Urbanizzazione
"Le città, punti immobili delle carte, si nutrono di movimento". È un'osservazione di Fernand Braudel, il quale introduce le città nel suo grande affresco del Mediterraneo del Cinquecento a partire dalle strade: "queste - egli scrive - alimentano, spiegano le città, o almeno ne spiegano le funzioni, i compiti e i meccanismi di base" (v. Braudel, 1949; tr. it., p. 348). Città e strade sono di fatto due aspetti di una stessa realtà. In modo non dissimile, Lewis Mumford comincia la sua ricognizione della città nella storia osservando che l'organizzazione della vita sociale nello spazio pulsa fra movimento e stanziamento. Dopo aver indugiato su comportamenti sociali e istinti degli animali, in parte ereditati dall'uomo, egli finisce per trovare l'origine degli stanziamenti propriamente umani nel rispetto dei morti, nell'uso di seppellirli in luoghi dove poter tornare periodicamente a onorare gli antenati. Nelle vagabonde società paleolitiche i morti sarebbero stati i primi ad avere una dimora stabile. A questa motivazione se ne possono associare altre legate a più ovvie necessità pratiche: la sicurezza offerta da una collina, una sorgente, un fiume, una palude ricca di molluschi. Tuttavia, aspetti che potremmo dire economici e aspetti culturali sono fin dall'inizio intrecciati, e i secondi sembrano avere un ruolo di maggior rilievo nell'alimentare gli impulsi stanziali dell'uomo: il primo germe della città è nel luogo di riunione cerimoniale, meta di pellegrinaggi periodici. Mumford conclude con un'immagine che riprende e sviluppa il suo punto di partenza: "Così, - egli scrive - ancor prima di diventare un centro di residenza permanente, la città incomincia a esistere come luogo di riunione dove gli uomini confluiscono periodicamente: il magnete viene prima dell'involucro, e la sua capacità di attrarre a sé i non residenti per rapporti reciproci e per stimoli spirituali, oltre che per commerciare, resta una delle caratteristiche essenziali della città, una testimonianza del suo innato dinamismo in opposizione alla forma più rigida e più chiusa in se stessa del villaggio, eminentemente ostile ai forestieri" (v. Mumford, 1961; tr. it., p. 20).
Se la parola 'urbanesimo' indica la concentrazione della popolazione in città, 'urbanizzazione' sta piuttosto a significare il processo - in parte progettato, in parte conseguenza incontrollata di miriadi di decisioni individuali - di diffusione e crescita delle città. 'Urbanesimo' però viene usato spesso per indicare anche i caratteri che i modi di vita e le istituzioni sociali assumono con la diffusione delle città, vale a dire nel processo di urbanizzazione, e i due termini finiscono per confondersi e comunque intrecciarsi.
La città, come istituzione sociale, deve dunque essere compresa in riferimento al processo di urbanizzazione, che a sua volta è espressione di processi ecologici più elementari, definiti da coppie di poli: diffusione-concentrazione, fissazione-spostamento della popolazione e delle sue attività. Si potrebbe anche dire che le città sono forme organizzative di queste dinamiche. Come dice Braudel, le città si nutrono di movimento, ma anche organizzano, producono movimento; e la strada, insieme realtà fisica e metafora potente, non congiunge solo le città fra loro, ma sviluppa e regola un movimento interno. Le città sono inoltre dispositivi che permettono di moltiplicare e organizzare l'interazione indiretta fra persone, l'interazione a distanza: questa è la singolare definizione di un sociologo contemporaneo, Anthony Giddens.
Le città nascono e muoiono, più di frequente diminuiscono di dimensione o crescono. Attualmente sembrano diffondersi e crescere sino a conquistare il mondo: si stima che intorno al primo quarto del prossimo millennio la maggioranza della popolazione mondiale vivrà in una città. Eppure si è parlato anche, negli ultimi anni, di de-urbanizzazione e contro-urbanizzazione: la mobilità delle persone è aumentata e il fenomeno urbano è sempre meno rappresentabile con i dati di residenza della popolazione. I geografi immaginano reti nello spazio per tener conto del fatto che le relazioni sociali di frequente saltano possibilità prossime e si stabiliscono, in modo duraturo o variabile, a distanza. I confini di una città diventano così sempre più convenzionali e multipli. Esploreremo questi caratteri della nuova ecologia urbana nel cap. 2.
Il processo di urbanizzazione si intreccia con altri processi, che le scienze sociali hanno distinto analiticamente. Lo sviluppo economico e il cambiamento sociale sono legati a mutamenti del fenomeno urbano: le città possono favorirli o ostacolarli. Il cap. 3 sarà dedicato alla political economy delle città, vale a dire alle forme e al ruolo che esse hanno in diversi modelli istituzionali dei sistemi economici. È la prospettiva particolare che sceglieremo per trattare il processo di urbanizzazione in rapporto allo sviluppo economico. Il cap. 4 considererà invece i nessi fra processo di urbanizzazione e processo di modernizzazione, e di quest'ultimo saranno considerate le dimensioni politiche e culturali. I temi indicati sono fra loro intrecciati, possono essere distinti solo analiticamente. Ciò significa anche che i temi analitici dell'urbanizzazione sono definiti come tali dalle discipline che se ne occupano, e dunque parlare di quelli è anche parlare delle discipline che li hanno selezionati e ne hanno impostato la trattazione.
Lo studio dei modi in cui popolazioni di diverse specie si adattano le une alle altre in uno specifico ambiente, secondo forme e processi osservabili, è il processo dell'ecologia, sia in biologia che, per estensione, nelle scienze sociali. Nella sistemazione dell'ecologia umana operata da Robert E. Park (v., 1967) e dai ricercatori della Scuola di Chicago nei primi decenni del secolo, che trova consonanze nella morfologia sociale di Émile Durkheim, questo approccio precede o accompagna quello propriamente sociologico. Nella versione più radicale l'oggetto della ricerca è una specie di 'storia naturale' della città, lo studio di esiti di adattamento che si verificano senza o al di là delle intenzioni degli attori come conseguenza di miriadi di comportamenti individuali che non si pongono il problema dell'effetto di insieme. Il modello analitico è dunque simile a quello dell'equilibrio nel libero mercato, che tuttavia già richiede riferimenti a regole di interazione esplicitate. Si tratta di una prospettiva che implica quanto meno possibili riferimenti specifici alla cultura o alla politica, alle capacità di controllo e orientamento degli esiti sociali che in questi 'ordini' si sviluppano. L'ecologia viene prima e vuole stabilire in quale misura la diffusione della società nello spazio e l'urbanizzazione rispondano a regolarità dello stesso tipo di quelle che si trovano per le piante: anche le società degli uomini possono fino a un certo punto - così pensava Park - essere pensate in questo modo. Si tratta allora di osservare e descrivere i fenomeni di diffusione e concentrazione, di fissazione e spostamento della popolazione, la formazione di 'aree naturali' dove si riuniscono i simili - per etnia, livello di reddito, professione - allontanando i diversi, i processi di invasione e successione di popolazioni diverse in tali aree.
Per capire l'affermarsi di una prospettiva analitica che successivamente apparirà troppo povera anche a chi ne raccoglierà l'eredità - la prospettiva ecologica continua a costituire il mainstream della sociologia urbana americana - bisogna ambientarla nella città e nel momento in cui è nata. Si tratta di un momento cruciale ed emblematico nella storia dell'urbanizzazione, una tappa dell'evoluzione verso la metropoli del nuovo mondo. Per milioni di immigrati delle più diverse etnie, che spesso provenivano da sperduti villaggi agricoli, Chicago era la porta sul nuovo mondo, punto d'arrivo di persone che si sarebbero lì fermate o si sarebbero poi spostate altrove. Spesso chi apparteneva a un'etnia non poteva neppure comunicare con chi apparteneva a un'altra, perché mancava una lingua comune; una nuova cultura non si era ancora formata e la politica restava poco istituzionalizzata e organizzata. La città e una società urbana crescevano dunque per molti aspetti fuori da ogni controllo: immaginare una storia naturale di popolazioni di individui di specie diverse che competono per trovare un loro spazio diventava una prospettiva plausibile di analisi della società. La relativa povertà analitica dell'approccio ecologico come visione d'insieme del processo di urbanizzazione era poi in parte colmata dallo sviluppo di approfonditi studi di comunità su quartieri e popolazioni particolari, che possono essere considerati una delle radici principali dell'antropologia urbana.
L'ecologia contemporanea, come parte della sociologia, studia forme e processi di organizzazione sociale nello spazio, che cambiano in risposta a forze culturali, economiche, politiche e tecnologiche (v. Frisbie e Kasarda, 1988). Più attrezzata a descrivere forme e processi che a spiegarli, come già succedeva ai tempi di Park, l'ecologia si vanta tuttavia di essere la sola teoria generale dell'urbanizzazione in grado di generare modelli sistematici e verificabili empiricamente. Possiamo citare come esempio una regolarità dell'urbanizzazione negli ultimi due secoli, esprimibile con un semplice algoritmo (chiamato 'equazione di Clark') e verificata da dati relativi a tutte le città per le quali è stata sperimentata, indipendentemente dal luogo, dal tempo, dalla cultura locale o dagli assetti politici:
dx = do e- bx.
Nell'equazione dx rappresenta la densità dell'insediamento, ovvero l'intensità dell'uso del suolo, a una certa distanza x dal centro; do è la densità al centro; e è la base del logaritmo naturale; b è un gradiente di densità determinato empiricamente. Precisando la definizione data in precedenza, l'urbanizzazione può essere identificata, nella prospettiva dell'ecologia, con un processo di concentrazione della popolazione che implica un movimento da uno stato di minore a uno di maggiore concentrazione; ciò può avvenire o con la moltiplicazione dei punti di concentrazione o con l'aumento della dimensione delle singole concentrazioni (v. Tisdale, 1942). Il termine concentrazione riguarda la densità di un insediamento, mentre centralizzazione è usato in riferimento all'aumento di attività amministrative e di coordinamento di un territorio più vasto. Per un lungo periodo, dai tempi della rivoluzione industriale, nei paesi avanzati la concentrazione ha obbedito alla regola per cui i tassi di crescita della popolazione sono direttamente proporzionali alla dimensione degli insediamenti. In tutto questo secolo, tuttavia, è stato anche attivo un processo di suburbanizzazione, vale a dire una tendenza alla concentrazione, all'interno dei grandi poli, verso vecchi e nuovi sobborghi. Nel corso degli anni settanta inizia però una più evidente inversione di tendenza: negli Stati Uniti la popolazione non metropolitana aumenta più di quella metropolitana, e tendenze simili si ritrovano nei diversi paesi europei. In Italia si riscontra la stessa tendenza di lungo periodo: dal secolo scorso sino al 1971 i censimenti registrano un tasso di aumento della popolazione proporzionale alla dimensione del comune, ma dal 1981 i comuni con più di 100.000 abitanti perdono popolazione (v. Martinotti, 1993). I termini deurbanizzazione e controurbanizzazione sono stati usati per cogliere il significato di queste nuove tendenze. Il primo sembra eccessivo, perché non si tratta di una regressione dell'urbanizzazione, al limite di un ritorno alla campagna. Il secondo rende l'idea di una diffusione e ripresa del processo a partire da centri non metropolitani (v. Berry, 1976). A ben vedere, questi processi implicano l'esistenza, oggi, di due forme urbane importanti: quella che possiamo continuare a chiamare la città, e la metropoli, un agglomerato molto grande che riunisce un'area centrale (core) e altri diffusi e densi insediamenti contigui a questa (ring), strettamente collegati da rapporti di centralizzazione, ossia da interscambi giornalieri di persone, merci, informazioni. La diminuzione dei grandi comuni centrali in genere si è accompagnata alla diffusione di popolazione e attività nel ring, e dunque in realtà a una crescita del fenomeno metropolitano, anche se non sempre il gioco combinato delle aree centrale e periferica ha generato un saldo positivo (v. Mela, 1996). Più di recente, si nota in Europa una ripresa dei comuni centrali delle grandi aree metropolitane, mentre nella cintura la popolazione non cresce più o diminuisce (v. tab. I).
La crescita di grandi aree metropolitane è comunque un processo che continua, e che tende ormai a caratterizzare anche, anzi in primo luogo, i paesi in via di sviluppo o sottosviluppati. La tab. II, che si riferisce alle più grandi aree metropolitane del mondo, lo documenta e mostra anche l'impressionante velocità di crescita. All'inizio del nuovo millennio, Calcutta, Bombay, Djakarta, Seul, Los Angeles, Il Cairo, Madras, Manila, Buenos Aires, Bangkok, Karachi, Delhi, Bogotá saranno metropoli di più di dieci milioni di abitanti.La segregazione spaziale è il processo ecologico più studiato all'interno delle città, specie in riferimento allo status socioeconomico e alla razza (o etnia). Entrambi i fenomeni caratterizzano l'attuale processo di urbanizzazione e sono stati rilevati calcolando indici di segregazione (IS). L'indice comunemente usato, che può variare da 0 (assenza di segregazione) a un massimo di 100, è calcolato secondo la formula.
Nell'equazione xi è il rapporto fra la popolazione localizzata nella zona i-esima e la popolazione complessiva di quel gruppo nella città; yi è lo stesso rapporto relativo ai gruppi restanti o a un gruppo particolare: nel secondo caso si misura la segregazione - ovvero la dissimilarità residenziale - di un gruppo rispetto a un altro; n è il numero delle zone considerate. Il calcolo degli indici mostra, per esempio (v. tab. III), che in rapporto al gruppo etnico inglese, principale etnia originaria della nuova nazione americana, la segregazione residenziale della popolazione nera è negli Stati Uniti superiore a quella di altri gruppi etnici non anglosassoni, come italiani, russi o irlandesi: per la prima l'indice, calcolato per la media delle aree metropolitane, assume un valore di 75, e valori particolarmente elevati - 80 e più - a Chicago e Detroit. Tedeschi e irlandesi registrano gli indici più bassi di dissimilarità residenziale dagli inglesi. Quanto alla segregazione socioprofessionale, questa tende a essere relativamente bassa per le diverse categorie, ma maggiore per i gruppi situati agli estremi della scala sociale. Una ricerca nella Grande Londra (v. Petsimeris, 1995) precisa che gli impiegati sono la categoria meno segregata (valore dell'indice rispetto a tutti gli altri gruppi professionali: 15,6), mentre professionisti e operai non qualificati, ai due estremi della scala, sono le categorie più segregate (rispettivamente: 44,8 e 47,7). È interessante notare che fra il 1981 e il 1991 si è rilevato un aumento della segregazione per tutte le categorie considerate. La tendenza a una maggiore segregazione non è confermata in generale, mentre gli studi comparativi tendono a confermare nelle città moderne i processi di segregazione dei gruppi per qualche motivo più fragili e dei gruppi che occupano l'estremità superiore della scala sociale. Questo vale tanto per l'Europa quanto per gli Stati Uniti.
Le nuove tecnologie della comunicazione e la nuova economia dell'informazione cambiano l'organizzazione spaziale delle attività. La città industriale aveva bisogno di ampie superfici e si espandeva orizzontalmente; l'informazione invece può essere agevolmente trasferita sia verticalmente che orizzontalmente: i distretti centrali degli affari nelle città della nuova economia dell'informazione crescono in altezza. Più significative ancora sono le conseguenze sulle attività a distanza: la prossimità spaziale nell'organizzazione economica e sociale perde relativamente di importanza. Un operatore finanziario di New York può essere più 'vicino' a un suo corrispondente di Tokyo che a qualsiasi altro operatore economico di New York. Un produttore può oggi accentrare funzioni di controllo e decentrare funzioni produttive anche a grande distanza. La possibilità di stabilire e cambiare reti di relazioni economiche e di altro genere ovunque nel mondo e la diversa estensione di tali reti, a seconda delle attività e degli attori, possono condurre alla conclusione paradossale che la città perda di significato. In realtà, l'immagine della rete spesso usata oggi dai geografi implica l'esistenza di fili - vale a dire di flussi e vie di comunicazione - e di nodi - vale a dire di città - e del resto l'evidenza empirica mostra la persistenza e anzi la crescita del fenomeno urbano. Cambiano però i sistemi di città, i modi in cui le città sono connesse fra loro. Su scala regionale i processi di centralizzazione del controllo assumono forme che risentono tanto di vecchi assetti storicamente ereditati che di nuove tendenze economiche e tecnologiche, e queste tendenze possono a loro volta essere in parte riorientate da impulsi politici di riequilibrio.
Ciò che nella prospettiva dell'ecologia umana sembra interessare Park "non è la relazione dell'uomo con la terra dove abita, ma le sue relazioni con gli altri uomini" (v. Park e altri, 1925; tr. it., p. 55). Si tratta di un'affermazione che denota una estraneità originaria di questa corrente disciplinare rispetto a quella che sarebbe stata chiamata in seguito la questione ambientale. Permane una difficoltà di rapporti fra ecologia umana ed ecologia biologica, anche a fronte di tentativi di incroci e di specializzazioni nuove. Di fatto l'interesse per la questione ambientale riferita alla città è cresciuto negli anni e oggi il termine 'ecologia urbana' richiama anche temi come gli effetti critici delle grandi concentrazioni umane sull'ambiente e le possibilità di una città sostenibile, vale a dire una città in equilibrio con l'ambiente naturale e con le esigenze di benessere e salute degli abitanti. Da questo punto di vista, si pone dunque la questione delle conseguenze del processo di urbanizzazione nella dinamica dell'ecosistema globale, e in particolare il problema dei rapporti fra economia della città e ambiente. Lo sviluppo, finora scarso, di questo settore delle scienze sociali, in generale e soprattutto riferito alla città, è stato di recente stimolato da impulsi politici all'azione in favore di uno sviluppo sostenibile: particolarmente significativi sono stati gli indirizzi della Conferenza mondiale su ambiente e sviluppo tenuta a Rio de Janeiro nel 1992. Sul piano pratico si diffonde il monitoraggio di parametri ambientali nelle città; alcune di esse si sono date programmi severi di controllo della propria organizzazione e crescita, anche se si può dire che in generale siamo agli inizi. Il processo di urbanizzazione e la grande concentrazione urbana continuano a essere cause rilevanti dell'aumento del carico ambientale.
Economisti e sociologi, con teorie diverse, hanno associato urbanizzazione e sviluppo economico considerando gli effetti della concentrazione spaziale e della specializzazione delle attività (v. Pizzorno, 1962). Se le città sono riconoscibili storicamente come attivatori di sviluppo, non lo sono però necessariamente. Il sociologo americano Bert F. Hoselitz (v., 1960) parla al riguardo di città generative e città parassitarie, in riferimento allo sviluppo delle regioni in cui si trovano. L'influenza esercitata da una città su un territorio più vasto può essere culturale, politica, economica, ma non è detto che si presenti contemporaneamente nelle tre direzioni. Parigi esercita da molto tempo un'influenza multipla in Francia, mentre Costantinopoli negli ultimi secoli dell'Impero bizantino è un esempio di dominanza politico-culturale in situazione di dipendenza economica (dai veneziani). Questa combinazione sembra essere una causa tipica del carattere parassitario di una città. Al di là di riscontri frammentari del genere, non sembra tuttavia facile individuare una teoria generale dei processi urbani generatori o meno di sviluppo, sul breve e sul lungo periodo. Una delle più note definizioni di città con riferimento all'economia è quella di Max Weber (v., 1922), che introduce anche una tipologia analitica. Per Weber la città è un insediamento di mercato, dove una popolazione copre il suo fabbisogno con beni prodotti nella città stessa o procurati altrove. Modi diversi di produrre o procurare l'approvvigionamento individuano tipi diversi di città, a partire dalla distinzione fra città di consumatori - la cui economia dipende dalla possibilità di spesa di redditieri di varia natura: funzionari, militari, titolari di rendite fondiarie - e città di produttori - dove le capacità di acquisto della popolazione dipendono da industrie che esportano e da commercianti che operano su mercati esterni. La città, come forma sociale completamente sviluppata, è però anche un "gruppo regolativo dell'economia", e più in generale una società locale in cui economia, politica, cultura si influenzano a vicenda. Lo studio dell'economia e dei suoi meccanismi di regolazione in uno specifico ambiente istituzionale, in rapporto dunque a politica e cultura e come interazione di attori singoli e collettivi in diverse condizioni di potere, è anche la prospettiva attuale della political economy. A giudizio di Weber, la città ha raggiunto raramente nella storia una piena realizzazione delle sue possibilità formali: è accaduto con la polis greca e soprattutto con i Comuni dell'Europa medievale, quando diventa autonoma e autocefala, dotata di propri ordinamenti e mezzi di difesa. Questa città occidentale è contrapposta concettualmente alla città orientale, sede amministrativa di funzionari di un sistema politico più vasto. Una tipologia abbastanza corrente negli studi sociali distingue città del potere - che accentrano mezzi e funzioni di regolazione autoritative e cerimoniali - e città dello scambio - che accentrano funzioni economiche. Possiamo riscontrare una certa sovrapposizione di questa tipologia con quelle già indicate: Firenze, Genova, Bruges, i centri della Lega anseatica sono certamente in epoca medievale città dello scambio, oltre che città occidentali di produttori completamente formate, mentre le capitali dei grandi imperi antichi sono piuttosto città del potere, oltre che 'orientali', e per una parte importante città di consumatori. Le città dello scambio possono essere facilmente pensate come motori economici, ma le città del potere non sono necessariamente parassitarie. Così, Roma nei primi secoli dell'Impero attivò l'economia in vasti territori, mentre negli ultimi due secoli contribuì al declino e alla stagnazione dell'Italia e di altre regioni.
Le città del potere, come si è detto, accentrano e svolgono anzitutto funzioni politiche, le città dello scambio funzioni economiche. Per chiarire le funzioni economiche che in entrambi i casi comunque esercitano, è interessante osservare che, in termini astratti, città del potere e città dello scambio possono anche corrispondere in modo tipico a due forme istituzionali diverse dell'economia. Karl Polanyi (v., 1944) ha individuato, nella grande varietà delle economie concrete, tre modi fondamentali di integrazione dell'economia nella società: reciprocità, redistribuzione e scambio di mercato. Per reciprocità si intendono prestazioni di servizi o cessioni di beni regolate da norme culturali e da obbligazioni a restituire; la redistribuzione è l'accentramento di risorse da parte di un potere politico e la successiva loro allocazione autoritativa; lo scambio di mercato è il meccanismo specifico di regolazione di un'economia emancipata come sottosistema autonomo, che si è imposto, ma in modo non esclusivo, solo negli ultimi secoli. Un'economia puramente di redistribuzione è tipica di società arretrate, con insediamenti in forma di villaggio. Le capitali degli antichi imperi a economia di redistribuzione sono classiche città del potere - con caratteri anche urbanistici e architettonici che lo rivelano - mentre la città dello scambio è tipicamente la moderna città dell'economia di mercato.
In tutto il corso della storia le società concrete hanno combinato le forme di integrazione dell'economia nella società: categorie analitiche e tipologie non sostituiscono l'indagine storica individualizzante, ma possono aiutarla. Il problema degli strumenti analitici diventa comunque più complesso quando ci si avvicina all'epoca contemporanea, perché il processo di sviluppo coincide con una progressiva differenziazione della struttura sociale. Reciprocità, redistribuzione e scambio di mercato convivono anche nelle complesse economie di oggi. Alcune economie familiari, di vicinato, etniche possono essere descritte e interpretate, in tutto o in parte, come forme di reciprocità anche in una metropoli contemporanea; la redistribuzione richiama le forme del Welfare State, ma più in generale i problemi della tassazione e della riallocazione politica delle risorse in parti diverse del sistema economico e sociale; quanto al mercato, bisogna osservare che le forme organizzative e istituzionali dell'economia assumono caratteri diversi a seconda dei tipi di produzione, delle dimensioni dell'impresa, e delle tecnologie applicabili. Nell'età dell'informazione il settore della produzione di beni immateriali comincia a essere un'altra economia, con propri tempi e regole, rispetto alla produzione anche rinnovata di beni materiali, così come nei secoli passati questa si era sviluppata come un'economia diversa dall'agricoltura. Le tipologie tradizionali che abbiamo ricordato, alle quali le città concrete possono avvicinarsi in misura maggiore o minore mescolando caratteri diversi, possono anche orientare l'indagine contemporanea, ma per comprendere le complesse città di oggi esse devono essere specificate in sintonia con le tendenze di organizzazione istituzionale dell'economia e con la sua differenziazione. La dimensione di una città può essere un indicatore, per quanto rozzo, della sua importanza. La tab. IV classifica le città più grandi d'Europa dal 1000 al 1900; ci riferiremo a questi dati per mostrare l'emergere e il regredire di tipi diversi ed eventualmente nuovi di città nel corso della storia. Nell'anno Mille, le più grandi città d'Europa sono Costantinopoli, capitale dell'Impero bizantino, e Cordova, capitale del potente califfato di Spagna, nel momento della massima penetrazione dell'Islam in Europa. Anche Siviglia e Palermo, che seguono nell'ordine, erano allora città islamiche. Quattrocento anni dopo, Parigi è già l'importante capitale di uno Stato moderno in formazione, detentrice di molte funzioni: compaiono subito dopo Milano, Bruges, Venezia e poi più in basso Genova e infine Gand. Sono le città-Stato del capitalismo nascente, le città dello scambio, situate lungo un corridoio che va da sud a nord nel mezzo dell'Europa, le quali spinte da una borghesia in formazione hanno conquistato l'indipendenza politica in un continente ancora in gran parte feudale. Le tracce di questa Europa delle città-Stato, dove gli insediamenti urbani si addensano, sono ancora chiaramente visibili nelle carte di oggi. Se i nostri dati attirano l'attenzione sulle città-Stato, è opportuno però ricordare che anche nell'Europa feudale e negli Stati nazionali in formazione, molte città hanno giocato un ruolo di primo piano come generatrici di sviluppo: in Francia, per esempio, già al tempo di san Luigi, le bonnes villes du Roi costituivano una rete di centri riconosciuti per la loro importanza e dotati di ampie autonomie (v. Le Goff, 1966).
Nel 1700 torna al primo posto Costantinopoli, ora capitale dell'Impero ottomano, ma più a occidente troviamo di nuovo due capitali, Londra e Parigi, che accentrano funzioni economiche, politiche e culturali. Napoli è in quell'anno la prima città d'Italia: capitale politica di una regione piuttosto vasta, non sarà per essa una città generativa di sicuro sviluppo, avvicinandosi al modello della città di consumatori. Regrediscono i centri del primo capitalismo: è finito l'intermezzo storico che li aveva favoriti come città dello scambio, capaci di accumulare mezzi di produzione e finanziari; si sono affermati gli Stati, quelli in particolare che hanno concluso il lungo processo parallelo di accumulazione dei mezzi di controllo politico, amministrativo, militare. Le città-Stato finiranno assorbite in Stati nazionali che si formeranno in ritardo e a fatica (v. Tilly, 1990).
All'inizio del XX secolo, Londra e poi Parigi, Berlino, Vienna e San Pietroburgo sono le città principali, città anzitutto del potere, ma anche dello scambio, capaci di generare sviluppo. Emerge però un tipo inedito di città dello scambio: subito dopo le grandi capitali troviamo Manchester e Birmingham, le nuove città industriali della società urbano-industriale che ha preso forma sul territorio. Manchester e Birmingham non rappresentano solo un tipo particolare di città dello scambio, la città industriale, ma ne sono anche due forme esemplari. La prima è basata su poche grandi industrie, la seconda su un tessuto più differenziato di piccole e medie imprese: si tratta di due forme urbane socialmente e politicamente molto diverse, le città-riccio e le città-volpi di cui parla Jane Jacobs (v., 1969), riferendosi al passo di Archiloco: "la volpe conosce molte cose, ma il riccio una importante". Le prime sono società locali difficili da gestire: la struttura sociale è polarizzata, con la formazione di un vasto e omogeneo proletariato, e i problemi si radicalizzano; i distretti industriali dell'economia differenziata e diffusa stimolano invece governi pragmatici e adattativi: in epoca vittoriana Birmingham era considerata la città meglio governata del mondo (v. Briggs, 1968). Concentrazione industriale e industrializzazione diffusa sono all'inizio due modelli alternativi; la prima finirà per imporsi, ma la seconda rimarrà una possibilità nascosta che tornerà a guadagnare spazio in anni recenti, per il concorrere di cambiamenti nei mercati e nelle tecnologie disponibili. La cosiddetta città fordista, con un'economia di grande industria per la produzione di massa, che ricorre ad ampie quote di lavoro non qualificato, rappresenta nel nostro secolo l'evoluzione del primo tipo, mentre molte città medie sono diventate di recente ricche capitali regionali dell'economia di piccola impresa. Torino - ora in via di trasformazione - e Bologna sono esempi in Italia del primo e del secondo tipo.
Nuovi modi di organizzazione dei processi produttivi nei grandi impianti - la cosiddetta 'produzione snella' che ha diminuito complessivamente gli addetti e aumentato la loro qualificazione - insieme alla crescita dei servizi e della produzione di beni immateriali stanno cambiando anche forme e ruolo delle città. Gli operai e altre figure di produttori diminuiscono anche nei grandi centri che hanno conservato attività industriali: la microelettronica permette attività di produzione in unità decentrate tecnologicamente ben attrezzate, mentre la telematica permette la gestione centralizzata di grandi sistemi dispersi. L'apertura dei mercati mondiali e la globalizzazione dell'economia consentono poi di attrezzare reti di produzione in paesi diversi, gestite da centri in cui le attività direttamente produttive diminuiscono. La nuova economia urbana si caratterizza soprattutto per funzioni finanziarie e di servizio, e vecchi tipi urbani che già in passato avevano caratteri più marcati di questi settori evolvono verso la città-globale (global city), che concentra funzioni rilevanti del genere indicato e capacità di controllo in un'economia mondializzata (v. Sassen, 1991). Non solo grandi città come Tokyo o New York sono oggi global cities, ma anche centri minori come Miami, Sidney o Toronto. Imprese, banche, società finanziarie, agenzie pubblicitarie, società di telecomunicazione, grandi studi legali che operano a livello transnazionale sono gli organizzatori della nuova economia globalizzata che tendono a concentrarsi in relativamente pochi luoghi strategici. In Europa, Parigi, Londra, Francoforte, Amsterdam, Zurigo sono global cities affermate, mentre altre sembrano crescere in questa direzione, come Barcellona e Milano.
La struttura sociale delle nuove città di governo dell'economia mondiale tende a presentare un caratteristico dualismo. I nuovi settori dei servizi alle imprese sviluppano posti di lavoro qualificati e ben remunerati, mentre i servizi alle persone che lavorano e vivono nei grandi centri occupano fasce di lavoratori poco remunerati e precari. Spesso questo dualismo assume connotati etnici, mentre verso il basso della scala sociale le classi a lavoro precario e poco remunerato confinano con la under class degli emarginati. Queste tendenze sembrano al momento meno accentuate in Europa e piuttosto caratteristiche negli Stati Uniti (v. Magnier, 1996).
La globalizzazione dell'economia ha influenzato anche le grandi metropoli dei paesi in via di sviluppo: alcuni centri come San Paolo, Buenos Aires, Bangkok o Città di Messico sono diventati, in una certa misura, global cities. L'impatto delle nuove funzioni è tuttavia minore e comunque meno visibile, date le enormi dimensioni dell'agglomerato urbano che richiama immigrazione dalle campagne povere. Le metropoli dei paesi arretrati o in via di sviluppo raccolgono una massa rilevante di popolazione in condizioni di vita precaria; l'economia informale dei piccoli mercati locali, per una domanda spesso di mera sussistenza, è un circuito economico a parte rispetto alla produzione per il mercato e per l'esportazione. Nell'America del Sud e nei Caraibi si è tuttavia notato, in seguito agli investimenti esteri e all'internazionalizzazione recente dell'economia, un inizio di controurbanizzazione in centri minori che ha un poco diminuito la pressione migratoria verso le grandi metropoli. Queste nuove tendenze, se in certa misura sono incoraggianti, non devono tuttavia spingere a facili ottimismi che si richiamino a qualche meccanismo riequilibratore automatico. Basta ricordare che da oggi all'inizio del nuovo millennio un miliardo di nuovi cittadini sono attesi nel Sud del mondo, e che in quel momento 19 delle 25 città più popolose saranno localizzate nel Terzo Mondo (v. Paquot, 1996).
Torniamo all'Europa e alle sue specificità. La distinzione fra metropoli e città, introdotta nel secondo capitolo, è particolarmente utile in questo caso (v. Bagnasco e Le Galès, 1997). Le tendenze di urbanizzazione primaziale di cui parlano i geografi, l'esistenza cioè di città che accentrano una parte sproporzionata della popolazione e delle risorse di un intero paese, non sono fenomeni tipici in questo continente, dove si manifestano più di rado e in forma indebolita. Parigi e la sua regione preoccupano ancora i governi francesi per le continue tendenze di concentrazione, e il tipo parigino di gerarchia urbana regionale - caratterizzato dall'esistenza di una importante concentrazione su vasti territori contigui nei quali non hanno potuto svilupparsi altri centri di rilievo per la dominanza della città centrale - si ritrova in altre zone d'Europa: in Spagna, con riferimento a Madrid, in Portogallo con Lisbona, in Inghilterra con Londra o in Italia con Roma, ma in rapporto ad aree più limitate (v. Sallez, 1993). In generale, tuttavia, si tratta di un tessuto urbano fitto di centri maggiori e minori, dove si sono formate ampie aree metropolitane, ma le città sono molto presenti con un loro ruolo economico e politico. Questo è vero non solo nel corridoio dell'Europa delle città di cui si è detto, ma più in generale anche in Francia, dove la politica di decentramento favorisce le capitali regionali, nella costa meridionale e in quella settentrionale della Spagna, in Inghilterra. Come hanno bene sintetizzato due geografi, "l'Europa non è né il continente più urbanizzato del mondo, né quello dove si trova la rete più densa e più gerarchizzata di città, ma [...] non esiste nessuna parte del mondo in cui la città inquadri il territorio con una tale onnipresenza" (v. Moriconi-Ebrard e Pumain, 1996, p. 79).
Cambiamenti politici e riorganizzazioni territoriali non hanno mai sconvolto la trama delle città sul territorio. Lo spazio medio tra due città europee si può calcolare in 16 chilometri, a fronte di 29 in Asia, 53 in America, 55 in Africa e nella ex Unione Sovietica, 114 in Oceania. Altrettanto eccezionale si manifesta, nei confronti, la rete viaria e di comunicazione: si può stimare che nessun punto del continente europeo disti più di un'ora di automobile da una città. Alla debole tendenza alla concentrazione primaziale fa riscontro la chiara presenza di un'organizzazione fortemente regionalizzata. Capitali regionali e città medie sono realtà economiche e sociali importanti, capaci di contrattare uno spazio politico con le metropoli e i governi nazionali. Ovunque, del resto, e non solo in Europa, troviamo città maggiori e minori, che riescono a comportarsi come attori relativamente unitari sulla scena esterna, che tessono alleanze fra loro e fanno una propria politica estera. Tocchiamo qui un punto importante dell'attuale evoluzione della political economy delle città. Si potrebbe dire che, anche se in un senso più limitato, siamo entrati in uno di quegli intermezzi storici favorevoli alla città di cui parlava Weber; non a caso questo si verifica nel momento di relativa maggiore debolezza degli Stati nazionali, sfidati dal processo di globalizzazione e, per quel che riguarda l'Europa, anche dalla costruzione dell'Unione Europea.
Bisogna allora concludere volgendo lo sguardo all'interno delle città. La political economy dell'urbanizzazione riguarda anche le nuove forme che va assumendo il governo di città e metropoli. A proposito della gestione politica delle moderne società complesse, ma in particolare anche per le città, è tornato in uso il vecchio termine governance, in sostituzione di government (v. Le Galès, 1995). L'italiano non dispone di parole in grado di cogliere la distinzione. In effetti, il termine 'governo' accentua troppo la dimensione istituzionale della politica, esprimendo l'idea di una forma coerente di autorità, luogo legittimo ed esclusivo del potere. In una società via via più complessa, nella quale diversi sottosistemi si differenziano e autonomizzano, la governabilità complessiva non dipende tanto da un unico centro capace di controllo, quanto piuttosto da meccanismi di negoziazione fra differenti gruppi e reti di attori, che comprendono le autorità politiche e amministrative. In sostanza, la governance è "un vasto ventaglio di istituzioni, reti, direttive, regolamenti, norme e usi politici, sociali e amministrativi, pubblici o privati, scritti o non scritti che contribuiscono sia alla stabilità, all'orientamento, alla capacità di dirigere di un regime politico, sia all'attitudine di questo a fornire servizi e assicurare la propria legittimità" (v. Wright e Cassese, 1996, p. 8). Ovunque in Europa osserviamo una maggiore frammentazione del governo locale, un ridimensionamento del ruolo dello Stato, e una crescita del ruolo diretto di attori privati nella politica (v. Lorrain e Stoker, 1995; v. Dente e altri, 1990; v. Hienelt e Mayer, 1992). Questa tendenza è stata anticipata negli Stati Uniti dove è comunque più marcata; gli studi sulle urban growth coalition (v. Logan e Molotch, 1987) e la urban regime theory (v. Stone, 1993) confermano una tradizionale debolezza relativa della politica in questo paese rispetto ai grandi interessi economici, finanziari e fondiari, e indicano la tendenza alla formazione di stabili coalizioni di interessi, di tipi diversi a seconda delle città, orientati anzitutto alla crescita. Il ruolo della politica e dello Stato appare maggiore in Europa, Inghilterra compresa. In generale, comunque, l'azione pubblica non sembra più riservata alle istituzioni pubbliche, ma piuttosto alla collaborazione contrattata e in parte istituzionalizzata fra pubblico e privato. Questo non significa solo, per esempio, che servizi tradizionalmente forniti dall'amministrazione, come l'acqua o la pulizia delle strade, possono ora essere, per ragioni di efficienza, affidati a privati; significa anche che alla stessa formulazione di una politica pubblica concorrono in modo esplicito autorità locali insieme a imprese private, rappresentanti di categorie, agenzie pubbliche e miste, rappresentanti di segmenti dello Stato, consulenti, centri studi, associazioni. Problemi di gestione diversi richiedono il concorso di attori diversi, legittimati a contrattare soluzioni accettate nella società e dunque praticabili. Certamente le nuove forme di governo sono state sollecitate dalla concorrenza fra le città nel tentativo di attirare risorse pubbliche, investimenti privati di gruppi importanti, immigrati con alte capacità professionali ed elevati standard di consumo.
Tuttavia è significativo che la governance sembri oggi un modello organizzativo della politica adatto anche alla gestione dei problemi urbani legati alle fasce sfavorite della popolazione e ai quartieri in crisi, in un momento in cui lo Stato tende a decentrare l'organizzazione del sistema di Welfare. Il fatto che le nuove forme della governance abbiano attirato un'attenzione particolare da parte di chi studia la politica urbana è anche rivelatore dell'importanza delle città e del loro ruolo rinnovato nel cambiamento sociale in corso. Si può dire che le città, sollecitate dall'economia, stanno sperimentando nuove forme generali della politica. Qui arrivati, però, cominciamo a toccare più direttamente il rapporto fra urbanizzazione e modernizzazione.
La rottura con i tempi circolari della società tradizionale e la progressiva accelerazione dei processi di cambiamento attivati dalla costruzione degli Stati nazionali, dallo sviluppo del capitalismo commerciale e finanziario e successivamente dalla rivoluzione del capitalismo industriale, segnano il passaggio alla modernità. La modernizzazione è il processo che conduce alle società moderne, vale a dire ai caratteri economici, politici, culturali che contraddistinguono la modernità. Il processo di urbanizzazione si intreccia con quello di modernizzazione e può anche esserne considerato un aspetto. Abbiamo visto nel capitolo precedente il ruolo della città nello sviluppo economico; qui consideriamo il suo contributo nella costruzione dello Stato moderno, ma solo per qualche aspetto fondamentale, e soprattutto il suo essere luogo tipico della modernità culturale.
Walter Benjamin (v., 1982; tr. it., p. 701) sosteneva che ogni epoca è stata a suo modo moderna, con la coscienza "di stare nel mezzo di una crisi decisiva", ma in riferimento alla nostra modernità parla anche di una "preistoria" di questa. I due principali contributi della città alla modernizzazione politica appartengono proprio a quella che potremmo anche noi chiamare una preistoria della modernità. Di entrambi restano segni indelebili nel vocabolario stesso della politica. La montuosa e frastagliata penisola ellenica ha favorito una particolare urbanizzazione, caratterizzata da stanziamenti separati e autonomi. Nella polis greca - in realtà un insieme di forme politiche diverse che si considerano unitariamente con riferimento a caratteri che sviluppano a partire dall'VIII secolo a.C. - è nata la politica, intesa come sfera pubblica delle attività liberamente scelte e praticate, separata dalla sfera privata della famiglia e dell'economia, luoghi della necessità (v. Arendt, 1958). Una politica dunque che comprendeva ancora più cose di quante non ne comprenda la politica moderna, ma anche già ne avviava la differenziazione strutturale nell'architettura dei sistemi sociali. Si possono individuare due altri caratteri che chiariscono il senso di questa antica differenziazione nella sua forma più completa. Anzitutto, in politica si è fra 'eguali', fra uomini egualmente non sottomessi ad altri uomini; nella famiglia e nell'economia familiare, i rapporti sono invece fra 'ineguali', una ineguaglianza che si mantiene nei sistemi di governo dispotici, paragonati dai Greci proprio all'organizzazione della famiglia. In secondo luogo, nella vita pubblica si decide con la persuasione e la parola, non con la forza: costringere era per i Greci un modo prepolitico di trattare con gli uomini. Entrambi i punti sono evidentemente alla base del principio di democrazia, elaborato teoricamente da Aristotele in riferimento alla polis. Dopo un lungo cammino, il principio democratico di governo diventerà un carattere costitutivo della modernità politica.
Weber, come abbiamo visto, ci ha lasciato l'idea della città come forma sociologica completamente sviluppata quando la società locale è 'autocefala', capace di darsi da sé i suoi propri ordinamenti e di governarsi senza dipendere da poteri superiori. Ciò si è verificato, come Weber stesso dice, solo in pochi "intermezzi storici". Questa costruzione analitica può essere criticata per diverse ragioni (v. Rossi, 1987, Introduzione), ma permette di isolare con chiarezza un secondo, decisivo contributo della città alla modernizzazione politica. L'attenzione deve spostarsi all'Europa medievale e alla fioritura urbana lungo le vie di commercio da sud a nord, all'urbanizzazione di quel corridoio centrale di cui si è già parlato. In un nuovo intermezzo storico, dopo l'epoca delle antiche città-Stato greche, nella fascia centrale europea dall'Italia al Baltico, liberi Comuni si emancipano progressivamente dal potere feudale conquistandosi o contrattando le proprie autonomie. In quel corridoio si innesca, agli albori del capitalismo, un processo di accumulazione di capitale in sintonia con istituzioni politiche 'adatte'. Le città-Stato medievali, realtà sociali e politiche peraltro molto differenziate fra loro, hanno introdotto numerose innovazioni istituzionali, ma una merita un'attenzione particolare ai nostri fini: in esse si sono gettate le fondamenta del concetto moderno di cittadinanza, liberato da scorie tradizionali. T.H. Marshall (v., 1963) ha distinto la cittadinanza civile dalla cittadinanza politica, alle quali aggiunge la più recente cittadinanza sociale, affermatasi in questo secolo come insieme di diritti ad accedere a certi standard di consumi, salute, istruzione. La cittadinanza civile riguarda i diritti della libertà individuale: libertà personali, di parola, di pensiero, di fede, di possedere cose in proprietà, di ottenere giustizia; questi diritti cominciano ad affermarsi in modo esteso nell'Inghilterra del XVIII secolo, mentre nel secolo successivo si definisce la cittadinanza politica come insieme di diritti relativi all'esercizio del potere politico. Anche di queste moderne forme della cittadinanza esiste una preistoria, nella quale le città e in modo particolare le libere città del Medioevo ne hanno realizzato, per così dire, parziali esperimenti locali, ma soprattutto ne hanno affermato la possibilità generale. R. Bendix (v., 1960; tr. it., p. 53) ha così sintetizzato la differenza weberiana fra città orientali e occidentali: nelle città orientali "i residenti urbani costituivano un insediamento congiunto di gruppi con i loro separati diritti e doveri, non un gruppo di cittadini che, in quanto residenti della stessa comunità, possedessero gli stessi diritti e doveri". Il punto decisivo è che nei casi che più si avvicinano al tipo puro, nei Comuni dell'Europa medievale, "il cittadino [...] entrava a far parte della cittadinanza come individuo singolo, e come tale prestava il giuramento di cittadino" (v. Weber, 1922; tr. it., vol. II, p. 573). Nel ghetto ebraico dell'Europa centrale, di cui ci ha fornito una ricostruzione sociologica L. Wirth (v., 1928), gli ebrei pagavano le tasse alla città secondo un ammontare addebitato collettivamente alla loro comunità e da questa suddiviso all'interno secondo le proprie regole. L'esistenza del ghetto e di rapporti con il governo della città mediati dalla comunità, come quelli ricordati, è un residuo sopravvissuto a lungo di 'città orientale' nel mondo occidentale. In generale però, secoli prima i Comuni, in quanto libere associazioni di uomini che si emancipavano dai rapporti feudali, avevano preparato la condizione di base per lo sviluppo della cittadinanza negli Stati moderni, come insieme di doveri e diritti di uomini singoli, sciolti da legami tradizionali di appartenenza e di dipendenza personale.
Redfield e Singer (v., 1954) hanno proposto di distinguere due tipi polari di città in relazione alla loro capacità di influire sul cambiamento culturale. Se in generale la città tende a modificare le tradizioni comunitarie, si danno tuttavia casi di città ortogenetiche e di città eterogenetiche. Il primo è un tipo antico, di cui sono esempi Pechino, Lhasa, Kyoto. Si tratta di centri culturali, religiosi e amministrativi dove si elabora e conferma "una dottrina in grado di trasformare le 'piccole tradizioni' non espresse delle culture locali non urbane in una 'grande tradizione' esplicita e sistematica" (ibid., p. 56). Eterogenetiche sono invece le città composite dei commerci e di nuovi tipi di amministrazione, dove si formano continuamente modi di pensare e valutare in contrasto con la tradizione. Nel corso della storia si è imposta sempre più una delle possibili varianti del secondo tipo. La città è dunque sempre stata un ambiente favorevole alle innovazioni culturali, e questo carattere non è specifico della modernità, anche se possiamo assumere che in essa si sia accentuato. C'è infatti una importante differenza qualitativa: ora il cambiamento è istituzionalizzato, vale a dire che è accettato come possibile, previsto e legittimo, e nuovi modelli di valutazione o di comportamento non possono essere esclusi per principio. Proprio per queste basi culturali la prima modernità ha un tono ottimista, confida nella propria capacità di comprendere e di governare. Tuttavia, quanto più si libera della tradizione, tanto più diventa anche capace di riflettere su se stessa e sui propri limiti. La modernità dispiegata prende coscienza della natura limitata della razionalità strumentale che si è sviluppata, scopre quello che Weber chiamava il "politeismo dei valori", e lo sconcerto di una situazione in cui ognuno può pretendere di aver ragione dal suo punto di vista, secondo l'espressione di Karl Jaspers. Di più, se il mutamento continuo è l'essenza della cultura moderna, questa tende ad accorciare i tempi dei significati, fino a essere una cultura volatile del presente. La grande città appare, a cavallo del nostro secolo, come il luogo proprio della modernità: la vita di relazione in città - la normale esperienza di vita dell'uomo contemporaneo - può diventare dunque un tema privilegiato per comprendere la condizione moderna. La riflessione su città e modernizzazione assume una prospettiva critica, consapevole delle ambivalenze, delle possibilità ma anche dei limiti e delle difficoltà insite nei processi in corso.
Le metropoli e la vita dello spirito di Georg Simmel (v., 1903) è riconosciuto come il testo classico della riflessione sui rapporti fra modernità e città, un crocevia che merita qui uno spazio particolare. Per il filosofo e sociologo tedesco, parlare della vita nella metropoli significava parlare direttamente della società moderna: non solo si ritrovano dunque nel saggio, in una sintesi ricca, i temi dell'analisi della modernità sparsi in tutta la sua produzione, ma questi stessi temi vengono declinati in modo esplicito in relazione all'urbanizzazione, mentre altrove la connessione è implicita. È utile segnalare questo fatto, perché in generale, per molta letteratura successiva, il riferimento alla condizione urbana nell'analisi della modernità è implicito.
Il tono particolare della vita spirituale nella grande città moderna è dato dalla varietà di relazioni e dal ritmo accelerato rispetto ai centri tradizionali più piccoli. Alla diversità e al sovraccarico di stimoli l'individuo reagisce sviluppando capacità analitiche, selezionando le esperienze e proteggendosi da coinvolgimenti emotivi profondi. Come era già avvenuto in modo autonomo grazie allo sviluppo dell'economia monetaria di cui da sempre è stata sede la città, si diffondono orientamenti di calcolo, di riduzione della qualità a quantità, di esclusione di quanto non può essere abbracciato da operazioni logiche. Le forme di adattamento della vita di relazione compongono una gamma che va dal riserbo alla superficialità, alla diffidenza, all'avversione. Queste forme di dissociazione sono in realtà le condizioni per le possibilità di esistenza di un tessuto associativo complesso. La permanente incapacità di selezione e adattamento costituisce la condizione psicologica dell'individuo blasé, un tipo metropolitano che paga con la svalutazione del mondo oggettivo l'eccessiva esposizione a stimoli. La partecipazione a cerchie sociali differenziate, la ricerca di opportunità economiche in nuove nicchie inesplorate, la tensione fra affermazione di una propria personalità e sviluppo di una cultura oggettivata che 'cresce fuori di ogni vita personale' spingono in modo contraddittorio a una individuazione che per essere riconosciuta può arrivare al limite dell'eccesso e della preziosità. I temi dell'individuazione in tensione con l'impersonalità, dell'indebolimento dei gruppi primari, della segmentazione e del conflitto di ruolo che derivano dalla differenziazione delle relazioni sociali, come temi della cultura della grande urbanizzazione, saranno ripresi o riscoperti da una vasta letteratura.
Conviene però segnalare qui almeno un altro saggio di Simmel, dedicato alla figura dello straniero, che integra l'analisi della condizione metropolitana. Lo straniero - non il viandante che viene e se ne va - è membro del gruppo, ma in una posizione particolare. Presente ma non radicato, egli esprime insieme vicinanza e lontananza, indifferenza e impegno. È meno vincolato e più libero nel suo giudizio, e con lui si hanno rapporti più astratti dal momento che si spartiscono solo certe qualità più generali. Ne deriva una costellazione di possibilità ambivalenti, che implicano rischi, pregiudizi e pericolosità, ma anche possibilità di commisurare le situazioni a ideali più generali e a richiami oggettivi. La figura dello straniero, o dell'estraneo, assume il significato di archetipo della condizione moderna dell'uomo della metropoli.
I temi di Simmel, come si è detto, sono stati spesso ripresi in modo diretto o implicito, oppure in forme diverse sono stati riscoperti da molti; in ogni modo, si intrecciano con altri percorsi della successiva analisi sociologica e antropologica. Ne seguiremo qui, in alcune ramificazioni, uno che più direttamente ha a che fare con la realtà e la metafora dello spazio nei fenomeni di relazione: la tensione fra vicinanza e lontananza, ovvero fra accesso e separazione. La città può essere intesa come un insediamento relativamente ampio, denso e permanente di individui socialmente eterogenei. Questa definizione dovuta a Wirth (v., 1938) non va esente da difficoltà, ma è accettata in linea di principio. In un ambiente sociale ampio, denso ed eterogeneo aumenta il potenziale di accessibilità agli altri, ai diversi in particolare. La differenziazione degli ambiti di vita e la specializzazione dei ruoli all'interno di ognuno di essi sono le condizioni generali della vita di relazione in città. Nel corso della giornata e nello sviluppo della vita si è coinvolti in situazioni con un gran numero di persone diverse, in rapporti di ruolo diversi. Il repertorio dei ruoli di ogni individuo aumenta e ognuno, nella sua esperienza, può tenerli più o meno separati o collegati, come può tenere separati o collegati i diversi ambiti di vita in cui è coinvolto: di fatto, per necessità, per strategia. Il gioco di accesso-separazione comincia dal rapporto di vicinato: il buon vicino non deve essere invadente. Per cogliere questi processi di variazione e individuazione dei tessuti di relazione, la ricerca sociale si è dotata di nuovi strumenti come la network analysis (v. Piselli, 1995) e lo studio delle carriere morali degli individui in cerca di un'accettabile stima da parte degli altri e di autostima (v. Abrams, 1982). In generale, nella vita di città aumenta dunque l'accessibilità agli altri, ma ciò avviene in virtù di numerosi coinvolgimenti e a condizione di relazioni segmentate. Le relazioni segmentate sono, in misura maggiore o minore, impersonali e superficiali, anonime e incerte; richiedono l'elaborazione di categorie astratte per identificare rapidamente, per scopi funzionali e limitati, l'altro con cui si entra a contatto; una distanza può anche stabilirsi con la produzione di stereotipi peggiorativi. L'accessibilità rende infine fluida la vita urbana. La fluidità è un secondo carattere rilevante di questa: cambiano le persone con cui si entra in contatto, cadono relazioni precedenti, o mutano di intensità, legami anche stretti e multipli possono stabilirsi e sciogliersi. Il valore dell'acquisizione, riconosciuta come componente della modernizzazione in opposizione all'ascrizione, è per questa via promosso dall'urbanizzazione.
L'antropologo Ulf Hannerz (v., 1980), seguendo il filo di analisi ora esposto, arriva a riproporre la questione della città come ambiente dell'innovazione culturale. Lo sviluppo dei traffici commerciali, le vicende politiche e militari, i flussi migratori hanno certamente messo a contatto e mescolato fra loro culture originariamente diverse e sempre meno isolabili. Questo riscontro non è tuttavia ancora una spiegazione del perché dell'innovazione culturale, che richiede l'individuazione dei meccanismi in gioco. Mantenendo l'ottica di Simmel, questi vanno cercati a livello microsociale. L'accessibilità urbana è anche l'accesso continuo a esperienze capaci di affinare, complicare, sconvolgere modi abituali di pensare; la varietà, ma anche la casualità di queste esperienze aumentano la possibilità di nuove sintesi culturali inattese. Inoltre la città contiene un numero abbastanza grande di persone accessibili per far sì che il casuale sintetizzatore possa avere la probabilità di incontrare altri capaci per affinità di recepire e coltivare le possibilità offerte dalla nuova sintesi. In tal modo può nascere una subcultura - una corrente artistica, un settore di nuovi servizi, un movimento politico - che potrà in seguito deperire, mantenersi in una sua nicchia o imporsi in modo allargato nella società. Questi sono i meccanismi microsociali di base di quella che potremmo chiamare un'ecologia culturale delle città.
Da questo punto di vista una vera città è quella che permette effetti di serendipity, è un luogo dove si può trovare una cosa mentre se ne cerca un'altra. Una grande città troppo semplice dal punto di vista strutturale - come una tradizionale città industriale - può non essere una vera città, capace di continue novità culturali inattese, mentre può esserlo una città relativamente più piccola, ma più differenziata, accessibile e fluida. Se differenti strutture urbane consentono gradi maggiori o minori di accessibilità e fluidità, con la conseguenza di essere ambienti più o meno favorevoli all'innovazione culturale, non è escluso che successivi processi di urbanizzazione non riducano questa possibilità. Tale circostanza può poi essere amplificata dalla tensione, sempre attiva nella vita di relazione, fra accesso e separazione. La sequenza proposta da Hannerz potrebbe allora essere sostituita da una che accentuasse la portata della strategia della separazione. Una prospettiva del genere è adottata da Richard Sennet, che parla della "moderna paura di esporsi". La pericolosa, caotica, conflittuale metropoli contemporanea suscita reazioni di difesa e distacco, ma la paura di esporsi avrebbe antiche radici nella cultura occidentale. Questa paura si riflette nel modo in cui la città ha preso forma e si rivela in tutta evidenza oggi nella metropoli. "Ciò che caratterizza il nostro modo di costruire la città - scrive Sennet (v., 1990; tr. it., p. 12) - è la ghettizzazione delle differenze, implicitamente considerate minacciose per la collettività più che stimolanti. Ciò che costruiamo nel nostro regno urbano sono quindi dei luoghi anonimi neutralizzanti, degli spazi che rimuovono la minaccia di contatto sociale". La polis greca e il Comune medievale esprimevano una diversa possibilità di libero accesso all'altro, pur con ambiguità e gravi limitazioni. Su questo aveva riflettuto Hannah Arendt, giungendo all'idea di vita pubblica e politica di cui si è detto. Sviluppando il tema, arriviamo qui a toccare un punto cruciale, che investe direttamente un altro valore della modernizzazione: l'universalismo, opposto al particolarismo, riscoperto dalla Arendt in relazione al tema dell'esule, assai vicino a quello dello straniero di Simmel e metafora del cittadino moderno. L'esule vive in un mondo culturale che non appartiene alla sua eredità. Per accedere a una nuova vita, il suo Io e l'identificazione con le radici culturali devono diventare meno importanti, la libertà nel presente deve essere conquistata uscendo dall'interiorità. Ciò che l'esule - il cittadino della metropoli - ha in comune con gli altri può essere colto solo a livello astratto, lontano dai costumi particolari di una cultura, in ciò che lega solo in virtù di una comune umanità. Questo trascendere il particolare in nome di un valore e di una condizione generale e astratta corrisponde al principio dell'universalismo come è di solito concepito dai sociologi. Ma un tale universalismo astratto e di principio - argomenta Sennet - comporta un problema, perché può impedire di entrare davvero in comunicazione con gli altri, dal momento che esclude la comprensione e la simpatia: l'enfasi sull'impersonalità nasconde la paura di esporsi. La differenza con la posizione della Arendt attiene dunque alle condizioni e al modo di accedere agli altri, e alle conseguenze che ne derivano.
Differenze culturali e personali sono destinate a rimanere, e la comprensione del diverso è "una condizione di reciproca attenzione, che sorge quando si perde la capacità di autodefinirsi", accettando il fatto di essere incompleti (ibid., p. 163). Nella versione di Sennet lo straniero di Simmel, così simile all'esule della Arendt, diventa anche uno straniero nei confronti di se stesso, capace di sperimentare l'accesso al diverso a condizione di allontanarsi da una sua identità definita, in un certo senso di perdersi. L'accessibilità è dunque un'operazione rischiosa per chi la pratica. Dando spazio alla separazione siamo giunti a definire in termini più profondi e non strumentali il tema dell'accessibilità. Contemporaneamente incrociamo un'altra ricca e sfaccettata linea di riflessione sulle vicende del Sé nella modernità. Il maggior grado di libertà, ma insieme la maggiore incertezza che costituiscono l'esperienza della segmentazione dei ruoli sono temi diversamente ripresi da molti. Superata l'idea che siano possibili personalità fortemente coerenti nella società moderna, si sono sviluppati concetti e modelli capaci di dar conto di identità multiple e debolmente integrate (v. Identità personale e collettiva). In una specifica situazione e nell'interpretare un determinato ruolo un individuo può essere una persona piuttosto diversa da quella che è quando si trova in un'altra situazione, interpretando un altro ruolo. Questa è un'esperienza corrente della vita urbana. Fra una totale dissociazione e una rigida centratura del Sé, nei termini di una cultura condivisa, sta la varietà concreta di gradi, modi, tecniche di adattamento. Concetti come quello di self lodging (v. Denzin, 1970), che indica un ruolo principale intorno al quale si organizzano gli altri, o l'idea di Turner (v., 1968) che l'identità è esplorata dall'individuo come un'ipotesi verificata nell'interazione, sono esempi analitici al riguardo. In questa direzione, gli studi urbani recenti hanno dedicato un'attenzione particolare a Goffman (v., 1955 e 1959): per la metafora teatrale che distingue luoghi di ribalta e di retroscena, i primi dove si rappresenta il Sé in cerca di un'immagine coerente e vantaggiosa, i secondi dove si prepara la rappresentazione e ci si ritira; per lo studio delle strategie di rivelazione del Sé, con il concetto di distanza dal ruolo; per lo studio dei rituali di interazione, ricorrenti nella vita quotidiana, che continuamente ricuciono gli strappi nei tessuti di relazione. È importante qui sottolineare il significato profondo che Goffman attribuisce alla ritualità, perché ciò ha a che fare anche con le regole dell'accesso e della separazione. Riprendendo la prospettiva di Durkheim, per cui nelle religioni primitive l'anima trattiene un frammento della sacralità del gruppo, Goffman ritiene che, in una versione secolarizzata, sia stabilito un imperativo culturale consistente nell'idea che il Sé richieda un'attenzione rituale e non possa essere violato impedendo a una persona di mantenere una propria accettabile immagine sociale. Ricordiamo questa impostazione, perché permette di cogliere un altro punto critico nella tensione fra accessibilità e separazione: la crisi dell'uomo della metropoli può essere interpretata come difficoltà di gestire un Sé multiplo e fragile, che rischia di dissolversi nel labirinto di un mondo di relazioni poco decifrabili. La letteratura, come anche il cinema e le arti figurative contemporanee, riesce a esprimere con intensità questa condizione umana. Sennet ricorre a La prossima volta, il fuoco, un saggio dello scrittore James Baldwin (v., 1963), per sviluppare la sua critica alla Arendt. Il malessere della dissoluzione del Sé nella metropoli è invece espresso in modo esemplare nei racconti della Trilogia di New York di Paul Auster, dove un private eye, come è chiamato in America il detective dei romanzi polizieschi, si trasforma in private I: egli si accorge di essere in realtà a caccia di un se stesso sempre riflesso in un doppio, sfuggente nel labirinto di un mondo dove le cose aspettano di essere rinominate. Il rischio della dissoluzione dell'Io e della inconoscibilità del mondo riporta nelle grandi metropoli moderne la primordiale paura dei Greci, che Platone ancora echeggiava nel Politico parlando del mare della dissimiglianza, che è infinito (v. Gilli, 1988). A questa i Greci avevano reagito riconoscendo e disciplinando le differenze, con la scansione analitica consentita dall'invenzione del concetto e con la cura del Sé nella vita pubblica della città.
Anthony Giddens (v., 1990) ha proposto una definizione sociologica della modernità in riferimento al processo che chiama di disembedding: i rapporti sociali nella società moderna sono svincolati da contesti locali di interazione e ristrutturati su archi di spazio-tempo indefiniti. La città è un dispositivo che organizza l'interazione a distanza, il disembedding dal villaggio e dal piccolo centro, ma a sua volta, nell'epoca della globalizzazione, è sfidata dall'avanzare dello stesso processo.
Abbiamo iniziato con una citazione di Mumford, che parlava delle vagabonde società paleolitiche. Le nostre società sono tornate a essere vagabonde. Nelle città si entra e si esce, come lavoratori pendolari, utilizzatori di servizi, consumatori, turisti. Nei grandi centri spesso la popolazione residente diminuisce, ma il traffico aumenta. Circolano persone, merci, informazioni. Continua ad aver ragione Braudel: le strade alimentano e spiegano le città. Le nuove rapidissime vie telematiche permettono di gettare reti sull'intera superficie del mondo per contatti in tempo reale, in uno spazio virtuale che rende indifferente la localizzazione fisica, e questo sembra un nuovo tipo di strada che contribuisce a rendere superflua la città. Ma non è così: le reti hanno fili e nodi, e le città, lo abbiamo visto, continuano a essere grandi e complessi terminali di flussi anche nell'epoca delle strade telematiche. Il processo che conduce all'ipertrofia urbana non sembra arrestarsi, mentre l'urbanizzazione del mondo continua sotto la spinta di una popolazione crescente. Paul Bairoch (v., 1985) sintetizza la traiettoria dell'urbanizzazione nel titolo di un suo libro: De Jéricho à Mexico, dalla biblica prima città, di cui si hanno tracce databili a quasi ottomila anni prima di Cristo, alla più grande metropoli che si affaccerà al nuovo millennio con una popolazione di più di 25 milioni di abitanti. Abbiamo seguito la vicenda dell'urbanizzazione per alcuni aspetti, con riferimento alle sue forme e ai rapporti con lo sviluppo economico e con i processi di modernizzazione politica e culturale. La varietà urbana è apparsa subito così forte che sono state richiamate diverse tipologie per fare ordine, tipologie che sapevamo utili solo fino a un certo punto di fronte alla persistente individualità dei soggetti storici sulla scena. Si tratta di una individualità che si stabilisce fra forme che si selezionano ed eredità storiche peculiari, e che sembra riaffermarsi con il nuovo protagonismo delle città ridiventate attori sulla scena internazionale.
Nel processo di urbanizzazione, però, non cambiano solo le città, cambiano anche i rapporti fra queste, i sistemi di città. I geografi descrivono sistemi reticolari che forse è ancora troppo presto per considerare affermati, ma le global cities sono centri organizzatori di nuovi evidenti sistemi gerarchici di città unite dall'economia. Guardando da lontano, si può osservare un processo complessivo di urbanizzazione che sta coprendo la superficie del globo; guardando da vicino, la varietà è tale che si arriva a chiedersi se si possa parlare di un unico processo, comprensibile in ogni caso con le stesse categorie.
La Rivoluzione francese, nel suo ottimismo, aveva immaginato una possibile virtù educatrice dello spazio, ma la diffusione delle prime statistiche sociali all'inizio del secolo scorso porta in Europa la paura dell'ipertrofia urbana. I costi umani delle megalopoli potrebbero essere alleviati oggi dalle nuove tecnologie che consentono di diffondere le attività e concentrare il controllo in molti centri diffusi, ma questa diffusione delle funzioni urbane, che Mumford chiamava "la città invisibile", non arresta al momento la crescita. La redistribuzione della popolazione fuori dai grandi centri urbani, quando avviene, coincide in gran parte con la diffusione della metropoli, la nuova forma assunta dalla città. La tendenza all'ipertrofia è un carattere generalizzato dell'urbanizzazione, che si presenta però in forme diverse nei paesi sviluppati e in quelli sottosviluppati. Questa distinzione dei processi di urbanizzazione rimane probabilmente la più significativa. La stessa metafora della città come magnete ricordata all'inizio si adatta diversamente ai due casi. Nei paesi sviluppati le nuove città alimentano fra loro flussi veloci, in entrata e in uscita, di persone, cose e messaggi. Una città del Terzo Mondo, che sembra aver perduto le sue funzioni di attivatore dello sviluppo, è piuttosto una calamita che attira crescenti masse povere, intrappolandole in una sacca di povertà. In entrambi i casi la grande città suscita problemi; come ha scritto Bairoch, il problema urbano sarà nel prossimo futuro una delle maggiori preoccupazioni dell'umanità, ma sarà un problema tragico nel Terzo Mondo. Nel corso della storia la città ha suscitato di continuo progetti politici e utopie filosofiche in cerca di forme definite per un territorio ideale, a misura delle necessità e delle possibilità di libertà dell'uomo. Questa ricerca si muove con proposizioni di morfologie definite, ma - ha osservato Philippe Ariès (v., 1977) - lo spazio sociale non è mai riempito completamente. Riflettendo su questa affermazione suggestiva ma ambigua, Carlo Olmo e Bernard Lepetit la interpretano come una traccia importante per lo storico: la traccia "della difficoltà di descrivere la società senza descrivere il suo spazio, come della difficoltà e della necessità di concepire una società che non sia completamente coerente con il suo spazio e con se stessa" (v. Olmo e Lepetit, 1995, p. 10). È una traccia che può orientare in generale la complicata ricerca sociale sui processi di urbanizzazione, riconosciuti come temi essenziali dell'analisi della società moderna e come difficile posta in gioco politica. (V. anche Città; Migratori, movimenti; Modernizzazione; Squilibri regionali; Territorio, pianificazione del).
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