UNIONE EUROPEA.
– Demografia e geografia economica. Storia. La crisi dell’eurozona. La guerra in Ucraina. La pressione da Sud. La sfida del prossimo decennio. Bibliografia
Demografia e geografia economica di Marco Maggioli. – Al 1° gennaio 2013 l’UE 28 contava 505,7 milioni di abitanti (+1,1 milioni rispetto al 2012), con una densità media di 116 ab./km2 che presenta notevoli differenze: valori molto bassi in Finlandia (18 ab./km2), Lettonia (33), Lituania (47), Bulgaria e Irlanda (67), e valori molto elevati nei Paesi Bassi, Belgio e Malta, oltre che nelle aree urbane, dove si concentrano 359 milioni di persone (il 70% del totale). La quota di popolazione con oltre 65 anni è in aumento in ogni Paese membro.
La crescita del PIL ha subito un forte rallentamento nel 2008 e una consistente contrazione nel 2009, in conseguenza della crisi economica e finanziaria mondiale. Il livello del PIL ha mostrato segnali di recupero nel 2010 e tale evoluzione è proseguita (con un progressivo rallentamento) nel 2011, 2012 e 2013, quando il PIL ha toccato il livello più alto mai raggiunto in termini di prezzi correnti: 13.075 miliardi di euro, per il 73,4% concentrati nell’eurozona (v. euro, area) e in particolare nelle economie dei cinque Stati membri più grandi (Germania, Francia, Regno Unito, Italia e Spagna). Il PIL pro capite medio, espresso in standard di potere d’acquisto (SPA), nel 2012 era pari a 25.500, di poco superiore al massimo valore raggiunto nel 2007 e nel 2008. Il valore relativo più elevato si è registrato per il Lussemburgo (+2,6 volte la media), mentre in Bulgaria era inferiore alla metà della media. La crescita del PIL reale è stata molto variegata nel tempo e tra i Paesi. Dopo una generalizzata contrazione nel 2009, a eccezione della Polonia, la crescita è ripresa in 22 Stati nel 2010 ed è proseguita nel 2011, quando si è registrato un aumento in 25 Stati membri. Nel 2012 si è avuta però un’inversione di tendenza e solo la metà dei Paesi ha segnato un’espansione economica, mentre nel 2013 tale numero è salito a 17. Nel 2013 i tassi di crescita più elevati si sono registrati in Lettonia (4,1%), Romania (3,5%) e Lituania (3,3%). Al contrario, l’economia cipriota ha mostrato una contrazione più marcata nel 2013 (−5,4%) rispetto al 2012 (−2,4%), mentre in Grecia la contrazione del 3,9% del 2013 è stata più lieve di quella registrata nei due anni precedenti (intorno a −7%).
Il PIL nell’UE 28 dal lato della produzione ha mostrato nel periodo 2003-13 un’incidenza delle attività manifatturiere sul valore aggiunto in diminuzione di 1,2 punti percentuali, scendendo al 19,1%, appena al di sopra delle attività di distribuzione, trasporti, servizi di alloggio e ristorazione (19,0%), anch’esse in flessione di 0,7 punti percentuali nel decennio. Al contrario, il settore dell’amministrazione pubblica, istruzione e sanità ha visto crescere la propria quota di 1,0 punti percentuali, fino a raggiungere il 19,4% nel 2013. Alcune attività hanno risentito maggiormente degli effetti della crisi finanziaria ed economica: tra il 2007 e il 2009 la contrazione più elevata è stata subita dalle attività manifatturiere, con una caduta complessiva del valore aggiunto del 13,8%, e con un calo ulteriore della produzione industriale dell’1,5% tra il 2011 e il 2013. Il settore delle costruzioni ha registrato la riduzione più forte e prolungata, con una diminuzione della produzione del 18,9% tra il 2007 e il 2013. I servizi alle imprese e le attività di distribuzione, trasporti, servizi di alloggio e ristorazione hanno segnato un calo solo tra il 2008 e il 2009 seppur di entità considerevole (−8,0% e −5,5%). La produzione dell’agricoltura, silvicoltura e pesca è diminuita del 3,8% nel 2010 e del 5,5% nel 2012.
Nel 2013 il tasso di occupazione era del 64,1%. Nel 2008 aveva raggiunto il 65,7%, per poi contrarsi negli anni successivi fino ad attestarsi al 64% nel 2010. Tra gli Stati, i valori massimi sono stati raggiunti in Austria, Danimarca, Germania e Paesi Bassi (72-74%), con un picco del 74,4% in Svezia. All’altra estremità, otto Stati hanno presentato tassi inferiori al 60%, con i valori più bassi registrati in Croazia (49,2%) e Grecia (49,3%). Nonostante il tasso di occupazione generale nel 2013 sia risultato di 1,6 punti percentuali inferiore rispetto al 2008, nove Stati hanno mostrato un aumento. I miglioramenti più rilevanti si sono avuti a Malta (+5,3 punti percentuali) e in Germania (3,2 punti percentuali), mentre in Lussemburgo, Ungheria e Repubblica Ceca gli aumenti sono stati superiori a un punto percentuale. Per contro, il tasso di occupazione in Grecia è sceso dal 61,9% nel 2008 al di sotto del 50% nel 2013. Contrazioni considerevoli – di almeno 5 punti percentuali – sono state registrate nei tassi di occupazione di Spagna, Cipro, Croazia, Portogallo, Irlanda, Danimarca e Slovenia.
I tassi di occupazione delle donne e dei lavoratori anziani hanno presentato generalmente valori più bassi: nel 2013 per gli uomini era del 69,4%, mentre per le donne del 58,8%. Nel 2013 i tassi dell’occupazione maschile sono stati costantemente superiori a quelli dell’occupazione femminile in tutti gli Stati membri, anche se con notevoli differenze da Paese a Paese. Il differenziale tra i tassi di occupazione distinti per genere era di 27,1 punti percentuali a Malta, mentre in Italia e in Grecia era di poco inferiore a 20 punti percentuali. La Grecia ha registrato il tasso di occupazione femminile più basso (40,1%) e tassi inferiori al 50% si sono osservati anche in Croazia e in Italia.
Il tasso di disoccupazione al dicembre 2013 è stato pari al 10,8%, invariato rispetto all’anno precedente. Nell’eurozona il tasso è stato del 12%, sostanzialmente stabile in confronto all’11,9% del corrispondente mese del 2012. La disoccupazione giovanile, dopo essersi mantenuta tra il 17 e il 18% nella prima metà del decennio, era scesa fino al 15,3% nel 2007, per schizzare poi al 19,6% nel 2009, in seguito alla crisi economica. Da allora la disoccupazione giovanile è continuata a crescere fino a raggiungere il 23,2% nel 2013. Il dato più elevato è quello greco (59,2%), poco sopra quello spagnolo (54,3%). Valori superiori al 40% si sono registrati in Croazia, Italia e Cipro. Il fenomeno risulta molto più limitato in Germania (7,4%) e Austria (8,9%).
Storia di Lucio Caracciolo. – Il decennio 2006-15 è stato il più critico per l’U. E. dalla nascita delle Comunità Europee negli anni Cinquanta. In particolare, tre macrofenomeni hanno investito l’UE, mettendone in questione identità ed efficienza. Di questi il più gravido di rischi per la tenuta della famiglia comunitaria è stato e rimane il rischio di implosione dell’eurozona (v. euro, area). In ordine di rilievo, e strettamente connesse alla questione economico-monetaria, seguono la guerra in Ucraina, che ha specialmente investito la frontiera orientale dell’UE, dal Baltico al Mar Nero; la pressione da Sud, sotto forma di flussi migratori crescenti e di rischi per la sicurezza (terrorismo islamista), dovuta alla destabilizzazione e alle guerre tra Nordafrica, Levante e Golfo Persico. La somma di questi fattori sta accentuando la disaffezione degli europei per la costruzione comunitaria e, per conseguenza, sta irrobustendo i movimenti e i partiti politici che fanno dell’euroscetticismo, se non dell’eurofobia, la loro piattaforma di consenso.
La crisi dell’eurozona. – Il punto più alto della crisi dell’eurozona si materializzò nell’estate del 2012. Solo le parole molto forti del presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, pronunciate il 26 luglio di quell’anno – la BCE farà «qualsiasi cosa sia necessaria» per salvare l’euro, e «credetemi, sarà sufficiente» – impedirono che la speculazione finanziaria affossasse la moneta europea. Ma quell’intervento di emergenza e i meccanismi creati ad hoc per contenere la crisi non hanno risolto la questione strutturale che accompagna la fabbrica dell’euro dalla nascita: la mancanza di un sovrano politico che possa garantire in ultima istanza la moneta. Sicché, nelle fasi di grave turbolenza e di forte incertezza sui mercati finanziari, come negli ultimi anni – in particolare dopo l’esplosione della crisi dei mutui subprime in America –, è tutto l’edificio dell’euro che è stato messo in discussione.
L’idea originaria degli europeisti, ovvero di imperniare sulla moneta unica l’integrazione politica del continente, non ha funzionato. Al contrario, l’euro senza garante politico ha alimentato proprio quelle correnti antieuropee che era supposto reprimere. Con effetti interni ed esterni all’eurozona: il caso Grecia è ancora irrisolto, e il rischio di un’uscita di Atene dall’unione economica e monetaria resta visibile all’orizzonte, con eventuali conseguenze sistemiche in gran parte imprevedibili; sul fronte esterno l’euroscetticismo montante in Gran Bretagna ha indotto il primo ministro David Cameron, appena rieletto nel maggio 2015, a promettere a breve un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea.
Sul piano macroeconomico, la crisi del debito pubblico che affligge variamente i diversi Paesi dell’eurozona, contribuendo alla stagnazione economica e soprattutto al grave incremento della disoccupazione che nell’ultimo decennio sta investendo specialmente i Paesi del fronte mediterraneo, Italia inclusa, segnala il deficit di fiducia che divide gli europei lungo il crinale Nord/Sud. In particolare, la Germania rifiuta qualsiasi apertura a una Transferunion («Unione di trasferimenti»), ovvero a contemplare in spirito federalista trasferimenti di ricchezza dai più forti ai più deboli. Né intende mettere in questione il suo permanente surplus commerciale nei confronti degli altri soci dell’eurozona – cui corrisponde inevitabilmente il passivo di questi ultimi – irrobustendo la domanda interna.
Negli ultimi anni sono apparse sulla scena pubblica tedesca forze esplicitamente avverse all’euro, scettiche sulla possibilità di tenere insieme economie fortemente disomogenee. Tanto da evocare l’ipotesi di un neuro, o euro del Nord, come alternativa: ovvero una moneta circolante nei Paesi che pertengono alla sfera economica tedesca, dalla Francia alla Mitteleuropa e alla Scandinavia, inclusa l’Italia settentrionale.
La migliore garanzia contro la possibile disintegrazione dell’eurozona sta nella volontà dei leader politici di preservarla a ogni costo. Questo vale in particolare per la Germania, dove la cancelliera Angela Merkel ha investito tutto il suo prestigio politico per evitare il collasso della moneta europea. Ma anche gli altri principali governi europei, dalla Francia all’Italia e alla Spagna, sono decisi a preservare le conquiste del passato. Il problema è che l’imprevedibilità dei mercati finanziari, la crisi di fiducia nell’Europa e più in generale nella politica e l’apparente incapacità delle economie europee – Germania per ora esclusa – a uscire dalla critica congiuntura in corso rendono sempre più esigui i margini di sicurezza del fronte europeista.
La guerra in Ucraina. – La seconda emergenza riguarda la crisi fra Russia e Occidente sull’Ucraina, che coinvolge direttamente l’Unione Europea. La guerra ucraina scoppiata nel marzo 2014 è il prodotto di tre fattori principali. Anzitutto, l’attrito fra Russia, Repubbliche postsovietiche ed ex satelliti di Mosca intorno alla sfera d’influenza russa e ai suoi limiti; in secondo luogo, l’assenza di un approccio unitario da parte dei Paesi comunitari nei confronti della Russia; infine, l’apparente impossibilità di costruire uno Stato nazionale ucraino in un Paese nato dalla disintegrazione dell’Unione Sovietica, al cui interno la convivenza fra maggioranza ucraina e corposa minoranza russa si è rivelata assai ardua, proprio alla luce dei due primi fattori.
L’U. E. è stata anzi una delle cause scatenanti della crisi, quando, sotto la spinta dei Paesi baltici, Bruxelles ha messo il presidente ucraino Viktor Janukovič di fronte a un aut aut: o accedere all’accordo con l’U. E. per integrare progressivamente l’Ucraina nello spazio geoeconomico europeo, o aderire all’Unione Eurasiatica, lo spazio economico e geopolitico proposto da Vladimir Putin ad alcune Repubbliche ex sovietiche contermini. Di qui in avanti, fino alla rivolta popolare di Majdan e al colpo di Stato che ha rovesciato Janukovič, all’interno della famiglia comunitaria si sono determinati tre raggruppamenti informali, tenuti precariamente insieme dalle sanzioni con cui si è inteso punire l’annessione russa della Crimea. In prima fila, su posizioni particolarmente rigide nei confronti della Russia, nordici e baltici, dalla Svezia alla Polonia passando per Estonia, Lituania e Lettonia, con la copertura britannica (e americana); in una posizione intermedia, la Germania e alcuni Paesi della Mitteleuropa; l’Italia è stata invece probabilmente la nazione più sensibile alle ragioni russe, non solo per la forte dipendenza energetica dalla Russia.
La crisi nelle relazioni euro-russe espone all’instabilità tutto il fianco orientale e settentrionale dell’Unione Europea. Ne sono direttamente coinvolti i Paesi di più recente accessione, tra il 2004 e il 2007, ovvero le ex Repubbliche sovietiche Lettonia, Estonia, Lituania, più Slovenia, Croazia, Malta, Cipro, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria, Bulgaria e Romania. L’allargamento dell’Unione, sulla spinta anche emotiva del crollo del muro di Berlino, si è prodotto lentamente, per fasi – a cominciare dall’inglobamento della ex Repubblica democratica tedesca in quanto le sue regioni sono entrate nella Repubblica federale di Germania (1990) – ma sembra aver prodotto un’accentuazione duratura della diversità di interessi e di visioni geopolitiche all’interno della spazio comunitario.
La pressione da Sud. – Il Mar Nero è l’anello di congiunzione fra la crisi russo-ucraina e l’instabilità di origine levantino-mediorientale e mediterranea. La nostra frontiera meridionale è stata investita dal dicembre 2010 da una sequenza di rivolte popolari, colpi di Stato riusciti o falliti, vere e proprie guerre. Dalla Libia all’Irāq e alla Siria, questo sisma geopolitico ha creato sacche espanse di instabilità e di conflitto che investono le frontiere meridionali dell’U. E. e toccano, più o meno profondamente, tutti gli Stati associati. In assenza di un approccio e di una visione comune, anche questa crisi ha evidenziato le differenze fra i soci dell’Unione Europea. Per es., nella guerra di Libia del 2011, fortemente voluta dalla Francia con la Gran Bretagna al seguito, con l’Italia, piuttosto refrattaria, che infine si decise a seguire i partner europei, mentre la Germania restava in disparte. Più nettamente ancora nell’emergenza migratoria della primavera-estate 2015 (v. rifugiati). In carenza di una politica migratoria comune, ogni Paese ha assunto atteggiamenti ritenuti adeguati ai propri immediati interessi, cercando di scaricare sul vicino la pressione migratoria, composta in buona parte da profughi delle guerre sopra evocate. L’attenzione mediatica sulle dimensioni di tale fenomeno non ha contribuito a calmare gli animi e a promuovere la concordia fra i Ventotto. Durante l’estate, di fronte alla crescente pressione migratoria lungo la dorsale balcanica, prima l’Ungheria poi altri Paesi europei hanno cominciato a erigere barriere per impedire che i migranti provenienti dai Paesi vicini varcassero la loro frontiera. Con risultati peraltro scarsi.
La sfida del prossimo decennio. – A metà del secondo decennio del secolo, il cammino dell’integrazione europea appare dunque impedito dal convergere di antiche diffidenze reciproche in uno spazio anche culturalmente tanto più eterogeneo quanto più vasto, specie dopo le ultime accessioni di Bulgaria e Romania (2007) e Croazia (2013), cui dovrebbero forse aggiungersi quelle di altre Repubbliche ex iugoslave e balcaniche, mentre sullo sfondo la Turchia si allontana sempre di più. Sembra anzi emergere una dinamica inversa, disintegrativa, cui corrisponde, all’interno di alcuni Stati, la crescita di movimenti secessionisti che investono storicamente la Scozia (malgrado la sconfitta di misura degli indipendentisti nel referendum del settembre 2014), la Catalogna (dove nel settembre 2015 i partiti separatisti hanno ottenuto la maggioranza dei seggi nel parlamento regionale), il Settentrione italiano (la cosiddetta Padania) e altre aree o presunte ‘nazioni senza Stato’.
La sfida per l’Europa del prossimo decennio sarà dunque quella di reinventare le ragioni dello stare insieme, in un contesto geopoliticamente molto più fluido e gravido di rischi rispetto a quello ereditato dal decennio precedente. In caso contrario, dovremmo constatare che l’integrazione europea così come l’abbiamo conosciuta dal secondo dopoguerra, più che frutto di impulsi endogeni, è stata figlia della paura dell’Unione Sovietica e della decisione degli Stati Uniti di costruire nell’Europa occidentale un filtro di Paesi, associati nella NATO (North Atlantic Treaty Organization), deputati a contenerne la temuta espansione ‘rossa’. Finita l’URSS e ricentrati gli interessi prioritari americani su altri scacchieri, soprattutto asiatici, noi europei sembreremmo tornati a coltivare solo il nostro spazio nazionale.
Bibliografia: The idea of Europe: from antiquity to the European Union, ed. A. Pagden, Cambridge 2002; M. Gilbert, Storia politica dell’integrazione europea, Roma 2005, 20136; B. Olivi, R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea, Bologna 2005, 20153; H.M. Enzensberger, Sanftes Monster Brüssel, oder Die Entmündigung Europa, Berlin 2011 (trad. it. Torino 2013); D. Marsh, Europe’s deadlock, New Haven 2013.