Varieta e unita nei linguaggi artistici delle province romane
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’arte del mondo dominato da Roma è un mosaico di infinita ricchezza e complessità, la cui poliedricità dipende dalle preesistenti tradizioni culturali e figurative delle diverse realtà provinciali; ma è anche un linguaggio comune, espressione di un immaginario collettivo diffuso in ogni angolo dell’impero, e che costituisce uno strumento vincente della romanizzazione.
L’aggressione militare e la repressione di ogni forma di resistenza alla conquista sono gli strumenti essenziali dell’espansione imperialistica di Roma; ma è la capillare romanizzazione dei territori conquistati a garantire la tenuta della compagine dell’impero, una volta ottenuta la stabilizzazione politica.
La romanizzazione costituisce un fenomeno politico e culturale complesso e ricco di sfumature, che non comporta l’imposizione dall’alto di un modello unico di omologazione, ma che anzi deve buona parte della propria efficacia alla capacità di integrare nella macchina amministrativa dell’impero le forme istituzionali locali con il coinvolgimento diretto delle élite provinciali, di tollerare le diverse tradizioni religiose, incoraggiando semmai il sorgere di culti sincretistici attraverso l’identificazione tra le divinità locali e quelle del pantheon romano, e infine di rispettare, per quanto possibile, le specificità culturali dei popoli assoggettati. Il cemento ideologico nella costruzione e nel consolidamento dell’impero è fornito da un’abile organizzazione del consenso, che trova la propria sede ideale nelle città: organismi urbani sorgono ovunque nelle province, assumendo un ruolo fondamentale soprattutto nella parte occidentale dell’impero, dove fino alla conquista era prevalente un modello insediativo di tipo sparso, o comunque più semplice, mentre nella parte orientale, che può vantare un’urbanizzazione di antichissima e florida tradizione, il segno del dominio di Roma è recato principalmente da interventi urbanistici e architettonici, spesso ambiziosi, che si inseriscono in tessuti urbani preesistenti.
Ed è nelle città – che si dotano di tutte quelle strutture pubbliche, dai teatri ai fori alle terme, in cui si svolgono i momenti salienti della vita quotidiana del cittadino romano – che i provinciali, almeno quelli delle classi più elevate, imparano ad adottare uno stile di vita modellato su quello dei conquistatori, sia in ambito pubblico che nelle forme della vita privata: un fenomeno spontaneo (anche se incoraggiato e controllato dal potere centrale), connesso alla cooptazione da parte di Roma dei ceti dirigenti locali, che gradualmente riusciranno a conquistare un posto al sole nella vita politica romana attraverso l’ascesa al senato di Roma, per giungere a rivestirsi della porpora imperiale con Traiano, primo imperatore di origine provinciale. La romanizzazione è dunque vantaggiosa per chi sa (e può) adeguarsi alla nuova situazione, adottando un atteggiamento di lealismo nei confronti del dominatore: questo sembra dire, ad esempio, il personaggio togato che appoggia la mano sulla spalla di un barbaro legato ai piedi di un trofeo sull’arco di Glanum (Saint-Rémy-de Provence) nella Gallia Narbonense, uno dei tanti monumenti tropaici che sorgono nei territori di recente conquista, sancendone simbolicamente l’appartenenza a Roma. Questi monumenti, con le loro immagini di battaglie e le rappresentazioni dei “barbari” sconfitti e umiliati, dall’arco di Orange a quello di Carpentras, fino al celebre Tropaeum Traiani di Adamklissi (Romania), sul quale dovremo tornare, costituiscono manifestazioni figurate, talvolta assai eloquenti, della brutalità dell’imperialismo di Roma, e recano un monito di natura ostentatamente minacciosa e repressiva. Ma insieme ad essi, nei territori conquistati, sorgono anche le grandi opere di ingegneria civile, cinte murarie e porte urbiche, strade, ponti, acquedotti, premesse importanti dello sviluppo civile ed economico delle comunità, strutture che attestano orgogliosamente il raggiungimento dell’urbanitas: segni positivi, dunque, del dominio di Roma, che ancora oggi caratterizzano tanti paesaggi dell’Europa, dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente, dal possente acquedotto di Segovia in Spagna a quello di Cesarea in Israele, dalla splendida Porta Nigra di Treviri fino al Pont du Gard in Provenza, l’impressionante sistema costituito da tre ordini di arcate con cui l’acquedotto augusteo che reca a Nîmes l’acqua di una lontana sorgente scavalca il fiume Gard.
I monumenti pubblici che sorgono nelle principali città delle province, rese splendide dalla sinergia tra le iniziative urbanistiche del potere centrale e quelle finanziate dalle aristocrazie locali, che trovano nell’evergetismo uno strumento funzionale all’affermazione delle proprie ambizioni politiche, si richiamano spesso ai prestigiosi esempi dell’Urbe negli sviluppi planimetrici e nelle forme architettoniche, ma soprattutto negli apparati decorativi, giungendo, in alcuni casi, a configurarsi quasi come repliche di modelli urbani: questo è ad esempio il caso del “Foro di marmo” di Augusta Emerita (attuale Merida, in Andalusia), capitale della Lusitania, che ha restituito i frammenti scultorei di un programma iconografico che sembra ricalcato su quello del Foro di Augusto a Roma, con una galleria di statue-ritratto (i summi viri locali?), l’attico del porticato decorato con clipei e cariatidi, e un gruppo scultoreo raffigurante Enea che fugge da Troia con il padre Anchise e il figlioletto Ascanio.
La ripresa in ambito provinciale dei programmi iconografici e dei temi ricorrenti dell’arte ufficiale nel centro del potere costituisce insieme un segno eloquente della presenza di Roma, una cassa di risonanza per le parole d’ordine e le formulazioni politico-propagandistiche del potere imperiale, e infine un modo per le aristocrazie locali di dimostrare il proprio lealismo al governo centrale e la propria incondizionata adesione ai suoi ideali: questo fa sì che in ambito pubblico, per opere di committenza elevata, le formule iconografiche e il linguaggio stilistico con cui esse vengono elaborate non siano generalmente dissimili da quelli imperanti a Roma, con il predominio dei ritratti dell’imperatore e dei membri della famiglia imperiale (strumenti essenziali della propaganda dinastica e per questo capillarmente diffusi in ogni angolo dell’impero) e di copie e varianti di statue greche classiche, tardoclassiche ed ellenistiche. Sculture che fanno di teatri e anfiteatri, terme, ninfei e odeia luoghi del consenso, nei quali si sviluppa un “discorso per immagini” di tipo allegorico che adotta le forme dell’arte colta, di origine greca, anche dove esiste una diversa tradizione artistica, che continua ad esprimersi in un linguaggio figurativo non conforme alla tradizione classica ed ellenistica adottata dall’arte ufficiale.
E a proposito di luoghi del consenso vanno naturalmente ricordati i monumenti del culto imperiale, che si diffondono in tutto l’impero già dall’età augustea, assumendo forme anche molto diverse da regione a regione. In Occidente la venerazione dell’imperatore trova spesso posto nei grandi santuari sovraregionali dedicati alle divinità locali e in alcuni casi esistenti già prima della conquista romana: questo è probabilmente il caso del santuario federale di Lugdunum (Lione), capitale della Gallia Lugdunensis e sede del Concilium Galliarum, cioè dell’assemblea, a carattere sia religioso che amministrativo, dei rappresentanti delle 60 popolazioni delle Gallie intorno all’altare fondato da Druso Maggiore nel 12 a.C., e dedicato al culto di Roma e di Augusto; il complesso comprende, oltre all’altare (noto soltanto da riproduzioni su monete), un anfiteatro e un circo-ippodromo destinato allo svolgimento di ludi a carattere celebrativo.
Nelle province orientali, dove la venerazione religiosa del sovrano è un fenomeno familiare alle popolazioni fin dall’epoca dei regni ellenistici, sorgono complessi monumentali ambiziosi, talvolta caratterizzati da notevole sfarzo, tra i quali va naturalmente ricordato almeno il Sebasteion di Afrodisia di Caria (in Turchia), collocato nella parte orientale dell’agorà. Si tratta di una vera e propria strada processionale, lunga 80 metri e larga 14, diretta verso il tempio di Augusto e Afrodite (antenata divina della dinastia giulio-claudia) e fiancheggiata da grandi portici a tre ordini sovrapposti (dorico, ionico e corinzio); quello meridionale è decorato da grandi pannelli scolpiti a rilievo con scene mitologiche (Achille e Pentesilea, la nascita di Eros, le tre Grazie, Meleagro...) e con immagini degli imperatori giulio-claudi, raffigurati mentre incoronano trofei ma anche in scene più complesse, come nel rilievo che mostra l’imperatore Claudio nell’atto di sottomettere la personificazione della Britannia; altre personificazioni di popoli conquistati da Augusto si collocano, accanto a motivi cosmici (il Giorno, l’Oceano), nel portico settentrionale, a rendere ancora più enfatico l’omaggio reso alla dinastia giulio-claudia, vittoriosa sulla barbarie e sul disordine e garante della prosperità dell’impero ecumenico, tanto da essere degna di questo straordinario elogium figurato condotto attraverso il confronto con i protagonisti delle grandi storie del mito greco.
Il monumento, che è un vero e proprio unicum nel panorama pur ricco e diversificato degli edifici destinati al culto imperiale, risulta tanto più interessante alla luce del fatto che Afrodisia è sede di una importante scuola di abilissimi scultori, specializzati nella copia e nella rielaborazione di modelli greci di età classica ed ellenistica come nella realizzazione di statue-ritratto di notevole qualità e nella decorazione scultorea di complessi architettonici.
A questi artisti, che lavoreranno, oltre che ad Afrodisia, in buona parte dell’impero, firmando orgogliosamente le proprie opere con l’etnico Aphrodisieus (una sorta di marchio di qualità), si debbono molte sculture eccellenti, in particolare di età adrianea, ma anche la splendida decorazione a rilievo dei sontuosi monumenti eretti a Leptis Magna, in Tripolitania (Libia), dall’imperatore Settimio Severo, originario della città: il foro, con la grande piazza delimitata da portici ad arcate tra le quali si inseriscono clipei con teste di Medusa, il tempio dedicato al culto imperiale della gens Septimia, con le colonne in facciata sostenute da plinti ornati da scene di gigantomachia, e la grande basilica, il cui ingresso è fiancheggiato dalle celebri paraste decorate da lussureggianti girali vegetali, popolati di figurine umane ed animali, espressione di un virtuosistico estro ornamentale reso in un linguaggio stilistico barocco, mosso, abbondantemente chiaroscurato. Il notevole ampliamento urbanistico voluto da Settimio Severo per Leptis rappresenta in modo esemplare la floridezza che le province d’Africa hanno raggiunto in questa fase, esito di un progressivo e continuo sviluppo economico legato alla produzione agricola (olio, grano) e manifatturiera (dagli impianti per la produzione del garum sulle coste della Mauretania alla serie di officine che producono la diffusissima ceramica fine da mensa nota come “sigillata chiara”).
Nelle città africane il benessere economico diffuso è ben rappresentato dal notevole livello raggiunto dall’edilizia residenziale d’élite, caratterizzata dall’eccellente qualità della decorazione, in particolar modo gli splendidi mosaici policromi; ma anche dalla diffusione capillare di edifici pubblici, spesso assai cospicui per dimensioni e per decorazione, che manifestano la profondità di penetrazione del Roman way of life in quest’area. Esemplare la distribuzione degli edifici per spettacoli: se i circhi non sono molto diffusi (i pochi noti sono tuttavia di notevole impegno, come quello di Cartagine, terzo nel mondo romano per dimensioni dopo il Circo Massimo e quello di Antiochia), non esiste città di una certa importanza che non abbia un teatro, spesso impreziosito da una decorazione particolarmente sontuosa della scaenae frons, come a Sabratha (Libia); e assai diffusi, soprattutto nell’Africa Proconsolare, sono gli anfiteatri, in qualche caso addirittura due nella stessa città, come a Thysdrus (attuale el-Djem, in Tunisia), dove ad un più modesto impianto della fine del II secolo si affianca, tra il 230 e il 250, il cosiddetto Colosseo d’Africa, una imponente struttura (mirabilmente conservata) progettata per ospitare almeno 30 mila spettatori e destinata però a rimanere in uso per non più di una decina d’anni. In qualche caso l’Africa precorre addirittura l’Urbe nella realizzazione di impianti stabili a destinazione ludica, come avviene a Caesarea Iol (attuale Cherchell, in Algeria), capitale del regno cliente di Mauretania (che entrerà definitivamente nell’impero durante l’età claudia), trasformata in una “Roma d’Africa” dal re Giuba II: in questo centro sorgono un teatro e un enorme anfiteatro di forma singolare (e la cui arena, di oltre 4000 m² di superficie, è la più ampia finora nota nell’intero mondo romano) tra il 25 e il 15 a.C., in un momento, cioè, in cui Roma è ancora ben lontana dal dotarsi di un anfiteatro stabile.
Altrettanto significativa è la diffusione di cospicui impianti termali, tra i quali basti ricordare quello realizzato a Cartagine in età antonina, quarto per dimensioni nel mondo romano (dopo le Terme di Traiano, quelle di Caracalla e quelle di Diocleziano, tutte a Roma); e di fori, che nella varietà delle soluzioni architettoniche adottate dimostrano la coesistenza di vari modelli, rielaborati in modo originale adattandoli alle esigenze locali. Le province africane offrono forse il miglior esempio dello stretto rapporto esistente tra romanizzazione ed urbanizzazione, e la connessione di entrambi questi fenomeni con lo sviluppo economico e produttivo.
Come le province africane, anche l’Asia Minore in età romana conosce una straordinaria fioritura artistica, di cui la già citata attività degli scultori afrodisiensi costituisce un eccellente esempio: del resto, qui gli scultori possono contare sull’abbondanza di materia prima fornita dalle straordinarie cave di marmi bianchi e colorati e sulle numerose possibilità di lavoro assicurate dall’intensa attività edilizia promossa dalle ricche élite locali, che favorisce anche la creazione di nuove tipologie monumentali e l’elaborazione di forme architettoniche caratterizzate da uno spiccato decorativismo.
Basti a tale proposito ricordare alcuni straordinari monumenti di Efeso, capitale della provincia d’Asia, come l’elegante tempio dedicato al Divo Adriano, con il frontone spezzato al centro da un arco che reca sulla chiave di volta il busto della Tyche, la personificazione della città, e soprattutto la biblioteca-heroon di Celso. Eretta dal console Caio Giulio Aquila come monumento funerario del padre, Caio Giulio Celso Polemeano, l’imponente struttura presenta una facciata architettonica con due ordini di colonne in marmi pregiati, movimentati da avancorpi e rientranze come in una scenae frons teatrale, su cui si aprono edicole con statue di divinità e personificazioni, mentre l’interno cela, al di sotto della grande statua di Atena posta sulla parete di fondo della sala di lettura, la camera funeraria dove riposa il destinatario del complesso, che può godere del privilegio di una sepoltura nel centro della città, come un eroe: un esempio, di grandissimo interesse, di eroizzazione del singolo attraverso la cultura, un concetto che entrerà più tardi a far parte dell’immaginario collettivo, come dimostra la diffusione, nel III secolo, dei sarcofagi con immagini di filosofi e Muse.
In Asia Minore, in particolare a Sinnada (nei pressi delle cave del marmo docimeno), sono attivissime dall’età adrianea botteghe che producono sarcofagi monumentali, assai apprezzati a Roma e nelle altre province dell’impero per le sepolture di rango, decorati con colonnette che formano serie di edicole, all’interno delle quali si stagliano figure derivanti da modelli di statuaria classica ed ellenistica. Del resto, nelle province orientali la tradizione artistica greca resta viva e profondamente sentita sotto la dominazione romana, e gli atelier di artisti continuano a produrre, sia per il mercato locale che per l’esportazione, opere in cui si manifesta una sostanziale, intima adesione ai modelli classici ed ellenistici, sostenuta spesso da un sentimento di orgoglio, venato di nostalgia, per il proprio glorioso passato culturale. Ad Atene, per esempio, prosegue fino alla rovinosa invasione degli Eruli (267) l’attività delle botteghe degli scultori neoattici, che rielaborano i modelli classici in un linguaggio stilistico tradizionale, poco incline ad accogliere le innovazioni tecniche (come l’uso del trapano corrente, qui impiegato con moderazione) sia in opere a tutto tondo, tra le quali spiccano, per intensità ed eleganza formale, i ritratti del ricchissimo retore ed evergeta Erode Attico e di personaggi della sua cerchia, ispirati alle immagini di filosofi e intellettuali del IV secolo a.C., sia nei sarcofagi, probabilmente i prodotti migliori dell’artigianato attico in età romana. Oggetto di un florido commercio che tocca quasi tutte le province, e segnatamente Roma, i sarcofagi attici riprendono con un linguaggio stilistico controllato e cristallino, ma comunque vivace, iconografie classiche ed ellenistiche, probabilmente in molti casi di derivazione pittorica, nella rappresentazione delle storie di Ippolito e Fedra, di Meleagro, di Achille, ma anche di battaglie tra Greci ed Amazzoni e di gioiosi thiasoi dionisiaci e marini. Anche nei principali centri della provincia di Siria, massime ad Antiochia (città sede del governatore romano, nonché vera metropoli d’Oriente) la cultura figurativa greco-ellenistica continuerà ad esercitare una propria profonda influenza almeno fino alla fine del IV secolo, come dimostrano gli eleganti mosaici pavimentali, realizzati con tecnica raffinatissima, che sono stati rinvenuti nelle ricche case della città e nelle ville suburbane, tra cui basti ricordare quello celebre con la competizione tra due mitici bevitori, Eracle e Dioniso (oggi conservato a Princeton).
In questa ricchissima provincia è soprattutto l’architettura ad assumere aspetti di grande originalità; le città, in competizione tra di loro e frequentemente interessate da profonde ristrutturazioni rese necessarie dal verificarsi di terremoti, assumono aspetti di notevole impatto scenografico grazie alla realizzazione di plataiai, larghi assi viari fiancheggiati da portici colonnati, che si incontrano in corrispondenza di eleganti tetrapyla, monumenti costituiti da quattro gruppi di quattro colonne ciascuno: a movimentare con suggestivi effetti di chiaroscuro e di variatio queste selve colonnate si alternano spesso a capitelli di ordini diversi, mentre a colonne lisce si affiancano colonne tortili, come ad Apamea, oppure statue di personaggi illustri vengono innalzate su mensole sorrette dalle colonne stesse, come a Palmira, celebre e florida città carovaniera. Concepite per una simile collocazione sono anche le figure che compongono il gruppo in porfido dei Tetrarchi della basilica di San Marco a Venezia, giunte nella città lagunare da Costantinopoli, ma di produzione verosimilmente egiziana, come è lecito supporre in virtù della pietra impiegata (il porfido delle cave del Gebel Dokhan, ai margini del deserto orientale egiziano) e della perizia con cui è lavorata, esito dell’antichissima tradizione dell’utilizzo in scultura di questo ed altri materiali di particolare durezza, risalente all’età faraonica e ancora ben viva in Egitto.
La millenaria cultura figurativa dell’Egitto dei faraoni continua ad esercitare un fascino potente in età romana, come era del resto avvenuto durante l’epoca tolemaica, condizionando le scelte sia formali che contenutistiche delle espressioni artistiche. È questa tradizione a dettare le linee nitide e la compattezza volumetrica della bella statua in basalto di Hor figlio di Hor, sacerdote del dio Thot al Cairo, ma anche le formule iconografiche che trasformano talvolta gli imperatori romani in faraoni, come in una statua di Caracalla caratterizzata da uno straniante contrasto tra l’intenzione ritrattistica dei lineamenti e la resa fortemente tipizzata del corpo. L’integrazione tra culture, credenze e tendenze stilistiche diverse conduce ad esiti di notevole originalità soprattutto nell’ambito della produzione di manufatti legati alle tradizionali pratiche funerarie, come lenzuoli funebri (celebre l’eclettico esemplare del Museo Puskin di Mosca, in cui un giovane vestito della toga romana viene presentato ad Osiride da Anubi, il dio dalla testa di sciacallo) e ritratti dipinti ad encausto su tavolette di legno, conservati nelle case e destinati, dopo la morte delle persone effigiate, ad essere applicati sulle loro mummie, restituiti in gran numero soprattutto dall’oasi del Fayyum, sulla riva sinistra del Nilo non lontano dal delta: una straordinaria galleria di volti resi con grande vivacità, che testimonia dell’evoluzione tecnica e stilistica, tra I e IV secolo, di un genere di pittura “popolare”.
L’arte dell’impero è davvero, per riprendere una nota definizione di Salvatore Settis, “un’arte al plurale”, caratterizzata da una eterogeneità di linguaggi stilistici e di tendenze formali che affondano le proprie radici nei diversi substrati culturali dei territori interessati dalla romanizzazione. Nelle province occidentali resta viva la tradizione artistica locale, caratterizzata da un linguaggio espressivo di tipo simbolico, fortemente improntato all’espressione immediata e ispirato ad esigenze di carattere narrativo e celebrativo piuttosto che estetico, lontano dal naturalismo e dalla razionale organicità delle formule stilistiche di matrice greca. Uso delle proporzioni gerarchiche e di una resa semplificata dello spazio e della profondità, predilezione in scultura per una resa disegnativa che inibisce una trattazione plastica delle figure, degradazione in senso ornamentale delle forme organiche, frontalità e centralità attribuite nelle scene figurate ai protagonisti principali in funzione celebrativa: sono le caratteristiche principali di questo linguaggio formale, cui si attribuisce generalmente la qualifica di “arte provinciale” tout court. Nelle province occidentali che in età preromana avevano avuto contatti più o meno intensi con il mondo greco, e nelle quali più precoce e profonda è la romanizzazione, queste tendenze possono combinarsi con la conoscenza della cultura figurativa ellenistica in opere originali e di notevole efficacia espressiva, come nella straordinaria statua di Medea che si prepara a trafiggere i figli aggrappati alle sue vesti (un’iconografia peraltro rarissima) rinvenuta nella necropoli di Arelate (Arles), nella quale la resa essenziale, quasi rozza, del volto, del corpo e del panneggio della maga trova accenti di intenso, dinamico patetismo nell’impostazione ritmica a spirale che riecheggia quella del gruppo pergameno del Galata che si uccide con la moglie. Arles, del resto, si trova nella Gallia Narbonense, divenuta provincia romana già nel 118 a.C. (il nome “Provenza” la qualifica come “provincia” per antonomasia) e definita da Plinio il Vecchio (Nat. hist., III, 31) “Italia, più che provincia” proprio per la profondità di penetrazione della cultura romana in questo territorio: un territorio che però aveva conosciuto da vicino anche la cultura ellenica, grazie alla mediazione della colonia greca di Massalia (Marsiglia). Lo stesso può dirsi per le tre province della Penisola Iberica (Hispania Baetica, Hispania Tarraconensis, Lusitania), di antica romanizzazione e in precedenza interessate da contatti significativi con la civiltà greca e con quella fenicio-punica: qui, soprattutto dagli inizi dell’età imperiale, abbiamo un livello molto elevato di adesione alle forme dell’arte ufficiale romana, che improntano anche la ritrattistica privata, che tuttavia spesso si distingue per un adeguamento alle caratteristiche somatiche e ai costumi locali, oltre che per una certa disinvoltura nel trattamento delle materie prime, in particolare il bronzo; un esempio molto citato a tale riguardo è un bel ritratto femminile in bronzo da Ampurias, in cui l’imitazione delle complicate torri di riccioli delle acconciature di età flavia è eseguita con semplicità e freschezza.
Ma nell’area centro-settentrionale dell’impero, dalle province danubiano-balcaniche alle due Germanie (Inferior e Superior), dalla Gallia Belgica alla Britannia, prevale nettamente quel linguaggio espressivo immediato, non naturalistico, che abbiamo già descritto, e che costituisce l’esatto corrispondente provinciale delle tendenze “plebee” della produzione artistica nell’Urbe, rappresentate, per citare un esempio notissimo, dalla tomba del fornaio Eurisace presso Porta Maggiore, con il suo fregio che con sciolta semplicità racconta le fasi della panificazione mettendo al centro di tutto la figura del committente, un self-made man che si autocelebra per l’abilità negli affari che gli ha garantito una prospera condizione economica ed anche una piccola carica pubblica, adeguatamente enfatizzata. Forme e tematiche confrontabili con quelle dell’arte “plebea”, espressione dei commercianti, dei magistrati locali, dei liberti in carriera di Roma e dei municipi italici, si riscontrano principalmente nell’arte funeraria delle province occidentali riconducibile ad una committenza costituita da commercianti più o meno romanizzati, da funzionari dell’amministrazione locale e dell’esercito, da soldati: persone che probabilmente, come nota Paul Zanker, entrando a far parte di un organismo percepito come superiore dal punto di vista politico e culturale quale l’impero di Roma, e godendo di un crescente benessere economico, acquisiscono un maggior grado di consapevolezza e di autostima, che li orienta verso la visibilità funeraria, che consente loro di raccontare qualcosa di se stessi e della propria esistenza.
I defunti si mostrano con il loro vero volto, in ritratti spesso rozzi e approssimativi, ma sempre chiaramente connotati da un intento individualizzante, e amano porre l’accento sulle proprie fortune economiche e sulla propria adesione ai costumi e alle abitudini di Roma: gli uomini indossano di frequente la toga, l’abito del cittadino romano, mentre le mogli, spesso abbigliate con le vesti tradizionali (come nelle stele funerarie del Norico, dove le donne portano caratteristici copricapi a due punte), sono coperte di gioielli, e i figli mettono bene in mostra la bulla, l’amuleto dei fanciulli romani nati liberi. Ma è soprattutto l’attività professionale del committente, percepita orgogliosamente come ascensore sociale, a costituire il soggetto più frequente nell’ambito di questa produzione artistica, ad esempio nei monumenti funerari della zona di Treviri nella Gallia Belgica, città fiorente grazie alle attività commerciali e artigianali e alla produzione vitivinicola, e che diventerà nel 287, con Diocleziano, la capitale della parte occidentale dell’impero quadripartito. Nei rilievi della celebre Colonna di Igel si dipanano i diversi momenti della tessitura, del trasporto e del commercio dei tessuti, attività della famiglia dei Secundini proprietaria del sepolcro, mentre un inno all’apprezzato vino della zona è il monumento di Noviomagus (Neumagen), probabilmente appartenente ad un viticoltore o ad un commerciante, costituito da due barche cariche di botti e di paffuti, allegri marinai, collegate tra loro da una passerella sormontata da una catasta di damigiane impagliate.
Non mancano tuttavia esempi in cui il linguaggio figurativo “plebeo-provinciale” risulta utilizzato in monumenti ufficiali, in virtù della sua efficacia espressiva e della sua immediata comprensibilità, che non necessita di occhi allenati a strategie narrative raffinate come quelle del classicismo dell’arte ufficiale di Roma: non è soltanto la committenza, dunque, a dettare le tendenze stilistico-rappresentative, ma anche il messaggio che si intende trasmettere e il destinatario cui quel messaggio si rivolge, oltre naturalmente all’abilità e alle tradizioni artistiche delle maestranze locali impiegate.
Tra i rilievi dell’arco di Susa, eretto tra il 9 e l’8 a.C. per celebrare l’alleanza tra Augusto e il re locale Cozio, diventato cinque anni prima governatore della provincia delle Alpes Cottiae, spicca una scena di sacrificio solenne (suovetaurilia) resa in uno stile semplificato e lineare, dominato dall’esigenza della leggibilità della narrazione, che impone le enormi proporzioni degli animali destinati al sacrificio e l’allineamento paratattico delle figure: qualcosa di molto diverso dal raffinato ed equilibrato naturalismo classicistico che domina la contemporanea produzione urbana del rilievo ufficiale, esemplarmente rappresentata dai pannelli dell’Ara Pacis augustea. Ben più forte è il contrasto di stile, di composizione, ma anche di messaggio, tra i rilievi di un monumento dell’Urbe e quelli di un monumento provinciale destinati entrambi a celebrare lo stesso episodio storico, ovvero la conquista traianea della Dacia.
Le vittoriose campagne di Traiano sono infatti il soggetto non solo della colonna coclide a Roma, ma altresì di un imponente monumento, insieme trofeo e cenotafio per i soldati romani caduti, che sorge nella desolata piana della Dobrugia nei pressi dell’attuale località rumena di Adamklissi. Alla struttura appartengono una serie di metope ed una di merli (la cui collocazione originaria risulta tuttora di problematica restituzione) con rilievi: sui merli compaiono figure di barbari prigionieri, appartenenti a vari gruppi etnici, mentre sulle metope figurano combattimenti tra soldati romani e barbari, inseguimenti, eccidi, scene di sottomissione. A più riprese si è tentato di riconoscere precise corrispondenze tra queste immagini e quelle presenti sulla Colonna Traiana: ma se il monumento urbano rappresenta un circostanziato resoconto figurato delle campagne daciche collocato nel cuore dell’impero ed edulcorato dalla volontà di offrire una interpretazione positiva dell’imperialismo romano come azione gloriosa e civilizzatrice, il Tropaeum Traiani, eretto nei pressi del termine orientale del limes, esibisce un repertorio di scene generiche di una brutalità esplicita e senza filtri, enfatizzata dall’immediatezza stilistica con cui le maestranze locali hanno rielaborato i probabili modelli inviati dall’Urbe: una carrellata di immagini simboliche minacciose e chiarissime, rivolte a tutti i popoli assoggettati a Roma in questa parte dell’impero. Non è il naturalismo razionale e composto del classicismo ufficiale il linguaggio più adatto a rappresentare questa concezione del dominio; e quando anche a Roma il potere mostrerà il suo volto più duro, imponendosi come forza indiscutibile e assoluta, sarà chiamato, significativamente, a farsene interprete un linguaggio figurativo simbolico e antinaturalistico, marcatamente celebrativo e libero da condizionamenti di natura estetica, affine a quello “plebeo-provinciale”.