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La Thailandia, fino al 1939 Siam, è l’unico stato del sud-est asiatico a non aver subito la colonizzazione da parte delle potenze occidentali. Questa posizione privilegiata fu il risultato sia della propria flessibilità diplomatica, che le permise di rispondere positivamente alle richieste inglesi e francesi, sia dell’interesse condiviso dalle due potenze europee a mantenere uno stato cuscinetto tra le rispettive zone d’influenza (l’Indocina a est e la Birmania a ovest). Allineatasi al Giappone nel corso della Seconda guerra mondiale nella speranza di riconquistare parte dei territori ceduti agli occidentali, a fine conflitto la Thailandia riuscì a evitare il trattamento riservato agli stati aggressori, grazie al favoreggiamento segreto operato dal governo nei confronti del movimento Free Thai appoggiato dagli alleati, Stati Uniti in testa. Da allora per Washington la Thailandia rappresenta una pietra angolare della propria politica estera nella regione. Nel corso della guerra in Vietnam il paese costituì una base operativa cruciale per l’intelligence e per i B-52 statunitensi e, quando infine Nixon decise il disimpegno degli Stati Uniti e la ‘vietnamizzazione’ del conflitto, in Thailandia si trovavano oltre 50.000 soldati statunitensi e circa 600 mezzi dell’aviazione militare. Una quota rilevante dell’esercito thailandese (circa il 14%) fu inoltre direttamente impiegata in territorio vietnamita, dove tra il 1965 e il 1969 vennero inviati più di 12.000 soldati. Al flusso di truppe e mezzi corrisposero ingenti forniture in armamenti, che aumentarono conseguentemente all’invasione della Cambogia da parte del Vietnam vittorioso, giungendo a circa 850 milioni di dollari nel quadriennio 1979-83. Con la fine della Guerra fredda l’alleanza con gli Stati Uniti è rimasta stabile, come ha sin da subito dimostrato la concessione dell’utilizzo delle basi in territorio thailandese nel corso della Prima guerra del Golfo. L’acquisizione nel 2003 da parte della Thailandia dello status di ‘Major non-Nato Ally’, la partecipazione alle operazioni belliche in Iraq tramite l’invio di 400 soldati e la perdurante garanzia dei diritti di sorvolo e rifornimento per i mezzi statunitensi diretti verso Afghanistan ed Iraq, sono tutti indicatori dello stretto legame tra Bangkok e Washington.
Tuttavia, parallelamente all’alleanza con gli Stati Uniti, la Thailandia sta consolidando il proprio legame con la Repubblica Popolare Cinese, con cui del resto condivide una sostanziale convergenza strategica dalla fine degli anni Settanta. Fu infatti proprio negli anni Settanta, in relazione ai rapporti con il Vietnam, che il legame con la Cina subì un’accelerazione. Il rafforzamento del Vietnam unito fece riemergere frizioni storiche di natura politica e territoriale tra Cina e Vietnam e in ultima istanza rinsaldò il legame già stretto tra quest’ultimo e l’Unione Sovietica. Quando nel dicembre del 1978 le truppe vietnamite invasero la Cambogia, l’allora Kampuchea Democratica dei Khmer Rossi, Thailandia e Cina videro i propri interessi a rischio, qualora il Vietnam fosse divenuto egemone nell’area indocinese. In risposta, la Repubblica Popolare Cinese interruppe il sostegno al Partito comunista thailandese e la Thailandia si impegnò a favorire il transito degli aiuti militari cinesi diretti ai Khmer Rossi. Questo rapporto storico con la Cina si è mantenuto e si è anzi consolidato con la crisi che colpì le economie asiatiche nel 1997, quando l’aiuto cinese permise alla Thailandia di non naufragare oltre il già pesante -11% fatto registrare dal pil per quell’anno. Nel 1999 i due stati hanno poi firmato il Sino-Thai Plan of Action per il 21° secolo, finalizzato ad accrescere la cooperazione commerciale, scientifica, in materia giudiziaria e nel settore della sicurezza. La vittoria elettorale del sino-thailandese Thaksin Shinawatra nel 2001 accrebbe ancora di più la relazione, suggellata simbolicamente dal fatto che la prima visita diplomatica in uno stato membro dell’Asean da parte del nuovo presidente cinese, Hu Jintao, fu proprio in Thailandia. Conseguentemente al colpo di stato del settembre 2006 per mano dei militari, che pose fine a quindici anni di governo democratico, gli Stati Uniti hanno sospeso gli aiuti militari, mentre la Cina ha stanziato altri 50 milioni di dollari, dimostrando di non voler interferire negli affari interni thailandesi. Inoltre l’interconnessione sino-thailandese è in fase di forte crescita in quanto la politica del ‘go abroad’ sta provocando un aumento degli investimenti cinesi in Thailandia, l’interscambio sta notevolmente crescendo e a livello culturale ha una valenza simbolica il fatto che 23 dei 41 Istituti Confucio presenti in Asia sudorientale si trovino in territorio thailandese. La visita di Barack Obama nel novembre 2012, seguita a ruota da quella di Wen Jiabao, ha ribadito l’importanza della duplice relazione e l’eventuale futura partecipazione della Thailandia alla Trans Pacific Partnership potrebbe ripianare gli screzi degli ultimi mesi, legati al rifiuto opposto alla richiesta di Washington di utilizzare la base di U-Tapao per una ricerca meteorologica condotta dalla Nasa. Tale adesione, però, potrebbe al contempo comportare uno sbilanciamento e di conseguenza complicare i rapporti con Pechino.
Tuttavia, se le relazioni con Cina e Stati Uniti appaiono stabili, altrettanto non può dirsi dei rapporti con gli stati confinanti, destabilizzati dalla presenza di minoranze separatiste, al confine con Malaysia e Myanmar, e da dispute relative ai confini, come nel caso della Cambogia. Ciononostante, in seguito alla vittoria elettorale del Pheu Thai Party (Partito per i Thailandesi) nel luglio 2011 le frizioni con la Cambogia sembrano aver trovato una soluzione almeno temporanea, che lascia ben sperare per il futuro della stabilità dell’intera regione. Lo stesso può dirsi per le tensioni con la Malaysia (nonostante il movimento separatista nelle provincie meridionali sia un costante fattore di tensione) e con il Laos, con il quale, dopo un conflitto territoriale che nel 1988 provocò oltre 1000 morti in un solo mese, la Thailandia sta cooperando per giungere a una demarcazione definitiva dei confini. Il caso del rapporto con il Myanmar è interessante in quanto, malgrado solo 60 dei 2400 chilometri di confine siano ufficialmente demarcati, dai primi anni del 21° secolo non si verificano scontri armati, anche perché sussiste una forte interconnessione commerciale e, in particolare, la Thailandia importa dal Myanmar circa un terzo del gas prodotto da quest’ultimo. Se però alle potenziali tensioni nelle zone di confine si aggiunge l’elevato numero di profughi e la polarizzazione della vita politica interna – che nel 2010 ha portato a violenti scontri di piazza – emerge chiaramente l’instabilità che caratterizza la Thailandia attuale.
Dalla fine della monarchia assoluta nel 1932, la peculiarità della politica interna thailandese è stata l’elevata instabilità e la perenne tensione tra il consolidamento delle istituzioni democratiche e la resistenza dell’élite militare e politica. Da allora si sono verificati 11 colpi di stato andati a buon fine e il paese si è dotato di 17 Carte costituzionali. Di particolare rilevanza, tra queste, la ‘Costituzione del popolo’ che, elaborata da un’assemblea costituente eletta dal popolo e promulgata nell’ottobre 1997, introduceva una legislatura bicamerale elettiva. Nonostante a partire dal 1992 le istituzioni democratiche avessero resistito per quasi quindici anni, la rielezione del magnate delle telecomunicazioni Thaksin Shinawatra, avvenuta nel 2005, scatenò la reazione dell’élite thailandese, che sfociò nel colpo di stato incruento del settembre 2006 con il quale Thaksin venne deposto. Quest’ultimo, infatti, forte del sostegno popolare derivatogli dalle politiche di sostegno alle classi meno abbienti, residenti prevalentemente nella zona nordorientale del paese, stava assumendo un’influenza politica ed economica smisurata rispetto ai tradizionali equilibri thailandesi, marginalizzando i propri avversari, ponendo uomini di fiducia nelle posizioni cruciali e assumendo un prestigio che in Thailandia può appartenere solo al sovrano. Proprio la presidenza di una cerimonia presso il Tempio del Buddha di Smeraldo costituì la scintilla che diede impulso alla campagna anti-Thaksin e filomonarchica, basata sullo slogan ‘We love the King’ e messa in atto dal partito d’opposizione Pad (People’s alliance for democracy) con il sostegno della casa reale. In seguito al colpo di stato, la Giunta militare ha nominato un’assemblea per la redazione della Costituzione e il 19 agosto 2007, in un clima in cui ogni critica era perseguibile penalmente, la nuova Carta fu approvata tramite referendum, con il 59,3% dei voti a favore. Il nuovo documento ha ridotto la libertà d’azione del governo, accrescendo il ruolo del potere giudiziario, delle commissioni speciali e del Senato. Quest’ultimo non è più completamente elettivo, ma prevede la nomina di 80 membri selezionati tra esponenti del mondo imprenditoriale, accademico e dalla pubblica amministrazione. Il nuovo Senato, inoltre, è apartitico e i candidati non devono essere stati membri di un partito nei cinque anni precedenti. Nonostante tutte le suddette misure avessero la funzione di sradicare il potere di Thaksin (bandito esplicitamente dall’attività politica) e del suo partito Trt (il Thai Rak Thai, a sua volta bandito nel maggio del 2007), le elezioni del dicembre 2007 videro l’affermazione del Palang Prachachon (erede del Trt). Questo mantenne la maggioranza fino allo scoppio delle manifestazioni di piazza da parte delle Camicie Gialle e al conseguente scioglimento del partito ad opera della Corte costituzionale, che aprì la strada all’elezione a primo ministro di Abhisit Vejjajiva del Democrat Party. A fine 2008, dunque, la frattura politica si acuì ancora di più e, successivamente alla condanna a due anni in absentia (dato che dal 2008 si trova in esilio volontario) comminata a Thaksin nell’ottobre dello stesso anno, allo scioglimento del suo partito e alla confisca delle sue proprietà a inizio 2010 (circa 1,4 miliardi di dollari), i suoi sostenitori, le Camicie Rosse, scesero in piazza, dando vita ai mesi più turbolenti e violenti vissuti dal paese dal ‘maggio nero’ del 1992, quando 52 manifestanti furono uccisi dalla repressione dell’esercito. Nelle dimostrazioni della primavera 2010 si registrarono infatti 88 morti e circa 2000 feriti tra i manifestanti. La netta vittoria del Pheu Thai Party nel 2011, che ha conquistato 104 seggi contri i 4 andati ai democratici nei collegi del nord-est, mentre si è assicurato solo 3 seggi su 53 al sud (dove la popolazione musulmana ricorda ancora la repressione dell’era Thaksin), ha confermato la profonda divisione geopolitica ed economica del paese. L’impasse sembra difficilmente superabile proprio a causa delle profonde fratture citate e l’intera vita politica del paese è dominata dagli scontri istituzionali, appesantendo di conseguenza il processo decisionale e rendendo imprevedibili i futuri sviluppi. In tale clima l’articolo 190 della Costituzione relativo alla sovranità nazionale viene ripetutamente chiamato in causa dall’opposizione nel tentativo di ostacolare l’azione dell’esecutivo. L’elevata instabilità politica è accresciuta inoltre dalla questione cruciale della successione del re. Bhumibol Adulyadej (Rama IX) ha, infatti, compiuto 84 anni ed è il sovrano più longevo al mondo, ma dal 2009 non gode di ottima salute. È il nono sovrano della dinastia Chakri che guida il paese da 229 anni e, nonostante non goda di poteri formali rilevanti, rappresenta il simbolo dell’unità nazionale ed è molto amato dal popolo, anche perché in passato ha saputo evitare che le fratture interne degenerassero.
Più di un quinto della popolazione thailandese ha meno di 15 anni. Tuttavia, il tasso di crescita demografica del paese è diminuito costantemente nel corso degli ultimi decenni, anche grazie al successo ottenuto dai programmi di controllo delle nascite adottati dagli anni Settanta.
Malgrado il costante aumento della popolazione inurbata, inoltre, la Thailandia rimane ancora oggi un paese prevalentemente rurale, in cui due terzi dei suoi abitanti vivono nelle campagne. La maggioranza della popolazione urbana si concentra invece nell’area metropolitana di Bangkok. Sotto il profilo etnico la Thailandia è uno dei paesi più omogenei del sud-est asiatico: il 75% dei suoi abitanti è di etnia thai, mentre il 14% ha almeno un antenato cinese. Si stima tuttavia che il dato che meglio approssimi la realtà della quota di popolazione con almeno un antenato cinese possa avvicinarsi al 30% del totale, con picchi nelle grandi città (il 70% circa a Bangkok). Il dato è così incerto perché sin dagli anni Quaranta i governi succedutisi hanno seguito politiche di assimilazione, tanto che oggi la popolazione di discendenza cinese è considerata tra le meglio integrate dell’intera regione del sud-est asiatico. All’interno del paese si possono tuttavia rintracciare alcune pronunciate variazioni etnolinguistiche. Quasi un terzo degli abitanti del nord del paese, per esempio, parla il laotiano e altri dialetti non intellegibili da chi parla la lingua thai. Non solo: esistono delle differenze di prestigio tra la lingua thai di Bangkok e le varianti thai del nord e del nord-est, specchio delle fratture e delle tensioni politiche.
Il principale collante sociale della Thailandia è costituito dalla religione: il 95% degli abitanti appartiene alla confessione buddista, e la pressoché totalità di questi aderisce a dottrine che si rifanno alla scuola theravāda. Malgrado ciò, è proprio una minoranza religiosa a costituire uno dei più grossi problemi per il paese: il 4% di fedeli musulmani è in massima parte di etnia malese e vive nel sud della Thailandia, al confine con la Malaysia. Da alcuni anni le tendenze separatiste di questo gruppo etnico si sono tradotte in un’escalation di violenze, provocando la morte di soldati e civili.
Un ultimo punto di rilievo concerne, infine, lo status degli immigrati e dei rifugiati nel paese. Da un lato, a causa di un ventennio di forte immigrazione dai paesi vicini e delle restrittive leggi sull’immigrazione thailandesi, si stima che più di 3 milioni di persone che vivono nel paese siano apolidi. D’altra parte, malgrado la Thailandia non sia firmataria della Convenzione sui rifugiati del 1951, essa ha riconosciuto lo status di rifugiato a 100.000 profughi provenienti dal Myanmar. Lo Unhcr stima che altri 50.000 birmani, attualmente non registrati nel paese, potrebbero godere dello status di rifugiati.
Tra il 2001 e il 2006, durante il premierato di Thaksin, una delle questioni più controverse nei confronti del livello delle libertà civili era il forte monopolio dell’informazione nelle mani del primo ministro. Thaksin utilizzava inoltre periodicamente le accuse di diffamazione – reato per il quale le pene previste dal codice penale sono alte – per silenziare i suoi critici. Dal colpo di stato militare del settembre 2006, con la deposizione e l’esilio di Thaksin, il monopolio mediatico è stato spezzato, ma le incriminazioni per diffamazione non sono cessate, pur diminuendo di numero.
La nuova Costituzione, approvata nell’agosto 2007 tramite referendum popolare, ha ripristinato alcune libertà, tra cui quelle di stampa e di espressione, che nell’anno precedente erano state notevolmente limitate. Tuttavia la Legge per la sicurezza interna, approvata a dicembre del 2007, prevede la possibilità di adottare misure di emergenza che restringono a piacere la libertà di manifestazione. Resta inoltre vigente nel paese un articolo del codice penale che individua il crimine di lesa maestà. Interpretazioni estensive di questa norma permettono di comminare pene fino a 15 anni di carcere a chiunque rivolga insulti in direzione del re, della famiglia reale o del buddismo. Dal 2009, la sempre crescente tendenza a giustificare gli arresti sulla scorta della norma di lesa maestà ha raggiunto la massima intensità. I capi di imputazione possono essere cumulativi, tanto che ad agosto 2009 un giornalista è stato condannato a 18 anni di carcere.
L’accesso a internet è limitato a circa un quarto della popolazione. Inoltre la censura governativa, istituita nel 2003 e diretta inizialmente a limitare la circolazione di materiale pornografico, dal 2006 è stata utilizzata in maniera sempre più frequente per chiudere siti che sono considerati una minaccia alla sicurezza nazionale, inclusi quelli dei gruppi separatisti musulmani. La Legge contro il crimine informatico, del 2007, prevede fino a cinque anni di carcere per la pubblicazione telematica di contenuti falsi o tendenziosi che mettano a rischio la sicurezza nazionale, pubblica o individuale.
Tra il 1990 e il 1996 la Thailandia visse una forte crescita, pari in media all’8,6%, che si interruppe bruscamente in occasione della crisi asiatica del 1997-98, in seguito alla quale il pil thailandese crollò dell’11%. Tuttavia l’elevato livello del settore commerciale, unito a un’economia marcatamente orientata alle esportazioni, favorirono una ripresa repentina che si materializzò in un incremento medio del pil del 4,6% fino allo scoppio della crisi economica globale nel 2009, che ha portato a una nuova contrazione del 2% evidenziando la stretta interconnessione dell’economia thailandese nel tessuto del mercato globale.
Nel 2010 il pil è cresciuto del 7,8%, un valore più alto rispetto a quelli degli ultimi quindici anni, ma nel 2011 a causa delle peggiori inondazioni degli ultimi 50 anni, che hanno provocato 815 morti e danni pari a circa 46 miliardi di dollari, l’economia è cresciuta solo dello 0,1%. Tuttavia, le previsioni per il futuro sono positive e già nel 2012 il pil ha segnato un +5%, valore che si confemerà nei prossimi anni. Resta però da monitorare la sostenibilità economica delle politiche ‘populiste’ del nuovo governo, che si sono concretizzate in un aumento del 40% del salario minimo (portato a 300 baht giornalieri), in una riduzione delle tasse e in sussidi, quali il calmieramento del prezzo del riso ad un livello superiore a quello di mercato. Va per contro sottolineato che nell’arco dell’ultimo ventennio la Thailandia si è posizionata tra le prime trentadue economie del mondo, davanti alla maggioranza dei cosiddetti paesi in via di sviluppo, dietro solamente all’Indonesia per quanto concerne l’Asia sudorientale, e attestandosi dunque sui livelli di alcuni stati europei. Il motore economico del paese sono state le esportazioni: nel 2011 il settore dell’export ha rappresentato il 65% del pil, percentuale in linea con quella registrata in alcuni stati Asean, ma molto superiore a quella di un gigante europeo la cui economia si basa anch’essa sull’export come la Germania (41%), a quella della Cina (27%) o degli Stati Uniti (11%).
Gli ingenti flussi commerciali in entrata e in uscita sono ripartiti tra diversi partner, ognuno dei quali con una quota non superiore a unquinto dell’interscambio totale. Tuttavia l’interscambio con la Cina sta crescendo notevolmente e, mentre fino alla metà degli anni Novanta non superava il 2,8% delle esportazioni e il 3,7% delle importazioni, attualmente ne assorbe rispettivamente l’11,2% e il 13,8%. La fragilità del panorama economico thailandese, invece, consiste nell’elevata sperequazione del reddito, dato che il 10% più ricco della popolazione detiene circa un terzo del reddito, mentre il 20% più povero non supera il 7%. Il fatto che nel corso del 2011 il governo abbia destinato alla lotta alla povertà solo il 76% delle risorse antecedentemente stanziate ha suscitato preoccupazioni e critiche.
Ciò si ripercuote sulle vicende politiche: se consideriamo che sotto il governo Thaksin la percentuale di thailandesi con un reddito giornaliero inferiore ai 2 dollari si era ridotta dal 21% del 2000 al 12% nel 2004 (sarebbe poi tornata al 27% nel 2009), si spiega il largo sostegno che egli ha avuto nella regione nordorientale, zona prevalentemente rurale e nettamente più povera rispetto all’area metropolitana di Bangkok, così come il sostegno di cui gode tuttora la sorella Yingluck.
Il petrolio e il gas naturale sono stati relativamente abbondanti in Thailandia, e sono stati sufficienti per assicurare al paese un lungo periodo di sostanziale indipendenza energetica dall’estero. La compagnia energetica nazionale, la Ptt, ha conosciuto un processo di parziale privatizzazione dal 2001 ed è oggi la società a più elevata capitalizzazione nella Borsa thailandese.
Sin dagli anni Ottanta, tuttavia, la Thailandia è divenuta importatrice netta di petrolio. Raggiunto un picco di dipendenza dalle importazioni di greggio dall’estero nel 1992 (quando l’86% del petrolio consumato era importato), nel tempo il paese è riuscito a diminuire la propria dipendenza di oltre venti punti percentuali, grazie a un forte sviluppo nel settore energetico. Oggi però le riserve di petrolio scarseggiano, e le stime sostengono che ai ritmi di estrazione attuali la Thailandia potrà continuare a produrre petrolio solo fino al 2015. Il quadro della situazione peggiora qualora si consideri che il petrolio è oggi al primo posto nella quota dei consumi energetici del paese.
Il settore dell’estrazione del gas naturale ha conosciuto un notevole sviluppo nell’ultimo ventennio: se nel 1992 la produzione interna ammontava a 7,1 miliardi di metri cubi all’anno (Gmc/a), nel 2009 essa ha superato i 30 Gmc/a.
Nel frattempo, per soddisfare i consumi interni di una popolazione e di un sistema economico in crescita, dal 2000 la Thailandia ha cominciato a importare gas dal Myanmar. Le importazioni sono cresciute col tempo: oggi la Thailandia compra dal Myanmar circa un quarto del gas che consuma. Oltre alla crescente dipendenza dall’estero anche il metano, che occupa la seconda posizione nel mix energetico del paese, è destinato a esaurirsi in tempi brevi, tanto che ai ritmi di estrazione attuali le riserve conosciute saranno sufficienti solo fino al 2023.
Le riserve del carbone sono invece abbondanti, dal momento che la Thailandia dispone di riserve certe per i prossimi 72 anni. Tuttavia, il sottosviluppo del settore minerario costringe il paese a importare circa i due terzi del carbone che consuma. Anche lo sviluppo dell’idroelettrico è fermo da un decennio, con tassi di generazione elettrica che nel 2009 erano praticamente equivalenti a quelli del 2000.
Sotto il profilo ambientale la Thailandia, che ha la trentaduesima economia del mondo, è però ventiquattresima per emissioni totali di anidride carbonica (la prima nel sud-est asiatico). La crescita del settore industriale ha creato notevoli problemi di inquinamento dell’aria, che si concentrano prevalentemente attorno all’agglomerato urbano di Bangkok. La Thailandia produce comunque una quota ancora bassa di anidride carbonica pro capite (4,4 tonnellate all’anno), ben lontana dalle 7,3 tonnellate annue della vicina Malaysia.
Nel 2008 il governo thailandese ha varato un piano notevolmente ambizioso atto a modernizzare i mezzi in dotazione alle forze armate. Il piano stimava un investimento di 9,2 miliardi di dollari da stanziare entro dieci anni, anche per rafforzare la risposta alla minaccia separatista proveniente dalla minoranza malese nella regione meridionale del paese.
La parte più consistente del piano di modernizzazione delle forze armate prevedeva l’acquisto di 12 JAS-39 Gripen, aerei prodotti in Svezia dalla Saab e idonei sia ad attacchi al suolo che a operazioni di intercettazione e ricognizione, e di due velivoli Erieye di preallarme e controllo (Awacs). Tuttavia la crisi economica ha costretto il governo a differire l’acquisto della seconda tranche da sei JAS-39 e di uno dei due Erieye. Parimenti è stato procrastinato l’acquisto di mezzi corazzati ed elicotteri, e i piani del 2008 si sono per ora ridotti all’acquisto di mezzi da trasporto, di tre navi per il pattugliamento delle coste da 41 metri e di sei elicotteri S-70b Seahawk. Nei primi mesi del 2011 è emersa inoltre la volontà di acquistare sei sottomarini di seconda mano dalla Germania, piano che se andasse in porto farebbe della Thailandia lo stato dotato del maggior numero di sottomarini nel sud-est asiatico. Il fiore all’occhiello dell’apparato militare thailandese consiste, tuttavia, nella portaerei Chakri Naruebet – letteralmente ‘in onore della dinastia Chakri’ – che fu costruita dagli spagnoli e lanciata nel 1996. Considerando che a livello globale esistono, ad oggi, esclusivamente 21 portaerei operative, 11 delle quali statunitensi, il valore aggiunto in termini di prestigio e proiezione militare è considerevole. La Cina stessa (e tanto più gli altri stati del sud-est asiatico) non è ancora riuscita a varare la prima portaerei, nonostante questo sia un obiettivo primario di Pechino e sia quasi certo che entro i prossimi cinque anni riuscirà a conseguirlo. Nonostante tra il 2002 e il 2011 le spese militari siano cresciute del 66%, l’industria bellica thailandese è ancora poco sviluppata e di conseguenza il paese è in una condizione di quasi totale dipendenza dalle forniture estere, soprattutto statunitensi. Malgrado la crisi economica e le debolezze strutturali, grazie al proprio peso economico la Thailandia riesce a mantenere un consistente budget per la difesa, pari all’1,5% del pil, leggermente inferiore alla media globale. Gli ottimi legami con due potenze del calibro di Stati Uniti e Cina portano alla Thailandia un notevole vantaggio in termini militari, in quanto il paese intrattiene con entrambe una fitta relazione di scambio di materiali, tecnologie e know how. Con gli Usa, a partire dal 1980 ogni anno si tiene l’esercitazione militare congiunta Cobra Gold (la maggiore svolta da Washington nello scacchiere asiatico) e, grazie allo status di ‘Major non-Nato ally’, la Thailandia gode dell’accesso preferenziale alle forniture militari ad alta tecnologia, come le munizioni all’uranio impoverito. Per quanto riguarda la Repubblica Popolare Cinese, invece, nel 2005 ha avuto luogo la prima esercitazione congiunta sino-thailandese nel Golfo di Thailandia, che è stata anche la prima esercitazione cinese con uno stato membro dell’Asean, e da allora la cooperazione militare è andata rafforzandosi di anno in anno.
Dall’ottobre del 2008 Thailandia e Cambogia si sono scontrate a più riprese nell’area circostante il complesso del tempio khmer risalente all’11° secolo che i thailandesi chiamano Phra Viharn e i cambogiani Preah Vihear. La genesi della disputa risale al periodo dell’Indocina francese, che nel 1907 si impossessò dell’area in questione senza il consenso del Siam (da cui le rivendicazioni attuali). Successivamente all’indipendenza della Cambogia, la Corte internazionale di giustizia nel 1962 si pronunciò in favore di quest’ultima e decretò l’illegittimità dell’occupazione thailandese. Nel 1975 i Khmer Rossi di Pol Pot assunsero il controllo del sito e ne fecero un teatro delle proprie operazioni, e il tempio tornò a essere un’attrazione turistica solo alla fine degli anni Novanta, quando i due stati contendenti ne intuirono le potenzialità, tanto che la Thailandia sostenne la candidatura del sito a patrimonio dell’umanità dell’Unesco. Il momento cooperativo venne però infranto dalle spinte nazionaliste che nel 2008 animavano le cosiddette ‘Camicie Gialle’, movimento nazionalista e monarchico collegato alla People’s Alliance for Democracy (Pad) thailandese. Paradossalmente, l’inserimento del sito nella lista dell’Unesco ha acuito le tensioni e dall’autunno del 2008 si è assistito a ripetuti scontri a fuoco, che hanno provocato diverse decine di morti da ambo le parti e la periodica evacuazione di migliaia di contadini residenti nella zona di confine. Con la vittoria elettorale di Yingluck Shinawatra, seguita da una visita in Cambogia due mesi dopo, i due paesi hanno ripreso a negoziare e il rischio di una ripresa del conflitto appare minimo, seppur ancora presente.
Nella primavera del 2010, immagini di violenti scontri tra forze di polizia thailandesi e manifestanti disarmati – abbigliati in T-shirt rosse, e da ciò rinominati Camicie Rosse (Red Shirts) – invasero i giornali e le TV occidentali, focalizzando l’attenzione internazionale sulla crescente instabilità politica del paese. L’incapacità di raggiungere un accordo tra i leader della protesta e il governo si tradusse, nel maggio dello stesso anno, in un’escalation di violenza, che causò la morte di circa un centinaio di persone, in prevalenza manifestanti. Le Camicie Rosse rappresentano un movimento popolare guidato dallo United front for democracy against dictatorship (Udd), una coalizione di quelle forze politiche contrarie al colpo di stato militare che, nel settembre 2006, depose l’allora primo ministro Thaksin Shinawatra, democraticamente eletto un anno prima. Da un punto di vista popolare, il movimento è espressione della Thailandia rurale e del malcontento che, nelle campagne come nelle città al di fuori di Bangkok, si oppone all’eccessiva concentrazione di potere politico ed economico nella capitale, accusata di crescere a scapito del resto del paese. Dal gennaio 2011, le Camicie Rosse – sebbene con una leadership decimata da frequenti arresti e persecuzioni da parte del governo – sono riuscite a riorganizzarsi.
A esse si contrappone il movimento conosciuto come Camicie Gialle (Yellow Shirts), dal colore usato durante le celebrazioni per il compleanno del re, rappresentazione del forte nazionalismo presente tra la borghesia ricca e l’aristocrazia di Bangkok. Le Camicie Gialle si richiamano simbolicamente alla monarchia, chiedendo che il re svolga un maggior ruolo in politica per prevenire l’emergere di leader populisti, con ovvio riferimento all’ex premier in esilio. Già protagoniste delle proteste che portarono al golpe del 2006, successivamente esse contestarono l’esito delle elezioni del 2007 – vinte dal nuovo partito fondato da Thaksin, il Palang Prachachon (‘Potere popolare’, Pp) – occupando i due aeroporti di Bangkok nell’ottobre 2008 e ottenendo che il Pp fosse accusato di brogli elettorali e dichiarato illegale. Nei mesi precedenti le elezioni generali del 2011, però, il movimento delle Camicie Gialle si è spaccato tra i sostenitori di un boicottaggio totale delle elezioni e chi invece ha voluto partecipare al confronto elettorale. Oggi possono essere cambiati i nomi, i volti e le sigle, ma la contrapposizione di fondo e la lotta ai Rossi restano.
Le province di Songkhla, Pattani, Yala e Narathiwat, al confine con la Malaysia, fino a due secoli fa, prima di finire sotto il controllo del Siam, costituivano un sultanato indipendente. Nei decenni scorsi le tensioni separatiste e autonomiste provenienti dalla minoranza di etnia malese e fede musulmana che risiede nell’area sono sfociate in intense offensive contro le forze governative, ma tra gli anni Ottanta e Novanta il governo era riuscito a pacificare la regione, concedendole maggiore autonomia. Tuttavia, con l’ascesa politica di Thaksin si è assistito a una svolta repressiva, manifestasi nello scioglimento del Consiglio locale e in un drastico aumento della presenza delle forze dell’ordine. Ciò ha riportato alla luce un problema solo temporaneamente sopito, ma ancora potenzialmente esplosivo per l’integrità stessa della Thailandia. Da allora, infatti, è in atto una vera e propria guerra civile senza esclusione di colpi, esasperata anche dalla serrata guerra al commercio della droga, avviata dallo stesso Thaksin a inizio 2003 e finalizzata a contrastare in particolare il mercato delle anfetamine provenienti dal Myanmar e dirette in Malaysia. Negli ultimi anni si sono registrati oltre 4000 morti e migliaia di attentati. La violenza è divampata anche per il coinvolgimento di truppe paramilitari e conseguentemente alla presa delle armi da parte dei civili buddisti. L’unica via percorribile sembra essere la concessione di una sostanziale autonomia amministrativa, ma ad oggi non si sono registrate svolte in tal senso.