Più promettente, al fine di distinguere tra le diverse forme di violenza, è l'analisi delle caratteristiche degli attori che vi fanno ricorso. In particolare, sembra utile concentrare l'attenzione sui gruppi di dimensioni ridotte e clandestini, che agiscono con la violenza all'interno di regimi democratici. Se la dimensione del gruppo serve a differenziare dal terrorismo rivoluzioni o movimenti di guerriglia, che coinvolgono parti cospicue della popolazione, la scelta della clandestinità ha conseguenze così rilevanti sul funzionamento del gruppo da poter essere utilizzata come uno dei principali elementi di delimitazione del terrorismo rispetto ad altre forme di violenza politica, a volte anche egualmente brutali, ma qualitativamente differenti (v. della Porta, 1995, cap. 1). Il terrorismo può essere allora definito come l'attività di quelle organizzazioni clandestine di dimensioni ridotte che, attraverso un uso continuato e quasi esclusivo di forme d'azione violenta, mirano a raggiungere scopi di tipo prevalentemente politico.
2. Quali terrorismi? Una tipologia
Nonostante questa delimitazione del concetto di terrorismo, la sua area di applicazione resta ancora molto ampia. Non solo le dimensioni delle organizzazioni clandestine, le forme di violenza utilizzate, le logiche d'azione possono infatti variare da caso a caso, ma soprattutto le strategie terroristiche sono state adottate da gruppi dotati di finalità differenti. Sulla base di queste diverse finalità, possono essere infatti distinti vari tipi di terrorismo (per un'analisi storica di alcuni esempi di queste diverse forme di terrorismo, v. Crenshaw, 1995).Un primo tipo di terrorismo, quello che nel corso degli anni sessanta portò alla diffusione del termine nel linguaggio politico e in quello dei mass media, è il terrorismo transnazionale, che comporta l'utilizzazione di forme di azione di violenza radicale da parte di gruppi che si considerano i rappresentanti di nazioni senza territorio (come i Palestinesi o gli Armeni). Questi gruppi utilizzano in genere forme di violenza che - come i dirottamenti aerei - colpiscono principalmente cittadini di Stati del 'primo mondo', con l'obiettivo di attirare l'attenzione dell'opinione pubblica più influente sulle tragedie dei loro popoli. Tra le prime azioni di questo tipo vi è il massacro di undici atleti israeliani perpetrato nel 1972 dal gruppo palestinese Settembre Nero nel villaggio olimpico di Monaco di Baviera.
Le sfide che dagli anni ottanta continuano fino a oggi sono soprattutto quelle legate a un secondo tipo di terrorismo, il terrorismo fondamentalista, che sembra godere di finanziamenti da parte di Stati quali l'Iran, la Libia o l'Iraq. Le azioni principali di questo terrorismo sono le aggressioni contro gli 'infedeli', cioè coloro che vengono considerati rappresentanti di valori laici e occidentali. I più tragici, recenti esempi sono l'attentato compiuto nel febbraio del 1993 al World Trade Center di New York (che provocò la morte di sei persone e il ferimento di oltre mille) e il dirottamento aereo di un volo Air France nel dicembre del 1994 (conclusosi con la morte di tre ostaggi e dei quattro dirottatori). A questi crimini si deve aggiungere lo stillicidio di attentati, da parte dei fondamentalisti islamici in Libano, Egitto e Algeria, contro turisti, giornalisti, tecnici, diplomatici dei governi occidentali, oltre che contro politici, giornalisti e artisti locali accusati di 'occidentalizzazione'.
Un terzo tipo è il terrorismo a base etnica, cioè l'utilizzazione della violenza da parte di organizzazioni che chiedono l'indipendenza di alcuni territori. Limitandoci al mondo occidentale, negli anni settanta sono nate o rinate organizzazioni terroriste quali quelle degli indipendentisti radicali baschi (Euskadi Ta Askatasuna, ETA) o irlandesi (Irish Republican Army, IRA), ma anche i meno conosciuti Front de Libération du Québec (FLQ) e Front de Libération National de la Corse (FLNC). Questi gruppi, che si concepivano principalmente come 'eserciti', hanno sempre privilegiato le azioni militari contro coloro che venivano considerati rappresentanti di una potenza straniera. I gruppi del terrorismo indipendentista si sono poi scontrati con gruppi lealisti che, come i Groupe Antiterroriste de Libération (GAL) nei Paesi Baschi, l'Ulster Volunteer Force e l'Ulster Defence Association nell'Irlanda del Nord, il Front d'Action Nouvelle Contre l'Indépendance et l'Autonomie (FRANCIA) in Corsica, volevano combattere con le armi il terrorismo dei separatisti, dedicandosi a una sorta di sanguinoso vigilantismo. Se il terrorismo a base etnica è ancora virulento nell'Europa occidentale, si fanno sempre più drammatici i conflitti etnici nelle parti del mondo dove la democrazia è debole o ancora da costruire, e nelle regioni prima facenti parte del blocco comunista, dove l'unità nazionale era stata a lungo imposta con la forza da regimi autoritari e dove, dopo il crollo di quei regimi, si sono aperte lotte spesso sanguinose sui nuovi assetti territoriali.Il terrorismo di ispirazione ideologica rappresenta un quarto tipo, fortemente disomogeneo al suo interno quanto alle tattiche specifiche utilizzate. Infatti il terrorismo di ispirazione ideologica di destra - come, ad esempio, Ordine Nuovo (ON) o Avanguardia Nazionale (AN) in Italia o il Deutsche Aktionsgruppe in Germania - è stato spesso coinvolto nell'organizzazione di azioni che, come le stragi di passanti inermi, miravano a produrre un panico generico, delegittimando la democrazia e favorendo le spinte verso regimi autoritari. In particolare in Italia, la storia del terrorismo di destra è costellata di stragi. La strage di piazza Fontana a Milano, avvenuta il 12 dicembre 1969, rappresenta l'inizio della 'strategia della tensione' e nell'immaginario collettivo è il simbolo dello 'stragismo' nero, che culmina nel 1974 nelle stragi di piazza della Loggia a Brescia e del treno Italicus a San Benedetto in Val di Sambro: 50 morti e 351 feriti sono il tristissimo bilancio delle stragi attribuibili, tra il 1969 e il 1974, al terrorismo nero, animato da piccoli gruppi quali ON e AN. Se alla metà degli anni settanta queste organizzazioni apparivano in crisi, nella seconda metà del decennio una nuova generazione di giovanissimi militanti di destra - all'interno di organizzazioni clandestine come i Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR) e Terza Posizione - prenderà ad esempio i gruppi più violenti della sinistra imitandone la struttura 'spontaneista', le tematiche orientate soprattutto a organizzare la rabbia dei giovani emarginati, la violenza come fine a se stessa. La strategia delle stragi non sarà comunque accantonata definitivamente: le vittime della strage di Bologna, il 2 agosto del 1980, furono 85, e terroristi di destra, in contatto con la criminalità organizzata, vennero coinvolti anche nella strage del Natale 1984, quando una bomba esplose in una galleria ferroviaria tra Firenze e Bologna uccidendo 15 persone.
Soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, anche in Italia il terrorismo di destra - in contatto con altri gruppi della destra radicale europea, come la Federazione Nazionale per l'Azione Europea, l'Alleanza Nazionale Europea e il Nuovo Fronte Nazista, in Francia, e il Wehrsportsgruppe Hoffmann e il Deutsche Aktionsgruppe in Germania - ha messo in atto i primi attentati di matrice razzista. Sull'esempio di quanto stava avvenendo in altri paesi europei, gruppi della destra radicale (come il Movimento Politico Occidentale) hanno reclutato militanti nelle subculture giovanili legate al tifo ultras e agli skinheads, coordinandosi, all'inizio degli anni novanta, nel gruppo Skinheads d'Italia.Il terrorismo di ispirazione ideologica di sinistra ha, invece, indirizzato i suoi attentati prevalentemente contro coloro che venivano considerati come 'nemici' del popolo, o quantomeno 'ingranaggi' del sistema di sfruttamento capitalistico. Negli anni settanta organizzazioni terroriste di questo tipo sono emerse in molte democrazie occidentali: l'Esercito Rosso in Giappone, i Weather Underground negli Stati Uniti, le Brigate Rosse (BR) e Prima Linea (PL) in Italia, la Rote Armee Fraktion (RAF) e le Revolutionäre Zellen (RZ) nella Repubblica Federale Tedesca, per citare solo i gruppi più conosciuti. Soprattutto in America Latina i gruppi guerriglieri - come i Montoneros in Argentina, i Tupamaros in Uruguay, e Sendero Luminoso in Perù - hanno trascinato nella loro tragedia i deboli governi democratici dei paesi in cui si erano sviluppati, restando vittime della repressione sanguinosa condotta spesso dall'esercito e dagli 'squadroni della morte', formati da terroristi di destra con forti appoggi nelle istituzioni. In Italia, tra il 1970 e il 1982, organizzazioni del terrorismo di sinistra saranno responsabili di oltre 1.200 attentati con 190 feriti e 142 morti, raggiungendo dimensioni particolarmente preoccupanti nella seconda metà del decennio. Tra il 1977 e il 1979 il ritmo intensissimo degli attentati del cosiddetto terrorismo 'diffuso' accentuò il panico prodotto dai più sanguinosi agguati delle organizzazioni clandestine maggiori. Una lunga catena di attentati, rapine, conflitti a fuoco, ferimenti e omicidi si è sommata alle azioni più eclatanti - in particolare, da parte delle Brigate Rosse, il sequestro e l'uccisione del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, nella primavera del 1978, o i quattro sequestri di persona, di cui due conclusisi con l'omicidio della vittima, nella primavera del 1981.Se la metà degli anni ottanta vide un'ondata di attentati, soprattutto contro installazioni NATO, da parte di quello che verrà chiamato 'Euroterrorismo' - i residui gruppi BR in Italia, la RAF in Germania, le Cellules Communistes Combattents (CCC) in Belgio, l'Action Directe (AD) in Francia - la parabola discendente del terrorismo di ispirazione ideologica marxista-leninista nelle democrazie occidentali sarà comunque ineluttabile: nessuno dei gruppi fin qui menzionati è ancora attivo né sono al momento visibili loro eredi.
3. Tra 'estremismo sovversivo' e degenerazione di movimenti sociali: gli approcci teorici
Nelle scienze sociali le diverse forme di violenza sono state studiate all'interno di due tradizioni di ricerca che raramente sono entrate in contatto l'una con l'altra: gli studi sul terrorismo (terrorism studies negli Stati Uniti, Extremismusforschung in Germania) e gli studi sui movimenti sociali. Il primo filone si è sviluppato inizialmente sul tema del terrorismo internazionale, estendendo in seguito la sua attenzione a varie forme di violenza nazionale e anche a organizzazioni non clandestine. Concentrandosi sui tipi estremi di violenza, gli studiosi del terrorismo tendono a isolare l'oggetto del loro interesse dalle forme 'normali' della partecipazione politica.Gli studi sui movimenti sociali, considerati per lungo tempo un campo di ricerca marginale e residuale, sono cresciuti enormemente negli ultimi due decenni. In particolare, negli anni settanta sono stati criticati proprio quegli assunti di fondo che erano stati assorbiti dai terrorist studies: la definizione dei movimenti sociali come reazioni inconsce a tensioni temporanee; la discontinuità tra gli attori politici 'normali', convenzionali e legittimi, e quelli 'anormali', non convenzionali e illegittimi; la presenza di frustrazioni individuali come molla verso la partecipazione alle azioni di protesta (per un'analisi di questa letteratura, v. della Porta e Diani 1997). Negli approcci recenti, invece, la protesta viene considerata come il risultato di conflitti strutturali che si attivano quando alcune risorse organizzative sono presenti nella società. Come ogni altro attore collettivo, le organizzazioni dei movimenti sociali e i loro attivisti agiscono razionalmente per trasformare la realtà che li circonda, entrando in interazione con i partiti politici e le istituzioni. Non solo le loro capacità di mobilitazione e le possibilità di successo, ma anche le forme di protesta da loro adottate dipenderanno da queste interazioni. Radicalismo o moderazione dipendono, in particolare, dalla risposta che i movimenti incontrano nel loro ambiente, dalla disponibilità di alleati e dalla reazione delle autorità. Si deve osservare, tuttavia, che all'interno di questo filone di ricerca, attento a sottolineare le somiglianze tra le diverse forme di partecipazione politica, la violenza ha ricevuto scarsa attenzione. Secondo una recente rassegna della letteratura in argomento, la riflessione su "le relazioni tra i livelli di violenza e conflitto, i tipi di rivendicazione e le variabili centrali per la mobilitazione (risorse, organizzazione, occasioni) resta sottosviluppata" (v. McClurg Mueller, 1992, p. 18). Mentre, quindi, gli studiosi del terrorismo hanno tendenzialmente esteso il loro campo di interesse dal terrorismo internazionale al radicalismo 'interno', gli studiosi dei movimenti sociali hanno, con qualche eccezione, rimosso il tema della violenza.In questa situazione la ricerca sulle forme estreme di violenza ha stentato a decollare. Un giudizio fortemente negativo sullo stato dell'arte in materia è stato espresso qualche anno fa da uno dei più eminenti studiosi del fenomeno: "Con poche eccezioni - ha sostenuto Ted R. Gurr (v., 1988, p. 115) - c'è una preoccupante carenza di buona ricerca empirica sul terrorismo". E ancora: "La maggior parte della letteratura consiste di descrizioni ingenue, commenti speculativi e prescrizioni su come 'affrontare il terrorismo' che non raggiungono i requisiti minimi della ricerca scientifica" (ibid., p. 143). Bisogna dire tuttavia che nell'ultimo decennio si è sviluppata una ricca letteratura scientifica che ha offerto non solo dettagliate analisi storiche di alcuni casi di terrorismo, ma anche alcune prime riflessioni in chiave comparata. In generale le ricerche empiriche e le riflessioni teoriche sull'argomento hanno riguardato tre livelli analitici: l'individuo, il gruppo e il sistema. Nel primo caso ci si è interrogati, in una prospettiva microsociologica, principalmente sugli individui che divengono terroristi. Nel secondo le domande più rilevanti delle indagini mesosociologiche hanno riguardato il funzionamento delle organizzazioni clandestine. Nel terzo gli studi macrosociologici hanno analizzato le condizioni strutturali che favoriscono la diffusione del terrorismo.
4. Microspiegazioni: le caratteristiche dei terroristi
Molti degli studi che si sono concentrati sulle caratteristiche dei singoli membri di organizzazioni clandestine possono essere ricondotti all'approccio psicosociologico. Secondo l'ipotesi della privazione relativa (v. Davies, 1969; v. Gurr, 1970), gli attivisti delle organizzazioni radicali provengono da gruppi sociali che si sentono frustrati a causa del divario esistente tra le loro aspettative e la loro situazione reale. Numerosi studi collegati alle cosiddette teorie della società di massa partono dall'assunto che gli individui che fanno ricorso a forme di violenza politica sono socialmente sradicati (v. Kornhauser, 1959). I 'radicali' sono definiti - con riferimento alla psicologia della folla di Gustave Le Bon (v., 1895) o alla nozione di true believer di Eric Hoffer (v., 1951) - come individui frustrati, ciecamente obbedienti a un leader, che seguono la massa contenti di liberarsi di un 'io' non voluto. Più la forma d'azione collettiva è apparsa deviante rispetto alle norme codificate, più l'indagine si è soffermata su presunte psicopatologie individuali. In particolar modo, le teorizzazioni sull'esistenza di una personalità terrorista hanno assunto un ruolo centrale nelle analisi interpretative del terrorismo internazionale, diffondendosi particolarmente, negli anni settanta e ottanta, nella ricerca americana (v. Zwerman, 1992). I militanti delle organizzazioni clandestine sono stati descritti come persone incapaci di raggiungere l'età adulta, malati mentali terrorizzati dal mondo esterno, falliti che si difendono dalle conseguenze demoralizzanti delle sconfitte subite vivendo il rifiuto come scelta e trasformandolo in volontà di potenza. Secondo alcune interpretazioni, sarebbe dunque l'istinto aggressivo non incanalato in uno sfogo rituale a produrre la criminalità politica (v., per esempio, Servier, 1979; v. Laqueur, 1977; per una rassegna critica, v. Wilkinson, 1979).
Una prima critica a questo filone di studi riguarda la loro validità empirica. Come è stato osservato, "molte opere sociologiche si limitavano ad analisi ex post di forme di azione collettiva, senza controllare sistematicamente se le insoddisfazioni a livello individuale o aggregato fossero nel frattempo mutate" (v. Zald, 1992, pp. 328-329). Ricerche basate su storie di vita e materiale biografico degli attivisti dei gruppi più radicali hanno indicato che la propensione a utilizzare la violenza politica non deriva da una personalità patologica. Le più recenti indagini sui dati caratteriali e biografici concordano nell'affermare che "la caratteristica più rilevante dei terroristi è la loro normalità" (v. Crenshaw, 1981, p. 390; v. Walldmann, 1993; v. anche le raccolte di saggi in della Porta, 1992). Anche mettendo da parte la questione della loro validità empirica, gli approcci in termini di psicopatologie individuali, privazione relativa o società di massa non affrontano un problema che dovrebbe essere centrale per le loro stesse teorizzazioni: come possono individui isolati e sradicati tradurre in azione collettiva le loro tensioni individuali? Le variabili microsociologiche sono comunque rilevanti per la comprensione del terrorismo. In primo luogo, numerose ricerche indicano che la decisione di aderire alle formazioni armate viene presa da individui già inseriti in fitte reti di rapporti amicali, sviluppatesi all'interno di piccoli gruppi politicamente attivi. Le caratteristiche di questa militanza sono in genere tali da accrescere enormemente il ruolo della politica nella definizione dell'identità personale. All'interno di piccoli gruppi di amici-compagni, gli attivisti spesso giovanissimi vengono gradualmente preparati all'utilizzazione della violenza, così che l'ingresso nelle organizzazioni della lotta armata spesso non viene neanche percepito come una grossa frattura rispetto alle forme d'impegno precedenti. La solidarietà con il gruppo dei pari spinge a conformarsi a quei comportamenti che vengono considerati come 'normali' all'interno di una certa subcultura, per evitare l'emarginazione e mantenere il sostegno di quella che diviene la cerchia affettiva più importante per l'individuo. Luoghi di incontro tradizionali - come le società gastronomiche o i gruppi alpini nel caso basco (v. Wieviorka, 1988) - forniscono spesso canali di reclutamento ai gruppi terroristici a base etnica. Allo stesso modo funzionano le organizzazioni indipendentiste sopravvissute a un conflitto precedente - come l'IRA nell'Irlanda del Nord (v. White, 1993) - e i legami familiari spesso presenti al loro interno. Nelle forme di terrorismo ideologico reticoli di amicizia danno luogo a piccoli gruppi radicali, attivi entro movimenti sociali prevalentemente pacifici. Come è avvenuto per le BR e per PL in Italia (v. della Porta, 1990 e 1995) o per la RAF e le RZ nella Repubblica Federale Tedesca (v. Neidhardt, 1981; v. della Porta, 1995), all'interno di questi reticoli si rafforzano i legami di solidarietà, mentre la vita privata e l'attività politica si intrecciano fino a coincidere.
Come dimostrano gli studi sui casi appena citati, il mantenimento dell'impegno nel gruppo clandestino viene poi favorito dall'innescarsi di una serie di meccanismi di non ritorno. La riduzione dei contatti con l'esterno è compensata da una sempre maggiore identificazione con la comunità della lotta armata, che viene definita come una vera e propria 'famiglia'. L'organizzazione clandestina diviene l'unica fonte di verità, costruendo un'immagine della realtà sempre più lontana da quelle condivise all'esterno. La lealtà verso i compagni uccisi o in carcere fa percepire come tradimento ogni ripensamento. Il forte investimento iniziale e gli alti costi già pagati rendono psicologicamente difficile l'abbandono, spingendo invece a rilanciare il proprio impegno. Per chi è latitante, o rischia di diventarlo presto, i bisogni materiali (denaro, alloggi, documenti falsi) accrescono la dipendenza dall'organizzazione clandestina (v. della Porta, 1995).
5. Mesospiegazioni: le organizzazioni clandestine
Un secondo tipo di spiegazioni dell'esistenza del terrorismo si è concentrato sul livello del gruppo, differenziandosi per l'attenzione prestata all'ideologia di alcune organizzazioni o alle dinamiche degli interessi collettivi emergenti. Un numero considerevole di analisi ha utilizzato variabili che fanno riferimento all'ideologia. Il terrorismo nelle società democratiche è stato considerato come la reazione di piccoli gruppi organizzati, esterni al sistema politico: in società in cui i canali di accesso alle decisioni formali sono sempre aperti, i processi negoziali si sviluppano lungo linee istituzionali e le regole appaiono come legittime, il terrorismo diverrebbe una scelta obbligata per quelle frange che mirano al rovesciamento del sistema. L'emergere del terrorismo è stato infatti ricondotto all'azione di 'sette ideologiche', il cui scopo è la soppressione di ogni libertà individuale (v., ad esempio, Wilkinson, 1986²). Poiché la soluzione pacifica dei conflitti assicura alle società democratico-liberali il consenso della stragrande maggioranza dei cittadini, ogni tentativo di delegittimare il sistema attraverso lo strumento legale della propaganda sarebbe destinato al fallimento. Le azioni terroristiche sarebbero, invece, il solo modo per raggiungere le mete alle quali la popolazione si oppone. Mediante la propaganda che incita alla violenza i terroristi cercano di indebolire le istituzioni democratiche impedendo loro di assolvere la loro principale funzione: assicurare il consenso sociale attraverso la partecipazione alle scelte collettive. Poiché il progetto politico di questi gruppi mira al rovesciamento delle istituzioni legittime, "non c'è spazio per negoziare alcun compromesso tra i loro obiettivi e quelli del resto della popolazione" (v. Wilkinson, 1979).In una diversa prospettiva teorica, le forme violente di protesta sono state collegate alle caratteristiche degli interessi mobilitati. L'uso dei repertori più innovativi, e spesso più violenti, è stato considerato come una peculiarità dei gruppi sociali emergenti. La violenza è adottata quando nuovi sfidanti lottano per entrare nel sistema politico e vecchi membri reagiscono, rifiutando di uscirne (v. Tilly, 1978, pp. 52-55 e 172-188). Una variante di questa ipotesi sottolinea che le caratteristiche delle società tecnocratiche ostacolano lo sviluppo dell'azione collettiva nei sistemi contemporanei (v. Targ, 1979; v. Wellmer, 1981). I gruppi terroristi rappresenterebbero così alcuni interessi sociali antagonistici al sistema. Non sempre comunque l'utilizzazione del terrorismo può essere considerata come una scelta razionale di gruppi motivati da fini ideologici o da interessi di classe. La logica del comportamento delle formazioni clandestine può essere, invece, spesso spiegata con uno schema teorico in cui gli obiettivi reali delle organizzazioni vengono distinti dai fini dichiarati. È stato già osservato nell'ambito della teoria delle organizzazioni che le mete ufficiali non costituiscono la principale ragion d'essere di un gruppo formale, che deve, invece, mirare contemporaneamente a mete operative di vario tipo. Come ogni altra organizzazione, l'organizzazione terrorista deve essere in grado di reperire alcune risorse, di integrarle, di allocarle per raggiungere determinati obiettivi. L'adozione di strutture clandestine pone comunque numerosi vincoli al raggio delle opzioni strategiche possibili, costringendo le organizzazioni terroriste a ridurre sempre più le loro interazioni con l'esterno.
La ricerca sui gruppi clandestini attivi in diverse regioni del mondo indica infatti che essi tentano in genere di adattare, almeno in una certa misura, strutture organizzative, strategie d'azione ed elaborazioni ideologiche alle condizioni esistenti nell'ambiente in cui intervengono. Le conseguenze implicite, non previste, della scelta della clandestinità limitano, però, le loro capacità di reazione, contribuendo al loro isolamento. In generale il ciclo di vita delle organizzazioni terroriste operanti in regimi democratici può essere descritto come un graduale processo di 'incapsulamento', durante il quale esse perdono a poco a poco interesse al raggiungimento dei loro fini espliciti, concentrandosi invece sull'obiettivo della mera sopravvivenza. Nel corso di questa evoluzione le forme d'azione divengono sempre più brutali, gli obiettivi più radicali, l'ideologia più criptica. L'organizzazione assume un ruolo sempre più totalizzante, mentre si riducono i contatti con l'ambiente esterno, sia come potenziale riserva per il reclutamento che come sistema da trasformare. Le formazioni clandestine divengono quindi simili a sette in cui la conservazione in vita dell'organizzazione è il fine ultimo, si esaspera la solidarietà interna e si radicalizzano le forme d'azione. Se si guarda, ad esempio, alla evoluzione delle BR (v. della Porta, 1990), si può osservare che esse utilizzavano all'inizio forme d'azione - attentati alle auto e 'sequestri dimostrativi' della durata di pochi minuti - che non si differenziavano molto da quelle diffuse nell'ala più radicale dei movimenti di protesta in quel periodo. Dopo i primi omicidi non premeditati, gli attentati contro le persone cominciarono a essere pianificati, con la ricerca di 'bersagli' che potessero essere capiti anche da militanti ancora lontani dalla lotta armata. Con il passar del tempo, però, i crimini divennero sempre più sanguinosi e una sempre minore attenzione venne prestata a 'giustificare' la logica delle proprie azioni all'esterno. Ferimenti e omicidi cominciarono a essere rivolti prevalentemente contro gli apparati dello Stato o i 'traditori', in una sorta di guerra privata che portò le BR a isolarsi sempre più da quei movimenti sociali a cui esse pure si richiamavano. In modo simile, anche in altri contesti storici la scelta della clandestinità ha portato a un progressivo isolamento dei gruppi che, come è stato osservato per i Montoneros (v. Moyano, 1995), hanno perso sempre più il contatto con la realtà esterna, finché le loro azioni così come i loro proclami sono divenuti totalmente incomprensibili all'esterno e rivolti esclusivamente a una sorta di 'consumo interno'. L'isolamento tende ad accentuare i conflitti interni, che la logica stessa della lotta armata fa divenire sempre più sanguinosi: le armi, utilizzate all'inizio all'esterno, divengono a poco a poco gli strumenti principali anche per la risoluzione dei conflitti interni, fino all'eliminazione fisica degli avversari - basti pensare alle decine di militanti dell'Esercito Rosso giapponese morti nella lotta fra due fazioni rivali (v. Steinhoff, 1997). Concludendo, l'evoluzione delle organizzazioni clandestine è caratterizzata da processi di 'incapsulamento', o 'implosione', durante i quali le scissioni si moltiplicano, le tattiche più radicali si trasformano da mezzo in fine, l'ideologia diviene sempre più astratta, fino al momento della sconfitta nella guerra contro uno Stato in genere infinitamente meglio armato. Questo tipo di evoluzione può essere spiegato come conseguenza non prevista della scelta della clandestinità fatta da piccoli gruppi in regimi democratici: ogni decisione successiva ha effetti non voluti, che riducono il raggio delle azioni possibili per il futuro. Entrati in clandestinità spesso per sfuggire a possibili arresti, i gruppi terroristi devono a poco a poco rinunciare alle azioni di propaganda politica, concentrandosi in 'campagne militari' che aumentano il loro isolamento dall'esterno.
6. Macrospiegazioni: società, politica e terrorismo
La letteratura teorica sulla violenza politica è ricca di analisi delle condizioni ambientali che possono contribuire al suo emergere e alla sua crescita (v. Eckstein, 1980). Variabili economiche, sociali, politiche o culturali sono state citate come cause di comportamenti violenti in studi che si sono soffermati sulle condizioni di lungo periodo o sulle particolari congiunture storiche. Spiegazioni 'strutturali', frequentemente basate su confronti di dati aggregati riferiti a più nazioni, hanno sottolineato ora il livello di sviluppo di una società, ora la presenza di cleavages etnici o di classe, ora la cultura politica di un paese, ora lo spettro delle diseguaglianze economiche (v. Russet, 1964; v. Barrow, 1976; v. Bandura, 1973; v. Sigelman e Simpson, 1977; v. Huntington, 1968). Spiegazioni più cicliche, spesso basate sullo studio di singoli casi, hanno invece collegato la violenza politica alle fasi di modernizzazione, alle tappe intermedie dello sviluppo economico, a periodi di inefficienza dei poteri coercitivi dello Stato, a rapide trasformazioni nel sistema di valori (v. Huntington, 1968; v. Feierabend e Feierabend, 1966; v. Tilly, 1969; v. Acquaviva, 1979). La ricerca sulle disfunzioni che possono produrre il terrorismo si è indirizzata soprattutto verso le caratteristiche del sistema socioeconomico e, ovviamente, delle istituzioni politiche. Crisi di sviluppo connesse a problemi interni o internazionali, mancanza di coordinamento tra domanda e offerta sul mercato del lavoro, insufficiente programmazione della formazione professionale, squilibri di status, adeguamento incompleto delle strutture di socializzazione alle mutate esigenze strutturali sono stati spesso citati come cause di devianza individuale o collettiva. Oltre che ai processi di razionalizzazione del sistema produttivo, si è anche, più spesso, guardato all'attività del sistema politico di selezione degli inputs e produzione di outputs. Elementi di disturbo, che possono agire come determinanti del terrorismo, sono stati individuati ora in un eccessivo potere acquisito da alcuni gruppi di pressione, ora nella mancanza di alternanza al governo, ora in una trasformazione violenta delle regole del gioco da parte degli stessi governanti. Se una certa concordanza è esistita nel considerare le variabili politiche come rilevanti per la spiegazione della violenza terroristica, le interpretazioni specifiche si sono però contraddittoriamente concentrate sulla risposta dello Stato all'emergere delle organizzazioni clandestine, ritenuta ora troppo debole, ora eccessivamente repressiva; sulle reazioni delle élites al governo rispetto all'aggregarsi di nuove domande collettive, definite talvolta come assenza di riforme e talvolta come un mutamento troppo rapido; sul livello di legittimazione delle istituzioni, stimato da alcuni insufficiente e da altri ritenuto talmente elevato da impedire ogni opposizione; sulle condizioni del sistema politico, accusato di ostacolare la costituzione di nuovi attori collettivi o, viceversa, di istituzionalizzare precocemente i movimenti.Seppure stimolanti nel loro tentativo di individuare alcune cause generalizzabili dell'emergere della violenza, le ipotesi sulle precondizioni macrostrutturali non sembra riescano a rendere conto del complesso attivarsi del terrorismo, dei meccanismi di degenerazione verso la violenza di alcuni attori politici, dell'evoluzione delle formazioni in clandestinità. Risultati poco soddisfacenti sono venuti dalle comparazioni fra molti paesi, in cui indicatori (in genere poco affidabili) del livello di violenza politica venivano correlati con caratteristiche sociali e politiche, misurate anch'esse in modo non sempre convincente (per una rassegna e una critica, v. Snyder, 1978; v. Jenkins e Schock, 1992, pp. 163-165). Nella definizione del terrorismo come indicatore di difficoltà del sistema, gli attori collettivi rischiano di non essere altro che spie di squilibri sistemici e parti inconsapevoli di meccanismi di riequilibrio.
Superando questi limiti, la ricerca più recente ha cercato di guardare all'ambiente come fonte di risorse e di vincoli per lo sviluppo del terrorismo. L'emergere delle formazioni armate è infatti senza dubbio influenzato dalla disponibilità di simpatie e protezioni all'esterno, così come dalla risposta degli apparati istituzionali. La posizione dei partiti può generare tolleranza verso i gruppi terroristi o contribuire a isolarli. I mezzi di comunicazione di massa possono aiutare a diffondere il messaggio dell'insurrezione armata o danneggiare le formazioni clandestine, offrendo un'immagine caricaturale dei loro militanti. Le diverse condizioni ambientali aiutano a spiegare non solo le differenze strutturali e ideologiche esistenti tra gruppi emersi in periodi o ambienti differenti, ma anche i cambiamenti della stessa formazione nel tempo. In particolare, per le organizzazioni terroriste presenti nelle democrazie occidentali, si è osservato che esse emergono e si rafforzano in situazioni di progressiva radicalizzazione dei movimenti sociali di fronte a una risposta intempestiva e inefficace da parte degli attori istituzionali.
Molte formazioni armate sono nate, infatti, nel corso di conflitti sociali acuti. Come si è già detto, da movimenti che rivendicavano l'indipendenza rispettivamente dalla Gran Bretagna e dalla Spagna sono state fondate l'IRA e l'ETA; nel corso di cicli di protesta lunghi e aspri sono nate le BR in Italia e la RAF in Germania; dalle rivendicazioni di gruppi che si proclamano difensori delle masse diseredate vengono i Montoneros in Argentina e Sendero Luminoso in Perù. In tutte queste situazioni, si è avuta un'escalation graduale del conflitto. Ad esempio, in Irlanda il movimento per i diritti civili è nato in un momento in cui si sperava di trovare soluzioni pragmatiche al conflitto tra i due gruppi religiosi, attraverso una serie di misure orientate a ridurre la discriminazione dei cattolici da parte dei protestanti. In Spagna l'ETA si è rafforzata nelle fasi finali del franchismo, quando già cominciavano a emergere i primi segnali di crisi del regime. In Italia il movimento studentesco, dal cui interno provengono i fondatori delle BR, è emerso nella fase del centro-sinistra, che aveva portato con sé speranze di grandi riforme. In tutti questi casi, però, proprio le speranze di mutamento portarono a contromobilitazioni, con l'organizzazione di gruppi radicali che vedevano il cambiamento come pericoloso. Con gli scontri fisici tra movimenti e contro-movimenti o tra attivisti dei movimenti e polizia si ha una progressiva organizzazione della violenza. Nelle diverse situazioni alcuni eventi possono fungere da fattori precipitanti, togliendo legittimazione, almeno agli occhi dei gruppi più radicali, alle istituzioni democratiche. La strage di piazza Fontana in Italia (v. della Porta, 1995), il processo di Burgos in Spagna (v. Jáuregui Bereciartu, 1981; v. Ibarra, 1989), Bloody sunday in Irlanda (v. White, 1993) hanno rappresentato per molti militanti momenti di non ritorno, simbolizzando l'imbarbarimento della lotta politica e giustificando soggettivamente la 'presa delle armi'.Il ciclo di vita e le dimensioni delle organizzazioni clandestine dipendono poi dalla radicalità dei conflitti in atto e dalla capacità di mediazione delle istituzioni. Nei regimi democratici, ad esempio, il terrorismo di sinistra non è riuscito a raccogliere, anche nei paesi in cui è stato più pericoloso, un consenso di massa. Viceversa, la lotta armata ha attirato più seguaci là dove la democrazia appariva più debole e incapace di affrontare i problemi sociali esistenti: in Perù Sendero Luminoso ha sfruttato lo scontento dei contadini poverissimi delle Ande, occupando intere regioni del paese (v. Palmer, 1995); in Argentina i Montoneros hanno contribuito al crollo del peronismo, cui essi stessi si richiamavano (v. Gillespie, 1982; v. Moyano, 1995).
Se dunque alcune condizioni ambientali - in particolare la presenza di forti conflitti sociali, non adeguatamente mediati nel sistema politico - appaiono come precondizioni per l'emergere dei gruppi armati, bisogna comunque ricordare che solo pochissime delle organizzazioni dei movimenti sociali nei paesi appena menzionati hanno scelto la via della clandestinità. Le organizzazioni politiche mantengono infatti, rispetto alla società in cui si muovono, una certa possibilità di scelta strategica. Attraverso l'ideologia, l'organizzazione seleziona il suo ambiente di riferimento e ritaglia la sua posizione all'interno di esso. Le diverse esigenze vengono soppesate, con un certo margine di libertà di decisione fra mete e metodi alternativi. Nell'analisi della protesta si può, infatti, osservare non solo che ogni periodo storico vede l'azione contemporanea e necessariamente interagente di diversi movimenti collettivi, ma anche che più organizzazioni fanno riferimento allo stesso movimento collettivo. All'interno dello stesso settore dei movimenti sociali, più gruppi sociali e organizzazioni politiche si differenziano nelle ideologie e nelle pratiche adottate. Le diversità sono spesso enfatizzate dai vari gruppi al fine di evidenziarsi nella competizione con altri gruppi. Si può dunque dire che il terrorismo emerge quando, in presenza di certe precondizioni ambientali, alcuni gruppi decidono di sperimentare opzioni strategiche che, attraverso una radicalizzazione dei repertori e dei modelli organizzativi, permettano loro di distinguersi dalle altre organizzazioni operanti all'interno dello stesso movimento, e di reclutare militanti nelle aree più propense alla violenza. In condizioni di smobilitazione della protesta di massa, l'accentuazione dell'uso delle tattiche violente e la compartimentazione delle strutture organizzative verranno difese da alcune organizzazioni di movimento sociale e non da altre, o addirittura solo da alcune delle fazioni presenti in una organizzazione, giustificando e promuovendo allo stesso tempo il conflitto all'interno della leadership. L'emergere di formazioni clandestine è dunque conseguenza di un processo di polarizzazione e scissione tra fazioni moderate e fazioni radicali, all'interno del settore dei movimenti sociali e all'interno di una stessa organizzazione, nella fase di smobilitazione della protesta. Sono, in genere, i gruppi più poveri di risorse utili alla contrattazione che vi suppliscono con quelle simboliche offerte dall'escalation nell'ideologia e nella prassi. Così, ad esempio, l'ETA, che aveva avuto un ruolo importante nella caduta del franchismo, si trovò invece emarginata durante il processo di transizione democratica, e ciò spinse i leaders dell'organizzazione verso forme d'azione sempre più terroristiche. Come indica il caso spagnolo, inoltre, il terrorismo non è necessariamente una risposta all'inasprirsi di un conflitto: in alcuni casi, anzi, i gruppi radicali possono accentuare le loro campagne di terrore proprio nei momenti in cui alcuni problemi si avviano verso soluzioni negoziali, come è avvenuto dopo la concessione di una forte autonomia da parte dei nuovi governi democratici ad alcune regioni, fra cui i Paesi Baschi.
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