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TORTURA

di Francesco Calasso - Enciclopedia Italiana (1937)
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TORTURA

Francesco Calasso

. Vanno sotto questo nome i mezzi svariatissimi di coercizione fisica sperimentati sul corpo dell'imputato per estorcerne la confessione del reato, o dei testimoni per ottenerne la deposizione. La tortura fu già nota al mondo antico: così, ai Greci, anche nell'epoca dello splendore massimo della loro storia. Repugnò invece lungamente alla mentalità dei Romani. Ma all'epoca del principato, probabilmente per la via della consuetudine, e dapprima soprattutto per i più gravi reati di carattere politico, se ne introdusse l'uso: certamente non senza incertezze e contrasti. È certo comunque che l'applicazione della tortura rimase lungo tempo affidata alla pratica presso i tribunali supremi, non regolata legislativamente: rimonterebbe a Marco Aurelio il privilegio in favore degli eminentissimi e dei perfectissimi, dichiarati esenti dalla tortura (Cod., IX, 41, de quaest., 11): privilegio che troviamo poi esteso ai decurioni (Cod., eo. t., 16) e alla classe senatoria ereditaria (Cod., XII,1, de dignitat., 10), nonché ai milites e veterani e ai loro figli (Cod., IX, 41, de quaest., 8). A ogni modo, l'uso della tortura prese piede rapidamente con l'accentuarsi dell'assolutismo, che l'applicò con particolare accanimento ai rei di lesa maestà, agli operatori di magie ritenuti humani generis inimici (Cod., VIII, 18, de malef., 7), e ai rei di falso (Cod., IX, 22, ad l. Corn. de fals., 21), per i quali anzi cadeva ogni privilegium dignitatis. E l'uso coinvolse col tempo altresì i testimoni vacillanti o sospettati di reticenza (Dig., XXXXVIII, 18, de quaest., 15 pr.), ma certamente in misura più ristretta, salvo che, sempre, nei processi di lesa maestà, nei quali indistintamente "omnes torquentur" (Dig., eo. t., 10,1).

Accolta, per il tramite di queste leggi romane, in quelle dei barbari, ai quali era sconosciuta, la tortura raggiunse l'età del rinascimento giuridico, e presto dilagò, in Italia e fuori, sancita in misura sempre più larga dagli statuti comunali e dalle legislazioni principesche. Varie cause vi contribuirono: certamente, il ravvivarsi dello studio del diritto romano, che fece riparlare di quaestiones per tormenta: ma principalmente fu il frutto dell'andamento stesso del nuovo processo e dell'imperfetta organizzazione di cui la giustizia poteva disporre per lo scoprimento dei delitti e per la loro documentazione: il che spiega gli eccessi di violenza contro gl'indiziati di delitti che cadessero nelle sue mani come reazione dell'autorità pubblica e, a un tempo, come mezzo d'intimidimento. Nel Duecento, Innocenzo III autorizzava le autorità civili a servirsi della tortura per estirpare l'eresia: e ciò pare abbia servito quasi di sprone ad allargarne l'uso nei tribunali laici dapprima contro gl'imputati dei delitti più gravi, e più tardi per ogni genere di reati, persino per quelli che importavano una semplice pena pecuniaria. La dottrina non mancò d'intervenire a porre dei freni, con limitazioni, eccezioni, cautele: non poche opere, infatti, troviamo dedicate espressamente all'argomento de quaestionibus et tormentis, in particolare dal sec. XVI in poi, nell'epoca cioè del più atroce incrudimento di quel mezzo: ma anche qualche glossatore se ne era già interessato, come Alberto da Gandino e Guido da Suzzara nel sec. XIII, e, nel seguente, qualcuno fra i commentatori più grandi, come Baldo. E tuttavia accadde più volte che le sottigliezze, le casistiche, le cautele del teorico avessero la strana sorte di suggerire al pratico nuove atrocità.

Veramente, una precisa teorica sulla tortura la scienza non riusci mai a costruire. Questa materia, peraltro, si ricollegava teoricamente a due altre, fra loro intimamente connesse, alla teorica cioè degl'indizî e a quella della confessione, elaborate entrambe molto ampiamente dalla dottrina processualistica italiana, e ne dipendeva: poiché, mentre da un lato esistevano indizî che potevano senz'altro portare alla tortura, dall'altro, essendosi data, nel diritto penale, un'importanza enorme alla confessione del reo, al punto che tutto il processo penale sembra tendere allo scopo di ottenerla dall'imputato, la tortura fu il mezzo estremo per estorcerla, non sentendosi il giudice mai abbastanza sicuro per condannare se quella gli mancasse. Le quali norme, congiunte al groviglio di quelle altre che regolavano la stessa materia complicatissima degl'indizî e quella delle testimonianze, diventavano in pratica altrettante pastoie, e spesso dei trabocchetti che limitavano insidiosamente o addirittura toglievano all'imputato ogni libertà di difesa.

L'uso di estorcere la confessione con tormenti fisici, originariamente - e ancora nel sec. XIII - si ritenne applicabile così nel processo civile come nel penale. Ma presto la pratica della tortura dovette limitarsi al processo penale, e precisamente ai casi di delitti gravissimi. La dottrina si affrettò ad ammonire, e vi insisté lungamente, che ai tormenti non si dovesse in nessun caso procedere "si aliqua leviori via potest obiecti criminis prius veritas reperiri" (Guido da Suzzara). Ma poiché la valutazione di queste possibilità era tutta affidata all'arbitrio del giudice, così dall'arbitrio del medesimo finiva col dipendere l'applicazione stessa di quel mezzo di coercizione fisica: e l'arbitrio toccò le più inutili esagerazioni, come quando il giudice, volendo a ogni costo la confessione dell'imputato, malgrado che già avesse raccolto abbondanza di prove a suo carico, lo sottoponeva alla tortura, dimenticando - come i giuristi osservavano - che la confessione era richiesta esclusivamente in defectu probationum.

La tortura era ordinata con sentenza, che, essendo suscettibile di appello (salvo che, naturalmente, fosse stata pronunziata dai tribunali supremi), doveva essere notificata. La sentenza però non si eseguiva prima che l'imputato fosse stato sottoposto alla territio verbalis, vale a dire all'ammonizione del giudice, e quindi alla territio realis, vale a dire fosse stato condotto nella camera del supplizio o posto a contatto col carnefice, perché avesse un'idea della sorte che gli spettava se persisteva nel silenzio: riusciti vani questi due tentativi, si applicava la tortura nei gradi stabiliti dalla sentenza, alla presenza di un giudice, che ne sorvegliava l'esatta esecuzione, del cancelliere e del medico, pronto a riparare le conseguenze orrende, e così spesso irreparabili, delle sevizie.

Sulla specie di supplizî in uso, la fantasia dei legislatori e quella dei giudici, soccorsa dalla ferocia del carnefice, poté sbizzarrirsi senza freno. I giuristi, quasi per pudore, evitano di descrivere. Il più comune era la corda: le mani del torturato erano legate dietro la schiena con una fune che, passando per una carrucola infissa al soffitto, s'arrotolava attorno a un cilindro, sospendendo per aria il disgraziato e lasciandolo piombare giù di colpo, anche più volte di seguito. Analogo a questo era il tormento dell'eculeo o cavalletto, destinato anch'esso a stirare le membra dell'imputato, legato mani e piedi. Molto usati erano anche il digiuno, la sete, la veglia (consistente nel tenere l'imputato sveglio per quaranta ore di seguito), la scottatura (tenendogli la brace sotto i piedi o le ascelle, o versandogli zolfo o pece o altro liquido bollente sul corpo), la morsa di ferro (che tra due lamine con prominenze serrava i pollici), lo stivaletto (che similmente schiacciava le caviglie), l'allacciatura (funicella che s'attorcigliava ai polsi o agli avambracci), la capra (che consisteva nel bagnare le piante dei piedi dell'inquisito con acqua salata e darle a leccare a una capra fino a vederne consunta la carne e scoperto l'osso). Spesso, ciascuno di questi tormenti poteva essere aggravato col combinargliene un altro: così, per es. quello della corda si rendeva più atroce attaccando grossi pesi ai piedi del torturato, o gettando violentemente sul dorso di costui secchie d'acqua gelida: e quello dell'eculeo si combinava spesso con la scottatura. Ma oltre questi tormenti già previsti dalle leggi, c'erano quelli che il giudice era autorizzato a stabilire caso per caso: e il Farinaccio attesta che il giudice, propter delectationem, riusciva a inventarne di ancora più orrendi. Durante l'esecuzione del tormento, il giudice rivolgeva all'imputato le interrogazioni che la sentenza formulava: e se questi dichiarava di voler confessare, il tormento veniva sospeso. C'erano inoltre delle regole per l'esecuzione, distinguendosi le varie specie di tormenti per gradi: così, la tortura lieve o di primo grado era inflitta ai minori e alle persone privilegiate (nobili, dottori, ecc.); la mediocre o di secondo grado alle persone di vile condizione e ai malfamati, accusati di delitti gravi; l'acre o di terzo grado (maximum genus) agli accusati di delitti atrocissimi. Nello stabilire i varî gradi, si teneva anche conto della natura degl'indizî, in base ai quali si ordinava la tortura.

La confessione resa dall'inquisito durante l'esecuzione del tormento doveva poi essere confermata dal medesimo dopo ventiquattro ore in tribunale: se la ritrattava, egli era di nuovo sottoposto al tormento, e quindi ripresentato al giudice. E se di nuovo la ritrattava, ed esistessero indizî indubitati, poteva per la terza volta essere sottoposto al tormento: ma se l'inquisito persisteva sempre nella negativa, il giudice non poteva condannarlo che a pena straordinaria, non grave, in base soltanto agl'indizî, anche si trattasse di delitto atrocissimo.

La tortura poteva inoltre essere applicata ai testimoni di cattiva fama o di vile condizione sospettati di reticenza: indistintamente a tutti nei casi di delitti di lesa maestà o di reato atrocissimo: ne erano esenti i vecchi, le donne gestanti o in periodo d'allattamento, gli ecclesiastici, ecc.

La pratica della tortura durò fino a tutto il sec. XVIII. Più volte la dottrina più autorevole si era levata contro di essa, condannandola come cosa antiumana, adatta più a far punire degl'innocenti che a far scoprire dei rei; ma invano: essa era ormai considerata come un mezzo di intimidimento, e si aveva troppa paura che, abolita, i delitti crescessero. Parlò invano ancora per molti anni Cesare Beccaria: ma la rivoluzione francese la spazzò via per sempre, chiudendo così una delle pagine più dolorose e lugubri della storia dell'umanità.

Bibl.: Per il mondo antico, cfr. H. Wasserschleben, De quaestionibus per tormenta apud Romanos, Berlino 1837; W. Rein, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., s. v. Tormenta; C. Lécrivain, in Daremberg e Saglio, Dictionn. des antiquités gr. et rom., s. v. Quaestio per tormenta; G. Lafaye, ibid., s. v. Tormentum; J. Marquardt, La vie privée des Romains, in Manuel des antiquités romaines, I, p. 214, nota 10; T. Mommsen, Römisches Strafrecht, Lipsia 1899, p. 405 segg. - Per la storia del diritto italiano, cfr. partic. A. Pertile, Storia del diritto italiano, 2a ed., Torino 1900, VI, parte 1a, p. 431 segg.; e G. Salvioli, Storia della procedura civile e criminale, nella Storia del dir. ital. diretta da P. Del Giudice, Milano 1927, III, parte 2a, p. 475 segg.; cfr. anche H. Kantorowicz, Albertus Gandinus und das Strafrecht der Scholastik, I, Berlino 1907, passim. Ricchissima è la bibliografia del diritto comune: i glossatori se ne interessarono quasi tutti a proposito del tit. de quaestionibus del Digesto (XLVIII, 18): ne trattarono più in particolare Alberto da Gandino nel Tractatus de maleficiis, rubr. de quaest. et torm., ed. H. Kantorowicz, Berlino e Lipsia 1926, e Guido da Suzzara, nella monografia De tormentis sive indiciis et tortura, in Tractatus illustrium Iurisconsultorum, Venezia 1584, XI, parte 1a, p. 241 segg. Ancora più diffusamente se ne occuparono i commentatori e i pratici, che vi dedicarono spesso dei trattatelli; la maggior parte di questi sono raccolti nel Tract. ill. Iurisc., cit., XI, parte 1a, e sono: B. degli Ubaldi, De quaestionibus, p. 18 segg.; A. de Canario, De quaest. et tormentis, p. 195 segg.; F. Bruni, De indiciis et tortura, p. 246 segg.; M. A. Blanco, De indiciis homicidii ex proposito commissi, etc., p. 261 segg.; A. de Rossellis, De indiciis et tortura, p. 290 segg.; J. de Arena, De quaestionibus, p. 291 t; P. Grillando, De quaest. et tort., p. 294 segg.; A. de Antramonia, Super materia quaestionum, seu torturae, p. 306 segg.; F. Casoni, De tormentis, p. 311 segg. A questi va aggiunto B. de Periglis, De quaest. et torm., Roma 1543. Ne trattano anche: J. da Belviso nella sua Practica criminalis, Colonia 1580; P. Follerio, Practica criminalis dialogica, Venezia 1582; C. Cartario, Praxis interrogandorum reorum, Roma 1594; L. da Oriano, De confessionibus, nel Tract. ill. Iurisc., cit., IV, p. 47 segg.; P. Farinacci, nelle Quaest., XXXVII, XXXVIII, ecc.; e in genere tutti i trattatisti del processo penale dal sec. XVI in poi. Infine, le eloquenti pagine di C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Livorno 1764, par. 12.

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