Terzo settore
Il concetto di terzo settore (o settore non-profit) deriva dalla considerazione dell'esistenza nel sistema economico e sociale di un primo settore (lo Stato) e di un secondo (il mercato). In tal senso si identifica usualmente il t. s. con quell'insieme di attività produttive che non rientrano né nella sfera dell'impresa capitalistica tradizionale (poiché non ricercano un profitto), né in quella delle ordinarie amministrazioni pubbliche (in quanto si tratta di attività di proprietà privata).
La definizione di terzo settore
Il primo sistematico progetto di ricerca che si sia posto il problema di giungere a un'appropriata definizione di organizzazione di t. s., al fine di garantirne in primis una comparabilità internazionale che potesse superare le differenze nelle legislazioni, nei sistemi di welfare, nei regimi fiscali e nelle caratteristiche funzionali delle organizzazioni stesse, è stato quello realizzato negli Stati Uniti dalla Johns Hopkins University di Baltimora (Salamon, Anheier 1997).
Il progetto ha prodotto la cosiddetta definizione strutturale-operativa (structural-operational definition). Questa è basata su cinque requisiti. Per poter appartenere al t. s. una data organizzazione deve essere: formale (formalmente costituita, cioè dotata di uno statuto o di un qualche atto costitutivo), privata (istituzionalmente separata dal settore pubblico), auto-governante (dotata di autonomia decisionale sullo svolgimento delle proprie attività), senza distribuzione di profitto (non deve distribuire sotto nessuna forma ai suoi proprietari, membri o dipendenti i profitti derivanti dalla propria attività; eventuali surplus di gestione devono essere reinvestiti nell'attività stessa), con presenza di lavoro volontario (sul piano operativo, dirigenziale e di indirizzo delle attività dell'organizzazione).
Le organizzazioni di t. s. definite secondo i principi elaborati dalla Johns Hopkins University possono assumere un'ampia varietà di forme legali e istituzionali, tra i quali: organizzazioni non-profit fornitrici di servizi; organizzazioni non governative (ONG); organizzazioni artistiche e culturali, club sportivi, gruppi di advocacy, fondazioni, comunità di base, partiti politici, club ricreativi, sindacati, associazioni professionali ed enti di patronato, congregazioni religiose.
Teorie del terzo settore
Le teorie che giustificano l'esistenza del t. s. all'interno del sistema economico e sociale sono tradizionalmente divise come segue: 'teoria della domanda' e 'teoria dell'offerta' (Non-profit e sistemi di welfare, 1996).
La teoria della domanda viene a sua volta suddivisa in 'teoria del fallimento dello Stato' (Weisbrod 1975) e 'teoria del fallimento del mercato' (Hansmann 1980). Secondo la prima, la fornitura di beni e servizi da parte di un'organizzazione di t. s. risulterebbe generata dall'insoddisfazione (quantitativa e qualitativa) di alcuni consumatori per la produzione (standardizzata) statale, specialmente quando il bene oppure servizio offerto presenta gli attributi di 'bene pubblico'. La fornitura non-profit diverrebbe addizionale a quella statale, e finanziata da donazioni volontarie dei consumatori insoddisfatti, rese possibili dal vincolo di non distribuzione degli utili dell'ente di t. s., il quale promuoverebbe comportamenti di tipo altruistico.
Nella teoria del fallimento del mercato, invece, l'organizzazione non-profit si afferma come risposta al fallimento del contratto tra consumatori e organizzazioni lucrative, quando il livello di 'asimmetria informativa' tra acquirenti e venditori è tanto elevato da far sorgere delle vere e proprie crisi di fiducia. H. Hansmann suggerisce che questo caso è particolarmente diffuso nei mercati in cui chi acquista il bene non ne è il diretto beneficiario. In tal caso l'esistenza di un vincolo di non distribuzione degli utili rappresenterebbe un elemento di garanzia per l'acquirente, in quanto segnalerebbe che ogni eventuale surplus di gestione dell'ente verrà impiegato per aumentare la quantità o la qualità del servizio piuttosto che per fini speculativi.
La teoria dell'offerta cerca invece di spiegare come mai esistono individui che, pur non potendo far leva sull'incentivo di un profitto, sono disposti a costituire un'attività non-profit. Varie risposte sono state date in letteratura. D.R. Young (1981), per es., afferma che una possibile spiegazione va ricercata nella diversa forma di 'imprenditore-tipo' che caratterizza il mondo non-profit. Questi offre un'ampia tassonomia di tipologie di imprenditore, sostenendo che l'imprenditore-tipo di t. s. sarebbe quello generalmente meno adatto a ricevere soddisfazione dall'esercizio del potere e da ricompense di tipo materiale. Sulla stessa linea E. James (1990) suggerisce che le organizzazioni non-profit si caratterizzano per la massimizzazione di obiettivi diversi dal profitto. Per motivi di natura ideologica, altruistica o di 'specificità sociale' (per es., etnia, religione, lingua ecc.), molte organizzazioni scelgono di massimizzare lpiuttosto che il profitto.
Del ruolo svolto dalle organizzazioni di t. s., accanto alle più note teorie della domanda e dell'offerta sono state fornite altre interpretazioni. Alcune di queste sottolineano l'importanza del t. s. per lo sviluppo del 'capitale sociale', ossia di beni immateriali quali la fiducia, lo spirito civico, la solidarietà, le buone norme e la propensione alla vita associativa, la cui presenza incide positivamente sui processi di sviluppo economico, specie su scala locale. Su questa linea S. Zamagni (1996) interpreta l'emersione del t. s. come un progetto di 'economia civile' capace di incoraggiare quei processi di 'reciprocità istituzionale' necessari alla promozione del 'coordinamento orizzontale' della società. Come avviene a livello microeconomico nel distretto industriale, l'attivazione da parte del t. s. di reti di scambio informali promosse su base gratuita e volontaria viene letta, a livello macrosistemico, come il primum movens nella generazione di quelle 'esternalità di rete' promotrici di crescita endogena per l'intero sistema economico.
La dimensione economica del terzo settore
Il t. s. rappresenta una realtà economica consolidata in numerosi Paesi. I risultati di uno studio comparativo (Salamon, Sokolowski, List 2003), effettuato tra il 1995 e il 1998 dalla Johns Hopkins University su 35 Paesi (industrializzati, in via di sviluppo e in transizione), mostrano che il totale delle spese del t. s. aggregato rappresenta il 5,1% del PIL dei 35 Paesi, mentre la sua forza lavoro copre il 4,4% della popolazione economicamente attiva, con 39,5 milioni di lavoratori equivalenti a tempo pieno (FTE, Full Time Equivalent), dei quali 22,7 milioni remunerati (57,5%) e 16,8 milioni volontari (42,5%). Il numero complessivo dei volontari (a tempo pieno o parziale) raggiunge i 190 milioni (circa il 20% della popolazione adulta). La distribuzione della forza lavoro del t. s. in base al campo di attività per 32 Paesi è la seguente: 23% nell'istruzione, 19% nei servizi sociali, 19% nella cultura, 14% nella sanità, 8% nello sviluppo, e il restante 17% disperso in campi minori. Ben il 63,3% di questa forza lavoro fornisce beni e servizi materiali, il 32,4% offre invece consulenze e servizi immateriali (difesa dei diritti, promozione di idee ecc.), e il restante 4,3% si distribuisce tra l'attività delle fondazioni, della cooperazione con l'estero e altro. L'attività del t. s., infine, viene finanziata per il 53,4% attraverso tariffe, per il 34,9% attraverso sussidi o acquisti di beni e servizi da parte delle amministrazioni pubbliche, e per il rimanente 11,7% attraverso libere donazioni di cittadini e istituzioni private.
Considerando i Paesi aggregati per aree geografico-culturali, si possono osservare, nella tabella, le principali caratteristiche economico-strutturali caratteristiche del terzo settore. La tabella mostra come la dimensione del t. s. a livello globale sia correlata positivamente con il grado di industrializzazione dei Paesi considerati. Gli occupati equivalenti a tempo pieno (FTE totali) dei Paesi in via di sviluppo e in transizione, per es., sono appena l'1,9% della popolazione attiva, contro l'8,2 dei Paesi anglosassoni. Un altro aspetto interessante è il tipo di finanziamento. Tra i Paesi industrializzati, l'area asiatica si finanzia molto di più attraverso le tariffe (61,8%) che attraverso i sussidi e i contratti con le amministrazioni pubbliche (34,8%). Seguono da vicino, per livello delle tariffe, i Paesi scandinavi (59,4%) e quelli anglosassoni (54,6%). La relazione si inverte, invece, nel caso dei Paesi dell'Europa continentale; in questi infatti le tariffe coprono il 35,4% del finanziamento totale e i sussidi e i contratti con le amministrazioni pubbliche il 57,6%. Questi dati indicano che nella tradizione dell'Europa continentale il t. s. si delinea come un soggetto meno indipendente dal settore pubblico e anche meno orientato al mercato rispetto agli altri Paesi avanzati, dove sembra prevalere un modello più imprenditoriale. Differenze poco significative emergono nella quota di finanziamento derivante dalle donazioni, che si attesta su una media dell'11,7%; uniche notevoli differenze quella dei Paesi in via di sviluppo e in transizione, che presentano una quota molto alta (16,1%), e quella dei Paesi asiatici industrializzati, che ne hanno una molto bassa (3,5%). In questo quadro l'Italia presenta un'alta incidenza della forza lavoro di t. s. sul totale della popolazione economicamente attiva (8,5%), con un sostanziale equilibrio tra finanziamento privato (44,6%) e pubblico (46,7%), e con donazioni in linea con la media dei Paesi industrializzati non asiatici. Il primo censimento delle istituzioni non-profit per l'Italia (ISTAT 2001) mostra che le organizzazioni di t. s. attive nel 1999 erano 221.412 (ca. 40 ogni 10.000 ab.), con una distribuzione territoriale disomogenea (51,1% nel Nord, 21,2% nel Centro e 27,7% nel Sud). Il valore aggiunto del t. s. era pari a circa il 2% del PIL italiano, anche se gli studi hanno mostrato che, se riferita soltanto al settore sociale, tale quota cresce fino a raggiungere circa il 15% (Cerulli 2006).
bibliografia
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