Tortura
Il termine tortura (dal latino tardo tortura, propriamente "torcimento", da torquere, "torcere"), dal significato etimologico, di carattere generico, è passato a indicare l'azione, il fatto di torcere le membra e, quindi, qualsiasi forma di coercizione fisica applicata a un imputato, più di rado a un testimone o ad altro soggetto processuale, allo scopo di estorcergli una confessione o altra dichiarazione altrimenti non ottenibile (tortura giudiziaria). Più in generale s'intende per tortura qualsiasi forma di coercizione violenta, sia fisica sia morale, per ottenere indicazioni di vario genere, fuori dell'ambito giudiziario; o ancora qualsiasi sevizia, o fine a sé stessa, espressione di mera brutalità, o come forma legale di pena corporale. Contro la tortura, vietata dal diritto internazionale in quanto violazione tra le più gravi dei diritti fondamentali dell'uomo, si sono ripetutamente pronunciate le maggiori organizzazioni internazionali.
1.
In senso giuridico, la tortura è costituita dall'insieme di coercizioni e di tormenti fisici e psichici con i quali si vuol indurre un imputato a confessare la verità; in Europa è stata considerata legale sino alla seconda metà circa del 18° secolo, nonostante le molte contestazioni a proposito della sua legittimità morale e della sua validità funzionale. Un tipo particolare di tortura, sempre nell'ambito giuridico ma privo d'intenti probatori, è quello inflitto ai condannati a morte prima dell'applicazione della sentenza finale per scopi al tempo stesso punitivi e pedagogici: infatti, nei sistemi di giustizia d'ancien régime non soltanto un condannato a una qualche pena poteva essere sottoposto ad altre sussidiarie (carcere duro, digiuni, percosse ecc.), ma al condannato alla pena capitale si potevano infliggere (secondo il tipo e la qualità del suo crimine, e con riferimento al suo rango e stato sociale e giuridico) pene preliminari, che avevano l'obiettivo non solo e non tanto di aggravare la sua pena quanto piuttosto di servire da esempio deterrente.
La tortura esercitata nei confronti di prigionieri di guerra o di soggetti sottoposti a costrizione per motivi politici, religiosi o anche in seguito a crimine di cui essi siano dirette vittime (per es., i rapiti o sequestrati a scopo di estorsione mediante riscatto), appartiene a una sorta d'histoire immobile dell'umanità e conosce una dinamica di certo legata al modificarsi del senso morale diffuso e delle 'soglie del dolore' nelle differenti civiltà, ma connessa soprattutto con il mutare dei mezzi tecnologici. In genere vietata o comunque soggetta a durissime censure etiche, essa è stata ed è nondimeno praticata sia all'interno di corpi 'speciali' o 'paralleli' degli Stati moderni sia nel contesto di frequenti situazioni private. Questo tipo di tortura, comunque suscettibile di una riflessione storica legata soprattutto alle dinamiche fenomenologiche, ha tuttavia un rapporto molto forte con la cultura della violenza e della crudeltà, cultura che si è andata imponendo negli ultimi due secoli e che ha anche avuto interpreti illustri.
Oggetto precipuo di storia è tuttavia non già questo tipo di tortura, non soggetto al consenso civile e sottratto quindi alla regolamentazione che accompagna la legittimazione, bensì quello della tortura giudiziaria, intesa come complesso dei mezzi di coercizione personale, sia fisica sia morale, impiegati durante il processo - anche se essi possono essere accompagnati e complicati dalla parallela attività di polizia (ufficialmente lecita, semilecita oppure illecita, a seconda dei tempi e dei luoghi) che lo precede o l'accompagna - e tesi all'accertamento della colpevolezza degli imputati o a provocarne comunque la confessione, oppure a convalidare l'attendibilità delle deposizioni dei testimoni.
È difficile e forse impossibile rintracciare l'origine storica della tortura giudiziaria, la radice ultima della quale può considerarsi etico-pedagogica ancor prima che giuridica: il tormentare per conoscere la verità implica un sottinteso ma forte rapporto tra la verità intesa come bene e la falsità e la menzogna ritenute di per sé un male. Tale tensione etica rendeva plausibile, nel diritto greco e romano che l'hanno codificata, l'interpretazione della tortura come atto praticato anche pro reo: si partiva cioè dal principio che, in mancanza di chiare prove, la forza d'animo dimostrata dall'imputato nel sostenere la sofferenza pur di far trionfare la verità fosse, essa stessa, una prova. Dato il suo carattere non solo doloroso ma anche umiliante, la tortura in certi periodi non poteva essere applicata se non nei casi dei soggetti non liberi: la legislazione imperiale romana tuttavia conosce, al riguardo, fasi differenti. La sua pratica non era mai stata libera però da forti ipoteche, da pesanti e dolenti perplessità. Dice il giurista Ulpiano: "La tortura è uno strumento fragile e rischioso, incapace spesso di condurre alla verità: molti difatti riescono a sopportare i tormenti grazie alla loro forza d'animo o alla loro robustezza fisiologica, in tal modo che non c'è verso d'estorcere loro la verità; altri, al contrario, temono la sofferenza al punto tale da esser pronti anche a mentire pur d'evitarla".
Durante l'Alto Medioevo, la tortura fu in genere sostituita dall'ordalia, che con essa aveva in comune la concezione del rapporto tra coscienza soggettiva d'innocenza (o di colpevolezza) e capacità di sopportare prove e sofferenze. Essa rinacque a partire dalla fine del 12° secolo o dai primi del 13°, vale a dire da quando l'Europa occidentale, attraverso la diffusione universitaria del corpus iuris giustinianeo, torna al diritto romano. Ammesso fin dai primi del Duecento in numerosi esempi di procedura giuridica laica, l'interrogatorio sotto tortura, detto quaestio, è menzionato con certezza e chiarezza per la prima volta nel veronese Liber iuris civilis (1228). Esso fu legittimato per quel che concerneva i processi inquisitoriali nella bolla Ad exstirpanda (15 maggio 1252) del famoso canonista Sinibaldo de' Fieschi, papa con il nome d'Innocenzo IV. Sette anni dopo, Alessandro IV ratificò la decisione del suo predecessore, poi rafforzata altresì da Clemente IV. Papa Alessandro autorizzò anche i religiosi a concedersi reciprocamente l'assoluzione nei casi in cui il contatto con la tortura comportasse un'infrazione dei divieti canonici relativi al principio secondo il quale Ecclesia abhorret a sanguine.
Nel corso del Trecento la tortura fu estesa poi ad altre, differenti procedure: i giuristi, quali Accursio, Baldo, Bartolo, fornirono tutti, sia pure con accenti diversi, il loro apporto favorevole al radicamento e alla generalizzazione della pratica, che nondimeno fu rigorosamente regolamentata. In particolare, si dovevano evitare sia la mutilazione permanente sia la morte. In età tardomedievale e rinascimentale abbondano i trattati sulla tortura, come l'anonimo (forse bolognese) De tormentis e il De indiciis et tortura di F. Dal Bruno, che si preoccupano di legittimare e al tempo stesso di disciplinare la pratica. Già nei giuristi medievali si avvertono molto vivi la preoccupazione per gli abusi e il dubbio sull'efficacia della tortura in rapporto alla fragilità umana e alla paura del dolore. Tuttavia, forte era l'argomentazione dell'inquisitore Bernard Gui, secondo il quale vexatio dat intellectum, "la sofferenza induce a riflettere". La Constitutio criminalis Carolina, emanata dall'imperatore Carlo V nel 1532, costituì un punto fermo nella storia dell'adozione della tortura nell'Europa moderna: nel momento stesso in cui ne confermava legittimità e validità, il legislatore imperiale sottolineava la necessità dell'osservanza scrupolosa di precise regole procedurali, pena l'ottenimento di un risultato opposto rispetto a quello voluto.
2.
La tortura era esercitata in materia civile a fini probatori, ma soprattutto mirava a rendere più certe le sentenze nei processi criminali, durante i quali a essa potevano essere sottoposti sia gli imputati sia i testimoni poco attendibili o reticenti: il suo uso era tuttavia subordinato alla certezza che altri mezzi probatori fossero inapplicabili o inefficaci o insufficienti. Sia nei processi civili sia in quelli inquisitoriali, la tortura era raccomandata nei casi in cui l'imputato si ostinasse a negare la sua colpa ma non fosse in grado di dimostrare con prove o argomentazioni la sua innocenza; o quando, pur avendo egli ammesso la colpa, vi fossero fondati motivi per ritenere non completa la sua confessione. Naturalmente erano previste categorie di persone verso le quali la tortura era inapplicabile: o per la qualità del loro stato, che rendeva inutile la tortura dato che la loro parola doveva essere considerata un pegno di publica fides (i nobili, i militari, gli insigniti di dignità cavalleresche), o per la loro qualità di soggetti a un foro speciale (i chierici), o per la debolezza della loro condizione fisiologica e psicologica (i bambini, i vecchi, le gravide ecc.); ma la procedura inquisitoriale poteva introdurre al riguardo qualche deroga. Chi allegasse malattie o difetti che gli impedivano di sopportare la tortura aveva il diritto di essere visitato da un medico.
La tortura poteva essere applicata solo sulla base di una preliminare sentenza, rispetto alla quale l'imputato poteva appellarsi: se e quando possibile, si tendeva a far sì che la sola paura della sofferenza bastasse a far confessare la verità. All'applicazione della tortura, che doveva essere eseguita secondo i limiti, nei modi e nei tempi sanciti nella sentenza, dovevano assistere - secondo la decretale Multorum querela del tempo di papa Clemente V - i giudici inquisitoriali (quindi il vescovo ordinario del luogo nel quale l'imputato era stato arrestato e l'inquisitore) o i loro vicari ufficiali. La tortura si poteva iterare, ma solo dopo attento esame dei singoli casi e matura riflessione.
Mezzi e sistemi di tortura variavano in relazione alle consuetudini locali: nel corso del 17° e 18° secolo si tese a disciplinare anche quelli secondo le varie normative statali. I più comuni erano i 'tratti di corda' (l'inquisito, con le mani legate dietro la schiena, veniva sollevato più volte in aria per mezzo d'un sistema di carrucole e poi lasciato cadere); il 'cavalletto' (un ordigno sul quale si stiravano le membra del torturato); il 'fuoco' (si ungevano i piedi del torturato per avvicinarli poi a una fonte di calore); la 'stanghetta' (un sistema di contenzione che comprimeva polsi e caviglie); le 'cannette' (si stringevano con appositi strumenti le dita giunte del tormentato); la 'veglia' (s'impediva al torturato, legato a un sedile, di addormentarsi per un periodo che poteva arrivare a quasi due giorni); la 'bacchetta', uno staffile che si poteva usare anche nei confronti dei minorenni, non però prima del nono anno d'età. Il testimone che avesse resistito al dolore senza ritrattare era considerato veridico; l'imputato che vi avesse resistito senza confessare era dichiarato innocente. I notai erano chiamati a registrare con precisione carattere e durata dei singoli tipi di tortura; dopo di essa, si chiedeva all'imputato confesso di confermare la sua confessione, nel qual caso si parlava di confessione spontanea.
È indebito il carico che talora si fa ai tribunali inquisitoriali di aver usato sistematicamente la tortura: in ciò, essi non facevano che seguire la pratica giuridica dell'epoca e avvalersi di infrastrutture poste a loro disposizione dai tribunali laici; e vi sono testimonianze numerose d'una forte resistenza degli inquisitori a servirsi dell'extrema ratio, la tortura, cui si ricorreva di solito soltanto dopo aver provato altre vie, quali, anzitutto, la prigione 'stretta' che prevedeva digiuno e privazione del sonno. Molti trattati inquisitoriali citavano, facendolo proprio, il duro giudizio di Ulpiano sui limiti della tortura. Il domenicano frate Eliseo Marini, nel suo Sacro arsenale (1631), sosteneva che la 'rigorosa disamina' - la tortura - dovesse essere applicata solo se le altre prove fossero del tutto insufficienti, e massima l'incertezza; e ammoniva che si procedesse con prudenza, si mostrassero all'imputato gli strumenti di tortura prima di usarli, gli si proponesse ripetutamente di pensare a quel che faceva, s'interrompesse più volte il procedimento per dargli modo di riflettere. La costrizione della volontà risulta insomma chiara, ma l'arbitrio dei giudici e la durezza del tormento si riducevano e si disciplinavano per quanto era possibile.
3.
Nonostante la continua sorveglianza tesa a regolamentare la tortura, essa rimase al tempo stesso un momento di violenza e forse in più casi d'arbitrio, e dunque oggetto di forti opposizioni. Il legalismo accurato e financo pedante di inquisitori e di trattatisti non deve, al riguardo, ingannare: dietro al loro sorvegliato linguaggio vi sono comunque carnefici e strumenti che somministrano il dolore; e la considerazione che gli inquisitori erano spesso personaggi onesti, moderati e in buona fede non deve far dimenticare la sostanza brutale di un metodo di giudizio e la sua natura vessatoria. Tutta una parte del pensiero ecclesiastico, fin da Tertulliano e da Agostino, l'avversava. Ma la frequenza dei processi contro gli eretici e le streghe, fra Cinque e Seicento, provocò un generalizzarsi dell'opposizione e delle critiche. Motivi morali, ragioni pratiche ed esigenze di buon gusto convergevano in una contestazione serrata dell'assurdità del meccanismo fondato sulla tortura, come si vede nella commedia I litiganti di J. Racine (1668).
Contro la tortura si schierava L.A. Muratori nello scritto Della pubblica felicità (1749): ormai la civiltà dei Lumi condannava una pratica che appariva funzionale a un potere tirannico e opposta alla dignità dell'uomo. Così, attraverso la penna di D. Diderot, si esprimeva l'Encyclopédie che stabiliva un nesso forte e diretto tra tirannia, disprezzo delle leggi e crudeltà. Il primo a eliminare la tortura dal novero delle pratiche giudiziarie fu Federico II re di Prussia tra 1740 e 1754; alle sue scelte si adeguarono abbastanza rapidamente tutti gli Stati europei, a cominciare dal Sacro Romano Impero. Un contributo deciso all'abolizione venne dallo scritto del filosofo giurista C. Beccaria Dei delitti e delle pene, concepito fra 1763 e 1764 e pubblicato in quest'anno a Livorno. Partendo dal concetto espresso da J.-J. Rousseau nel Contratto sociale (1762), secondo il quale gli uomini si sarebbero per libero accordo uniti in comune convivenza, sacrificando il meno possibile di libertà individuale in vista del massimo possibile di utilità, Beccaria insisteva sulla necessità di limitare al massimo nei tribunali l'arbitrio del giudice sotto la forma delle 'interpretazioni' della legge e nel rafforzare la pubblicità e la trasparenza tanto dei processi quanto dei giudizi.
Nell'ambito di un ampio discorso filosofico e giuridico, la tortura veniva condannata da Beccaria come residuo di barbarie del tutto inadeguato a contribuire alla ricerca della verità. Lo scritto di Beccaria ebbe uno straordinario successo: fu commentato da Diderot e da Voltaire, conosciuto e ammirato da P.H.D. d'Holbach e più tardi da G.W.F. Hegel, preso a modello nel saggio Osservazioni sulla tortura (1777, pubblicato nel 1804) di P. Verri e, infine, richiamato da A. Manzoni nella Storia della colonna infame (1842). Dopo l'abolizione definitiva in età napoleonica, a parte qualche timida ripresa durante la Restaurazione, la pratica della tortura giudiziaria venne del tutto abbandonata nei paesi europei a partire dal 19° secolo. Sul piano giuridico formale, è difficile dubitare che tale cammino sia reversibile. Tuttavia il progresso tecnologico, e con esso il modificarsi e il raffinarsi dei mezzi d'intimidazione e di persuasione, stanno ponendo il problema di nuove forme di tortura e di violazione del libero arbitrio e della dignità umana, che alla luce dei principi validi per l'abolizione della tortura potrebbero in futuro essere presi in considerazione. Resta in particolare aperto il problema dell'autentica natura della tortura: se suoi caratteri primari siano la violenza e la provocazione del dolore, o non piuttosto la coercizione comunque ottenuta della volontà. In questo secondo caso, la lotta alla tortura dovrebbe affrontare nuovi terreni e nuove frontiere.
1.
L'art. 1 della Convenzione contro la tortura, approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984, definisce tortura "ogni atto per mezzo del quale un dolore o delle sofferenze acute, sia fisiche che mentali, vengono deliberatamente inflitte a una persona da agenti della pubblica amministrazione o su loro istigazione o comunque da altre persone che agiscono in posizione ufficiale […]. Questo termine non si estende al dolore o alle sofferenze che conseguono unicamente da sanzioni legittime e sono inerenti a queste sanzioni od occasionate da esse". Tale definizione è quella che ha ottenuto il più ampio riconoscimento a livello mondiale: alla fine del 1998 la convenzione era stata ratificata da 122 paesi. Essa, d'altra parte, lascia irrisolte alcune questioni. In primo luogo, stabilendo che il reato di tortura è imputabile solo a esponenti di pubbliche amministrazioni o a persone che agiscono in posizione ufficiale, esclude la possibilità di perseguire coloro che, non appartenenti a queste categorie, abbiano comunque commesso gli atti definiti nell'articolo. Inoltre sembra escludere qualsiasi forma di punizione contemplata dalla legislazione di un paese. Ne consegue che, secondo la più comune interpretazione, possono considerarsi lecite le pene corporali, quali le amputazioni, laddove siano previste nell'ordinamento penale di uno Stato. Lo stesso dicasi per tutte le circostanze inerenti a un'esecuzione capitale, quali le modalità dell'esecuzione stessa o le lunghe attese nei 'bracci della morte'. Su quest'ultimo punto in particolare autorità giudiziarie nazionali hanno dato interpretazioni diverse: per es. il Privy Council, l'organismo giudiziario supremo per tutti i paesi aderenti al Commonwealth, ha fissato in 3 anni il tempo massimo di permanenza in carcere di un condannato a morte, sentenziando che un'attesa più lunga costituisce una forma di punizione non legittima.
2.
L'art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, recita che "nessuno sarà sottoposto a tortura, pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti". Da allora sono stati elaborati, tanto da parte dell'ONU quanto da parte di organismi governativi internazionali, altri importanti documenti nei quali si proibisce la pratica della tortura, considerata grave violazione dei diritti all'integrità fisica e alla dignità di ogni essere umano, a prescindere dalla sua condizione e dai reati di cui può essersi macchiato. Si possono ricordare il Patto internazionale sui diritti civili e politici (ONU, 1966), la Carta africana dei diritti umani dei popoli (Organizzazione per l'unità africana, 1981), la Convenzione interamericana per la prevenzione e la punizione della tortura (Organizzazione degli Stati americani, 1985), la Convenzione europea per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o punizioni inumani o degradanti (Consiglio d'Europa, 1987). Atti del diritto internazionale sanciscono l'inammissibilità della tortura anche nei casi estremi: le Convenzioni di Ginevra del 1949, che costituiscono la base del diritto umanitario in condizioni di guerra e conflitti armati, proibiscono in modo categorico il maltrattamento tanto di prigionieri militari quanto di quelli civili.
3.
Non è facile fornire un resoconto esaustivo delle forme di tortura praticate oggi nel mondo. Una prima approssimativa classificazione porta a suddividere tali pratiche e le loro conseguenze in fisiche e psicologiche. Una tortura fisica può consistere, per es., in pestaggi a mani nude o con oggetti contundenti, inflizione di scosse elettriche, soffocamenti, bruciature, privazione del sonno, obbligo alla stazione eretta, estrazione violenta dei denti, o ancora nel costringere il torturato a bere litri d'acqua e comprimergli il pene per impedirgli la minzione; la sofferenza fisica può essere inflitta anche ricorrendo alla somministrazione di farmaci e droghe (la cosiddetta tortura farmacologica). Tortura psicologica, invece, può essere l'inscenamento di una finta esecuzione della vittima, o la costrizione ad assistere alle sevizie inflitte a un familiare. Ma vi sono forme di tortura che travalicano tale distinzione: è il caso, per es., dell'isolamento totale, consistente nell'estraniare il detenuto da altri carcerati, visualmente e acusticamente. La persona in isolamento è spesso confinata in spazi estremamente ridotti - talvolta in celle nelle quali è impossibile restare in piedi - dove permane il buio totale oppure la luce artificiale è perennemente accesa, senza possibilità di usufruire di servizi igienici. Molto diffuso tra le torture è anche lo stupro che, oltre a rappresentare un atto violento, è inflitto di frequente come forma di umiliazione della donna.
La tortura, nella maggior parte dei casi di cui si è a conoscenza, viene applicata con un elevato grado di organizzazione. È molto probabile che esistano vere e proprie scuole di addestramento internazionali, come sembrano dimostrare sconcertanti analogie nelle tecniche utilizzate in paesi del mondo lontani fra loro. Spesso coloro che praticano torture e sevizie operano in attuazione di ordini di autorità superiori e nel rispetto di pianificazioni precise e dettagliate. Il 60% delle persone entrate in cura presso il Centro per la riabilitazione delle vittime della tortura di Copenaghen è stato seviziato in presenza di medici. Il medico, in tali circostanze, ha il compito di identificare i punti deboli sui quali si possono concentrare le torture, di tenere sotto controllo la vittima affinché non muoia, di farla rinvenire quando perde coscienza, di somministrarle cure al solo scopo di prepararla a nuove sedute di tortura. Nel 1996 Amnesty International ha denunciato casi di tortura in 125 paesi; nel 1997 in 117 paesi; nel 1998 l'organizzazione per i diritti umani ha nuovamente rilevato l'uso della tortura in 125 paesi. Di questi ultimi, 33 sono africani (esclusi i paesi del Maghreb), 21 sono americani, 22 sono asiatici, 31 sono europei, 18, infine, sono mediorientali o maghrebini. Se è vero che in alcuni paesi la tortura è una prassi sistematica adottata in centri di detenzione, è anche vero che essa non è mai stata completamente sradicata in nessuna regione del mondo. Allo stesso tempo la tipologia della vittima non è delineabile in modo preciso. A subire la tortura sono, generalmente, leader sindacali, attivisti per i diritti umani, esponenti di minoranze politiche o etniche. Ma torture e maltrattamenti spesso sono inflitti a persone accusate di reati comuni, oppure a richiedenti asilo. Diffuse sono anche le torture su minorenni e anziani.
4.
È opinione diffusa tra i ricercatori che assistono le vittime della tortura che tale pratica venga utilizzata principalmente per distruggere la personalità dell'individuo. Le lesioni provocate dalle violenze fisiche o da altre forme di brutalità hanno effetti prolungati in particolare sulla psiche della vittima. I sopravvissuti a tortura manifestano ricorrenti dolori non sempre ben localizzati, turbe del sonno, depressioni, crisi ricorrenti d'ansia e di panico. Lo stress violento provocato dalla tortura può lasciare postumi di lunga durata. A essere intaccati sono soprattutto i meccanismi mentali con cui l'individuo fa normalmente fronte allo stress: chi è stato sottoposto a tortura spesso non è più in grado di affrontare anche semplici problemi quotidiani. Studi sulla riabilitazione di vittime della tortura sono stati avviati in modo sistematico a partire dalla fine degli anni Settanta del 20° secolo. I risultati delle ricerche consistevano all'inizio in semplici descrizioni e valutazioni dei vari metodi impiegati e dei conseguenti segni e sintomi clinici. D'altra parte, l'indagine medica è in questo caso molto complessa. Il torturato si trova in una condizione psicologica estremamente delicata e spesso non è disposto a raccontare in dettaglio le pratiche subite. Al tempo stesso il medico si può trovare di fronte a situazioni di sofferenza che non possono essere ricondotte esclusivamente alla serie di violenze fisiche subite dalla vittima. In altre parole, il rapporto paziente-vittima di tortura è per il medico assolutamente peculiare in termini di approccio alle notizie anamnestiche, alla valutazione obiettiva, all'iter diagnostico e all'eventuale strategia terapeutica.
Negli anni, mettendo in comune ricerche ed esperienze di medici impegnati nella cura di vittime della tortura, le tecniche di analisi si sono affinate e hanno portato alla individuazione di metodi di intervento più efficaci, spesso a lungo termine. Si è riconosciuta l'importanza fondamentale dell'approccio psicoterapeutico, che consente di affrontare i disturbi più comunemente riscontrati in questi soggetti: negazione, dimenticanza, paura, ansietà, identificazione con l'aggressore, sentimenti di vulnerabilità, alienazione, angoscia, impotenza e paura apocalittica, onnipotenza narcisistica, evasione dalla realtà e difese controfobiche, alcolismo, tossicodipendenza, difficoltà nei rapporti con gli altri e in particolare con la famiglia, depressione, incapacità a provare amore o piacere. Dal 1983 è attivo il Centro canadese per le vittime della tortura, che fornisce ai suoi assistiti terapie di gruppo e aiuti per problemi specifici, avvalendosi di un ampio programma di volontariato. Il centro assiste mediamente 500 persone l'anno. Nel 1984, a Copenaghen, è stato istituito il Centro internazionale per la riabilitazione e la ricerca sulle vittime della tortura; questo Centro nei suoi primi 10 anni di vita ha curato oltre 1000 persone.
5.
Agenzie governative internazionali hanno dato vita a organismi con il compito specifico di agire contro il reato di tortura. È il caso, per es., del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti disumani e degradanti, istituito dal Consiglio d'Europa nel 1987 con la funzione di compiere ispezioni in tutti i luoghi di detenzione dei paesi contraenti la Convenzione europea contro la tortura, approvata sempre nel 1987. L'attività del comitato è coperta da segreto e i rapporti redatti a seguito delle ispezioni sono consegnati in forma confidenziale al governo del paese interessato: solo nel caso che uno Stato si rifiuti di collaborare o di mettere in atto le raccomandazioni degli ispettori, il comitato può decidere di rilasciare una dichiarazione per informare l'opinione pubblica di quello Stato sulle sue inadempienze. Anche organizzazioni internazionali non governative agiscono per prevenire la pratica delle torture e i maltrattamenti. Amnesty International ha elaborato una strategia articolata, di cui costituisce elemento fondamentale la mobilitazione di soci e di simpatizzanti nell'invio di appelli alle autorità competenti di paesi nei quali si registrano casi di tortura. Particolarmente importante è la tempestività dell'intervento in difesa delle persone appena arrestate, dal momento che è nei primi giorni della detenzione che il più delle volte vengono attuate le torture. Il movimento per i diritti umani cerca di far sì che le legislazioni e le prassi dei paesi rispettino adeguati standard per quanto riguarda il trattamento dei prigionieri, nonché la formazione e l'addestramento del personale carcerario e militare.
Nella sua lotta contro la tortura Amnesty International ha attribuito massima importanza al coinvolgimento del personale sanitario. Oltre a richiedere di non partecipare, direttamente o indirettamente, a sedute di tortura, viene raccomandato a tutti i medici di mettere la propria competenza al servizio della tutela delle vittime, promuovendo presso i colleghi di tutto il mondo la salvaguardia dei diritti umani, nonché sostenendo l'indagine medica relativa alla tortura come pure ad altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti. Al fine di prevenire il reato di tortura è anche importante combattere l'impunità di chi si sia reso responsabile di tali atti. La citata convenzione del 1984 stabilisce che ogni paese sottoscrittore affermi "la propria giurisdizione per i reati [di tortura] nei seguenti casi: a) quando i reati sono commessi nel territorio di propria giurisdizione […]; b) quando il presunto colpevole di tali reati ha nazionalità di quello Stato; c) quando la vittima ha nazionalità di quello Stato". Ogni Stato membro deve altresì prendere le necessarie misure per "affermare la propria giurisdizione su tali reati nel caso in cui il presunto colpevole sia presente nel territorio di propria giurisdizione". La convenzione specifica inoltre l'obbligo di ogni Stato membro, in seguito a verifiche basate su dati attendibili, di arrestare un accusato del reato di tortura e di garantire che sia posto sotto processo nello stesso Stato dove è avvenuto il fermo o in uno Stato straniero. L'art. 7 dello statuto della Corte criminale internazionale, approvato a Roma nel luglio 1998, ribadisce infine l'importanza di perseguire i responsabili del crimine di tortura, considerato 'crimine contro l'umanità'.
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