URSS
Alla definizione data da Lenin del cinema come l'arte di maggior rilievo per i comunisti si deve se intenti conoscitivo-propagandistici e creatività artistica non sono stati disgiunti in sede teorica e programmatica, determinando le premesse per la splendida stagione del cinema sovietico degli anni Venti. Quando, il 27 agosto 1919, un provvedimento governativo nazionalizzò l'industria dei film, restava ben poco del vecchio cinema zarista (v. Russia). Carenti erano le attrezzature tecniche e le materie prime, circoscritta l'iniziativa privata ad alcuni settori dell'esercizio (dopo la NEP, ovvero la Nuova politica economica, subentreranno le imprese cooperativistiche o aggregate in sindacati), erano assenti i cineasti più prestigiosi. Jakov A. Protazanov (rientrerà nel 1923), Iosif N. Ermol′ev, Ivan I. Mozžuchin, Natal′ija A. Lisenko, Aleksandr Volkov (Alexandre Volkoff), Vjačeslav Turžanskij e altri erano emigrati in Francia, negli Stati Uniti, in Germania. Per i bolscevichi divenne pertanto prioritario impostare una politica di formazione e di valorizzazione di elementi nuovi che, provenienti da varie professioni e arti, fossero nutriti da uno stesso ideale politico. Leader di vasta cultura e in confidenza con le più vive correnti del pensiero europeo, Lenin scorgeva nel cinema il mezzo più adatto da utilizzare nel processo di acculturazione, che avrebbe investito larghissime sacche di analfabetismo, ignoranza, arretratezza. Nelle sue direttive e indicazioni primeggiava un disegno pedagogico, che, presupponendo il mantenimento dell'istituto censorio, unificava esigenze ideologiche, didattiche, divulgative ed estetiche. Queste ultime stavano a cuore principalmente agli esponenti delle avanguardie (v. avanguardia sovietica), i futuristi del Levyj Front iskusstva (LEF, Fronte di sinistra dell'arte), e del Proletkul′t (Cultura proletaria), che miravano all'elaborazione di linguaggi svincolati dalle tradizioni e intonati, nel contenuto poetico, alla radicalità della Rivoluzione d'ottobre e a una visione del mondo imbevuta da un netto spirito di classe. Nato da interventi di stampo documentaristico (impeccabili i film di montaggio sulla Russia zarista, inghirlandati da Esfir′ I. Šub in Padenie dinastii Romanovych (1927, La caduta della dinastia dei Romanov) e in Rossija Nikolaja II i Lev Tolstoj (1928, La Russia di Nicola II e Lev Tolstoj) e dai primi esempi di un'epopea ispirata alla guerra civile (Krasnye d′javoljata, 1923, Diavoli rossi, di Ivan N. Perestiani; Serp i molot, 1921, Falce e martello, diretto da Vladimir R. Gardin), spesso in forma di componimenti agitatori, il cinema sovietico aderiva per via naturale all'attualità sociale e politica, all'impegno umanistico, alla responsabilità morale che gli scrittori dell'Ottocento avevano condiviso. Sin dagli inizi, un contrasto si era delineato tra due indirizzi incarnati da quanti (Gardin, Protazanov ecc.) propendevano a ripensare il cinema, modificandone l'asse ideologico e le tematiche, e chi invece era guidato da una più alta ambizione. Lev V. Kulešov (Proekt inženera Prajta, 1918, Il progetto dell'ingegner Pright; Neoby-čajnye priključenija Mistera Vesta v strane bol′ševikov, 1924, Le avventure di Mr West nel paese dei bolscevichi; Po zakonu, 1926, Secondo la legge) apriva la strada alle risorse di un montaggio nervoso, che non era più una logica combinazione di inquadrature e di accadimenti alternantesi. Sergej M. Ejzenštejn (Stačka, 1925, Sciopero; Bronenosec Potëmkin, 1925, La corazzata Potëmkin; Oktjabr′, 1927, Ottobre; Staroe i novoe, 1929, Il vecchio e il nuovo) deromanzava i film, voltava la schiena allo psicologismo, apparentava la concretezza delle immagini cinematografiche alle astrazioni, visualizzava metafore e concetti, aboliva il personaggio individuale. Vsevolod I. Pudovkin (Mat′, 1926, La madre; Konec Sankt-Peterburga, 1927, La fine di San Pietroburgo; Potomok Čingis-Chana, 1928, Tempeste sull'Asia) non rinunciava al modello narrativo del romanzo realistico, in cui la letteratura russa aveva raggiunto punte eccelse, ma non era meno inventivo di Ejzenštejn. Dziga Vertov (Šagaj, Sovet, 1926, Avanti, Soviet; Šestaja čast′ mira, 1926, La sesta parte del mondo; Entuziazm, Entusiasmo, noto anche come Simfonija Donbassa, 1930, La sinfonia del Donbass) negava ogni credito alla fiction, documentava la quotidianità e le evoluzioni del sistema economico e industriale, liricizzando lo slancio del lavoro e talvolta componendo film assimilabili a partiture musicali. La meta era ribaltare i canoni e i codici del passato, reinventare le modalità cinematografiche, a partire dagli esiti che David W. Griffith aveva raggiunto negli Stati Uniti, per sorpassarli in una sfida temeraria e seducente. Vi erano le premesse e le avvisaglie per un dissidio che si sarebbe approfondito, ma c'erano anche i presupposti perché il cinema si configurasse come un'attività di ricerca, di laboratorio, esentata dalle preoccupazioni mercantili, finanziata da organismi statali, libera, all'interno di una omogeneità politica.
Con Lenin, un certo pluralismo aveva connotato la cinematografia sovietica, testimoniato da artisti che non rappresentavano solo stili diversi, ma anche diverse concezioni. Accorti e illuminati dirigenti, come per es. Anatolij V. Lunačarskij, addetti al governo delle vicende culturali anche dopo la morte di Lenin, furono sostenitori di una dialettica tra i molteplici orientamenti e permisero ai film sovietici di prosperare e di imporsi all'attenzione della critica straniera e dei cineclub. La morte di Lenin (1924), l'ascesa di Stalin alle vette del potere e l'abbandono della NEP non coincisero con un'ondata di riflusso, non toccarono la vitalità della cinematografia, come dimostrano i capolavori di Kulešov, Ejzenštejn, Pudovkin, Vertov e la varietà delle proposte emerse. Dalla FEKS (Fabbrica dell'attore eccentrico) uscirono film e registi (Pochoždenija Oktjabriny, 1924, Le avventure di Ottobrina, Šinel′, 1926, Il cappotto, Novyj Vavilon, 1929, La nuova Babilonia, di Grigorij M. Kozincev e Leonid Z. Trauberg; Čërnyj parus, 1929, La vela nera, e Zlatye gory, 1931, Montagne d'oro, di Sergej I. Jutkevič) che spiccano nella stilizzazione e in un realismo da non confondere con la mimesi del reale.
Nei centri produttivi dislocati a Mosca, Leningrado, Kiev, Tbilisi si era collocata la Mežrabpom, che, specializzata in film concepiti in funzione del mercato estero (come per es. Mat′, Konec Sankt-Peterburga, Aelita, 1924 e Sorok pervyj, 1927, L'isola della morte, di Protazanov), dipendeva dal Soccorso operaio internazionale, si conformò come un'entità autonoma sino al 1928, aveva rapporti di collaborazione con la Repubblica di Weimar, non esitava a scegliere soggetti di derivazione letteraria per aggirare le prevenzioni e i rigorismi dei censori francesi, tedeschi, inglesi. Diretta a partire dal 1930 dall'italiano Francesco Misiano, terminò la sua attività nel 1936. Abram M. Room (Tret ′ja Meščanskaja, noto anche come Ljubov′ vtroëm, 1927, Letto e divano) e Fridrich M. Ermler (Kat′ka, bumažnyj ranet, 1926, Kat′ka mela renetta di carta; Dom v sugrobach, 1927, La casa tra le nevi; Oblomok imperii, 1929, Un frammento di impero) vennero a inserire nel coro sovietico un'attenzione alla tessitura psicologica dei protagonisti e delle situazioni. Boris V. Barnet e le sue commedie (Devuška s korobkoj, 1927, La ragazza con la scatola; Dom na Trubnoj, 1928, La casa sulla via Trubnaja) dimostrarono la compatibilità tra critica di costume, umorismo, cronaca spicciola e sentimentale. Nel decennio Venti cominciò a palesarsi l'aspirazione dei vari Paesi sovietici, ad avere una produzione cinematografica in cui si rispecchiassero le proprie radici culturali. I primi frutti furono più che promettenti. Entrò nel pantheon sovietico l'ucraino Aleksandr P. Dovženko (Zvenigora, 1928; Arsenal, 1929, Arsenale; Zemlja, 1930, La terra), poeta della natura e dei profondi legami dell'individuo con le sue ascendenze. L'Armenia era rappresentata soprattutto da Amo I. Bek-Nazarov (armeno Ambarcum Beknazarian), Čelovek s ordenom, 1933, Il decorato; Pepo, 1934; Zangezur, 1938). Čelovek s kinoapparatom (L'uomo con la macchina da presa) di Vertov nel 1929 toccò un apice mai più lambito, dispiegando una folgorante riflessione sulle potenzialità della percezione cinematografica. Protazanov, onesto e limpido artigiano, concluse con sobrietà e dignità il ciclo dei suoi film muti, l'ultimo dei quali è uno scherzo anticlericale (Prazdnik svjatogo Jorgena, 1930, La festa di San Jorgen), cui sarebbero seguiti nel 1936 Bespridanica (Senza dote) e nel 1943 Nasredin v Buchare (Nasredin a Bukhara). Singolare fu l'esperienza di Aleksandr I. Medvedkin che, nel 1931 e nel 1932, ripristinò la pratica dei treni che percorrevano l'URSS, diffondendo nelle campagne brevi testi teatrali, film, mostre fotografiche, manifesti, cartelloni disegnati. Diversamente dai suoi predecessori, Medvedkin non si limitava a esporre materiali altrove approntati: i suoi film venivano ideati in loco, con il concorso della popolazione, si richiamavano a problemi scottanti e inclinavano alla comicità e alla satira. Memorabili Tit, 1933, e il favolistico-moderno Sčast′e (1935, La felicità). L'iniziativa di Medvedkin soddisfaceva un duplice bisogno: di decentramento e di un più immediato raccordo con le realtà locali. Un obiettivo, questo, che del resto aveva sostanziato le fatiche di Vertov, la compilazione del cinegiornale Kinopravda (Cineverità), il movimento del Kinoglaz (Cineocchio) e dei kinoki (corrispondenti non professionali dislocati in tutta l'URSS), una scuola che avrebbe insegnato a 'vedere' con gli occhi del cinema le trasformazioni in corso. Un discorso a sé meriterebbe il documentarismo, a cavallo tra timbri realistici e foga epica. Alcuni momenti sono sopravvissuti all'usura dei gusti, delle opzioni stilistiche e alle strettoie delle contingenze e delle committenze. Nell'elenco, tra i tanti documentari, svettano ancora Sol′ Svanetii (1930, Il sale della Svanezia) di Michail K. Kalatozov, Zemlja žaždët (1930, La terra ha sete) di Julij Ja. Rajzman, Ispanija (1939, Spagna) di Roman L. Karmen e i suoi reportage sulla guerra in Cina (V Kitae, 1941, In Cina), sull'assedio di Leningrado (Leningrad v borbe, 1942, Leningrado in lotta) e sulla liberazione di Berlino (Berlin, 1945). Nel primo scorcio del 20° sec., il cinema sovietico era stato, un cantiere fervido, scintillante. Lo sperimentalismo aveva promosso generalizzazioni sulle peculiarità della forma filmica, contribuendo a una teoria del cinema attorno alla quale ovunque si iniziava a ragionare. A tanto entusiasmo e a tanta ingegnosa dedizione non corrispondeva il consenso del pubblico, troppo immaturo per accogliere calorosamente i film anticipatori. Già sul declino degli anni Venti fioccavano i rimproveri di 'formalismo' a Ejzenštejn, Vertov, Kozincev, Trauberg, Jutkevič, rei di oscurità linguistiche e di speculari, presunti, dirottamenti ideologici.
Mentre negli Stati Uniti e in Germania, e anche altrove, l'avvento del sonoro segnò il passaggio rapido ai nuovi ritrovati della tecnologia, in URSS si procedette con lentezza, pervenendovi non prima del 1931. Il ritardo, protrattosi su vasta scala sino al 1934, era causato da una strategia di tipo autarchico, che intendeva sbarrare il passo ai gruppi monopolistici dell'industria elettrica straniera, che avevano lottizzato le aree mondiali di espansione. Inoltre, c'era stato nella comunità dei cineasti qualche tentennamento, il dubbio (lo stesso di Charlie Chaplin, Friedrich W. Murnau, René Clair e molti altri) che le conquiste linguistiche di un decennio aureo fossero vanificate da tecniche ancora rudimentali e dalla tentazione di affiliare il cinema a una sorta di teatro fotografato. Tuttavia, sono stati i sovietici a intravedere nel Manifesto dell'asincronismo (v. sincronismo e asincronismo), firmato da Ejzenštejn, Pudovkin e Grigorij V. Aleksandrov, lo sbocco più rigoglioso in un impiego non illustrativo, non naturalistico, del suono. Sottoposto a sospetti e ad attacchi, Ejzenštejn, con il suo assistente Aleksandrov, colse l'occasione per recarsi negli Stati Uniti a studiare le applicazioni dei nuovi procedimenti. Il soggiorno americano si tradusse in più di una delusione e culminò nelle spinose traversie di ¡Qué viva México!, film a episodi interrotto nel 1932 per mancanza di fondi e al cui completamento non erano interessati i vertici sovietici, come non lo furono al recupero delle sequenze girate da Ejzenštejn. Non meno che in altre cinematografie, l'infanzia del sonoro ha presentato due facce anche in URSS: la più pigra inclinava allo stradominio della parola sugli schermi e al ricorso alle fonti letterarie e teatrali (Groza, 1934, L'uragano, di Vladimir M. Petrov; Peterburgskaja noč′, 1934, Notte pietroburghese, di Grigorij L. Rošal′ e Vera P. Stroeva). Ma non scarseggiavano i collaudatori di un corredo linguistico, che, non intaccando le più vitali acquisizioni del muto, le coniugavano a una concezione creativa dell'unione tra immagini e colonna sonora. Un esempio da ricordare: il Pudovkin di Dezertir (1933, Il disertore), che aveva alle spalle Prostoj slučaj (Un caso semplice), iniziato nel 1929 e ultimato in edizione muta (coregia di Michail I. Doller) nel 1932, un film appartenente al filone indagatore di rovelli coscienziali e psicologici.
Un caso singolare fu quello di Michail I. Romm, che nel 1934 aveva girato in versione muta Pyška (Pagnottella), sferzante adattamento della novella di G. de Maupassant Boule de suif. Su alcuni di questi film cadde il rimprovero che si trattasse di esercitazioni calligrafiche e puramente intellettualistiche.
Tra il 1928 (in marzo s'era svolta la prima conferenza panrussa sul cinema) e il 1934, il dibattito sulle questioni dell'arte e della cultura, vivacizzato da raggruppamenti artistici svariati e astiosi, aveva sfiorato una temperatura febbrile. I creatori riconducibili alle avanguardie erano stati i più accalorati nel chiedere al partito bolscevico un avallo, un'investitura che, sconfessando le tendenze ritenute tradizionali e debitrici verso l'origine borghese, avrebbero dovuto consacrare i più coerenti e fedeli interpreti dell'impeto rivoluzionario. Fu una richiesta inopportuna e suicida quella che sollecitava il partito a dirimere i conflitti in seno all'intellettualità sovietica e ad assumere un insindacabile ruolo di direzione. L'appello venne accolto nel 1934 dal Congresso dell'Unione degli scrittori, all'insegna di un terribile equivoco: che si mirasse a frenare l'intemperanza dei fautori delle avanguardie per stabilire un equilibrio rispettoso della libertà espressiva. Venivano invece gettate le basi per una sistematica interferenza e per la messa a punto di un'estetica ufficiale da cui non sarebbe stato facile derogare: il Realismo socialista (v. realismo). Venne così denominato un paradigma, che, non confutando a romanzieri, drammaturghi, musicisti, pittori e cineasti il diritto ad esprimere uno stile personale, costringeva l'invenzione entro le impalcature formali della narrativa dell'Ottocento. Vi si aggiungevano alcuni obblighi precettistici: l'inserimento dell'eroe positivo, che avrebbe personificato i valori etici e sociali della società socialista; una visione prospettica, che, anche contro la finitezza umana, anche contro la tragedia della morte, indicasse le vie dei radiosi sviluppi futuri nelle battaglie del proletariato; l'individuazione dei principali elementi drammatici nell'impatto tra i retaggi borghesi e l'anelito rivoluzionario, come se il consorzio civile e sociale sovietico non avesse prodotto specifiche antinomie. La svolta comportò un maggior controllo ideologico anche sul cinema, che sino ad allora era stato piuttosto in sintonia con il contesto politico. A pagarne le spese furono anche i registi più ricchi di talento: Pudovkin, sferzato da molti critici, sarebbe diventato irriconoscibile e anche Vertov subì (per es. in Tri pesni o Lenine, 1934, Tre canti su Lenin). Solo Ejzenštejn, sia pure rimangiandosi alcune formulazioni teoriche degli anni Venti, resse agli assalti dello stalinismo trionfante, pur pagando un prezzo con la proibizione di Bežin lug (Il prato di Bežin), interrotto nel 1937 e distrutto, e con lunghe assenze dal set, compensate dalle preziose lezioni di regia tenute tra il 1933 e il 1938 alla scuola cinematografica di Mosca, il VGIK (Vsesojuznij Gosudarstvennyj Institut Kinematografii, Istituto statale pansovietico di cinematografia). L'avvenuto mutamento di registro era stato, tra l'altro, dettato dall'ineludibile necessità di creare in URSS una cultura di massa che, debellando l'analfabetismo e agevolando l'accesso al patrimonio conoscitivo di altri periodi, generasse un nuovo senso comune. Non era un fenomeno sconosciuto negli Stati Uniti e nei Paesi europei, ove funzionava una moderna industria culturale. Ma in URSS si era provveduto a comprimere le propensioni più audaci e a privilegiare gli standard medi della comunicazione, esigendo sempre e comunque la massima semplicità e comprensibilità del racconto e del messaggio. Lungo questo asse, i cineasti e i politici sovietici avevano imparato a guardare all'assetto della cinematografia americana come a un esemplare saggio di razionalizzazione industriale. Lo studio system li aveva convinti a seguire le stesse orme, nella speranza di risparmiare, guadagnare soldi, allestire film 'politicamente corretti' ma anche accattivanti, ridurre gli sprechi, trascendere una fase artigianale e autoriale da cui si stentava a emanciparsi. Era un vagheggiamento, oltre tutto, velleitario. Il direttore della cinematografia Boris Šumjaski (fucilato nel 1938 all'apice delle purghe staliniane) fu l'animatore di una linea che sarebbe rimasta al di là della sua persona. La pianificazione delle tematiche, non ignota nei vari comparti dell'arte sovietica, negli anni Trenta acquistava una minore flessibilità, subordinata a una funzionalità di stretta misura. L'industrializzazione forzata ebbe i suoi film (Vstrečnij, 1932, Contropiano, di Ermler e Jutkevič; Ivan, 1932, di Dovženko), così come li ebbe la collettivizzazione delle terre (Krest′jane, 1935, I contadini, di Ermler, Podnjataja celina, 1940, Terre dissodate, di Rajzman), la gioventù (Putëvka v žizn′, 1931, Il cammino verso la vita, di Nikolaj V. Ekk; Semero smelych, 1936, I sette coraggiosi, e Komsomol′sk, 1938, di Sergej A. Gerasimov), l'alfabetizzazione nelle regioni più sperdute (Odna, 1931, Sola, di Kozincev e Trauberg; Učitel′, 1939, Il maestro, di Gerasimov), la memoria del comunismo di guerra (Čapaev, 1934, Ciapaiev, di Georgij N. e Sergej D. Vasil′ev; Okraina, 1933, Periferia, di Barnet; My iz Kronštadta, 1936, Noi di Kronstadt, di Efim L. Dzigan; la trilogia realizzata da Kozincev e Trauberg: Junost′ Maksima, 1935, La giovinezza di Maksim, Vozvraščenie Maksima, 1937, Il ritorno di Maksim, Vyborskaja storona, 1939, Il quartiere di Vyborg; Poslednjaja noč′, 1937, L'ultima notte, di Rajzman). Il genere brillante, incluso il film musicale, nell'intenzione di suscitare ilarità e dischiudere parentesi distensive, tentò di essere un gaio, ottimistico e 'costruttivo' commento pedagogico a quel che stava succedendo nell'URSS (Garmon′, 1934, La fisarmonica di Igor′ A. Savčenko; U samogo sinego morja, 1935, Sulla riva del mare turchino, di Barnet; Cirk, 1936, Il circo, di Aleksandrov; Bogataja nevesta, 1938, La fidanzata ricca, di Ivan A. Pyr′ev; Volga-Volga, 1938, di Aleksandrov; Svetlij put′, 1940, Il cammino luminoso, di Aleksandrov). Tra i più riusciti va considerato Strogij junoša (girato nel 1934, ma uscito nel 1936, Un giovane rigoroso) di Room, che, scritto da Jurij K. Oleša, osteggiato dagli spettatori e dalla burocrazia sovietica, ironizza su argomenti come l'educazione degli iscritti al Komsomol, i ceti privilegiati e le ineguaglianze nell'URSS.
Gli anni Trenta non furono l'indice di un'involuzione a largo raggio. Nonostante i segnali di un'innegabile inversione di marcia fossero intercettabili, non si era esaurita la carica, l'energia, dei più recenti trascorsi. Ottimi esordi erano stati quelli di Aleksandrov (Vesëlye rebjata, 1934, Tutto il mondo ride), Mark S. Donskoj (V bol′šom gorode, 1928, Nella grande città, diretto con Michail A. Averbach): l'autore rivelerà una vocazione poetica nella trilogia su Maksim Gor′kij: Detstvo Gor′kogo, 1938, L'infanzia di Gorkij; V ljudjach, 1939, Tra la gente; Moi universitety, 1940, Le mie università), Josif E. Chejfic e Aleksandr G. Zarchi (Veter v lico, 1930, Il vento in faccia; Deputat Bal′tiki, 1937, Il deputato del Baltico; Člen pravitel′stva, 1940, Il membro del governo). Dovženko in Ivan (1932), Aerograd (1935) e Ščors (1939) si confermò, insieme a Ejzenštejn, uno dei pochi fuoriclasse del cinema sovietico, ponendosi su livelli per altri irraggiungibili. Di statura non inferiore fu il georgiano Nikolaj M. Šengelaja (morto prematuramente nel 1943), che riuscì a lasciare due film impregnati di vigorosa plasticità: Eliso (1928) e Dvadcat′šest komissarov (1933, I ventisei commissari). Kulešov ebbe il suo canto del cigno in Velikij utešitel′ (1933, Il grande consolatore), desunto da alcune novelle di O. Henry, una gustosa divagazione sulla funzione consolatoria della fantasia. Il quadro sarebbe incompleto se non si menzionassero i film che hanno idolatrato i padri della Rivoluzione, vale a dire Lenin v Oktjabre, 1937, Lenin nell'ottobre e Lenin v 1918 godu, 1939, Lenin nel 1918, di Romm; Čelovek s ruž′em, 1938, L'uomo con il fucile, e Jakov Sverdlov, 1940, di Jutkevič); o illustrato la conflittualità sociale sotto altri paralleli (Vestanie rybakov, 1934, La rivolta dei pescatori, di Erwin Piscator; Prividenie, kotoroe ne vozvraščaetsja, 1930, Il fantasma che non ritorna, di Room). Venne anche sparsa l'ossessione del complotto antisovietico, per es. in Velikij graždanin (1939, in due parti, Il grande cittadino, di Ermler), che si rifà al misterioso assassinio di Kirov e al clima dei processi di Mosca, ma non vanno messi in secondo piano i due medaglioni della biografia di Lenin coniati da Romm, calcando le analogie con il periodo coevo, a scopo giustificazionista.
La minaccia del nazismo, che intanto s'era proiettata sull'Europa, ebbe in più di un film la voce allarmata che a Hollywood era stata silente sino al 1939. Erano allineati su un medesimo crinale Professor Mamlok (1938, Il professor Mamlok) di Adolf I. Minkin e Gerbert M. Rappaport, Bolotnye soldaty (1938, Soldati di palude) di Aleksandr V. Mačeret, Semja Oppengejm (1939, La famiglia Oppenheim) di Rošal′. La denucia delle persecuzioni razziali e antioperaie non si disgiungeva da un fenomeno parallelo: la riesumazione del film storico-biografico, il più idoneo a riabilitare, in chiave nazional-popolare, figure rappresentative del sentimento patriottico. Aleksandr Nevskij (1938), che segnò anche la riammissione di Ejzenštejn nei ranghi attivi, rievoca l'aggressione dei cavalieri teutonici nel 13° sec., lanciando un monito al militarismo tedesco e riconciliando un regista spericolato con le grandi platee. In una travolgente e magistrale sequenza ‒ la battaglia del lago Peipus ghiacciato ‒ Ejzenštejn conseguiva una perfetta simbiosi tra musica, visualità e ritmo cinematografico. Inferiori di tono, Pëtr pervyj (1937-1939, Pietro il Grande in due parti) di Vladimir M. Petrov, Minin i Požarskij (1939, Minin e Požarskij) e Suvorov (1941) entrambi di Pudovkin, Kutuzov (1943) di Petrov hanno inscenato pagine di storia in cui celebri personalità della Russia zarista sono state ritratte come menti sensibili al benessere del popolo e risolute nella punizione dei particolarismi.Dal canto loro, le cinematografie georgiana e ucraina, con George Saakadze (1944) di Michail Čiaureli e Bogdan Chmel′nickij (1941) di Savčenko, si adeguarono a un indirizzo, che, placatesi le purghe staliniane, tendeva a una ricomposizione delle tensioni intestine, complice un risorgente patriottismo. Questo, del resto, fu la bandiera issata dal cinema non appena le armate tedesche invasero la Russia. L'organizzazione industriale, di primo acchito, non fu all'altezza dei frangenti: sospese le riprese di numerosi film, trasferiti gli studi di Mosca ad Alma Ata nell'Asia sovietica, ci si accontentò di redigere programmi composti da cortometraggi, disegni animati, agitka (opere di propaganda) in piena regola. Vi si cimentò anche Pudovkin nel ragguardevole Pir v Žirmunke (1941, Festino a Žirmunk). Contemporaneamente, vi fu una rifioritura del documentario, notevole per la temerarietà delle ricognizioni e la crudezza dei resoconti, altrettanti affreschi di un gigantesco braccio di ferro tra potenze inconciliabili. Alcune testimonianze: Bitva za našu sovetskuju Ukrainu (1943, La battaglia per la nostra Ucraina sovietica) di Julija I. Solnceva (coregia di Ju. Adveenko, supervisione di Dovženko), Stalingrad (1943, Stalingrado) di Leonid V. Varlamov, oltre al citato Berlin di Rajzman. Solo nel 1943, dopo la svolta nella guerra in seguito alla sconfitta inflitta dai sovietici ai tedeschi a Stalingrado, i lungometraggi di finzione riapprodarono sugli schermi, rabbiosi, spietati con il nemico. Vennero raccontati l'eroismo dei soldati, le pene patite dalla gente umile, l'attesa delle donne che avevano figli e mariti al fronte, l'apporto femminile, la guerriglia partigiana e la Resistenza (Sekretar rajkoma, 1943, Il segretario del comitato distrettuale, di Pyr′ev; Ona žaščiščaet rodinu, 1943, Compagno P, di Ermler; Zoja, 1944, di Leo O. Aruštam; Našestvie, 1945, L'invasione, di Room), lo sterminio degli ebrei (Nepokorënnye, 1945, Gli indomiti, di Donskoj). Duri e taglienti (emblematico fu Čelovek n. 217, 1945, Matricola n. 217, di Romm, fortemente caustico nel descrivere la ferocia domestica del piccolo borghese hitleriano), i film sovietici, con le finalità della propaganda al di sopra delle altre aspettative, non superarono la soglia di un'accettabile medietà. Unica eccezione fu il capolavoro di Ejzen-štejn: la prima parte Ivan Groznyj (1945; Ivan il terribile), venne insignita del premio Stalin. La vittoria sul nazismo e la promozione dell'URSS a polo di rilievo mondiale nel concerto delle nazioni hanno collimato con una reviviscenza di euforia nazionalista e di intransigenza ideologica, l'una e l'altra rivelatesi nocive per una cinematografia esortata a magnificare i primati della Russia in campo scientifico, musicale, militare, artistico. Donde una folta schiera di film (Admiral Nachimov, 1948, L'ammiraglio Nachimov, di Pudovkin; Akademik Ivan Pavlov, 1949, L'accademico Ivan Pavlov, di Rošal′; Pirogov, 1947, e Belinskij, 1953, di Kozincev; Taras Ševčenko, 1951, di Savčenko) accomunati da eccessiva magniloquenza, sintomo di un'incipiente e disastrosa decadenza. Del medesimo difetto soffrivano anche le illustrazioni belliche e resistenziali (Molodaja gvardija, 1948, in due parti, La giovane guardia, di Gerasimov). Erano rimasti indenni i documentari drammatizzati di Petrov (Stalingradskaja bitva, 1949, La battaglia di Stalingrado) e di Savčenko (Tretij udar, 1948, Il terzo colpo), nonché Velikij perelom (1946; La grande svolta) di Ermler, in cui lo scontro rovente nella città russa, rasa al suolo dai combattimenti, non ospita quasi mai scene formicolanti di comparse. Encomiastici i film sulla reintroduzione della normalità (Kavaler zolotoj zvedzy, 1950, Il cavaliere della stella d'oro, di Rajzman). Nell'ambito dell'intrattenimento leggero, le commedie ambientate nei kolchoz, di Pyr′ev, replicarono i successi prebellici di Bogataja nevesta (1938, La fidanzata ricca) e di Traktoristy (1939, I trattoristi), ma tradivano la progressiva stanchezza di una miscela di allegria a ogni costo e di pedante propaganda politica, che in Skazanie o zemle Sibirskoj (1947; La canzone della terra siberiana) e in Kubanskie kazaki (1950, I cosacchi del Kuban) diviene decisamente stucchevole. Un declino senza esclusioni. Finanche Dovženko, che in piena guerra, per colpa di una sceneggiatura sgradita, era tornato all'originario mestiere di giornalista, non riuscì in Mičurin (1949, Mičurin o La vita in fiore), malgrado i pregi cromatici del film, a evitare i vizi dell'intera cinematografia sovietica. Ejzenštejn, ancora una volta aveva fronteggiato onorevolmente le circostanze, ma la seconda parte di Ivan Groznyj, nota come La congiura dei boiardi, fu interdetta nel 1946 con una risoluzione del comitato centrale del PCUS e uscì postuma nel 1958. In quel documento erano inseriti altri film, tra cui Admiral Nachimov di Pudovkin, che il regista avrebbe poi rimaneggiato. I controllori sovietici avevano ravvisato eccessi intimistici nel film di Pudovkin e falsificazioni storiche nell'opera di Ejzenštejn. Erano stati urtati dall'amletismo in cui il personaggio dello zar si dibatte e avevano fiutato nei velenosi e sanguinosi intrighi del Cremlino allusioni agli oppositori di Stalin e alla loro liquidazione. Vi era stato, sancito da A. Ždanov, un richiamo all'ordine, che, abbinando alla categoria del formalismo quella del cosmopolitismo, inaugurò una formula al riparo della quale dilagava l'ostilità verso tutto ciò che potesse significare influsso di correnti culturali straniere. Trauberg, che nel 1943 aveva congedato Aktrisa (L'attrice) e nel 1945 Prostye ljudi (Gente semplice) con la collaborazione di Kozincev, sarà associato ai trasgressori. La guerra fredda, che già nel 1948 aveva isolato l'URSS dagli Stati Uniti e dall'Europa occidentale, provocò una stagnazione impressionante. La cinematografia si batté con film pamphlettistici (Russkij vopros, 1948, La questione russa, di Romm; Vstreča na Elbe, 1949, Incontro sull'Elba, di Aleksandrov; Zavogor obrečënnych, 1951, La congiura dei condannati, di Kalatozov) artisticamente inconsistenti, come lo furono i centoni antisovietici di Hollywood. Diversamente dagli americani, gli sceneggiatori sovietici non sprofondarono in un rigido manicheismo, distinguendo tra i paladini dell'amministrazione Truman e dell'America del New Deal e di F.D. Roosevelt. La figura di Stalin citata in qualche film (per es. in Oborona Caricyna, 1942, La difesa di Caricin, di Georgij N. e Sergej D. Vasil′ev) giganteggerà, sino a giungere alla deificazione proposta da Michail Čiaureli (Kljatva, 1946, Il giuramento; Padenie Berlina, 1950, La caduta di Berlino; Nezabyvaemyj 1919-j god, 1952, L'indimenticabile anno 1919). Invischiati in un'arte di marca celebrativa, i tre film del regista georgiano, e molti altri, denotavano una ben grave crisi. Grazie alla costellazione di regimi affini, costituiti in Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, Ungheria, Germania orientale (v. alle singole voci), nelle repubbliche baltiche, il cinema sovietico disponeva di sponde di mercato che prima gli erano mancate, offrendosi anche con un progetto di formazione. Tuttavia, la sua capacità produttiva si era impoverita, non per insufficienze finanziarie e strutturali, ma per una volontà tesa a contrarre la quantità di film. Si concentrava ogni sforzo su una minima aliquota di prodotti aprioristicamente catalogati di prestigio, levatura e pregnanza.
La morte di Stalin, nel 1953, rimescolò le carte in ogni settore dell'URSS. Se nella letteratura, Ottepel′ (Il disgelo) di Il′ja G. Erenburg, nel 1954, aveva lasciato trasparire punti di vista che lo stalinismo e lo ždanovismo non avevano sopportato, Pudovkin nel 1953 si era tolto di dosso più di una briglia. Film imperfetto, appesantito da astruse disquisizioni, degne di un romanzo kolchoziano, Vozvraščenie Vasilija Bortnikova (Il ritorno di Vasilij Bortnikov) restituiva al personaggio individuale e alle inquietudini esistenziali la posizione che gli era stata confutata ancor più pesantemente in un dopoguerra tanto fragile nell'economia quanto gonfio di retorica e di ampollosità. Avvicinandosi il XX Congresso del PCUS (1956), che avrebbe sancito la condanna dello stalinismo e un inizio di disgelo, tracce non dissimili dalle caratteristiche del film di Pudovkin sono riscontrabili in Vernye druz′ja (1954, Amici fedeli) di Kalatozov, Bol′šaja sem′ja (1954, La grande famiglia) di Chejfic, Kommunist (1958, Il comunista) di Rajzman. A incidere su un nuovo ciclo culturale non fu soltanto lo scongelamento politico verificatosi, ma vi concorsero i film del Neorealismo, molto amati nell'URSS, espliciti nell'additare i malanni sociali ma carichi di una calda umanità. Altresì, vi concorsero i film provenienti, tra il 1958 e il 1963, dalla Polonia, dall'Ungheria, dalla Cecoslovacchia, non più encomiastici, ormai problematici. Karnaval′naja noč (1956, La notte di Capodanno) di El′dar A. Rjazanov, Sorok pervyj (1957; Il quarantunesimo) di Grigorij N. Čuchraj, Letjat žuravli (1957; Quando volano le cicogne) di Kalatozov, Dom v kotorom ja živu (1957, La casa in cui io vivo) di Lev A. Kulidžanov e Jakov A. Šegel′, Čistoe nebo (1961; Cieli puliti) di Čuchraj anticiparono una rinascita legata anche ai nomi di Vasilij M. Šukšin (Živët takoj paren′, 1964, Così vive un uomo), di Marlen M. Chuciev (Mne dvacat′ let, 1965, Ho vent'anni), e di registi anziani come il Romm di Devjat′ dnej odnogo goda (1962; Nove giorni in un anno). C'è da osservare, tuttavia, che il riscatto sovietico venne rallentato da intimidazioni e precauzioni che in Polonia, in Ungheria, in Iugoslavia (v. alle singole voci) furono in parte più blande. Lento, troppo lento, fu il cammino. I registi degli anni luminosi e bui si trincerarono dietro un nobile accademismo, risfogliando celebri romanzi (Mat′, 1956, La madre, di Donskoj; Don Kichot, 1957, Le avventure di Don Chisciotte, di Kozincev; Idiot, 1958, L'idiota, e Brat′ja Karamazovy, 1969, I fratelli Karamazov, di Pyr′ev) e testi teatrali (Otello, 1956, Otello, il moro di Venezia e Banja, 1962, Il bagno, di Jutkevič), con letture non ortodosse (Gamlet, 1964, Amleto, di Kozincev). La Solnceva, ex attrice e vedova di Dovženko, riuscì a realizzare le sceneggiature del marito in Poema o more (1958; Il poema del mare), Povest′ plamennych let (1961, Racconti degli anni di fuoco), Začarovannaja Desna (1964, La Desna incantata), campioni di un manierismo appassionato, ma discutibili imitazioni del maestro. La vecchia guardia tese a preservare una dignità, che venne rafforzata in URSS da un'inesauribile riserva di valenti attori, da bravissimi direttori della fotografia, da raffinati scenografi e costumisti, baluardi di una civiltà dello spettacolo tra le più alte e rispettabili. La guerra non ebbe più nei film gli accenti enfatici di altri tempi (Ballada o soldate, 1959, La ballata di un soldato, di Čuchraj; Sud′ba čeloveka, 1959, Il destino di un uomo, di Sergej F. Bondarčuk; Mir vchodjaščemu, 1961, Pace a chi entra, di Aleksandr Alov e Vladimir N. Naumov; Otec soldata, 1965, Il padre del soldato, di Revaz D. Čchejdze) anche se peccherà di ridondanza la serie dedicata, nel decennio Settanta, alle trionfali avanzate dell'Armata Rossa (Osvoboždenie, Liberazione, cinque film inanellati da Jurij N. Ozerov e riuniti in Italia sotto tre titoli: La grande battaglia, Ordine da Berlino: vivere o morire, Le armate rosse alla liberazione dell'Europa). Bondarčuk, famoso attore passato alla regia, deluderà nelle prove successive, da Vojna i mir (1967; Natascia ‒ L'incendio di Mosca), a Ja videl roždenie novogo mir (1982; I dieci giorni che sconvolsero il mondo). Per merito del fresco Ja šagaju po Moskve (1963; A zonzo per Mosca) del georgiano Georgij N. Danelija, i sovietici hanno imparato di nuovo a sorridere e a familiarizzare con scorci di vita giornaliera, in attesa che l'autore inasprisse la propria vena nei mordaci Tridcat′ tri (1963, Trentatre) e in Afonija (1975, Afonia). Per il suo verso, Aleksandr N. Mitta con tonalità lievi si è avvicinato alle giovani generazioni in Bez strach i uprëka (1963, Senza macchia e senza paura) e Zvonjat, oktrojte dver′ (1966, Suonano, aprite la porta), laddove sarà l'azerbaigiano Vladimir V. Men′šov nel 1979, con Moskva slezam ne verit (Mosca non crede alle lacrime), a riaffacciarsi garbatamente nella Mosca dell'era di N.S. Chruščëv, popolata da ragazze in difficoltà con l'altro sesso. Rjazanov in Beregis′ avtomobilja (1966; L'incredibile dottor Detočkin), Ironija sud′by (1974; Equivoci in una notte di carnevale) e Garaž (1979, L'autorimessa) non è stato indulgente con il cittadino medio sovietico. Non ci si scorderà nemmeno di Belorusskij vokzal (1971, Stazione Bielorussia), diretto da Andrej S. Smirnov, mesta elegia di un'amicizia cementatasi nei frangenti bellici. Interessante sotto il profilo sociologico è anche Premija (1975, Il premio) di Sergej G. Mikaeljan. È stato il ricambio generazionale ad accelerare la transizione a una maggiore maturità, a un definitivo distacco dal realismo socialista, mai sconfessato in sede dottrinaria ma ignorato da chiunque avesse a cuore le sorti di un cinema proteso a radiografare il malessere, le contraddizioni, le articolazioni indurite di una società che aveva disimparato a interrogarsi, scavalcando le rappresentazioni di comodo e le contrapposizioni semplicistiche. Andrej A. Tarkovskij (folgorante nel 1962 il debutto con Ivanovo detstvo, L'infanzia di Ivan) nei suoi film (Andrej Rublëv, 1969, Andrej Rubliov; Soljaris, 1972, Solaris; Zerkalo, 1974, Lo specchio) ha riabilitato dimensioni che erano state rimosse: quella dell'inconscio e di uno spiritualismo non separabile da una intima religiosità, nella scia di dimenticate reminescenze letterarie. La rivisitazione čechoviana e gončaroviana di Nikita S. Michalkov (Neskončennaja p′esa dlja mechaničeskogo pianino, 1977, Partitura incompiuta per pianola meccanica; Neskol′ko dnej iz žizni I.I. Oblomova, 1980, Oblomov; Oči cërnye, 1987, Oci ciornie), pregiata quanto altre ne ha registrate la cinematografia sovietica (per es. Dama s sobačkoj, 1960, La signora dal cagnolino, di Chejfic), più che evocare un'età remota, ha rinviato a una infelicità tutt'altro che disattuale e chiaramente percepibile nei film non in costume, Pjat′ večerov (1978; Cinque serate) e Bez svidetelej (1983, Senza testimoni), assenti nei componimenti iniziali, i pur lodevoli Svoj sredi čužich, čužoj sredi svoich (1974; Amico tra i nemici, nemico tra gli amici) e Raba ljubvi (1976; Schiava d'amore). V.M. Šukšin, regista di origine contadina, in Vaš syn i brat (1966; Vostro figlio e fratello), Strannye ljudi (1970; Strana gente), Kalina Krasnaja (1974; Viburno rosso) ha restituito sincerità e genuinità ai dolori di ogni giorno e a un mondo che era stato deturpato con raffigurazioni da cartellone. Fine analista di personaggi antieroici è stata Larisa E. Šepit′ko in Znoj (1963, Calma), Kryl′ja (1966, Ali), Rodina električestva (1968, La patria dell'elettricità), Ty i ja (1971, Tu ed io), Voschoždenie (1976, L'ascesa). In Proverka na dorogach (1971, Controllo sulle strade) e in Dvadcat′ dnej bez vojny (1976, Venti giorni senza guerra), Aleksej Ju. German ha dissacrato il tema della Seconda guerra mondiale per disvelarne il rovescio grigio, ispido, impegnandosi poi in Moj drug Ivan Lapšin (1984, Il mio amico Ivan Lapšin) in una sgradevole storia di lotta alla criminalità negli anni Trenta, uno squarcio amaro. Il giovane Aleksandr N. Sokurov si è inoltrato in un cinema di poesia, intenso, acceso, fortemente soggettivo e pittorico, sorretto da una vocazione all'esperimento, propenso all'impasto e alla manipolazione di materiali disparati, da Odinokij golos čeloveka (La voce solitaria dell'uomo, girato nel 1978, ma uscito nel 1987) sino a Moskovskaja elegija (1987, Elegia moscovita).
Fra gli innovatori è rientrato Gleb A. Panfilov, ritrattista acuto in Načalo (1970, Il debutto), Prošu slova (1976, Chiedo la parola), e in Tema (Thema, concluso nel 1979 ma bloccato dal Goskino sino al 1986), uno dei trenta film rinchiusi nei cellari in attesa della liberalizzazione gorbačëviana. Battagliera, anticonformista, quasi sempre presa di mira dai produttori e dalla censura, la regista Kira G. Muratova ha saputo scavare nei legami interpersonali, nelle aritmie affettive, negli attriti ambientali (Korotkie ustreči, 1968, Brevi incontri; Dolgie provody, 1971, Lunghi addii; Poznavaja belyj svet, 1979, Conoscendo il grande mondo). Su una non dissimile falsariga si è collocato Il′ja A. Averbach con Monolog (1973, Monologo), con Čužie pis′ma (1976, Lettere altrui) e Golos (1982, La voce).
I rivolgimenti succedutisi nel quarantennio seguito alla scomparsa di Stalin hanno imposto alla cinematografia una politica altalenante, in cui i margini di libertà concessi si sono allargati o accorciati proporzionalmente al fluttuare delle oscillazioni della politica.
Intanto, però, le fondamenta industriali si erano irrobustite. Negli anni Settanta si producevano circa 150 film all'anno, di cui oltre 70 fuori dalla Russia. L'incremento della produttività non impedì momenti di stagnazione e di impennate creative. Si era manifestata anche ai vertici della produzione la conversione a un economicismo che pretendeva di realizzare soggetti destinati a compiacere la cassetta, a costo di imitare Hollywood, parafrasandone i film di spionaggio, i western e la fiction. Le repubbliche dell'Asia sovietica fornirono scenari esotici a film che avvicendarono intonazioni avventurose e favolistiche. Non vennero schiacciate le oasi di resistenza poiché l'autorialità era impressa nella stessa natura del film sovietico. Chi portò avanti questa resistenza fu costretto a emigrare. Si attuarono dei paradossi per cui, a onta di qualche intemperanza censoria, un autore spiritualista riuscì ad avere in URSS i sostegni finanziari per girare film che subirono poi l'ostruzionismo della distribuzione in quanto classificati come anticommerciali. Un'ulteriore stranezza investì Tarkovskij, esule volontario e autorizzato, che sembra avesse avuto un'amichevole accoglienza solo presso organismi pubblici italiani, svedesi e inglesi per realizzare Nostalghia, noto anche come Nostal′gija (1983) e Zertvoprinošenie, noto come Offret/Sacrificatio (1986; Sacrificio), essendo i suoi film poco compatibili con la dittatura degli incassi. Altro esule volontario e autorizzato fu Andrej S. Michalkov Končalovskij, fratello di Nikita Michalchov, che in USA non doveva ritrovare la felicità dei suoi film migliori: Pervyj učitel′ (1965; Il primo maestro), Asino sčast′e (La felicità di Asja), intitolato anche Istorija Asi Kljačinoj, kotoraja ljubila, da ne vyšla zamuž (1966, ma non distribuito fino al 1988; Storia di Asja Kljačina che amò senza sposarsi), Djadja Vanja (1970; Zio Vanja), Sibiriada (1978; Siberiade). Esule interno invece il georgiano di origine armena Sergej I. Paradžanov, splendido ed esuberante in Teni zabytych predkov (1965, Le ombre degli avi dimenticati) e che, alla pari di Sokurov, si immergeva in un cinema povero di nutrimenti narrativi, omologabile alle suggestioni di una visualità visionaria, statica nel segno e pregna di valori pittorici, musicali, antropologici. Allegorici e finanche a sprazzi ammantati di mistero sono Sajat nova (1969, Il colore del melograno) e Legenda o Suramskoj kreposti (1984; La leggenda della fortezza di Suram) che attingono alle fonti delle leggende popolari georgiane e armene. Rinvii frequenti al corredo etnografico e folkloristico della Georgia impreziosiscono i film dei due fratelli Šengelaja, figli di Nikolaj: soprattutto Pirosmanišvili (1969, Pirosmani) di El′dar N., affascinante biografia di un pittore le cui traversie sono state compendiate ricercando le equivalenze stilistiche dei dipinti dell'artista. Si era prodotto, nelle ultime vicissitudini dell'URSS, un allargamento degli orizzonti, certificato da film e autori sempre meno addomesticati e addomesticabili. I poli produttivi, moltiplicatisi dopo il secondo dopoguerra e attivizzatisi, hanno elargito sorprese. A torto o a ragione si dibatté di una nuova Scuola di Leningrado (Panfilov, Averbach, German, Vitalij V. Mel′nikov ecc.). In Georgia, mallevadrici le risorse di un sofisticato temperamento meridionale, emerse il talento di Otar D. Ioseliani, comparabile all'estro di Jacques Tati. Dei suoi film sovietici si rammentano Žil pevčij drozd (1971; C'era una volta un merlo canterino) e Pastoral′ (1976, Pastorale). Ioseliani, come i fratelli Michalkov e come Tarkovskij, concordò con il GOSKINO di poter lavorare all'estero. Un altro georgiano eccellente, Tengiz E. Abuladze, in Lurdža Magdany (1955, L'asino di Magdana), e in seguito in Ja, babuška, Iliko i Illarion (1963, Io, la nonna, Iliko e Illarion) e in Derevo želanija (1977; L'albero dei desideri) rielabora motivi della cultura contadina in una cifra cordiale e allegra. Pokajanie (Pentimento, ultimato nel 1984 ma uscito nel 1986), tratteggiando un tiranno il cui cadavere è stato disseppellito cinque volte, ha trasposto in una luce grottesco-metaforica aspetti e follie della dominazione stalinista. Mosca, Leningrado, Jalta, Odessa, Kiev, Tallin, Tiflis, Baku, Erevan, Taškent, Alma-Ata, Sverdlovsk, Aškhbad, Riga e Minsk hanno costituito altrettanti centri produttivi sparsi nell'immenso territorio sovietico e attorno ai quali si sono raggruppati cineasti decisi a rinverdire l'humus culturale delle diverse nazionalità, una particolarità che ha facilitato il rinnovamento. I film delle repubbliche caucasico-asiatiche (Turkmenistan, Kirghizistan, Azerbaigian, Tagikistan, Uzbekistan, Kazakistan) e georgiana, ucraina, lituana, estone, lettone, bielorussa, moldava, seppur moltiplicatisi, usufruirono tuttavia di una circolazione ineguale e non furono, nel loro insieme, estranei all'oggettivo antagonismo tra obbedienza alle convenzioni e tentativi di rottura, pigrizia delle idee e invenzione. Un segmento fecondo della cinematografia risiedeva nei film indirizzati ai ragazzi, un ramo in cui i sovietici si sono sempre distinti e nel quale si erano misurati, agli albori delle loro carriere, registi come per es. Donskoj e, più innanzi, scrutatori perspicaci e penetranti dell'infanzia e delle angustie dell'adolescenza, Dinara Asanova, Roland A. Bykov, Nikolaj N. Gubenko, Vadim Ju. Abdrašitov, cineasti agguerriti nello svecchiamento dei moduli espressivi. Mentre l'URSS velocemente si approssimava alla sua dissoluzione, il cinema ringiovaniva e nuovamente respirava a fondo. Incrinate le rigidità ideologiche, spentisi gli schematismi, riscoperta nei film la complessità della condizione umana, esso era relativamente più libero e più critico. Nessun cineasta, tuttavia, presagiva quel che di lì a poco sarebbe accaduto: la privatizzazione estrema del mercato, l'agonia del film d'autore, lo sbarco impetuoso dei prodotti americani, punta di diamante di una cultura di massa, ammaliatrice e irresistibile. Per il periodo successivo si rinvia, in primo luogo, alla voce russia: Il cinema russo dopo la perestrojka (1986-2003); quindi alle biografie dei registi, degli attori e delle altre figure del cinema.
Kino. Enciklopedičeskij slovar′, Moskva 1987.
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Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, 3° vol., L'Europa. Le cinematografie nazionali, Torino 2000 (in partic. N. Nusinova, Il grande cinema sovietico, 1925-28, t.1, pp. 253-78.
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