VIOLENZA
di Giovanni Jervis
In senso lato si designa come violenza un'alterazione del corso naturale degli eventi, quando ne derivi distruzione e/o sofferenza.L'uso moderno del termine si trova ad ampliare quello più ristretto, e tradizionale, avente al centro l'idea di un danno fisico nei confronti della persona. Da tempo, del resto, si parla correntemente di violenza non soltanto nel caso che venga inferta una lesione o si pratichi con la forza una limitazione della libertà individuale, ma altresì quando con strumenti qualsiasi, anche psicologici, vengano inflitti danni e sofferenze di qualsiasi tipo, anche morale. Già nella legislazione tradizionale era considerato violenza l'indurre in qualcuno determinati comportamenti, contrari ai suoi interessi, mediante l'intimidazione, la minaccia, il ricatto, o comunque la coartazione della sua libertà di scegliere, ma oggi è considerato violenza anche il mortificare con atti o commenti umilianti. Così, nell'uso attuale del termine non solo la minaccia e l'intimidazione, ma anche la suggestione e la seduzione possono in determinati casi sconfinare in forme di vera e propria violenza, sia pure psicologica, o morale.In campo materiale, per un'analoga estensione di significato, è considerato violenza quando si intervenga su soggetti, animali e situazioni in modo tale da causare effetti comunque considerati negativi, indipendentemente dal fatto che si tratti di proprietà personali. Per esempio, il vandalismo (come i graffiti su monumenti e mezzi di trasporto, la manomissione anche non a scopo di lucro di cabine telefoniche, ecc.) è oggi considerato una forma di violenza; in modo più estensivo, si ritiene che sia lecito in molte circostanze parlare di violenza contro l'ambiente, o contro la natura, per esempio per inquinamenti, disboscamenti, cementificazione di coste o colline.In tutti questi casi, riguardanti danni morali o materiali, ciò che qualifica la violenza non è tanto il danno inferto al corpo e ai possessi dell'individuo, né la limitazione portata alla capacità di muoversi e di scegliere dell'altrui persona, quanto propriamente una connotazione di innaturalità lesiva - in senso lato - attribuita a un dato evento. È implicito, infatti, in questa concezione il presupposto che il corso naturale delle cose avrebbe avuto un preferibile sviluppo senza l'occorrere di un'iniziativa definibile, per questo motivo, come violenta: un'iniziativa, quindi, propriamente e squisitamente 'intrusiva'. Qui il concetto moderno di violenza si avvicina, senza peraltro sovrapporvisi, al concetto di violazione: ne è la prova il fatto che si è vieppiù sensibili agli aspetti di violenza intrinseci in eventi designati come, per esempio, 'violazione dei diritti umani', 'violazione dell'ordine naturale', 'violazione dell'intimità' (o della privacy), e così di seguito.
In quest'ottica valgono peraltro alcune tipiche delimitazioni del concetto. Se da un lato, per esempio, non vengono considerati di per sé violenti né gli interventi chirurgici né le manovre diagnostiche invasive, che fanno comunque parte di un piano riparativo e non già distruttivo, da un altro lato si ritiene, al contrario, che si debba parlare di vera e propria violenza sessuale non soltanto quando il congiungimento carnale venga ottenuto con la forza, ma anche quando esso sia effetto di minaccia, o di manovre o situazioni suggestive tali da coartare la libertà del soggetto, o anche quando questo soggetto, stante la sua minore età o una condizione di particolare dipendenza di ruolo, non disponga degli strumenti psicologici per opporsi alla seduzione da parte di chi viene percepito come portatore di un particolare carisma di autorità. Il fatto che la seduzione di minorenne possa molto spesso (anche se non 'debba' necessariamente in tutti i casi) essere legittimamente equiparata allo stupro si basa sulla constatazione che, in pratica, il minore può non avere alcuna reale capacità psicologica di opporsi al volere dell'adulto. Questo trova del resto riscontro nel fatto che anche fra adulti può accadere che non vi sia nessuna sostanziale differenza fra un rapporto sessuale estorto sotto la minaccia diretta di un'arma, come un coltello alla gola, e uno estorto invece attraverso l'esercizio di un ricatto o comunque di una minaccia che, per il fatto di essere indiretta, non cessa eventualmente di essere, nei fatti, altrettanto soverchiante.
D'altro lato si può osservare come il termine 'violenza' venga anche usato, non di rado, in modo assai più vago, estensivo e talora metaforico, per cui si parla di giochi violenti, di linguaggio violento, del carattere intrinsecamente violento del parto, o della violenza degli elementi nel caso di un temporale anche di non particolare intensità. Queste estensioni si prestano però a inflazionare il significato della parola, dando luogo a generalizzazioni discutibili. Per esempio, secondo talune frange del movimento femminista ogni rapporto sessuale sarebbe di per sé una forma di violenza; secondo altri, la più grave e diffusa violenza è l'ingiustizia sociale in generale, oppure la competitività tipica della società capitalistica; secondo altri ancora, è violenza ogni forma di pedagogia. Questo modo di vedere non è generalmente condiviso, soprattutto perché - si osserva - esso fa perdere di specificità al problema, svuotando di senso la concettualizzazione che permette di identificare, e denunciare, le forme di violenza in senso più appropriato. Ci soccorre qui allora, come fattore dirimente atto a portare chiarezza, l'aspetto intenzionale (anche se non sempre consapevolmente deliberato, cioè doloso) di un dato atto violento, ovvero, per così dire, l'aspetto 'mirato a uno scopo' delle più tipiche azioni violente. Ed è allora evidente che, se si parla in generale di violenza, ciò avviene proprio perché lo scopo dell'azione è censurabile o almeno discutibile, in quanto si tratta, di volta in volta, di scopo di possesso, o di soddisfazione libidica, o di vendetta, o di prevaricazione, e così via. In questa logica anche i confini di un'eventuale violenza collettiva acquistano maggiore chiarezza. Se, per esempio, una comune carestia non è in genere considerata una forma di violenza - pur essendo quasi sempre causata da una catena di errori umani - si concorda invece sul fatto che sia atto di violenza l'affamare un popolo, intenzionalmente appunto, mediante embargo e sanzioni.Va aggiunto, infine, come ulteriore chiarimento, che se un individuo ha percepito (soggettivamente) un dato evento come una violenza sulla propria persona, ciò non significa che esso sia oggettivamente così connotabile. Per esempio, il trovarsi improvvisamente di fronte a un'immagine impressionante, o il dover inaspettatamente sottostare a un'indagine medica invasiva, sono esperienze che possono essere vissute, in senso psicologico, come 'intrusioni di violenza' nell'intimità psicologica di talune persone impreparate all'evento, o che si trovino in circostanze di fragilità particolare: ma è lecito sostenere che queste occorrenze, per quanto sgradevoli, non sono sempre di per sé propriamente e intrinsecamente violente.
Fatta salva l'estensività attuale del concetto - con i limiti appena visti - si può osservare che il moderno uso del termine violenza non cancella la centralità di un'immagine più tradizionale e però anche più intensivamente pregnante: cioè l'immagine secondo cui la violenza in senso prototipico è un particolare atto inflitto al soggetto contro la sua volontà, qualora esso si traduca nella restrizione più o meno improvvisa della libertà di disporre di sé e del proprio corpo.
Ma anche la violenza prototipica va definita nei suoi confini. La prima e più ovvia difficoltà nasce da fattori e circostanze che possono permettere di derubricare un dato evento dalla categoria 'violenza' anche quando esso possa apparire, a prima vista, come coartante la libertà altrui.
In primo luogo, occorre infatti tener conto della finalità dell'azione, la quale in taluni casi può essere definita come una violenza a fin di bene oppure come una violenza legittima e dunque, in un certo senso, non come una violenza vera e propria. Va ricordato qui il fatto che talune forme tipiche di coercizione fisica brutale, come l'immobilizzare a terra un nemico o il colpirlo ripetutamente sul capo con un bastone di gomma dura, sono abitualmente designate come uso della violenza quando siano praticate illegalmente, ma sono altrettanto abitualmente designate come 'uso della forza' (e non della violenza) quando siano praticate dalla polizia. Analogamente, ma in modo meno discutibile, non è considerato violenza immobilizzare una persona che per qualsiasi motivo sia in procinto di compiere un reato, o sia in stato di agitazione confusionale, o necessiti di un intervento chirurgico di urgenza senza che vi sia il tempo necessario per elaborare un consenso informato; oppure anche, secondo un uso estensivo del concetto in casi già più controversi, quando una data violenza sulla natura, per esempio la costruzione di una diga con il conseguente allagamento di una valle fertile, appaia pienamente giustificata per motivi sociali ed economici.In secondo luogo, non è sempre facile definire il grado di consenso psicologico da parte della persona presunto oggetto di violenza: e questo vale soprattutto per talune forme di aggressività sessuale. Può accadere infatti, in casi peraltro non abituali, che un certo grado di aggressività sessuale, e perfino di sadismo, non sia configurabile, nel modo che abbiamo visto più sopra, come atto intrusivo unilaterale rispetto a un corso naturale degli eventi, e quindi come una forzatura rispetto alla volontà altrui, ma al contrario sia parte di una relazionalità sadomasochistica preventivamente concordata, e sia pure con maggiore o minore chiarezza, fra soggetti impegnati in un comune progetto erotico. Una ulteriore difficoltà a identificare la rilevanza di un'azione che appare violenta riguarda tutte le situazioni in cui vi sia non tanto o non già un accordo preventivo sulla distribuzione dei ruoli, di cui si è fatto or ora menzione, ma, più profondamente e più oscuramente, una condizione psicologica di connivenza affettiva, e dunque talora un'attiva anche se non consapevole facilitazione da parte della vittima nei confronti del suo aggressore. Ciò può valere, per esempio, in taluni casi di violenza domestica abituale.
Difficoltà ancora maggiori nell'esprimere un giudizio equanime concernono i casi in cui un individuo oggetto di violenza psicologica si trovi in condizione di così grave sudditanza da poter apparire privo di una volontà propria: anche se occorre precisare che questa ipotesi, cara alla giurisprudenza tradizionale, raramente si realizza come tale. Le evenienze più tipiche sono date oggi dalla cooptazione di soggetti molto giovani, e spesso di personalità fragile, all'interno di organizzazioni religiose fortemente settarie e aventi una concezione integralista, cioè egemonicamente totalitaria, del rapporto fra la vita spirituale e la vita quotidiana in tutti i suoi atti. (Il termine 'lavaggio del cervello', per quanto impreciso, non è del tutto improprio in molti di questi casi.) Più spesso, peraltro, e in situazioni più ordinarie, la coartazione psicologica è parziale, in quanto riguarda solo determinate sfere di comportamento: per esempio la partecipazione a talune attività di gruppo, o la vita sessuale.
A questo proposito occorre osservare che vi è spesso una discrepanza netta fra il 'vissuto di subordinazione' della persona che è stata oggetto di presunta violenza psicologica e i fatti come sono effettivamente avvenuti. Per esempio, non è raro che una persona, coinvolta in episodi di tipo criminale, sostenga di essere stata ipnotizzata, o comunque di essere stata messa dai complici nella condizione di aver completamente perso la propria volontà: ma si tratta quasi sempre di una razionalizzazione autodifensiva e autoderesponsabilizzante. Fra l'altro va osservato qui che l'ipnosi (pur ammesso, e raramente concesso, che in questi casi si sia trattato di vera ipnosi) è un processo - anche - di autosuggestione, anziché solo di suggestione, il quale richiede la partecipazione attiva dell'interessato e in nessun caso si traduce in un annullamento totale della sua volontà. Viceversa non è raro il caso opposto: e cioè che la persona interessata, vittima di una significativa violenza mentale, sostenga esservi stata una sua libera scelta quando di fatto, al contrario, non vi è stata nessuna sua libertà psicologica nell'intero corso degli eventi: e possono valere come tipici esempi i casi visti prima di 'lavaggio del cervello' all'interno di determinate sette religiose, ma anche i casi di seduzione sessuale di un paziente (più spesso di una paziente) nel corso di trattamenti psicanalitici, dove non è raro che la vittima sostenga esservi stata una reciproca libera attrazione sessuale, quando in realtà la seduzione è avvenuta sulla base di un così intenso potere di influenzamento suggestivo da un lato, e di una così profonda dipendenza regressiva dall'altro, da configurarsi come vera e propria violenza sessuale.
Dall'insieme di queste osservazioni si può dedurre come il concetto di violenza sia difficilmente definibile in modo oggettivo. 'Violenza' non è tanto un'etichetta che designi neutralmente una caratteristica intrinseca di una data azione, quanto un'attribuzione che tiene conto del contesto: è insomma un giudizio. Il concetto di violenza rimane, nella sua più tipica e più centrale caratterizzazione, ancorato a un terreno etico e giuridico.Questo fatto deriva, tra l'altro, dalla difficoltà, se non dalla impossibilità, di definire la violenza in termini psicologici. All'interno della psicologia moderna, ancor meglio che fuori dai suoi confini, si conferma che la violenza non è tanto un carattere intrinseco di una data categoria di comportamenti, né di una data categoria di vissuti aggressivi, quanto piuttosto una caratteristica concordemente attribuita a determinati comportamenti, secondo un giudizio che non è mai privo di connotazioni normative. Nella psicologia moderna, infatti, come il concetto seicentesco e settecentesco di passione, oggi desueto in questo campo, è stato largamente riassorbito in quelli di emozionalità e affettività, e il concetto ottocentesco di volontà in quello di motivazione, allo stesso modo constatiamo che, nel descrivere e nello spiegare la vita comportamentale animale e umana, un'ipotetica e tradizionale idea psicologica di violenza sia tramontata, per essere in gran parte sostituita dal concetto di aggressività: con l'aggiunta peraltro di un ulteriore margine semantico riguardante il concetto di sadismo, oggi inteso prevalentemente come di derivazione psicanalitica.
Naturalmente il concetto di violenza rimane valido in generale, nell'uso comune del termine così come nell'etica, nella sociologia e nel diritto: ma va ribadito che esso non ha una chiara riconoscibilità nell'ambito della psicologia. Occorre peraltro ammettere che si parla abbastanza correntemente di violenza nei territori di confine fra psicologia e sociologia, e dunque soprattutto in psicologia sociale (per esempio per quanto riguarda i comportamenti delle bande giovanili) e in parte anche in psicopatologia (per esempio per quanto concerne i casi individuali di disturbi della personalità con coazione patologica a compiere atti sadici e sessualmente aggressivi). Si tratta però qui di un termine il cui uso è puramente descrittivo, e che rappresenta solo il nome comunemente dato a taluni sbocchi sociali di comportamenti aggressivi e/o sadici, e non già a un ipotetico meccanismo psicologico-comportamentale intrinseco a questi stessi comportamenti e a essi comune. Esiste dunque una psicologia dell'aggressività, oppure della competitività, e parimenti si può ben parlare di una psicopatologia delle coazioni sadico-aggressive, così come esiste anche senza alcun dubbio una precisa psicofisiologia degli scoppi d'ira; ma è assai dubbio, invece, che esista una psicologia generale della violenza.
Questa osservazione viene convalidata dal fatto che il concetto di violenza - il quale è, ripetiamolo, marcatamente normativo - ritaglia di fatto un territorio semantico sui generis: un territorio, in particolare, non riducibile all'ambito semantico tipico del concetto di aggressività. E infatti si può constatare che nella maggior parte dei comportamenti aggressivi non è riconoscibile alcun carattere di violenza: si pensi all'aggressività ritualizzata tipica di moltissime situazioni competitive, animali e umane, come la competitività commerciale (che può essere fortemente aggressiva e perfino spietata), i giochi (nel senso dei games), buona parte degli sport, soprattutto se detti 'violenti', la normale rivalità interindividuale in rapporto alla competizione sessuale, e così via. In questi casi, oltre a non esserci nessuna coercizione né fisica né psicologica, occorre osservare come l'aggressività che entra in gioco, per quanto sia eventualmente rilevante, è pur sempre 'parte delle regole concordate', e come tale non si traduce in un'intrusione prevaricante (v. sopra): per cui, in conclusione, non risulta appropriato parlare di vera violenza.
Di contro, va osservato che taluni comportamenti caratterizzabili sotto l'etichetta della violenza sessuale non hanno carattere aggressivo. Mentre, per esempio, si può notare che vi è certamente una componente di aggressività, oltre che di violenza morale, nell'esibizionismo, non vi è sempre aggressività nella seduzione del minore e perfino in quella sua sottospecie che è la pedofilia. Beninteso, si tratta qui sempre di violenze, in quanto siamo al cospetto di gravi fenomeni di abuso di autorità che comportano una serie di importanti conseguenze psicologiche negative, nel senso della possibile corruzione del normale sviluppo psicoaffettivo e psicosessuale del minorenne che ne è vittima. Tuttavia questi comportamenti consistono per lo più - ma le eccezioni ovviamente non mancano - in comportamenti seduttivi non realmente aggressivi in quanto privi di brutalità o di valenze sadiche, e magari anche privi di aspetti realmente intimidativi.
L'attuale diffusa sensibilità per il problema generale della violenza, e in particolare per il problema della violenza contro la persona, va messa in rapporto con il tentativo di creare un ordine sociale - la società democratica moderna - al cui interno i fenomeni di conflittualità siano gestiti in modo tale da ridurre, e se possibile da rendere marginale, qualsiasi ricorso alla violenza. Da un altro lato, il fatto che il tema costituisca problema, e problema controverso, nasce dalla constatazione che questo tentativo sistematico di riduzione e di controllo della violenza, per quanto parzialmente fruttuoso, incontra difficoltà sempre nuove e inattese: difficoltà che consistono nel riproporsi di forme individuali o collettive di violenza (dalla microcriminalità alla violenza delle bande giovanili, al riemergere di violenze sadico-sessuali) le quali sempre meno vengono considerate accettabili all'interno dell'etica prevalente.
È indubbia infatti una sensibilità crescente per il problema. O meglio, vi è la crescente percezione che non vadano accettate forme di violenza che erano considerate invece normali o pienamente tollerabili, almeno nella maggioranza degli ambienti sociali, fino a non molti anni or sono: dalla rissa al duello, a molte forme di vendetta, allo sfruttamento dei minori, alla pretesa tradizionale del marito di essere libero di maltrattare la moglie all'interno delle mura domestiche, all'abitudine alle punizioni corporali da parte di molti insegnanti, all'induzione del consenso al rapporto sessuale mediante prevaricazione o suggestione, fino alla molestia sessuale, anche solo verbale, la quale è considerata oggi a buon diritto come un'intrusione avvilente, e dunque come una forma di vera e propria violenza psicologica, in quanto tale moralmente e giuridicamente sanzionabile.
Sul legame storico fra l'evoluzione delle società democratiche e la prevenzione e stigmatizzazione della violenza non vi dovrebbero essere dubbi: anche se, come osserva A. Giddens, non sempre questo legame viene sufficientemente sottolineato. La diffusa preoccupazione attuale per l'aumento di talune forme di violenza (come la violenza minorile) e la crescente pubblicità data alle varie forme di violenza sessuale, amplificate dai mezzi di comunicazione di massa, facilitano la diffusione dello stereotipo moralistico - del tutto infondato ma così poco nuovo da essere stato probabilmente comune a tutte le epoche - secondo cui la violenza (in generale) sarebbe 'oggi' in aumento, e il mondo dei padri sarebbe stato più sano e rispettoso di quello attuale. In realtà, al contrario, le società preindustriali e premoderne si presentavano e si presentano, al di là delle mitizzazioni che talora ne velano la comprensione storica, come caratterizzate da un grado altissimo e diffuso di violenza: e non soltanto perché la conflittualità interindividuale e fra gruppi vi veniva abitualmente regolata mediante l'intimidazione, lo scontro fisico e l'omicidio, ma anche perché i più comuni rapporti nella vita privata, come quelli all'interno della famiglia, contenevano un grado elevato di prevaricazione e di punitività fisica, così come erano di tipo prevaricante, e dunque violento, i più comuni e quotidiani atteggiamenti verso i minorenni e le donne. Il fatto, per esempio, che oggi vengano denunciati sempre più frequentemente i casi di stupro, di incesto e di pedofilia non significa che questi eventi siano in aumento (anche se taluni fattori psicologico-sociali potrebbero rendere più frequenti alcune categorie di eventi, per esempio per quanto concerne la pedofilia): significa invece, semplicemente, che è diminuita la tolleranza sociale per simili forme di offesa alla persona, le quali sono diventate, per questo, molto più 'visibili' e dunque giungono più facilmente all'attenzione delle forze di polizia, della magistratura e dei mezzi di comunicazione di massa. Ciò vale in particolare per le molte forme di violenza, comprese quelle sessuali, che un tempo erano consumate in segreto all'interno della famiglia, oppure erano protette da vincoli solidaristici di clan e di vicinato, e coperte da silenzi omertosi. A questo proposito, benché manchino dati certi, è molto probabile che stupro e incesto siano non già più comuni, ma assai meno comuni nell'Italia della fine del Novecento, di quanto non fossero in quella della fine dell'Ottocento.
La costruzione di un ordine sociale democratico, basato sulla rinuncia a forme individuali e famigliari di privilegio, e sull'accettazione dell'universalità del diritto, appare indissolubile dalla costruzione di un tessuto informale di rapporti umani basato sulla rinuncia alla violenza. Qui, come si può osservare in taluni paesi a più alto tenore di vita e insieme a più alto livello educativo, una vita quotidiana basata sull'universale ottemperanza a semplici regole civiche, sull'invito al dialogo, sulla libera contrattualità di tutte le forme di cooperazione, si lega alla possibilità di superare situazioni di crisi interpersonale ricorrendo a una serie di strumenti il cui accesso sia agevole e non privilegiato: e cioè, di volta in volta, all'aiuto estemporaneo delle forze dell'ordine, a figure e ruoli come il difensore civico e il giudice di pace, alla magistratura ordinaria, o anche a istanze di mediazione extragiudiziaria, come può accadere per il ricorso a uffici sociopsicologici in casi di problemi di famiglia. Questi strumenti hanno lo scopo di dirimere rapidamente, e soprattutto nel modo più pacifico possibile, controversie e conflitti che, lasciati a se stessi, potrebbero dar luogo a sbocchi di violenza. Sulla base di queste considerazioni, se da un lato è vero che lo Stato moderno si arroga il monopolio della violenza, sottraendo questa capacità ai privati cittadini e affidandola alla polizia, all'esercito e alla magistratura, dall'altro occorre anche osservare che l'immagine tradizionale del 'sequestro' statuale della violenza descrive riduttivamente una realtà ormai divenuta assai più complessa e, in un certo senso, più ambiziosa. Infatti in alcune delle più tipiche democrazie moderne dell'era postindustriale, e in particolare in quelle a impronta socialdemocratica, è coerente il tentativo di evitare tutte le forme di azione violenta, non solo privata ma anche a mandato statale: tanto che a tutti i livelli, dalla legislazione sessuale e famigliare fino all'azione della polizia, alla gestione delle carceri, e financo al tipo di pene che vengono comminate per molti reati, ci si studia di distribuire ed esercitare il potere in modi che rifuggano dalla coercizione fisica. L'abolizione della pena di morte nella maggioranza dei paesi civili rientra in questa logica.
Questa tendenza generale si completa con la costituzione di organismi atti a giudicare forme particolari di violenza. A partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, ma in modo più accentuato negli ultimi anni del Novecento, si è affermato il principio che sia legittimo, e possibile, inquisire ed eventualmente condannare singole persone responsabili di crimini violenti aventi rilevanza internazionale: e questo non tanto nel caso di forme di oppressione da parte di Stati totalitari in tempo di pace, quanto soprattutto nel caso di crimini di guerra, e in particolare di efferatezze compiute su prigionieri. Vale in questi casi l'ipotesi che sia possibile, e legittimo, distinguere fra la violenza tradizionale della guerra, dunque naturalmente inerente alla logica del conflitto e come tale di intensità commisurata all'intenzione di prevalere sulle forze avversarie, e una violenza, invece, aggiuntiva, soprattutto quando essa abbia per oggetto persone inermi. Anche qui esiste la tendenza a considerare 'non naturali' e 'non accettabili', e in quanto tali condannabili in sede giudiziaria, eventi un tempo sistematicamente sottratti a inchieste, denunce e tribunali; e merita osservare come l'idea di una responsabilità, e dunque punibilità, dell'azione violenta, di fronte a una Corte internazionale, mantenga sempre al suo centro l'ipotesi che siano identificabili responsabilità, caso per caso, individuali e non già collettive.
Peraltro, occorre altresì osservare come a questo orientamento obiettino talora con qualche ragione i movimenti pacifisti, preoccupati del rischio che, nel condannare efferatezze e abusi, gli oppositori della violenza sadica (o 'superflua' o 'aggiuntiva') siano al tempo stesso i proponenti di una violenza giudicata legittima e magari anche i difensori di eventuali guerre giuste, volendo così avallare di fronte all'opinione pubblica il proprio operato politico-militare quando presenti anch'esso taluni aspetti discutibili. Questo tipo di osservazione critica si connette all'opinione di coloro i quali ritengono non giustificato separare nettamente, quasi appartenessero a due categorie morali diverse, da un lato la violenza perpetrata da singoli terroristi con bombe artigianali su popolazioni inermi, e dall'altro la violenza perpetrata da moderni apparati militari usando metodi assai meno artigianali ma su popolazioni altrettanto inermi, come può accadere nei bombardamenti di rappresaglia nei confronti di popolazioni civili in villaggi o in campi profughi.
Il terreno più controverso riguarda non tanto i limiti della punibilità, quanto la prevenzione della violenza, in particolare per quanto concerne il controllo dei crimini 'di strada' come l'aggressione a scopo di rapina, l'omicidio e lo stupro.
La controversia riguarda soprattutto i provvedimenti da prendere là dove - come negli Stati Uniti - a un alto livello di industrializzazione e a un elevato reddito medio pro capite si accompagni un tasso preoccupante di reati contro la persona. Più in generale, nel panorama delle nazioni più avanzate dell'Occidente si osserva che, se è vero che il crescere del reddito pro capite, la diminuzione delle sperequazioni sociali e il buon funzionamento delle strutture civili di una nazione (scuole comprese) costituiscono probabilmente la più efficace forma di prevenzione della violenza in generale, tuttavia da un altro lato è ben possibile che determinati reati contro la persona (come gli episodi di violenza legati alle bande giovanili e al mercato clandestino delle droghe, e i reati sessuali) siano dovuti a fattori specifici e richiedano forme speciali di prevenzione.Il perfezionamento della raccolta di dati sui reati contro la persona, in particolare per quanto riguarda le varie forme di aggressione fisica, lo stupro e parte dei furti, ha dimostrato, a questo proposito, che un numero relativamente alto di questi reati è dovuto a un numero relativamente limitato di individui, quasi tutti di sesso maschile, i quali si presentano dunque come plurirecidivi. Questa constatazione ha contribuito a incoraggiare, negli Stati Uniti, una politica più repressiva che in passato nei confronti dei reati caratterizzati da aggressione violenta, con un aggravamento delle pene detentive: anche se non tutti concordano sull'ipotesi che la sensibile diminuzione di un simile tipo di reati negli ultimi anni novanta in quel paese sia dovuta precisamente a questo tipo di provvedimenti, i quali si traducono fra l'altro in un marcato aumento della popolazione carceraria.
A tale proposito si deve peraltro osservare che il problema più grave, e non soltanto negli Stati Uniti, è probabilmente dato dalla apparente incoercibilità, e in molti casi dalla risorgenza, dei fenomeni di dissocialità giovanile - individuali e di gruppo - appunto caratterizzati da comportamenti violenti, sia contro le persone, sia contro gli oggetti (vandalismo). Un aspetto preoccupante del fenomeno è l'età sempre più precoce in cui vengono commessi i reati. Va osservato che nessuno ha finora trovato una risposta, preventiva o correttiva, ovvero di impronta educativa o al contrario più repressiva, che si sia dimostrata sicuramente efficace per arginare questo tipo di eventi. Uno dei motivi dell'insuccesso è che il fenomeno della violenza giovanile non è probabilmente omogeneo nelle sue cause. Provvedimenti repressivi come la proibizione della vendita di alcolici ai minori non hanno dimostrato conclusivamente la loro efficacia; altri, come il coprifuoco per i giovani, per quanto abbiano dimostrato effetti positivi in talune situazioni urbane, non sembrano generalizzabili; altri ancora, come l'intervento di forme di censura nei mezzi di comunicazione di massa, si sono trovati a cozzare contro le garanzie di principio della società liberale.
Da un lato, soprattutto in alcune zone degli Stati Uniti, si va affermando il principio della 'tolleranza zero', cioè l'idea che le forme più gravi di criminalità, e in particolare di criminalità violenta, si possano combattere con più efficacia rilegittimando con decisione i diritti dei cittadini onesti, e con essi le regole più banali della convivenza, e parallelamente delegittimando talune forme di criminalità meno grave considerate in precedenza con indulgenza in taluni contesti urbani, come per esempio il vagabondaggio, il piccolo teppismo di strada e le forme minori di vandalismo. Si ritiene fra l'altro in questi casi che la presenza repressiva delle forze di polizia debba essere non solo ovunque capillare ma anche fortemente visibile. Da un altro lato invece, in altri paesi, come per esempio l'Olanda, la Scandinavia e la Svizzera, un diffuso benessere, l'alto livello di scolarità, e insieme a questo una politica di tolleranza nei confronti di talune forme di devianza giovanile (quale l'uso di droghe) sono fattori che, strettamente uniti a forme differenziate e capillari di controllo sociale (controllo auspicato qui come non marcatamente visibile), sembrano aver dato buoni risultati anche per quanto riguarda la prevenzione di una parte almeno dei crimini violenti giovanili.
Sempre in tema di prevenzione, un problema particolare riguarda il ruolo degli spettacoli considerati violenti e del tifo sportivo. Fino agli anni sessanta riceveva ancora molta attenzione l'ipotesi tradizionale secondo cui questi spettacoli o attività collettive avrebbero una funzione positiva, in quanto agirebbero in senso catartico e fornirebbero obiettivi innocui su cui dirigere pulsioni aggressive o forme di risentimento altrimenti pericolose. Secondo questa ipotesi le folle di spettatori che, il sabato o la domenica, si scalmanano contro la squadra avversaria, non fanno che 'sfogare' istinti comunque presenti, oltre che 'evacuare' su un terreno prevalentemente innocuo le piccole frustrazioni di un'intera settimana di lavoro. All'uscita dagli stadi sportivi esse sarebbero dunque più pacificate, e quindi in pratica meno inclini alla violenza di quando vi sono entrate. Una funzione analoga verrebbe svolta dagli incontri di pugilato, e qualcosa di simile riguarderebbe anche il comune sentimento di partecipazione a eventi virtuali, quali gli spettacoli cinematografici e televisivi a contenuto competitivo e aggressivo, e magari sadico.Da alcuni decenni però una quantità di dati scientifici ed empirici ha dimostrato in modo conclusivo che questa ipotesi è errata. Contrariamente a quanto alcune scuole di psicologia ritenevano valido fino agli anni sessanta, l'aggressività, la tendenza al sadismo e più in generale le tendenze antisociali individuali, per quanto rispondano di fatto a predisposizioni biologiche assai diverse, da persona a persona, non consistono in una propensione che sia 'istintiva all'origine', e soprattutto non sono affatto una 'quantità di energia' (per esempio una fantasticata 'energia aggressiva') presente nell'organismo, che chiede come tale di essere periodicamente sfogata in modi più o meno socialmente accettabili. Al contrario, la tendenza a esprimere violentemente l'aggressività, e anche il sadismo, può aumentare (o talora diminuire) enormemente, e forse indefinitamente, in rapporto alle esperienze quotidiane e dunque a fattori di apprendimento. In pratica è facilmente osservabile, e anche sperimentalmente dimostrabile, che la 'liberazione' o 'sfogo' accessionale dell'aggressività tende sempre a produrre non già calma e appagamento ma uno stato di eccitazione e irritabilità, e un'ulteriore tendenza all'aggressività che perdura nel tempo; così, sappiamo oggi con chiarezza che l'esercizio della violenza produce man mano un'inclinazione sempre maggiore alla violenza, e l'iniziale assuefazione a compiere piccoli atti sadici introduce, per passi successivi, una inclinazione sempre maggiore al sadismo. Questo vale anche nei casi in cui l'aggressività sia espressa in modo simbolico e/o sublimato: un bambino nevroticamente disturbato e geloso, per esempio, diventa non già meno aggressivo ma più aggressivo se lo si incoraggia a dar pugni ogni giorno a una bambola di gomma, così come un adolescente incline agli assalti fisici vede aumentare la propria tendenza ad aggredire fisicamente le persone se viene fornito, da parte di psicologi dilettanti, di fogli e matite colorate per disegnare a suo piacere scene cruente. Tutti i dati di cui disponiamo, quindi, ci fanno concludere che l'agitazione aggressiva collettivamente prodotta negli stadi in occasione delle partite di calcio, o di pallacanestro, fa sì che le folle che ne escono siano non già migliori, ma peggiori (e, fra l'altro, più aggressive) di quando vi erano entrate.A questo si aggiunge lo studio degli effetti dell'esposizione dei bambini a scene di forte e reale violenza, soprattutto nell'ambito di conflitti famigliari: è stato sospettato da tempo, ma ben dimostrato solo di recente, che questo tipo di esperienza precoce tende a produrre una tendenza alla violenza fisica, soprattutto nei maschi, a partire dall'adolescenza. Ciò che però preoccupa maggiormente è il fatto che in una certa misura questo effetto potrebbe essere prodotto non soltanto dall'esposizione alla violenza reale ma anche dall'esposizione quotidiana a spettacoli televisivi contenenti scene di violenza. Oltre che indurre, soprattutto in soggetti predisposti, a una facilitazione ad atti di violenza, uno dei più semplici e universali effetti di questo tipo di spettacoli potrebbe essere un progressivo decondizionamento rispetto alla paura della violenza fisica (ivi compresa la paura della propria violenza) e con esso una perdita della ripugnanza, istintiva in tutti i bambini, per il sangue e gli atti sadici. (V. anche Aggressivo, comportamento; Guerra).
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di Birgitta Nedelmann
1. La violenza come interazione
La concezione sociologica della violenza parte dalla constatazione fondamentale dell'intrinseca vulnerabilità fisica degli esseri umani (v. Popitz, 1986; tr. it., p. 40). In questo modo il corpo si pone al centro dell'analisi sociologica sotto un duplice aspetto: da un lato come corpo capace di offendere, dall'altro come corpo che soffre e percepisce il dolore. La capacità di ledere fisicamente un'altra persona rappresenta il potere d'offesa, che può essere esercitato sia come fine a se stesso sia strumentalmente, per raggiungere altri scopi. A esso si contrappone la capacità di patire e di vivere il dolore fisico della vittima, la quale può subirlo passivamente, reprimerlo o esprimerlo in modi diversi. Compito della sociologia della violenza è quello di analizzare i processi di interazione che si sviluppano nella situazione di violenza tra chi esercita il potere d'offesa e chi lo subisce (v. Nedelmann, 1997).Questa definizione in termini interazionistici integra l'orientamento prevalso sinora nell'approccio sociologico tradizionale, che focalizza l'attenzione esclusivamente sulle cause della violenza e sui motivi di chi la mette in atto. Ciò significa partire dall'assunto normativo secondo il quale la violenza, in quanto fenomeno che turba la convivenza umana, deve essere controllata e incanalata verso forme di espressione non violente attraverso adeguate misure preventive. Sulla scia di Norbert Elias (v., 1939), il controllo delle pulsioni aggressive e violente diventa lo standard etico vincolante del comportamento dell'uomo civilizzato. La preoccupazione fondamentale della sociologia della violenza tradizionale è quella di sostenere il monopolio statale della forza legittima, richiamando l'attenzione sulle cause della violenza illegittima e della propensione alla violenza.
A fronte dell'ambiguità morale e della molteplicità di manifestazioni empiriche che contraddistinguono il fenomeno della violenza nelle società odierne (cosiddette civilizzate), l'approccio sociologico convenzionale risulta unilaterale ed eccessivamente ristretto. La violenza fisica inflitta coscientemente e intenzionalmente rappresenta anche nelle società contemporanee un fenomeno rilevante ed esteso a tutti gli ambiti sociali. La socializzazione nella vita quotidiana avviene non solo, come descritto da Erving Goffman (v., 1959), attraverso la rappresentazione del Sé con la superficie intatta del suo corpo integro, ma anche attraverso la rappresentazione del Sé con il suo corpo danneggiato e vulnerabile. Nelle situazioni di violenza quotidiane il lato corporeo interno del Sé si rivolta all'esterno, e sono le ferite e le offese visibili a dare agli individui i segnali per l'ulteriore svolgimento del processo di interazione. Nella vita quotidiana le persone si urtano nelle strade sovraffollate, si spintonano e si sgomitano nei mezzi di trasporto pubblici, guadagnano con la forza il diritto di precedenza nei negozi, estorcono la compiacenza sessuale. I trattamenti coercitivi sono all'ordine del giorno negli ospedali, negli istituti psichiatrici, nei ricoveri per anziani e negli asili infantili. L'addestramento alla violenza viene sistematicamente perseguito sia in determinate istituzioni pubbliche come l'esercito, le carceri o i servizi segreti, sia nelle organizzazioni criminali, nei gruppi politici militanti, nelle bande giovanili o nei corsi di autodifesa. Anche nelle società in cui lo Stato rivendica a sé il monopolio della violenza, essa viene esercitata non solo pubblicamente, sotto gli occhi di tutti, ma anche nella sfera privata, dietro le porte chiuse. La violenza non è soltanto oggetto di condanna e di stigmatizzazione morale; a seconda degli scopi e dei contesti essa viene ora condannata sul piano etico, ora posta al servizio di fini superiori e dichiarata irrinunciabile, ora goduta come bene di consumo fine a se stesso. Nella società mediatica alla violenza praticata e subita direttamente si aggiunge quella indiretta, veicolata dai media. Lo spettatore televisivo assiste quotidianamente alla violenza nei confronti politici, nello sport e negli spettacoli di intrattenimento, ed è informato in misura sconosciuta in passato sulle violenze perpetrate in altri paesi e strati sociali.
Questi esempi possono essere sufficienti a dimostrare come la violenza nelle moderne società occidentali sia un fenomeno estremamente complesso e moralmente ambiguo, di cui è impossibile fornire una spiegazione adeguata analizzandone esclusivamente le cause, o focalizzando l'attenzione solo sulla personalità degli offensori e sulle loro motivazioni. La sociologia della violenza dovrebbe prendere sistematicamente in considerazione e collegare concettualmente perlomeno le seguenti dimensioni: 1) gli attori della violenza; 2) l'atto di violenza; 3) il significato simbolico della violenza; 4) il contesto della violenza; 5) le forme e le dinamiche della violenza.
2. Gli attori della violenza
Le interazioni violente si producono tipicamente in triadi formate dall'offensore (il soggetto attivo), dalla vittima (il soggetto passivo) e da un terzo o da terzi. Un attore, individuale o collettivo, diventa soggetto attivo dell'atto di violenza quando lede fisicamente un altro o altri sia direttamente, sia con l'impiego di armi o di altri mezzi di offesa; diventa soggetto passivo quando subisce un'offesa fisica; assume infine il ruolo di terzo sia quando commissiona l'atto di violenza, sia quando vi assiste mantenendosi neutrale, oppure approvandolo, o ancora condannandolo moralmente. Per quanto riguarda la categoria dell'offensore, occorre in primo luogo operare una distinzione tra l'esercizio professionale e quello non professionale della violenza. Nella vita quotidiana gli individui, con la loro forza fisica naturale più o meno coltivata, in vesti più o meno professionali, si presentano gli uni agli altri come potenziali offensori. Anche quando tale forza fisica non viene effettivamente usata per danneggiare gli altri, già solo l'aspetto minaccioso, l'esibizione dei muscoli o delle armi, il braccio alzato per colpire costituiscono una minaccia di violenza e spingono l'altro sulla difensiva. Lo sviluppo del ruolo di offensore viene ulteriormente differenziato e trova un sostegno nelle subculture della famiglia, della scuola o delle bande criminali. Gli educatori che ricorrono alle punizioni corporali e i mariti che violentano le mogli sono esempi delle differenti forme che può assumere tale ruolo nell'ambito scolastico e familiare. Lo Stato rivendica in misura crescente il diritto di estendere il proprio monopolio della forza legittima a questi ambiti e di sottoporli al controllo della legge. La professionalizzazione della violenza è una conseguenza dello sviluppo dello Stato come legittimo detentore del monopolio della forza. Il soldato, il poliziotto, la guardia carceraria, gli apparati coercitivi rientrano nell'ambito della violenza professionale legittimata dallo Stato. A ciò fa riscontro la professionalizzazione della violenza come attività criminale, in cui le tecniche di offesa sono collegate a quelle della segretezza e diventano oggetto di un apprendimento sistematico. Nei paesi in cui il monopolio statale della forza è fragile, i professionisti della violenza trovano il loro ambito di attività in organizzazioni non statali e in mercati privati del crimine, in cui si possono comprare le prestazioni di assassini su commissione (si pensi alla figura del 'sicario' in Colombia: v. Waldmann, 1997, p. 157). Nelle società totalitarie la professionalizzazione della violenza è particolarmente avanzata; ai torturatori, agli informatori e alle spie si aggiungono corpi speciali, spesso spacciati per 'servizi di sicurezza'.
Al di là della professionalizzazione della violenza, in alcune società possono affermarsi ideali culturali incentrati sulla persona (perlopiù di sesso maschile) forte e aggressiva, che in situazioni critiche non esita a ricorrere alla violenza contro altri (percepiti come pericolosi) per difendere valori sociali altamente apprezzati. Nella cultura americana, ad esempio, tale ideale è incarnato dalla figura dell'eroe western, nei paesi europei che hanno vissuto l'esperienza delle due guerre mondiali da quella dell'eroe di guerra, del partigiano o del combattente clandestino. Per quanto riguarda la categoria del soggetto passivo, osserviamo che nelle moderne società democratiche dell'Occidente che non si trovano coinvolte in conflitti armati, il ruolo di vittima resta scarsamente definito. Le ragioni di questo fatto possono essere individuate nel declino dei valori religiosi e delle ideologie politiche, nonché in un diritto penale incentrato esclusivamente sul reo. Le vittime della violenza si uniscono in organizzazioni spontanee per riaffermare i propri diritti, e questo costituisce già un indicatore della loro posizione sociale subordinata. Ad assumere il ruolo di vittima sono in genere le categorie più deboli (donne, bambini, anziani, malati) e socialmente discriminate (minoranze etniche e religiose, perseguitati politici, nonché appartenenti a gruppi sociali marginali). Non di rado la responsabilità della violenza inflitta viene imputata alla vittima stessa, che si presume abbia provocato gli atti di violenza con il suo aspetto esteriore, il suo comportamento o il suo milieu sociale. Il fatto che spesso la vittima venga accostata all'offensore indica come nelle moderne società secolarizzate manchino valori e norme in grado di differenziare il ruolo di vittima da altri ruoli e di definirlo positivamente. La capacità di sopportare il dolore fisico, di accettare e tollerare le offese in nome di valori superiori, quali la purificazione spirituale o un ideale etico, oggi non viene considerata necessariamente una virtù degna di essere perseguita. Tutt'al più nel ruolo materno è dato trovare un residuo di questa valorizzazione del ruolo di vittima, in quanto oggi come in passato l'esperienza femminile del dolore viene considerata un presupposto indispensabile per vivere appieno le gioie della maternità. Nelle società secolarizzate il ruolo del martire o della martire appartiene ormai al passato, nella misura in cui per la Chiesa moderna l'accettazione della sofferenza fisica non dà diritto alla ricompensa religiosa di una vita (migliore) dopo la morte. La situazione è completamente diversa nell'islamismo, dove il ruolo di martire è associato soprattutto alla 'guerra santa' (gihād), e di conseguenza premiato. Si è sviluppata così una particolare forma di violenza politica, l'attentato suicida, in cui il ruolo della vittima si confonde con quello dell'offensore (v. Dale, 1988; v. Kramer, 1992; v. Nedelmann, 1998).
Solo in situazioni di guerra interna o esterna il ruolo di soggetto passivo della violenza acquista contorni più precisi. Spesso, tuttavia, le vittime di guerra vengono riconosciute e risarcite come tali solo dopo un faticoso processo di ammissione di colpa, come dimostra il dibattito sul risarcimento delle vittime del nazionalsocialismo iniziato solo a cinquant'anni di distanza dalla fine della seconda guerra mondiale, e tutt'altro che concluso. La stilizzazione culturale del ruolo di vittima può essere frutto di persecuzioni sistematiche e genocidi, come nel caso degli Zingari e soprattutto degli Ebrei. Il desiderio collettivo di liberarsi di un ruolo di vittima imposto con la forza può tramutarsi nel suo opposto, e portare a una valutazione positiva del ruolo di offensore. Ciò è accaduto con la fondazione dello Stato di Israele e con la costituzione dell'esercito israeliano, allorché venne creato il ruolo positivo dell''ebreo combattente' che avrebbe dovuto sostituire l'immagine tradizionale dell'ebreo della diaspora che subisce passivamente.Quest'ultimo esempio rimanda a una situazione empirica generalizzata, che riveste una particolare importanza nella dinamica dell'interazione offensore/vittima, e che consiste nell'interscambio tra i due ruoli. Quando alla violenza si risponde con la violenza, la vittima diventa offensore, e l'offensore originario si trasforma in vittima. Il rapporto tra offensore e vittima è simmetrico quando entrambi gli attori hanno eguali opportunità di assumere l'uno e l'altro ruolo; è asimmetrico quando la distribuzione dei ruoli è fissata in modo unilaterale. La struttura simmetrica può essere sorretta da norme e regole che stabiliscono gli scambi di colpi permessi, come accade nei duelli, in alcuni sport o negli accordi internazionali sulle regole di una guerra 'leale'. Proprio il gioco del calcio offre un chiaro esempio di quanto possano essere differenziate le regole che stabiliscono quali lesioni fisiche siano ammesse e quali vietate. Le norme di reciprocità, in base allo schema 'occhio per occhio, dente per dente', favoriscono l'instaurazione di un rapporto simmetrico tra offensore e vittima.
La tortura, i dirottamenti aerei o i sequestri di persona sono invece situazioni caratterizzate da rapporti asimmetrici tra offensore e vittima. In questi casi le vittime hanno opportunità minime di interazione, anche se proprio lo sfruttamento di queste opportunità, per quanto minime, può influenzare in misura notevole l'esito dell'azione di forza (v. Esu, 1992). La possibilità che si instauri un legame simbiotico tra vittima e offensore si osserva soprattutto in situazioni estreme, come nei sequestri di persona prolungati nel tempo, ed è nota come 'sindrome di Stoccolma'. Nel 1973, durante un sequestro in una banca di Stoccolma ad opera di un gruppo di terroristi tedeschi, si osservò come negli ostaggi si sviluppassero sentimenti positivi di simpatia, se non addirittura di amicizia, nei confronti dei sequestratori. L'ipotesi avanzata da Bruno Bettelheim, secondo la quale gli internati nei campi di concentramento nazisti si sarebbero identificati con i loro aguzzini, è stata confutata da Christian Fleck e Albert Müller (v., 1997). Alle vittime viene sottratta ogni opportunità di interazione quando si spara loro alle spalle, quando vengono assassinate o sterminate in massa, e per questa ragione simili forme di uccisione vengono considerate 'vili' persino in alcune cerchie criminali. La violazione di questi residui di standard morali relativi a una conduzione 'leale' della guerra si verifica tipicamente nelle campagne militari e nei teatri di guerra lontani dalla patria in cui le truppe, non più soggette al controllo degli standard morali del loro ambiente d'origine, possono affinare metodi crudeli di uccisione e di sterminio. Solo a cinquant'anni di distanza dalla fine della seconda guerra mondiale cominciano ad affermarsi, ad esempio in Germania, degli standard morali in base ai quali le fucilazioni e le esecuzioni di massa della Wehrmacht tedesca nel corso della guerra sono da considerarsi azioni criminali e parte dell'Olocausto (v. Heer e Neumann, 1995).
Per quanto riguarda la categoria del terzo o dei terzi, infine, essa può assumere configurazioni estremamente diversificate. Vi è innanzitutto il ruolo dell'istigatore o del mandante, che impartisce l'ordine di eseguire gli atti di violenza. Anche nell'ambito del crimine il lavoro manuale è considerato 'lavoro sporco', e di conseguenza si tende a delegarlo a semplici esecutori materiali. Tale ruolo viene affidato di preferenza a quelle categorie di persone che sono state esse stesse vittime e hanno sperimentato su di sé la violenza (è questo il caso degli internati nei campi di concentramento cui erano affidate funzioni di sorveglianza, i cosiddetti kapò), oppure hanno un rapporto di dipendenza di altro tipo con chi impartisce gli ordini. Istigatori e mandanti mobilitano risorse, conoscenze e mezzi materiali per l'attuazione delle loro azioni violente, mettendo al proprio servizio la tecnica, la scienza e il mondo della finanza. Ad esempio, il perfezionamento dei metodi di tortura e lo sviluppo della cosiddetta 'tortura bianca' (che non lascia segni sul corpo della vittima) non sarebbero pensabili senza l'ausilio della medicina. La possibilità di trarre profitti materiali o di altro tipo dall'esercizio della violenza favorisce l'affermarsi di una doppia morale, per cui la violenza da un lato viene pubblicamente condannata, dall'altro segretamente alimentata. Il terzo o i terzi hanno un ruolo completamente diverso nella situazione di violenza quando sono chiamati nelle vesti di opinione pubblica giudicante a prendere posizione per l'una o per l'altra parte. Gli atti di violenza dei terroristi vengono compiuti tipicamente tra il pubblico e sotto gli occhi del pubblico, allo scopo di seminare il terrore. La televisione offre la possibilità di mettere in scena le azioni criminali come 'orrore telegenico' - si pensi in proposito al famigerato massacro della 'fila per il pane' avvenuto a Sarajevo nel maggio del 1992, o ai tre attentati suicidi consecutivi attuati da Hamas contro civili israeliani nel 1997 (v. Danner, 1998, p. 37; v. Nedelmann, 1998).
Come spettatore il terzo ha un ruolo particolarmente spinoso, in quanto diventa involontariamente complice. La sua emotività viene sfruttata non solo dai terroristi, ma anche dall'industria dei video e da Internet. Le rappresentazioni di atti di violenza, anche contro bambini, diventano articoli di consumo ricercati, che sfuggono (ancora) ampiamente ad ogni controllo giuridico. L'ipotesi formulata da Norbert Elias (v., 1939), secondo la quale nelle società civilizzate la violenza è controllata in misura crescente dallo Stato di diritto, va corretta e integrata con la constatazione che all'aumento della violenza fittizia o reale veicolata dai media fa riscontro una diminuita capacità dello Stato di controllarla.
3. L'atto di violenza
Uno dei presupposti della formazione e del riconoscimento sociale del Sé, ossia della costituzione della soggettività sociale, è il riconoscimento della vulnerabilità e della sensibilità al dolore del proprio corpo. Solo quando gli individui si rispettano reciprocamente anche nella loro dimensione corporea vulnerabile e sensibile al dolore sono in grado di concepirsi reciprocamente come persone nella loro integrità. Sotto questo profilo la violenza assume un'importanza cruciale. L'esperienza della violenza coinvolge il corpo perlomeno sotto quattro aspetti, che secondo l'analisi di Arthur W. Frank (v., 1991, pp. 51-53) riguardano: 1) il controllo del corpo; 2) la pulsione fisica; 3) il rapporto del corpo con l'altro; 4) il rapporto del corpo con il Sé.
1) Il controllo del corpo riguarda sia l'offensore che la vittima. Nel caso dell'offensore, esso consiste nella capacità di dosare l'uso della forza conformemente alle proprie intenzioni. Ciò presuppone la consapevolezza della propria forza fisica, ma anche della vulnerabilità di chi subisce l'aggressione. L'impiego di un massimo di forza fisica o di armamenti in certe circostanze può risultare più favorevole alla vittima che non all'offensore, poiché agli occhi dei terzi giudicanti può apparire sproporzionato e quindi illegittimo. Soprattutto nei conflitti internazionali il dosaggio del primo colpo costituisce un problema particolarmente spinoso, poiché occorre contemperare due esigenze opposte, quella di incutere timore e quella di limitare i danni. Non a caso si parla in proposito di 'arte' dell'uso delle armi.
Per quanto concerne la vittima, il controllo del corpo consiste nella capacità di esprimere il dolore in modo socialmente differenziato in rapporto all'offensore - il che significa, ad esempio, essere in grado di reprimerlo e di sopportarlo in silenzio in modo da non dare a chi lo infligge un senso di superiorità, oppure descriverlo in modo adeguato al fine di facilitare una diagnosi medica, oppure ancora manifestarlo in forma drammatica per suscitare il senso di colpa dell'offensore. La trasformazione della sensazione fisica del dolore in forme di espressione socialmente differenziate presuppone la padronanza e la conoscenza del proprio corpo, ma soprattutto la capacità di adeguare la manifestazione del dolore fisico all'immagine del Sé. Gli stereotipi legati ai generi e a determinate professioni preformano la capacità di esprimere il dolore in modo socialmente differenziato. Secondo tali stereotipi, gli uomini non devono piangere quando soffrono, ma stringere i denti; il cowboy e il marinaio sono insensibili al dolore, ecc. Nel caso dei professionisti della violenza l'apprendimento del controllo del corpo fa parte di un addestramento sistematico; ciò che rivela il non professionista è proprio l'erompere spontaneo e incontrollato dell'impulso violento, e il fatto di abbandonarsi al dolore.
2) La pulsione fisica, che può esprimersi o nel desiderio di rispondere alla violenza con la violenza, o nel godimento della violenza fine a se stessa, attraversa la dinamica dell'interazione tra soggetto attivo, soggetto passivo e terzi con forza diversa. La violenza sfrenata, la follia omicida e i massacri, che in genere vengono considerati atti impulsivi, sono spesso il risultato di processi di gruppo, in cui gli aggressori gareggiano per superarsi in efferatezza. Per comprendere le forme estreme di violenza, l'analisi delle strutture di organizzazioni e gruppi è spesso assai più utile dello studio delle biografie e delle personalità dei criminali. Una struttura di gruppo basata sulla competizione, associata alla possibilità di dar libero corso alla violenza con l'autorizzazione dell'organizzazione fu un fattore determinante negli eccessi di violenza perpetrati nei campi di concentramento nazisti (v. Sofsky, 1993).
3) Il terzo aspetto, il rapporto del corpo con l'altro, riguarda il fatto che la violenza è un'esperienza relativa. Solo nel confronto con la vulnerabilità altrui è possibile valutare la propria forza offensiva. Attraverso la misurazione reciproca delle forze intesa in modo più o meno serio, che è alla base di certi giochi violenti praticati da adulti e bambini, si ha la possibilità di sperimentare la propria superiorità/inferiorità fisica, e di conseguenza si è in grado di classificare se stessi in rapporto agli altri. In situazioni di questo genere, la sensazione di poter aumentare la propria forza fisica sino ad avere l'impressione di 'superare se stessi' costituisce una gratificazione che induce costantemente singoli individui, gruppi o interi paesi a sfidare l'avversario in confronti violenti.
4) Con ciò siamo già entrati nell'ambito della quarta dimensione, quella del rapporto del corpo con il Sé. Le azioni militari possono creare situazioni in cui si determina una trasformazione totale o una scissione del Sé. Sulla base delle lettere dal fronte dei soldati della Wehrmacht tedesca durante la seconda guerra mondiale, Heer e Neumann (v., 1995) hanno sostenuto che la brutalizzazione della guerra associata alla campagna d'Oriente avrebbe portato i soldati a trasformare la propria autodefinizione originaria in un processo articolato in varie fasi. La prima fase è quella dello 'shock del primo crimine', che si ha quando il soldato si trova a uccidere e si confronta per la prima volta con atrocità inconciliabili con la sua precedente identità di persona pacifica ed educata. A una 'scissione' e a una 'inversione dei poli dell'Io' si arriva attraverso una serie di ulteriori fasi, che comprendono il processo di normalizzazione, l'identificazione con i propri crimini e infine l'interiorizzazione dell'uso della violenza estrema come dovere e onore professionale. Si giunge infine a una fase in cui la violenza diventa un'abitudine. In questo stadio la violenza entra letteralmente nel sangue, e viene praticata abitualmente anche quando né gli ordini dei superiori né l'andamento della guerra lo richiedono. Il soldato si trasforma allora in un criminale abituale, la cui identità si esprime interamente nell'uccidere e nell'annientare. L'esperienza insegna che la fine delle operazioni belliche diventa difficile quando le truppe sono formate in prevalenza da criminali abituali di questo tipo. Ciò potrebbe spiegare perché gli eccessi di violenza continuano anche dopo la fine ufficiale del conflitto, e spesso, anzi, è proprio questo il momento in cui raggiungono il culmine.Problemi di identità si presentano anche per le vittime, allorché si trovano costrette ad andare contro la propria autodefinizione e cedono alle torture, tradiscono gli amici o diventano disertori. Le vittime dei campi di concentramento nazisti, di sequestri di persona e di situazioni belliche estreme sperimentano spesso inoltre il trauma del sopravvissuto, che diventa tanto più lacerante quando la salvezza si è potuta ottenere solo a prezzo di tradire i compagni di sventura e le proprie convinzioni, rendendosi complici dei criminali (v. Joas, 1994).
4. Il significato simbolico della violenza
Se, sulle orme di Max Weber, si interpreta la violenza in termini di agire sociale, occorre interrogarsi sul senso soggettivo che gli attori di volta in volta vi associano (v. Neidhardt, 1981; v. von Trotha, 1997; v. Nedelmann, 1997). Osservato dall'esterno, non sempre il decorso di un atto di violenza può dare indicazioni sul significato che l'uso della forza ha in quella data circostanza. In situazioni normali, ad esempio, il medico che coscientemente e intenzionalmente interviene sul corpo del paziente mira a curarlo, mentre in caso di guerra o di genocidio il suo intento è l'eutanasia o l'effettuazione di esperimenti sull'uomo. Analogamente, il modo in cui viene accettato il dolore e si elabora la sofferenza cambia completamente per il paziente o per la vittima a seconda di come è definita la situazione sociale. Il modo in cui viene espresso il dolore dipende in larga misura dall'intenzione che la vittima attribuisce all'offensore. Reprimere coscientemente ogni manifestazione di dolore può cambiare o vanificare completamente l'intenzione di umiliazione o di punizione che l'istitutore o l'aguzzino associa al proprio uso della violenza. Le torture sopportate 'senza un lamento' possono esprimere lo spirito di resistenza della vittima, e nello stesso tempo - come accadeva nei campi di concentramento nazisti - dare anche ai compagni costretti ad assistere alla tortura la forza morale per non cedere. Il senso associato originariamente all'atto di violenza può mutare nel corso dell'interazione: i giochi di forza possono tramutarsi in lotte serie, uno scambio accuratamente calibrato di colpi può trasformarsi in un eccesso incontrollato di violenza. Processi di trasformazione o di vanificazione del senso della violenza si osservano proprio là dove essa costituisce l'unico strumento di comunicazione di cui dispongono gli individui, come accade non solo in situazioni estreme, ma anche nella vita quotidiana - in certi matrimoni, nei rapporti all'interno dei gruppi giovanili o nelle istituzioni totali.
L'atto di violenza stesso consente di interpretare il contenuto simbolico veicolato da azioni di questo tipo. Le lesioni del corpo forniscono anche al sociologo, oltre che al giudice, al poliziotto o al medico legale, ulteriori indicazioni sulla comunicazione simbolica della violenza. I modi in cui le vittime vengono uccise, i loro corpi mutilati, torturati e oltraggiati sono segni colmi di significati, che ammettono interpretazioni culturali, religiose o sessuali. Il corpo violato può essere dunque concepito come un 'testo', attraverso il quale vengono inviati determinati messaggi in chiave simbolica alla vittima stessa e a terzi. Le organizzazioni criminali come la mafia, i gruppi terroristici e le bande di sequestratori sviluppano su questo terreno un proprio linguaggio (del corpo), attraverso il quale trasmettono ai membri del loro clan determinati messaggi, producono prove per dimostrare che la vittima è ancora viva, oppure conferiscono maggior vigore alle loro richieste con un segno tangibile. Anche quando il corpo segnato dalla violenza non viene strumentalizzato per comunicare messaggi specifici, l'intento del reo può essere quello di offendere il senso dell'onore della vittima, del nemico o dell'opinione pubblica. Così, ad esempio, nelle esplosioni provocate dagli attentati-suicidi dell'organizzazione segreta islamica Hamas i corpi delle vittime si confondono in un'unica 'massa sanguinolenta' (v. Theweleit, 1977, pp. 503-505), in cui il sangue dei terroristi islamici si mescola a quello dei civili ebrei. Per gli ebrei ortodossi questo sistema di uccisione rappresenta una profonda umiliazione, in quanto secondo la religione ebraica devono essere osservati determinati rituali di sepoltura (v. Nedelmann, 1998) . La profanazione dei cadaveri costituisce una violenza che va oltre l'uccisione, e ferisce anche i sentimenti di terzi. L'ingravidamento forzato delle donne del nemico è una sperimentata strategia bellica che non solo lede fisicamente le donne, ma ferisce nel modo più profondo il loro sentimento dell'onore e quello dei loro familiari anche dopo la fine di un conflitto.
Gli atti di violenza hanno anche una dimensione temporale, che può assumere notevole importanza nella dinamica dell'interazione tra il reo, la vittima e il terzo. I sequestratori e i ricattatori, ad esempio, si servono spesso di una tattica di logoramento, in virtù della quale le loro richieste acquistano maggior forza con il semplice trascorrere del tempo e con l'incertezza che avvolge le condizioni delle vittime . Si instaura in questo caso una peculiare dinamica per cui, col prolungarsi nel tempo del ricatto e con il rapido deteriorarsi delle condizioni fisiche delle vittime, i terzi (rappresentanti dello Stato, delle forze dell'ordine o dell'esercito) si trovano costretti in misura crescente nel ruolo di offensori.
Per poter comprendere adeguatamente la violenza occorre prestare la debita attenzione agli specifici contesti organizzativi, spaziali e istituzionali in cui essa viene esercitata.In primo luogo osserviamo che la violenza è un problema che riguarda le organizzazioni nella misura in cui essa è controllata dallo Stato. Nelle società democratiche gli organi esecutivi, le forze dell'ordine, l'apparato amministrativo e le carceri sono legittimati a usare la violenza, per quanto solo a determinate condizioni, per scopi stabiliti dalla legge e nella misura strettamente necessaria. L'abuso della violenza statale è un potenziale fattore di conflitto, e provoca forme di controviolenza.In generale, le organizzazioni che debbono ricorrere alla violenza per raggiungere i loro scopi ufficiali sono favorite in ciò da una particolare architettura spaziale. Gli ambienti chiusi, segregati dal mondo 'normale', facilitano l'esercizio della forza, ma favoriscono anche lo scatenarsi di eccessi di violenza. Questa possibilità viene tenuta espressamente in considerazione dagli architetti dei campi di concentramento, delle camere di tortura e delle caserme, i quali progettano una divisione dello spazio tale da rendere impossibile la fuga agli internati e da facilitare il controllo reciproco di sorveglianti o carnefici (v. Sofsky, 1993). Celle, segrete e camerate consentono di porre in primo piano la pura corporeità degli offensori e delle loro vittime. Anche nella vita quotidiana gli spazi chiusi, male illuminati e poco frequentati (come i parcheggi multilivello, le stazioni della metropolitana, i parchi pubblici o i sottopassaggi) sono i luoghi in cui hanno maggiore probabilità di verificarsi atti di violenza. Luoghi di scontri violenti di tutt'altro tipo sono gli stadi e le arene in cui si svolgono partite di calcio, incontri di pugilato o corride. La loro struttura spaziale è concepita in funzione di terzi, gli spettatori, che assistono a combattimenti disciplinati da regole come forma di svago e di intrattenimento. La violenza che si osserva in questi e in altri luoghi simili ha il carattere di 'violenza socializzante', in quanto prevede un coinvolgimento degli spettatori, come accade ad esempio nei concerti di hard rock (v. Inhetveen, 1997).
Per quanto riguarda l'aspetto istituzionale, occorre chiedersi quando e in quali situazioni sociali la violenza è un fenomeno ricorrente e va quindi considerata come un'istituzione sociale. Nella cultura maschile la violenza è un modello di comportamento tipico quando, ad esempio, il passaggio da una sfera di vita a un'altra si compie in forma rituale. Nei riti di iniziazione, quali sono praticati nei collegi, nell'esercito o nelle organizzazioni criminali, i novizi devono dimostrare la loro capacità di sopportare il dolore fisico e di procurarlo agli altri. La violenza, inoltre, è un fenomeno ricorrente in situazioni anomiche, in cui si ha un momentaneo allentamento dei vincoli morali. Così in molte società certe feste e celebrazioni sono regolarmente occasione di scontri e tumulti violenti. Catastrofi di vario tipo favoriscono inoltre il superamento della soglia della violenza. In situazioni di guerra interna o esterna, di minaccia terroristica o di conflitti intestini che assumono i caratteri di una guerra civile la violenza diventa uno strumento di affermazione anche nella vita quotidiana. Alla base della quotidianizzazione della violenza in tempi di pace ufficiale vi sono lenti processi nel corso dei quali la violenza reciproca diventa gradatamente un fatto naturale e l'indifferenza nei confronti della sofferenza altrui diventa un atteggiamento diffuso ovunque. Nei paesi lacerati per lungo tempo da conflitti intestini, come ad esempio l'Irlanda del Nord o i Paesi Baschi, la violenza fa parte della vita quotidiana e domina l'esistenza sin dalla nascita. In alcuni paesi del Sudamerica, come ad esempio la Colombia, fenomeni come i sequestri lampo, le aggressioni a scopo di rapina e le effrazioni sono all'ordine del giorno (v. Waldmann, 1995). Gli effetti di questa quotidianizzazione della violenza non investono solo gli offensori, ma anche le potenziali vittime e i terzi, impotenti nel loro ruolo di controllori della violenza.
Il problema delle forme e delle dinamiche della violenza va discusso alla luce della circostanza paradossale per cui la violenza può essere combattuta solo con la violenza. La monopolizzazione statale e la privatizzazione della violenza sono quindi due fenomeni strettamente interdipendenti. Quanto più lo Stato riesce ad affermare il suo monopolio dei mezzi legittimi di coercizione, tanto più l'esercizio della violenza da parte di attori non istituzionali assume i caratteri della criminalità e della segretezza. Il controllo della violenza da parte dello Stato non solo produce forme private di violenza, ma sollecita anche, via via che il suo monopolio si accresce, l'invenzione di forme di controviolenza nei confronti dei suoi organi esecutivi, in particolare le forze dell'ordine. Si pensi a questo proposito alle tecniche della dimostrazione, che mirano a portare la sfida sul terreno della resistenza non violenta. Oppositori dell'energia nucleare, ambientalisti e pacifisti mettono in atto forme di resistenza non violenta sfidando la polizia ad adottare contromisure dall'apparenza arcaica. Gli scudi, gli elmetti e le uniformi imbottite con cui sono equipaggiate le forze dell'ordine quando fronteggiano i dimostranti ricordano le armature medievali. Anche i metodi e le strategie adottate dalla polizia, ad esempio trascinare via o slegare i dimostranti che si sono incatenati, o il ricorso ad astute tattiche di isolamento e di attacco a sorpresa, richiamano forme di combattimento premoderne. Questo tipo di strumenti e di strategie adottate dalle forze dell'ordine illustra la circostanza paradossale per cui lo Stato, nonostante disponga dei più efficaci mezzi di offesa, non li può sfruttare pienamente se non vuole oltrepassare i limiti della violenza legittima. Una situazione analoga si ha anche nel campo della politica estera in cui lo Stato, per salvaguardare la propria immagine e la legittimità delle sue azioni, si trova costretto a moderare l'uso della forza, anche se dispone di armamenti che gli consentirebbero di annientare il nemico in un colpo solo. Si pensi a questo proposito all'intifada palestinese, in cui donne e ragazzi affrontano l'esercito israeliano armati di pietre, costringendo l'avversario a rinunziare all'uso delle armi da fuoco e a servirsi di pallottole di gomma (v. Ezrahi, 1997). Quando lo Stato centrale non è in condizione di conservare il monopolio della forza, si sviluppano forme sempre nuove di violenza non controllata dallo Stato (v. von Trotha, 1995). Le cause strutturali di questo fatto sono molteplici. Le più note sono il crescente impoverimento delle città, l'accresciuta eterogeneità culturale ed etnica della popolazione e il consolidarsi di sottoculture in cui dominano norme e valori di dignità e onore difficilmente conciliabili con la norma statale dell'astensione dall'uso della violenza. Anche gli Stati che dispongono di sufficienti risorse difensive si trovano impotenti di fronte agli attacchi terroristici. Il risvolto paradossale di questo sviluppo è la crescente diffusione dei controlli e delle perquisizioni fisiche quando si attraversano le frontiere, in occasione di grandi manifestazioni o quando si accede a determinati edifici. Nonostante la tecnologizzazione della lotta alla violenza terroristica da parte dello Stato moderno, il problema contemporaneo della violenza si riduce alla corporeità dell'individuo singolo come portatore potenziale di violenza.
Nei vuoti lasciati dall'allentarsi del monopolio statale della violenza si insinua un mercato privato in cui si possono comprare servizi per la sicurezza e l'uso strumentale della violenza. Accanto a esso si diffonde un mercato di video clandestini e proliferano siti Internet destinati a soddisfare i gusti violenti del pubblico. Le ineguaglianze sociali si manifestano in misura crescente anche come ineguaglianze in rapporto alle opportunità di scampare alla violenza, di esercitarla strumentalmente e di goderne quale oggetto di consumo attraverso i media. L'opportunità di ricorrere alla violenza è un privilegio che si aggiunge ad altri privilegi di tipo economico, culturale e politico. D'altro canto sono proprio le categorie privilegiate i principali bersagli di ricatti, sequestri di persona, ecc.Secondo il parere degli esperti, il crescente sviluppo e la diffusione delle armi atomiche, biologiche e chimiche offrono praticamente a chiunque la possibilità di annientare gli altri (v. Heepe, 1997, p. 219). Come dimostrerebbero gli attentati con il gas nervino sarin compiuti di recente in Giappone dalla setta Aum, il rischio di un 'terrorismo biologico' sarebbe considerevolmente aumentato, e con ciò il monopolio statale dei mezzi di offesa si sarebbe ulteriormente indebolito (v. Sohns, 1997). Non è affatto detto che con questo recente sviluppo nell'ambito delle armi atomiche, biologiche e chimiche i sogni di violenza e le fantasie distruttive dell'uomo si siano esauriti. Potrebbero trovare qui una conferma i sostenitori della cosiddetta tesi dell'annullamento dei limiti, avanzata da Heinrich Popitz (v., 1986; tr. it., p. 70), secondo cui "l'essere umano non è mai costretto ad agire violentemente, ma può sempre farlo, non è mai costretto ad uccidere, ma può sempre farlo - singolarmente o collettivamente, assieme o suddividendo il lavoro, in tutte le situazioni, lottando o celebrando festività, in diverse condizioni di spirito, con rabbia, senza rabbia, con piacere, senza piacere, urlando o tacendo (un silenzio di morte) - per tutti gli scopi immaginabili, chiunque".Alla luce di questa tesi dell'annullamento dei limiti nei rapporti di violenza, alla ricerca empirica resta il compito di studiare le condizioni in cui gli uomini rinunciano a dar libero corso alle loro fantasie di violenza, e si astengono dall'impiego di un massimale di mezzi di offesa, anche se tecnicamente ciò sarebbe possibile in ogni momento, optando per una limitazione dell'uso della forza. (V. anche Aggressivo, comportamento; Devianza).
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di Luciano Pellicani
1. L'onnipresenza della violenza
Nelle Weltgeschichtliche Betrachtungen di Jacob Burckhardt si legge che "il male è uno degli elementi dell'economia universale" e che "esso appare sotto l'aspetto della violenza e del diritto del più forte". In effetti, è ormai cosa accertata che "già durante l'Età della pietra, e in tutti i suoi periodi, gli uomini uccidevano i loro simili" (v. Eibl-Eibesfeldt, 1975; tr. it., p. 133). Il che costituisce una puntuale conferma della celebre tesi di Hegel, secondo la quale la storia dell'umanità è stata, dall'inizio e sempre, un "gigantesco mattatoio". Ma è stata anche la storia degli sforzi compiuti dagli uomini per convivere pacificamente e cooperare tenendo sotto controllo la violenza. Al riguardo, è particolarmente istruttiva l'analisi della pratica del dono compiuta da Marshall Sahlins. Leggendo il famoso saggio sul dono di Marcel Mauss alla luce della filosofia di Thomas Hobbes, Sahlins giunge alla conclusione che l'infrastruttura della società è la guerra, non già la pace. La guerra, nel senso specificato da Hobbes - vale a dire non il ricorso effettivo alla violenza, bensì la "disposizione verso di essa che sia conosciuta e in cui, durante tutto il tempo, non si dia assicurazione del contrario" (Leviatano, cap. 13) -, è ciò da cui si deve partire, se si vuole intendere la funzione sociale della pratica del dono nelle società primitive. Il dono è l'istituzione centrale in tali società precisamente in quanto, grazie a essa, viene tenuta lontana la minaccia del bellum omnium contra omnes. Tutto accade come se gli uomini, consapevoli del fatto che l'ordine sociale è permanentemente minacciato di crollo, si prodighino per tenere sotto controllo la loro aggressività e per alimentare, attraverso lo scambio di doni, una disposizione favorevole alla convivenza pacifica e alla cooperazione. Pertanto, lo scambio di doni, non già lo scambio economico, è la base su cui si appoggia la società tribale. Esso è l'anti-violenza e, come tale, è il trionfo della razionalità umana sulla follia della guerra. Da esso dipende la pace. Questa, oltre a essere estremamente fragile, è un risultato, laddove la guerra di tutti contro tutti è la condizione originaria e naturale. Una condizione che, per l'appunto, viene trascesa attraverso la pratica del dono, talché si può dire che gli scambi di doni sono guerre risolte pacificamente e le guerre il risultato di transazioni fallite.
Non è un caso, quindi, che quando si esamina il pensiero mitico la prima cosa che emerge è che in esso la violenza in tutte le sue forme occupa un posto di primo piano. Nelle mitologie primitive le principali divinità conquistano la supremazia grazie a battaglie favolose nel corso delle quali arrivano ad annientare ora altre divinità antagoniste, ora armate di giganti, di geni o di angeli ribelli. Spesso, l'evento fondatore dell'ordine politico è un fratricidio. Nell'Antico Testamento come nei miti greci, i fratelli sono, non di rado, mortalmente nemici l'uno dell'altro; il che ha portato René Girard ad avanzare una tesi estremamente radicale, cioè che l'istituzione che mantiene coesa una società, allontanando da essa lo spettro della guerra intestina, è il sacrificio rituale.
La comunità, attraverso l'immolazione di un capro espiatorio, cerca di stornare verso una vittima innocente la violenza, di modo che questa non distrugga la solidarietà tribale. Quali che siano gli specifici riti attraverso i quali si compiono i sacrifici umani, questi hanno un denominatore comune: la violenza intestina, la guerra di tutti contro tutti. Sono le gelosie, i dissensi, le rivalità tra i 'fratelli' che il sacrificio rituale cerca di eliminare; è l'armonia della comunità che esso in qualche modo restaura; è l'unità sociale che esso rinforza. E lo deve fare periodicamente, poiché la società si trova permanentemente sull'orlo della guerra intestina. In quest'ottica, la violenza contenuta nei miti come quella contenuta nei riti che li attualizzano risulta essere un mezzo per mantenere la pace. Girard, dando una personale interpretazione della teoria freudiana del parricidio quale evento genetico della civiltà, arriva a sostenere che il religioso ha per oggetto il meccanismo del capro espiatorio: la sua funzione è quella di perpetuare o di rinnovare gli effetti di questo meccanismo, di mantenere, cioè, la violenza al di fuori della comunità. È, dunque, una funzione sacra, nel senso che solo grazie a essa la società può evitare di precipitare nel caos e nella guerra fratricida. In breve, la produzione del sacro è una funzione strettamente legata alla onnipresenza della violenza potenziale, la quale in qualsiasi momento può diventare attuale e scatenarsi in forme selvagge.
2. La società primitiva come società per la guerra
I doni e i sacrifici rituali sono le pratiche, minuziosamente codificate e rigorosamente obbligatorie, attraverso le quali le società primitive tengono a distanza lo spettro della violenza intestina. Tali pratiche, peraltro, non sono sufficienti a garantire l'armonia interna; accanto a esse, e con la stessa funzione, troviamo la guerra intertribale. Questa, quanto meno, è la tesi sviluppata da Pierre Clastres, il quale ha sostenuto con particolare forza l'idea che non si può giungere a una valida teoria generale delle società primitive se si prescinde dal posto che in esse occupa la guerra. Ogni comunità primitiva si pensa come una totalità compatta che si contrappone a un'altra totalità compatta; e questo contrapporsi tende a sfociare nella guerra, cioè nell'uso organizzato, sistematico e collettivo della violenza contro il nemico. Qui, secondo Clastres, emerge il limite insuperabile della pratica del dono. Il desiderio di amicizia universale, che si manifesta attraverso lo scambio generalizzato, è in aperto conflitto con il bisogno che ogni comunità ha di preservarsi come unità distinta. Per questo la società primitiva non solo oppone un energico rifiuto ad abbattere le barriere che la separano dalle altre, ma, per esistere e per preservare la sua identità, ha bisogno del nemico. La conclusione cui perviene Clastres è che la violenza è un processo immanente del modo d'essere sociale primitivo e che la guerra, lungi dall'essere uno scacco accidentale, frutto di un mancato scambio di doni, è un elemento costitutivo della società tribale; anzi, è la sua struttura generativa in quanto è grazie alla guerra che la solidarietà tribale viene periodicamente alimentata. E questo non accade a motivo di una vis naturale, biologica, bensì a motivo di una scelta culturale. La società primitiva è un sistema di istituzioni e non già di istinti; e una delle sue istituzioni fondamentali è la guerra come generatrice della solidarietà interna, grazie alla quale la violenza è dirottata verso l'esterno. Insomma, la guerra è lo strumento che permette di avere la pace interna, e ciò significa che l'uomo non può sfuggire alla violenza: è condannato a scegliere fra la guerra intratribale e la guerra intertribale.
Se è vero che la società primitiva è una 'società per la guerra', è altresì vero che è una società nella quale non è dato trovare quella che è l'istituzione-cardine delle società complesse: la concentrazione degli strumenti di coercizione nelle mani di una minoranza organizzata. Le società primitive sono state definite società senza Stato proprio in quanto in esse manca la separazione fra gli armati e gli inermi. Ma, a giudizio di Clastres, sarebbe più giusto definirle 'società contro lo Stato', nel senso che esse sono organizzate per impedire che nel loro seno si formi un gruppo di uomini che, grazie al controllo monopolistico dei mezzi di coercizione, imponga la sua volontà agli altri. Si tratta di società dominate da una preoccupazione costante: fare in modo che i capi siano al servizio della tribù e non già la tribù al servizio dei capi. In esse non esiste la separazione fra governati e governanti, poiché i capi non hanno a disposizione un gruppo di armati, pronti a eseguire automaticamente e disciplinatamente i loro ordini. Diventando capo, un uomo può solo soddisfare il suo desiderio di prestigio, non già il suo desiderio di potere. Il potere politico è tale solo se chi lo esercita dispone di adeguati mezzi di coercizione. Ma dal momento che tutti i membri maschi di una società primitiva sono armati, nessuno può esercitare il potere politico propriamente detto. Tutt'al più, un individuo particolare dotato e ambizioso può esercitare una leadership temporanea e condizionata, la quale, proprio perché tale, non può minacciare né tanto meno somministrare sanzioni. Sicché si può dire che, mentre la storia delle società complesse è la storia delle lotte di classe, la storia delle società primitive è la storia delle lotte contro lo Stato.
3. L'istituzionalizzazione del monopolio della violenza
Per millenni gli uomini sono vissuti in piccole comunità acefale e poco o punto gerarchizzate proprio grazie ai meccanismi ideati per impedire sia l'accumulazione della ricchezza che l'accumulazione del potere. Ma intorno al 3500 a.C., una serie di trasformazioni strutturali fece emergere nella 'terra fra i due fiumi' - la Mesopotamia - un'istituzione senza precedenti: lo Stato, macchina di dominio controllata da una minoranza organizzata, pronta a usare la violenza per piegare alla sua volontà la massa non organizzata. Fra le tante teorie elaborate per dare ragione di quello che, molto probabilmente, è stato l'evento più gravido di conseguenze dell'intera storia dell'umanità, la più convincente è quella proposta dall'etnologo Robert Carneiro. Egli parte dalla constatazione che il materiale probatorio fornito dagli archeologi e dagli storici indica chiaramente come nel processo genetico delle prime grandi civiltà - la Mesopotamia, l'Egitto, l'India, la Cina, ecc. - il ruolo della guerra sia stato così decisivo da legittimare la conclusione che Auguste Comte, Herbert Spencer, Ludwik Gumplowicz e Franz Oppenheimer avevano visto giusto nel collegare strettamente la nascita dello Stato alla conquista. Ma, osserva Carneiro, sebbene la guerra sia stata sicuramente il push factor del processo storico che è sfociato nella nascita dello Stato, essa non ha potuto costituirne l'unico fattore. Lo dimostra il fatto che la guerra tribale, pur essendo stata un fenomeno permanente, in tante parti del mondo non ha generato forme di organizzazione sociale basate sul monopolio della violenza. Ora, una volta che si esaminano con attenzione le aree del mondo nelle quali è emerso per cause endogene lo Stato (le valli del Nilo, del Tigri e dell'Eufrate, dell'Indo, ecc.), risalta chiaramente che esse presentano una caratteristica in comune: sono tutte aree circondate da montagne o da mari o da deserti, nelle quali la terra coltivabile è circoscritta e non esiste alcuna possibilità di fuga. Il logico risultato di una siffatta situazione fu che la guerra offriva ai vincitori non solo l'opportunità di impossessarsi della terra coltivabile, ma anche di assoggettare i vinti. Se questi ultimi non venivano sterminati, diventavano servi dei vincitori. Ed è appunto questo lo Stato: il dominio, basato sulla coercizione fisica, del piccolo numero sul grande numero. Il primo - per riprendere l'efficace formula di Voltaire - "governa il secondo, lo fa lavorare e ne è nutrito". In altri termini, la civiltà si basa sul lavoro servile e questo è nato a partire dal momento in cui una tribù vittoriosa ha trasformato i vinti in strumenti di produzione.
Con la nascita dello Stato inizia la storia delle civiltà, ossia la storia delle società autocefale e fortemente gerarchizzate, nelle quali la vita sociale è sottoposta al controllo di una minoranza organizzata che detiene il monopolio della violenza e che ha esonerato se stessa da ogni forma di lavoro produttivo. Ora, dal momento che la nascita dello Stato ha introdotto la subordinazione dei molti - gli inermi - ai pochi - gli armati -, si può ben dire che ciò che ha caratterizzato la genesi e lo sviluppo di tutte le civiltà è stato il fenomeno della discesa dalla libertà alla schiavitù. Le conoscenze etnologiche e storiche di cui oggi disponiamo ci dicono che la transizione dalla società primitiva alla società incivilita ha significato, ovunque essa si è verificata, il passaggio dalla società senza Stato alla società organizzata su base statuale; e che questa è stata, fondamentalmente, l'istituzionalizzazione della schiavitù. Con il monopolio della violenza, infatti, è sorto un ordine coercitivo collettivo, caratterizzato non solo dal controllo monopolistico dei mezzi di coercizione, ma anche dal controllo monopolistico degli strumenti della produzione materiale e di quelli della produzione simbolica, accompagnato dallo stato servile dei produttori diretti e dal loro sistematico sfruttamento. Pertanto, contrariamente a quello che sostenne Friedrich Engels nella sua celebre polemica contro Eugen Dühring, non è stata la proprietà privata a generare le classi e lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, bensì lo Stato in quanto violenza pianificata. Il che significa che il politico precede l'economico e lo spiega. Del resto, è altamente significativo che, quando Marx cercò di fornire una spiegazione della genesi del capitalismo, fu costretto a riconoscere il primato dei fattori politici sui fattori economici, sostenendo che l'accumulazione primitiva del capitale era stata fomentata dall'intervento violento dello Stato, grazie al quale i contadini erano stati espropriati dei mezzi di produzione e degradati al rango di lavoratori salariati, condannati, per sopravvivere, a vendere sul mercato la loro forza lavoro.
4. La nascita della 'megamacchina'
Che la violenza politica sia all'origine del processo di formazione delle prime civiltà è confermato dalla teoria delle società idrauliche elaborata da Karl A. Wittfogel. A dire il vero Wittfogel, sotto l'influenza del materialismo storico, ha privilegiato le variabili economiche rispetto a quelle politiche. La sua teoria, a rigore, altro non è che lo sviluppo dell'ipotesi, formulata per la prima volta da Engels e accolta da Marx, secondo la quale il cosiddetto "modo di produzione asiatico" era scaturito dalla impellente esigenza di garantire, in regioni caratterizzate dalla presenza di vaste aree desertiche e di giganteschi fiumi, lo sfruttamento economico delle risorse idriche. Ciò, a giudizio di Wittfogel, poté avvenire solo attribuendo allo Stato le funzioni di imprenditore generale della irrigazione pianificata delle valli fluviali. Ma è poco plausibile che ci sia stato un momento in cui i coltivatori si siano resi conto che sarebbe stato vantaggioso per tutti trascendere l'organizzazione tribale e unire le loro forze in una sola grande organizzazione, capace di eseguire opere di irrigazione su vasta scala, e che, da tale loro decisione, sia poi scaturito il corpo di funzionari separato dai produttori diretti, il quale, accumulando progressivamente potere, si sia trasformato in un onnipotente apparato burocratico-manageriale. Alla luce della teoria di Carneiro, appare più logico ritenere che il processo di aggregazione dei villaggi ebbe un carattere violento e che, nella sua prima fase, altro non fu che il dominio permanente della tribù vittoriosa sulle tribù vinte.
Non più convincente di quella di Wittfogel risulta essere la teoria della "rivoluzione urbana" proposta da Gordon Childe, secondo la quale la formazione delle prime grandi civiltà sarebbe stata la fase culminante della "rivoluzione agricola". Polemizzando vivacemente con essa, Lewis Mumford ha sottolineato con particolare vigore il ruolo che ebbe la scoperta delle possibilità di un nuovo tipo di organizzazione sociale, capace di sfruttare più a fondo le potenzialità umane e di provocare mutamenti in ogni aspetto dell'esistenza, mutamenti che le piccole comunità del Neolitico non potevano neanche immaginare. Decisiva, a giudizio di Mumford, fu l'invenzione della 'macchina invisibile', simile a una gigantesca piramide, al cui vertice si trovava il despota divinizzato, padrone assoluto della vita e dei beni dei suoi sudditi. La storia, come documentano due famose tavolette egizie, incomincia nel momento in cui il capo cacciatore paleolitico da primus inter pares si trasforma nel sovrano che, grazie al controllo della forza armata, accentra nella propria persona tutti i poteri. È la forza armata che permette al sovrano di riorganizzare la totalità dell'esistenza dei sudditi, costringendoli a produrre quelle eccedenze di beni indispensabili per mantenere una casta sacerdotale e una burocrazia e per costruire le città, i palazzi e le grandi opere pubbliche. La macchina militare è stata dunque il nucleo originario della 'macchina da lavoro' e questa, sviluppandosi, ha fatto emergere la 'megamacchina'. In effetti, le prime grandi civiltà dell'Oriente sono state, fondamentalmente, civiltà burocratiche, create e dirette da un corpo di funzionari e caratterizzate dalla totale subordinazione dei sudditi alla volontà insindacabile del sovrano divinizzato. Mumford sottolinea il fatto che, per garantire l'esecuzione degli ordini regi lungo tutta la cinghia di trasmissione umana, la quale spesso operava a grande distanza dal Palazzo, sede del potere sovrano, la megamacchina aveva bisogno di un conformismo totale e di una disposizione all'obbedienza automatica. A ciò la megamacchina giunse non solo utilizzando spietatamente la violenza contro i refrattari, ma anche facendo ricorso a vari mezzi simbolici e pratici, primo fra i quali la creazione di una distanza psicologica insormontabile fra il re e i suoi sudditi. La persona del sovrano fu divinizzata e tutti coloro che erano ammessi al suo cospetto erano tenuti a prostrarsi, segno tangibile del fatto che ormai essi erano strumenti a disposizione del loro padrone. Così gli esseri umani furono trasformati in automi viventi che, inseriti nella mastodontica 'macchina invisibile', produssero quelle ciclopiche costruzioni - le piramidi, la Grande Muraglia, ecc. - che ancora oggi suscitano ammirazione e stupore. Esse, per altro, testimoniano con la loro muta eloquenza che la 'macchina da guerra' e la 'macchina da lavoro', saldandosi, crearono il sistema di schiavitù generale di Stato che i Greci chiamavano dispotismo.
Nato dalla guerra e grazie alla guerra, lo Stato, anche quando ha assunto le caratteristiche di imprenditore generale delle acque, ha continuato a operare come una macchina da guerra, votata alla conquista di altri territori e all'assoggettamento di altri popoli. Inoltre, non di rado ha assunto le sembianze dello Stato criminale; il che è avvenuto quando ha utilizzato la sua macchina militare per compiere veri e propri genocidi. La pratica dei massacri era abituale nell'antichità. L'Antico Testamento, al riguardo, fornisce una documentazione impressionante, e ancor più impressionante è il fatto che i genocidi compiuti dallo Stato di Israele vengono presentati come ordinati da Yahweh. Non diversa è la logica che domina le vicende politiche che si svolgono nella Mezzaluna Fertile. La guerra di sterminio vi domina incontrastata ed è esaltata quale doverosa glorificazione dello Stato divinizzato. In Grecia esisteva una sorta di diritto delle genti volto a rendere meno spietata la guerra. Ciò non di meno, in occasione della guerra civile del Peloponneso il diritto delle genti venne calpestato. La guerra assunse un carattere nuovo: diventò guerra di annientamento e la violenza si scatenò in forme selvagge. La Repubblica romana non fu meno spietata delle poleis greche. Ove il realismo politico suggeriva di farlo, essa non esitava a condurre guerre di annientamento, la più celebre delle quali fu quella che si concluse con la distruzione di Cartagine. Non diversamente le cose si svolgevano, di regola, nell'area della civiltà indiana e in quella della civiltà cinese. Nella prima, spiccano per la loro spietatezza i metodi adoperati dai Turchi, che a ondate successive, a partire dall'XI secolo d.C. calarono nel subcontinente indiano inondandolo di sangue. Ancora più spietati, se possibile, i metodi adoperati dai Mongoli quando superarono la Grande Muraglia. Non concependo altra forma di vita che quella tipica della steppa, essi pianificarono l'annientamento delle popolazioni sulle quali si riversarono. Prima della instaurazione della famosa pax mongolica, la storia di Genghiz khān e dei suoi diadochi non è che un monotono catalogo di massacri, saccheggi e deportazioni, cui seguono puntualmente la distruzione delle città e la desertificazione delle terre coltivate. Ma, molto probabilmente, il culmine della guerra come massacro indiscriminato si ebbe con Tamerlano, che con la sua sadica sete di sangue si conquistò la fama di 'genio della distruzione'.
Gli Europei hanno bollato come barbari sanguinari i costruttori degli imperi delle steppe, ma non si sono comportati diversamente quando hanno esteso il loro dominio sul Nuovo Mondo. La spietatezza con la quale il Messico fu conquistato fu tale da indurre Tzvetan Todorov a scrivere che gli Spagnoli sostituirono la "società del sacrificio" con la "società del massacro". Nel XVI secolo i conquistadores si comportarono come se obbedissero alla regola del 'tutto è permesso': lontani dal potere centrale e liberati da ogni forma di controllo sociale, essi trattarono gli indigeni come animali che potevano essere abbattuti senza alcun rimorso e li sottoposero a un regime di sfruttamento centrato sull'uso terroristico della violenza. In tal modo, apparve sulla scena un nuovo tipo di violenza: la violenza coloniale, basata sull'assunto che i colonizzatori, essendo i rappresentanti di una civiltà di rango superiore, avevano il diritto di disporre a piacimento della vita degli indigeni. Non può sorprendere più di tanto che la pratica della violenza coloniale abbia suscitato l'apologia della controviolenza coloniale.
Gli esempi ricordati rappresentano casi estremi, ancorché tutt'altro che infrequenti. Di regola, i dominatori non hanno avuto bisogno di ricorrere a un uso massiccio della violenza; è stata sufficiente la minaccia della stessa per ottenere la pronta e automatica obbedienza dei dominati. E questo perché i rapporti fra lo Stato e i suoi sudditi sono stati regolati da quella che Carl J. Friedrich ha chiamato la "legge delle reazioni previste". Così la violenza di massa è stata sostituita dalla violenza esemplare. Le punizioni erano spietate proprio in quanto avevano una funzione di intimidazione. Erano strumenti 'pedagogici', utilizzati per indurre i dominati ad accettare docilmente la loro condizione servile. Negli Stati dispotici alla 'pedagogia della violenza' erano assoggettati anche i membri della classe dominante. Un errore o un insuccesso era più che sufficiente perché un ministro o un generale fosse messo a morte. Non di rado il despota, per liberarsi di ogni tipo di controllo, sterminava le élites del potere. Due esempi per tutti: il fondatore della dinastia Ming, Chu Yüanchang, fece giustiziare ben 15 mila mandarini e Ivan il Terribile annientò i boiari e li sostituì con una coorte di docili servitori reclutati fra la plebe. Giustamente, perciò, nella famosa tipologia dei regimi politici di Montesquieu il dispotismo viene associato alla paura. Ciò che lo caratterizza, in effetti, è l'imprevedibilità dell'uso della violenza, il cui fine è la totale subordinazione dei sudditi alla volontà del despota. Di qui un fenomeno tipico delle società rette da regimi dispotici: l'ipersfruttamento. Il 'gregge' - la massa dei sudditi - non solo era tosato metodicamente ma era anche tenuto in uno stato di indigenza permanente, e in molti casi lo era intenzionalmente. Al riguardo, la lettura del Libro del Signore di Shang, scritto dal legista Wei Yang, è particolarmente istruttiva. In esso si teorizza a chiare lettere che lo Stato, oltre a usare nel modo più spietato la violenza per garantire l'ordine, deve impedire con tutti i mezzi a disposizione la crescita della ricchezza, poiché un popolo opulento è un popolo esigente e, come tale, indocile. Non diversa era la pratica dei governi musulmani, i quali ricorrevano persino alla tortura per estorcere il surplus ai produttori diretti. La regola generale dei metodi amministrativi tipici del dār al-Islām era la seguente: il visir confiscava la proprietà dei governatori che cadevano in disgrazia, mentre i governatori avevano il diritto di appropriarsi dei beni degli ufficiali inferiori e dei privati cittadini. Pertanto, Bertrand de Jouvenel si sbagliava quando affermava che nel potere c'era una naturale vocazione a consolidarsi stimolando la prosperità della società. La verità è un'altra, e precisamente che quasi sempre lo Stato non solo è stato un vorace parassita, ma anche l'istituzione che ha costretto la società a rimanere nel pantano della stagnazione economica, scientifica e tecnologica. Detto con le parole di Voltaire, "in tutto l'universo l'amministrazione pubblica è stata spesso un latrocinio autorizzato, salvo alcuni Stati repubblicani, presso i quali i diritti della libertà e della proprietà sono stati sacri" (Essai sur les mœurs et l'esprit des nations, 1756).
Non sorprende, pertanto, che la 'pedagogia della violenza' non sia stata sufficiente a garantire la totale docilità dei sudditi. Non di rado l'esasperazione delle masse contadine, in Cina come in Europa, in Giappone come in Russia, è esplosa in devastanti rivolte che hanno scosso dalle fondamenta il sistema di dominio al quale erano assoggettate. Del resto, l'unica arma a disposizione delle vittime della violenza di Stato era la violenza contro lo Stato. La quale, per altro, solo raramente è stata in grado di spezzare lo spietato meccanismo di sfruttamento creato dalle élites del potere.
6. Le funzioni della violenza politica
Che lo Stato sia, secondo la celebre definizione datane da Max Weber (v., 1922; tr. it., vol. I, p. 209), l'istituzione che rivendica con successo il monopolio della violenza non significa che il suo potere si basi esclusivamente sulla violenza. Lo stesso Weber ha attirato l'attenzione sul fatto che, se è vero che "un potere può essere assicurato in modo così assoluto dalla evidente comunità di interessi tra il signore e il suo apparato amministrativo nei confronti dei sudditi, e dalla mancanza di difesa di questi, che esso può fare a meno della pretesa di legittimità", è altresì vero che ogni potere cerca di suscitare e di coltivare la fede nella propria legittimità. Tale fede è di fondamentale importanza per il consolidamento del potere, poiché essa genera una spontanea e diffusa disposizione dei governati a obbedire ai governanti. Allora il potere si converte in autorità e la forza in diritto. Accade così che là dove impera un principio di legittimità lo Stato, pur rimanendo al fondo una macchina di violenza, cessa di essere percepito come puro dominio e viene vissuto come l'istituzione grazie alla quale l'ordine e la pace sono garantiti nel quadro di valori e norme largamente condivisi. Ciò ha come immediata conseguenza che il potere non ha bisogno, per essere obbedito, di mostrare il suo volto repressivo. Si può quindi dire che la storia del potere politico non è solo la storia delle sue manifestazioni violente; è anche la storia della produzione dei simboli attraverso cui esso è riuscito a legittimarsi inculcando nei sudditi la credenza nella sua natura divina o semidivina. Ed è anche la storia di una istituzione che ha svolto funzioni di vitale importanza per la società. Questa, a partire dal momento in cui la divisione del lavoro ha raggiunto un certo grado di sviluppo, non può fare a meno di un corpo di funzionari incaricato di garantire il rispetto delle norme e la pace interna. Mentre in una società primitiva istituzioni quali il controllo sociale, il dono e il sacrificio rituale sono in grado di garantire la pace interna, in una società complessa e altamente differenziata lo spettro della guerra intestina può essere allontanato solo se esiste un'agenzia deputata a reprimere con la forza i comportamenti antisociali. Questa agenzia è lo Stato. Simile a Giano, esso ha due volti: quello dell'oppressore e quello del defensor pacis. Lo Stato, pertanto, è l'anti-libertà; ma è anche l'anti-anarchia. E l'anarchia, vale a dire il bellum omnium contra omnes, è il male supremo di fronte al quale tutti gli altri mali impallidiscono. Ciò ha portato Guglielmo Ferrero a sostenere che la paura della guerra civile è la ragione profonda del più stupefacente fenomeno della storia della civiltà: la pronta e automatica obbedienza di milioni di uomini agli ordini di pochi. Questi ultimi sono obbediti non solo perché dispongono del monopolio della violenza, ma anche perché proteggono la società dal caos. La società non è mai quello che il suo nome suggerisce: nel suo seno troviamo non solo comportamenti cooperativi ma anche comportamenti antisociali, e questi possono essere tenuti sotto controllo solo attraverso la minaccia dell'uso della violenza. Tanto è vero che, anche quando una rivolta popolare rovescia le élites del potere, il risultato non è una società affrancata dal dominio, bensì una nuova forma di dominio, che può risultare persino più spietata di quella abbattuta.
A ciò si deve aggiungere che lo Stato non è solo il garante dell'ordine interno, ma è anche l'istituzione che protegge la società dai nemici esterni. Una società senza un adeguato apparato militare è una società inerme di fronte agli aggressori. Sicché anche una società a forte vocazione pacifista non può fare a meno dello Stato, sempre che voglia preservare la propria identità politica e il diritto all'autodeterminazione. Può senz'altro ospitare nel suo seno religioni ireniche, ma non può adottarne i principî. E questo perché, fino a quando l'umanità vivrà divisa in una molteplicità di unità politiche che non riconoscono alcuna autorità a esse sovraordinata, il sistema delle relazioni internazionali sarà inevitabilmente caratterizzato dall'hobbesiano stato di natura, il quale impone di attenersi alla massima 'si vis pacem, para bellum'.
Mentre le civiltà orientali non sono riuscite a sottrarsi al dilemma 'dispotismo o anarchia', la civiltà occidentale è riuscita a creare quel complesso di meccanismi aventi come scopo il controllo dell'uso del monopolio della violenza legittima che va sotto il nome di Stato liberale.La soluzione liberale nasce dal rovesciamento del punto di vista tradizionale: anziché vedere il potere di comando ex parte principis, il liberalismo lo vede ex parte populi. Al centro della cultura liberale ci sono i diritti dei governati, i quali vengono concepiti come cittadini, titolari di un pacchetto di libertà che lo Stato deve riconoscere formalmente e tutelare materialmente. A tal fine, il liberalismo esige che lo Stato medesimo si sottometta all'imperio della legge e che eserciti il suo potere di comando rispettando scrupolosamente determinate regole. Lo Stato di diritto, pertanto, è tale solo nella misura in cui usa i suoi formidabili apparati coercitivi all'interno di un preciso quadro normativo. Laddove lo Stato di polizia è uno Stato nel quale l'autorità amministrativa può discrezionalmente prendere tutte le misure che, altrettanto discrezionalmente, giudica utili, lo Stato di diritto è una nomocrazia, nel senso che tutti i suoi atti devono, quanto meno in via di principio, essere conformi alle leggi. E le leggi, a loro volta, devono essere conformi alla legge delle leggi, vale a dire alla costituzione. Uno Stato senza costituzione è un potere sregolato che non riconosce i diritti dei cittadini. Per contro, in uno Stato di diritto neanche il legislatore - il parlamento - è legibus solutus. Il suo potere è sottoposto all'impersonale tribunale della costituzione, che è l'autorità suprema di fronte alla quale tutte le altre autorità devono cedere il passo. E questo perché il telos del costituzionalismo è la creazione di un sistema di garanzie poste a protezione dei diritti dei governati. Lo Stato costituzionale limita se stesso proprio in quanto riconosce che ci sono diritti previ che egli deve rispettare e promuovere. È, dunque, uno Stato posto al servizio della società, laddove lo Stato discrezionale considera la società al servizio dei suoi fini. Se è vero che anche in un regime costituzionale il governo continua a essere, secondo la celebre definizione di Marx, "violenza concentrata e organizzata", tale violenza non può essere usata in modo discrezionale e arbitrario.
La 'costituzionalizzazione' della violenza di Stato è scaturita da quella infinita teoria di conflitti di interessi e di valori che ha caratterizzato la storia della civiltà occidentale a partire dalla rivoluzione comunale, la quale fu l'inizio del grandioso e decisivo processo che va sotto il nome di nascita e sviluppo della società civile. E fu altresì l'inizio della storia della nuova classe che avrebbe plasmato l'Europa moderna: la borghesia. Infatti, la nascita della città autocefala rese possibile la formazione di uno spazio libero e protetto, dove i ceti produttivi poterono istituzionalizzare il gioco della catallassi e creare, a fronte dell'economia curtense dei territori rimasti sotto il controllo dell'aristocrazia militare, un'economia regolata dalla legge della domanda e dell'offerta, animata dalla ricerca metodica del profitto e sottoposta al dominio impersonale della ratio. Accadde così che, grazie alla loro ostinata lotta per la conquista delle franchigie, le classi subalterne riuscirono a creare le premesse istituzionali di quella che sarebbe diventata la moderna civiltà dei diritti e delle libertà. Fra queste premesse, di decisiva importanza fu l'istituzionalizzazione dei diritti di proprietà. Mentre in Oriente come in Russia il sovrano si considerava il padrone dei beni dei sudditi, che poteva tassare a discrezione e persino requisire senza indennizzo alcuno, nell'Europa occidentale, anche durante l'epoca del cosiddetto assolutismo, la proprietà privata era considerata 'sacra e inviolabile'. Naturalmente, fino a quando non si giunse alla rigorosa perimetrazione della giurisdizione potestativa dello Stato, i soprusi delle élites del potere furono innumerevoli. Ma furono altrettanto innumerevoli le resistenze che tali soprusi suscitarono, le quali non di rado sfociarono in vere e proprie rivolte armate tese a ottenere il riconoscimento e la protezione dei diritti pubblici soggettivi dei sudditi. Il più significativo episodio di questa lotta ininterrotta dello Stato con la società e della società con lo Stato fu la duplice rivoluzione che ebbe come teatro l'Inghilterra: la 'grande ribellione' del 1642 e la 'gloriosa rivoluzione' del 1688-1689. Con quest'ultima fu istituzionalizzato il primo governo parlamentare della storia sulla base dell'esplicito riconoscimento che l'esercizio del potere di coercizione dello Stato doveva essere regolato da leggi scritte, e che queste dovevano contemplare la tutela della vita, della persona e della proprietà dei governati. Tuttavia, si dovrà attendere la guerra di indipendenza delle colonie americane per avere la prima 'Dichiarazione dei diritti del cittadino', che fu quella della Virginia (1776), nella quale era contemplato anche il rivoluzionario diritto di "riformare, mutare o abolire" il governo qualora questo, a insindacabile giudizio del popolo, fosse risultato oppressivo.
Nel corso della Rivoluzione francese, il "diritto di resistenza all'oppressione", solennemente proclamato dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, si convertì nell'idea dell'assoluta illegittimità della violenza di Stato e dell'altrettanto assoluta legittimità della violenza rivoluzionaria, unica arma degli sfruttati per spezzare il gioco della borghesia. Formulata per la prima volta da Babeuf e Filippo Buonarroti, quest'idea fu inserita da Marx ed Engels in una grandiosa filosofia della storia, destinata a diventare la più potente arma spirituale dei movimenti rivoluzionari del XX secolo. Secondo Marx ed Engels, la storia è storia di lotta di classi la quale assume periodicamente le sembianze della guerra civile, che trasforma la società in un'arena militare dove si scontrano sfruttatori e sfruttati, oppressori e oppressi. La rivoluzione industriale, con le sue straordinarie capacità produttive, ha creato le condizioni materiali grazie alle quali l'umanità potrà finalmente entrare nel regno dell'abbondanza. La scena, pertanto, è pronta per ospitare la rivoluzione proletaria mondiale, che sarà l'ultima poiché sradicherà ogni forma di sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Il telos della rivoluzione comunista è l'abolizione dello Stato, dunque della violenza e della guerra, ma per raggiungerlo il proletariato deve scatenare l'"ultima guerra santa, alla quale seguirà il Regno millenario della libertà" (F. Engels, Schelling e la rivelazione, in K. Marx e F. Engels, Opere complete, Roma 1970 ss., vol. II, p. 238) poiché "nella storia non si ottiene nulla senza violenza e senza una ferrea spietatezza" (F. Engels, Il panslavismo democratico, in Opere complete, cit., vol. VIII, p. 373).
Hegel aveva teorizzato la funzione positiva della guerra, presentandola come lo strumento grazie al quale si realizzava provvidenzialmente il piano immanente alla storia universale. La guerra, nella sua filosofia, era una sorta di 'giudizio di Dio': il popolo vincitore aveva il diritto di dominare poiché incarnava, in una determinata epoca, lo Spirito del mondo, di fronte al quale gli altri popoli dovevano piegare la testa. Marx ed Engels accolgono lo schema provvidenzialistico della teodicea hegeliana, ma sostituiscono la violenza di Stato con la violenza rivoluzionaria, sicché possono affermare che la "rivoluzione è la forza motrice della storia" (K. Marx e F. Engels, L'ideologia tedesca, in Opere complete, cit., vol. V, p. 39). E possono altresì affermare che la storia, pur procedendo nel modo più violento e spietato, tende irresistibilmente ad approdare alla "società dei liberi e degli uguali", che sarà anche una società pacificata, finalmente liberata delle cattive passioni (l'avidità, la brama di dominio, ecc.) che hanno determinato la "colpevole caduta" dell'umanità dalle altezze morali della società primitiva alla società di classe, basata sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. La violenza rivoluzionaria, pertanto, è sacrosanta poiché è precisamente grazie a essa che il disegno impersonale della storia sarà portato a compimento e l'umanità potrà finalmente entrare nel Regno millenario della libertà.
A dispetto della enorme influenza esercitata dalle idee di Marx ed Engels, la teoria della violenza rivoluzionaria quale "locomotiva della storia" fu surrettiziamente messa da parte dai partiti della Seconda Internazionale. Neanche le celebri Riflessioni sulla violenza, nelle quali Georges Sorel sostenne che l'unica via di salvezza per il proletariato era quella della lotta armata, modificarono più di tanto la strategia attendista e pacifista della socialdemocrazia europea, di cui Karl Kautsky era il massimo teorico. Ma con la conquista del potere da parte dei bolscevichi, la teoria della violenza rivoluzionaria ritornò in auge. Per i bolscevichi, la rivoluzione era una dichiarazione di guerra all'ordine esistente; come tale, essa esigeva la militarizzazione del movimento proletario mondiale e la creazione di uno stato maggiore composto da rivoluzionari di professione, dediti anima e corpo alla causa dell'annientamento di tutte le forme di capitalismo. Conseguentemente, la lotta di classe doveva sfociare in una vera e propria guerra civile e questa, a sua volta, doveva portare all'instaurazione della dittatura rivoluzionaria dell'"avanguardia cosciente" del proletariato: il partito comunista. "À la guerre comme à la guerre": questo fu il motto con il quale Lenin sintetizzò la sua concezione della conquista e della gestione del potere. Una concezione che troviamo anche in Mao Zedong, il 'Clausewitz della guerra rivoluzionaria'. Nello schema leninista, saggiato con successo in Russia, l'epicentro della guerra rivoluzionaria è costituito dalla città, da dove, per tappe successive, il partito-esercito estende la sua presa sulle campagne. Viceversa nello schema maoista la guerra rivoluzionaria da centrifuga si fa centripeta: il partito-esercito parte dalle campagne e successivamente avanza verso la città. Resta comunque inalterato l'obiettivo strategico della guerra rivoluzionaria: l'annientamento del "nemico di classe", concepito come momento essenziale per giungere alla eliminazione del "mostro che fa sì che gli uomini si uccidano l'un l'altro". Il che significa che la guerra rivoluzionaria è l'"ultima guerra", la guerra che porrà fine a tutte le guerre e che inaugurerà l'"era della pace perpetua dell'umanità". Come tale, essa è una "guerra giusta"; anzi, è l'unica guerra giusta poiché ha innalzato la "bandiera della salvezza dell'umanità" (v. Mao Zedong, 1968, pp. 34-35).
Prima facie, la teoria comunista della guerra rivoluzionaria sembra essere una variante della teoria del bellum justum, ma non è così. La teoria comunista della guerra giusta è una legittimazione della guerra totale, avente come obiettivo l'annientamento del nemico assoluto. In essa c'è una insuperabile asimmetria morale fra il partito rivoluzionario e le forze sociali che esso combatte; il che fa della teoria della guerra rivoluzionaria una variante della visione gnostico-manichea dello scontro cosmico fra i figli della Luce e i figli della Tenebra, destinato a concludersi con la vittoria dei primi e l'instaurazione della Grande Armonia Universale. Ben più modesto è l'obiettivo che si pone la teoria del bellum justum, riemersa a seguito del crollo della grande illusione che aveva dominato la borghesia liberale nel XIX secolo, e cioè che il commercio internazionale avrebbe gradualmente reso obsoleto il ricorso alla guerra.La teoria del bellum justum intende definire quali sono le condizioni che possono giustificare il ricorso alla guerra e intende altresì definire i limiti e le regole che lo Stato che fa uso dello jus belli deve rispettare. Essa si contrappone alla teoria della guerra rivoluzionaria in quanto rifiuta l'idea stessa di guerra totale, avente come fine l'annientamento del nemico assoluto. E parimenti si contrappone all'idea, tipica della dottrina della Machtpolitik, che lo Stato abbia un insindacabile jus belli e che la guerra sia un fenomeno che sfugga a qualsivoglia trattamento normativo. Quest'ultimo punto di vista ha avuto in Carl Schmitt il suo più energico e autorevole sostenitore. Egli parte dall'idea che la specifica distinzione alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici è la distinzione di amico e nemico, e che essa trova la sua espressione più compiuta nella guerra. Ed è appunto lo jus belli ciò che definisce lo Stato, il quale è tale solo nella misura in cui ha la possibilità reale di determinare sovranamente il suo nemico e di combatterlo. Dal che discende che l'istituzione statale non può essere separata dalla pretesa di ottenere dai propri sudditi la disponibilità a usare la violenza contro il nemico. Esercitando lo jus belli, lo Stato esercita il diritto di disporre della vita degli uomini quando e come ritiene opportuno. L'universo politico è necessariamente un pluri-universo, caratterizzato da una essenziale e ineliminabile anarchia e, quindi, dal fatto che i conflitti di interessi sono risolti con il ricorso unilaterale alla guerra. Un mondo nel quale fosse cancellata la distinzione amico-nemico sarebbe un mondo pacificato e unificato, quindi sostanzialmente apolitico, poiché è precisamente la guerra ciò che rivela la specifica natura delle relazioni interstatali. La conclusione che Schmitt (v., 1932) ricava dalla sua concezione della politica come sfera dell'agire posta sotto il segno della violenza è che la guerra è un fenomeno storico che rifiuta, ex definitione, qualsivoglia trattamento etico o giuridico. La guerra non ha né può avere alcun senso normativo: è un puro dato esistenziale che nulla può trascendere. Pertanto, il concetto stesso di bellum justum è privo di significato o, tutt'al più, ha un significato ideologico, teso a giustificare ciò che è ingiustificabile e che va accettato per quello che è: l'orizzonte entro il quale gli uomini, nella misura in cui fanno parte di una comunità politica, sono condannati a vivere. Occorre, tuttavia, dire che, a dispetto del fatto che Schmitt esaltò Hitler come il "soldato politico" che aveva liberato la Germania dal pacifismo liberale, nella sua teoria non c'è posto per il tipo di guerra che il nazismo condusse: la guerra di annientamento del nemico assoluto. Al contrario, la teoria schmittiana rifiuta esplicitamente la guerra ideologica, nella quale i nemici sono visti come incarnazione del male e dunque tutti da sterminare. Resta il fatto che in essa la guerra è considerata come un fenomeno che sfugge a qualsivoglia disciplina giuridica e/o morale.Altra è l'impostazione del problema della guerra e della pace che si trova nella dottrina del bellum justum. Formulata per la prima volta da sant'Agostino, perfezionata da san Tommaso e ripresa da numerosi filosofi e giuristi dell'età moderna, essa parte dalla convinzione che sia possibile, oltre che doveroso, sottoporre lo jus belli a un preciso codice etico e giuridico e a un tribunale internazionale super partes. Tale dottrina, a partire dalla istituzione delle Nazioni Unite, si è convertita in dottrina dello jus contra bellum, la quale sostiene che una guerra può essere considerata giusta solo a condizione che: 1) sia dichiarata nel rispetto della legalità internazionale; 2) risulti essere una extrema ratio; 3) provochi una violenza proporzionata all'offesa; 4) produca torti inferiori ai diritti ripristinati; 5) sia condotta rispettando i diritti dei civili e quelli dei prigionieri.
La dottrina dello jus contra bellum si pone a mezza strada fra le dottrine belliciste - che considerano la guerra o come un dato esistenziale che sfugge a qualsiasi normativa o, addirittura, come un 'giudizio di Dio' - e le dottrine pacifiste, che condannano la guerra come un ingiustificabile crimine contro l'umanità. Essa può essere definita un pacifismo istituzionale, nel senso che intende creare i meccanismi giuridici attraverso i quali regolare lo svolgimento e le finalità di un conflitto armato, ove questo risulti giustificato o comunque inevitabile. Il che presuppone che il ricorso alla guerra non sia considerato sempre un fatto negativo. E presuppone altresì il convincimento che il pacifismo assoluto, che immagina un mondo a violenza zero, sia del tutto irrealistico. In effetti, persino nella celeberrima teoria della non violenza di Gandhi (v., 1935; tr. it., p. 77) si trova l'esplicito riconoscimento che la "stessa vita è impossibile senza un certo grado di violenza" e che, pertanto, il mondo non tiranneggiato dallo spettro della guerra (intestina o internazionale) è impensabile. Ciò che, tutt'al più, è pensabile, è un mondo nel quale la violenza politica sia stata in qualche modo canalizzata, limitata e disciplinata. Il che, poi, a ben guardare, altro non è che l'ideale kantiano del diritto cosmopolitico quale strumento per trascendere la "libertà selvaggia" degli Stati onde rendere la guerra sempre più umana e sempre più rara. (V. anche Comunismo; Criminalità organizzata; Dittatura; Fascismo; Genocidio; Giacobinismo; Guerriglia; Nazionalsocialismo; Rivoluzione; Terrorismo).
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