GIOBERTI, Vincenzo
Nacque a Torino il 5 aprile 1801 da Giuseppe, di condizione non agiata. Ricevette la prima istruzione dai padri dell'Oratorio, e segnatamente dal p. Fontana e dal p. Gianotti, verso cui conservò sempre affetto e gratitudine. Datosi con fervore agli studî e alla vita chiericale, il 9 gennaio 1823 ottenne la laurea in teologia, e il 19 marzo 1825 fu ordinato prete. Di lì a poco (11 agosto 1825) venne aggregato al Collegio teologico dell'università di Torino dopo avervi sostenuto una tesi così brillante, che sin d'allora il suo nome salì in grande fama.
Difensore ardente della causa dei Polacchi, fu per la sua condotta politica arrestato nel giugno (1833 e rinchiuso nella cittadella, e da qui, alla fine di settembre, fu tradotto alla frontiera, donde raggiunse Parigi. Nel 1834 accettò un posto d'insegnante nel collegio diretto da P. Gaggia a Bruxelles, dove rimase sino al 1845, meditando e scrivendo quasi tutte le sue opere. Dopo circa quindici anni d'esilio, allietato solo dalle gioie dello spirito e dalla fede ferma nella resurrezione d'Italia, ritornò nella sua patria accolto con grande entusiasmo e plausi trionfali, che si ripeterono nei suoi viaggi attraverso la Liguria, la Toscana e anche a Roma, dove il papa regnante Pio IX l'accolse con benevolenza e con lodi. Il 4 agosto 1848 fece parte del ministero Casati rimanendovi sino al 18 dello stesso mese; il 16 dicembre 1848 fu nominato presidente del Consiglio dei ministri, e tale carica tenne sino al 20 febbraio del 1849. Avvenuta la battaglia di Novara, fu mandato da Vittorio Emanuele a Parigi come ministro, ma ben presto, per profonde divergenze politiche col suo governo, si ritirò a vita privata, finché la morte lo colse improvvisamente nella notte del 26 ottobre 1852 nel piccolo appartamento di Rue de Parme, dove fu trovato con accanto un giornale aperto e una Bibbia protestante, che la diplomazia trasformò nei Promessi Sposi e nell'Imitazione di Cristo.
Nella storia del Risorgimento italiano l'opera politica e filosofica del G. ebbe un'efficacia di prim'ordine. Ancora giovane, molto probabilmente, egli appartenne alla società segreta chiamata dei "Circoli", la quale con A. Brofferio, Giacomo e Giovanni Durando, Michelangelo Castelli, Sisto Anfossi e parecchi altri si proponeva di attuare la libertà e l'indipendenza italiana. Scoperta e disciolta ben presto la società, il G. continuò ad esercitare sul clero giovane e sul laicato la sua azione potente e piena di profonde suggestioni, e fu decisamente antimonarchico, come si rileva dalla sua lettera del 1833 Della Repubblica e del Cristianesinto, pubblicata con lo pseudonimo di Demofilo nel sesto fascicolo della Giovine Italia (1834), ma non volle mai iscriversi alla Giovine Italia del Mazzini. Pure le sue idee sia politiche, che filosonche e teologiche del periodo che va dal 1827 al 1833, gli attirarono i sospetti dei gesuiti e dei loro seguaci, molto numerosi e potentissimi allora nel vecchio Piemonte. Di qui l'arresto e l'esilio in Francia e in Belgio, dove il suo odio contro la monarchia, o la tirannide, diventò più esasperato, ma a poco a poco il suo repubblicanesimo si trasformò tanto da ripudiare i metodi rivoluzionarî della Giovine Italia. Attraverso varie oscillazioni, anche in politica era divenuto più cauto: all'acceso repubblicanesimo dei suoi giovani anni si sostituì l'amore per le riforme e l'idea d'una monarchia rappresentativa. Così cominciò in lui a maturare il concetto che per l'Italia occorreva una nuova politica e una nuova filosofia. Effetto visibile di questa nuova orientazione spirituale furono le sue critiche contro il Rousseau e il sansimonismo e le polemiche contro il Lamennais, un tempo da lui tanto ammirato, e contro lo stesso Rosmini. Il Primato, nell'ordine politico, fu l'espressione più notevole della sua adesione al principio monarchico. Qui il suo contrasto con Mazzini apparve più reciso, ma già verso il '40 egli aveva manifestato il suo disgusto per le intemperanze della setta mazziniana e condannato i tentativi vani delle sanguinose insurrezioni, e al Mamiani (15 ottobre 1840) scriveva che bisognava "creare una scuola di libertà temperata, morale, religiosa, italiana, una scuola di civiltà tanto aliena dal sentire dei demagoghi quanto da quello dei despoti.... gioverebbe all'intento il lasciar da banda le perplessità quanto alla forma politica che si desidera, e abbracciare risolutamente la causa della monarchia civile". Così si forma in lui una coscienza tendenzialmente unitaria, e benché nel Primato egli preferisca la confederazione all'unità d'Italia, e combatta quindi gli unitarî, fin dalla pubblicazione della Teorica il suo intimo pensiero era per l'Italia una, forte e libera: il federalismo voleva essere semplicemente un mezzo per arrivare gradatamente all'unificazione piena dell'Italia. Ma quando il federalismo, che egli credeva fondato sulle condizioni politiche dell'Italia d'allora, si infranse nelle esperienze dolorose e tragiche del '48 e '49, e il suo realismo politico gli apparve poco fondato, nel Rinnovamento civile, che sarà considerato il codice civile degl'Italiani, egli si dichiarò nettamente unitario. Il pensiero del G. qui s'incontrò con quello del Cavour, il quale lesse e commentò il Rinnovamento a re Vittorio Emanuele. La tesi del Primato dal punto di vista politico era capovolta: il Piemonte col suo giovane re doveva assumere l'egemonia della nazione e dare l'unità e l'indipendenza all'Italia prescindendo dalla confederazione degli altri principi e dall'aiuto del papato. Le polemiche suscitate dal Rinnovamento furono asprissime, perché esso da un lato combatteva i puritani della politica, cioè i mazziniani, dall'altro i municipali e accusava apertamente dell'insuccesso del Risorgimento gli uni e di altri. Dal guelfismo il G. attraverso uno sviluppo incessante di pensiero era passato ad una visione laica e democratica dello stato, e in tal modo si presentava come il maggior teorico del liberalismo, che è in antitesi col mazzinianismo antimonarchico e col guelfismo dei conservatori che consigliavano il re ad una politica di moderazione e di prudenza, la quale si risolveva nella diserzione dalla causa nazionale. E questo suo liberalismo si sollevò tanto in alto da accogliere le più ardite riforme economiche senza confondersi col socialismo e col comunismo. Ma i fondamenti della sua azione e dottrina politica sono da ricercare nella sua profonda filosofia, che, a differenza da quella del suo contemporaneo Rosmini, si colorisce di spirito politico.
Nella prima opera propriamente filosofica, la quale ha per titolo la Teorica del sovrannaturale, il G. enuncia quel prolhlema della conoscenza attorno cui affluiscono tutti gli altri problemi politici o religiosi o morali o estetici o educativi. Egli era persuaso che non era possibile costruire una politica, una religione, una morale, un'estetica che non fossero alimentate da una concezione filosofica della vita che, dopo Kant, si riduceva al problema stesso del conoscere. Dapprima la conoscenza umana si presenta al G. costituita di due potenze parallele, la sensibilità e l'intelligibilità. La prima è l'attitudine che ha l'animo nostro a ricevere in sé alcune impressioni e ad essere modificato in una certa maniera, laddove la seconda è un organismo di nessi necessarî e universali. Di qui una dualità irriducibile fra le idee e i fatti, cioè fra gl'intelligibili e i sensibili. In questa dualità, che spezza l'unità dello spirito, non poteva rimanere il G., il quale per superarla escogita una terza facoltà o attività spirituale, la sovrintelligenza. Da un lato le idee, dall'altro i fatti: le idee così non possono che limitare i fatti, e viceversa. Da questa reciproca limitazione occorreva uscire. Le idee sono di due generi, le primarie e le secondarie: quelle si riducono all'idea dell'Ente, queste si riferiscono ai sensibili. Ma neppure di questa distinzione il G. s'accontenta: egli sotto la pressione incalzante del suo problema, nell'idea dell'Ente non scorge l'Ente ideale del Rosmini, bensì l'Ente pieno gravido di tutte le idee. Così s'intravvede la teoria dell'Ente reale, che è la chiave di tutto il sistema speculativo del Gioberti. Contro l'eclettismo francese, capeggiato dal Cousin, egli osserva acutamente che i fautori di esso "convertendo le idee in fatti, e considerando l'ontologia come un corollario della psicologia, consacravano le basi di quel sistema che volevano combattere", cioè del sensismo. Non già i fatti, che sono per loro natura contingenti, possono spiegare le idee, ma viceversa le idee sono le ragioni dei fatti. Sicché l'Ente non è più l'Ente puro: se fra le idee e i fatti c'è una connessione intima, bisogna venire alla conclusione che i sensibili nella loro internità sono intelligibili, e l'universo tutto quanto si configura come la somma delle idee, la quale è ciò che propriamente Kant chiamava sintesi a priori.
Nell'Introduzione allo studio della filosofia l'Essere è la stessa idea, in quanto è colto dall'intelletto, ed è l'unico necessario come quello che non proviene affatto dalle sensazioni che sono per natura loro eontingenti. Ora l'Essere come Idea è la stessa evidenza: chiarisce non solo sé stesso, ma tutto il resto. Per l'Idea il nostro intelletto diventa facoltà d'intendere. Il G. segue qui le orme del Rosmini. Né l'Idea fonda solamente il nostro intelletto, per cui ci distinguiamo dagli animali, ma fonda o crea le nostre sensazioni. Così viene alla luce la peculiarità essenziale dell'Idea che consiste nell'atto creativo. Donde l'enunciazione della formula ideale: l'"Ente crea l'esistente". L'importanza speculativa di questa formula consiste non solo nell'esigenza di porre l'"ides come assoluta intelligibilità" che crea gl'intelligibili, ma anche nella dimostrazione del nesso intimo che lega l'infinito e il finito, Dio e l'uomo. I due termini l'Ente e l'esistente, comunque congiunti, non possono fornirci che una relazione estrinseca, che conduce logicamente ad una netta separazione tra l'uno e l'altro. Ciò che toglie la dualità opaca, irriducibile, è il principio della creazione. Raggiunta la meta che l'Ente è pensiero, e il pensiero è creazione, il nostro filosofo, pur attraverso contraddizioni e oscillazioni, corre diritto all'identità dell'ordine ontologico e dell'ordine psicologico.
Il pensiero del G. profondandosi nell'Idea vede da essa scaturire tutta la realtà spirituale e naturale: l'Intelligibile è così produzione d'idee e di fatti, che costituiscono l'enciclopedia divina, su cui si fonda l'enciclopedia umana. L'abisso che sembrava incolmabile tra l'Intelligibile e il sensibile è colmato: l'Ente concepito come creatore o causa creatrice ci dà l'esistenza universale. Così il Gioberti s'apre la via a risolvere il grande problema dell'individualità. Se il vero Ente, cioè l'Ente concreto, è l'Ente come causa creatrice, si conclude che lo spirito individualizza sé stesso facendosi esistente. Giacché "individuare è creare": onde la radice dell'individualità non è subiettiva, ma divina, e non viene conosciuta dall'uomo se non in quanto egli la vede effettuata nella creazione. Il concetto della personalità assume in tal guisa il suo aspetto vero, che è quello speculativo. Perciò pone il concetto che "l'individuo è veramente l'attuazione dell'idea, e l'idea è ad un tempo l'attuazione dell'individuo".
Il principio del supremo individuo che è assoluta concreta identità otterrà il suo pieno svolgimento nelle opere postume, ma segnatamente nella Protologia. Ma non si può dire che nella stessa Introduzione non si contengano i germi che saranno portati poi a maturazione. La teoria del tempo e dello spazio che è propria del Gioberti getta fasci di luce sul problema determinato dell'individualità. Anche per lui il tempo e lo spazio puri sono la condizione necessaria all'intelligibilità della sensazione.
Il libro Degli errori filosofici di A. Rosmini rappresenta il punto di passaggio dall'Introduzione alla Protologia. In esso è la rivelazione della fede ardente nella potenza riformatrice della filosofia. Egli continua a parlare della sua teoria dell'intuito, la quale, pur rivestendo ancora un carattere oggettivistico, a un certo punto presenta tutti gli aspetti della dottrina dell'Io trascendentale. Di fronte agli attacchi del Rosmini egli precisò e approfondì il suo problema fondamentale. Uomo vivente nell'azione e per l'azione non poteva considerare la filosofia se non come la più eccellente azione: di qui il bisogno che egli sentiva del concreto come unità indivisa del pensiero e dell'azione, della soggettività e dell'oggettività. Così egli abbandona il concetto dell'intuito schietto e si pianta nella conoscenza ontologica come sintesi dell'intuito e della riflessione. Sicché la riflessione ontologica è la vera sintesi del soggetto e dell'oggetto, e kantianamente avverte che l'Ente intuìto, che è il termine della riflessione ontologica, è un organismo non dissimile da quello per cui il predicato si organizza o si unifica col soggetto nell'unità del giudizio.
Dove si rende vieppiù manifesta l'esigenza della filosofia giobertiana d'inserire il fenomenico nel noumenico, il sensibile nell'intelligibile, lo spazio e il tempo nell'eterno. La riflessione psicologica, che è propria della filosofia astrattistica o analitica, si ferma soltanto al soggettivo, al contingente, al particolare. Perciò il G. punta i suoi strali continuamente contro di essa: la sua formula ha questo significato: la comprensione adeguata di tutta la realtà. La quale non è costituita soltanto dall'Ente, ma anche dall'Esistente. Ora codesta realtà piena, totale, espressa dalla formula ideale è il presupposto necessario, benché spesso implicito, di qualsiasi conoscenza determinata e quindi della stessa riflessione psicologica. L'intuito è l'unico dominatore e creatore della realtà: esso è il pensiero nella sua universalità e oggettività. Giacché lo stesso spirito intuente e l'atto dell'intuito non sono che effetti dell'atto creativo, e la creazione, come dice il G., è l'"azione stessa, per cui l'Ente pone l'esistente e con l'esistente esso spirito". Dunque, dall'unità creativa come sintesi originaria dell'ideale e del reale rampollano il soggettivo e l'oggettivo, indivisi sì, ma nettamente distinti. Il vero assoluto è la creazione. Donde l'illusione del G. della sua indipendenza da Kant, Fichte, Schelling, Hegel.
L'attività originaria è dunque il problema del G., che non si può pertanto accontentare della teoria dell'intuito, che appunto perché è considerato come il tutto potenziale rappresenta il nulla. Lo spirito intuitivo è lo spirito indeterminato: l'identità come semplice identità, e quindi in fondo la negazione del vero spirito, la cui peculiarità essenziale è il dinamismo, il progresso. Ora perché l'uomo sia una realtà efficace, realizzatore della verità, occorre che dall'indeterminatezza della cognizione intuitiva trapassi alla riflessione per cui s'installa nella verità, che così diventa certa. Ma la riflessione per svolgersi ha bisogno del concorso di certe condizioni organiche e sensitive fra le quali importantissima è la parola. Sia pure che la parola è chiamata impropriamente uno strumento della riflessione, ma essa come sensibile interno è così necessaria alla riflessione che l'una non si può considerare senza l'altra.
Ciò che il G. rimproverava al Rosmini era precisamente quello che egli, pur con atteggiamenti originali, pone adesso nettamente. L'intuito è l'idea una, e come tale esso costituisce l'identità indifferenziata. È la riflessione che frantuma codesta identità, che così diventa molteplicità d'idee. Ma la riflessione vive nel sensibile, cioè nella parola, e per la molteplicità delle idee senza cui non ci sarebbe reale progresso, è possibile soltanto per il sensibile. Se così non fosse, l'idea di uomo non differirebbe da quella di pianta o d'animale. Dunque è il sensibile che è la radice della limitazione e della differenza. Questo punto è ripreso nella Protologia, dove il G. fissa il suo sguardo nella scienza come dialettica o unità dei contrarî, cioè dell'intelligibile e del sensibile. La vita spirituale non è più un intorbidamento della vita iperurania dell'intuito, ma è il grande dramma che unisce in un turbine la vita umana e la vita divina.
Il linguaggio, che era concepito soltanto come un sensibile interno o uno strumento dell'idea, mediante l'approfondimento della natura dell'atto creativo, diventa una vera sintesi creativa del sensibile e dell'intelligibile. Il suo ufficio ora è quello di circoscrivere, di attuare il pensiero nella cognizione, d'individuare il concetto. Per ciò il linguaggio crea la riflessione, e crea nel campo indefinito dell'intuito la precisione, la misura, i limiti, cioè per il linguaggio il pensiero assume la caratteristica della concretezza. Questa più vera enunciazione del linguaggio dà una significazione più ampia e più profonda a tutta la filosofia giobertiana.
Il concetto dell'atto creativo rende ragione della moltiplicazione dei linguaggi, e quindi delle idee, le quali come molteplici sono certamente sensibili, o sentimenti, ma considerati in rapporto all'idea viva, causante, attuosa, efficace sono sensibili e intelligibili a un tempo. Anzi, propriamente, il sensibile non è che un momento dell'intelligibile. L'unica vera realtà è la mentalità pura ch'è un infinito passare ma è nello stesso tempo un infinito tornare. Se riguardiamo agli elementi materiali e finiti di essa, ci rinserriamo nel mondo della mimesi, che è il mondo empirico, materiale; ma se, invece, cerchiamo di cogliere la mentalità pura nel suo processo, cioè come atto creativo, alla considerazione mimetica succederà quella metessica che è per l'appunto quell'oceano, a cui corrono tutti gli esseri, qualunque sia il grado che essi rappresentano. Ma se tutto corre alla mentalità, qualunque manifestazione esprime un momento o grado di essa. Giacché il sensibile non può essere scala all'intelligibile se non contiene in sé qualcosa d'intelligibile. Codesta intelligibilità del sensibile si può dedurre da due capi, cioè: 1., dal concetto, su cui ripetutamente insiste il G., che è l'intelligibile a creare il sensibile, vale a dire il limite di sé stesso; 2., dal ritomo che il sensibile fa dall'intelligibile. Di qui il profondo concetto del G. sulla natura duplice del sensibile, cioè la soggettiva e l'oggettiva, che sono rappresentate rispettivamente dalla sensazione e dal sentimento, i quali esprimono le due facce del sensibile.
Questa soluzione era già avviata, ed è presente nella formulazione e dimostrazione dei due cicli creativo e concreativo (l'Ente crea l'Esistente e l'Esistente torna all'Ente). L'identificazione dell'umano e del divino sarebbe rimasta qualcosa d'indimostrabile, se il problema della relazione tra il sensibile e l'intelligibile non avesse avuto una soluzione adeguata. E così soltanto possiamo intendere la ragione che induce il G. a porre l'infinità potenziale dell'universo, in cui consiste il suo atto concreativo, rispondente all'Ente infinito, che costituisce l'atto creativo.
C'è, dunque, nella realtà tutto quanto uno sforzo continuo a mentalizzarsi. L'ingegno è il lievito infinito che spinge la mimesi (o la natura) a trasfom) arsi nella metessi (o mentalità). Perciò la civiltà, che è lo spiegamento della mentalità, è per il G. la coscienza della natura. Ma la natura come potenzialità dell'intelligibile si muove, e quindi passa, verso lo spirito, ma il suo movimento è qualcosa d'eterno. Altrimenti l'intelligibilità mancherebbe della fiamma che l'alimenta. Onde l'individuo come quegli che rappresenta la mimesi perisce sì, ma per rinascere: l'individualità perisce perché in essa c'è qualcosa di falso o di cattivo, ma rimane in quanto essa è la necessaria incarnazione dell'universalità o della mentalità.
La politica del G. è coerente con la sua filosofia. Fin dai Prolegomeni egli ha preciso il concetto della funzione vera dello stato che come espressione del dialettismo dev'essere il conciliatore per eccellenza. Ma la funzione dello stato come la stessa dialettica civile si delinea nel Primato e specialmente nel Rinnovamento. Certo il concetto del primato italiano, che a molti parve utopistico, non consiste nel federalismo o in altri concetti particolari dettati dalle contingenze, bensì nella coscienza profonda di rifare la storia d'Italia come storia dello stato moderno. Da questo punto di vista s'intendono i suoi sforzi intesi a conciliare la religione con la civiltà. È vero che la lotta da lui sostenuta contro la chiesa per l'affermazione dell'autonomia dello stato riguarda principalmente il potere civile o temporale dei papi, ma la sua grande originalità è contenuta appunto in questo tentativo di conciliare la spiritualità dello stato con la spiritualità della chiesa. Per essa con fine e profondo intuito politico arriva al riconoscimento che la democrazia è l'effetto universale della civiltà moderna. Perciò la sua democrazia è altamente speculativa perché è informata da un principio dinamico che è l'ingegno o la mente come continuo dispiegamento. La democrazia legittima non può sorgere che dal connubio della plebe con l'ingegno. Questo connubio costituisce la sintesi a priori politica del G., dalla quale deriva il suo concetto originale di nazionalità. Il vero stato s'identifica con la nazione. Anzi il primo intento della scienza civile consiste nella dimostrazione dell'idealità delle nazioni, la quale fa vedere come nella nazione, che è considerata come un composto organico, dotato d'un centro vitale, si raccolga e si potenzii la vita del popolo in ogni manifestazione. Onde "l'idealità d'un popolo abbraccia la morale, la religione, i diritti, le parti più eccelse e rilevanti della politica: è il principio da cui ridondano alle comunità, come ai privati, ogni virtù, ogni stabilità, ogni fiore di civili incrementi, ogni vera forza e grandezza". Perciò il G. in tutte le sue opere ma specialmente nel Primato e nel Rinnovamento è tutto intento a gettare le fondamenta dell'edificio dell'autonomia spirituale della nazione italiana.
Opere: Teorica del sovrannaturale (Bruxelles 1838; 2ª ed., Capolago-Torino 1850); Produzione allo studio della filosofia (Bruxelles 1839-1840); Osservazioni sulle dottrine religiose di V. Cousin (Bruxelles 1840); Sul bello (Venezia 1841); Degli errori filosofici di A. Rosmini (Bruxelles 1841); Lettres sur les doctrines philosophiques et politiques de M. Lamennais (Bruxelles 1841); Del primato morale e civile degl'Italiani (Bruxelles 1842-43); Del buono (Bruxelles 1843); Prolegomeni del primato (Bruxelles 1845); Il gesuita moderno (Losanna 1846-47); Apologia del libro intitolato "Il gesuita moderno" (Bruxelles-Livorno 1848); Operette politiche (Capolago-Torino 1851); Del rinnovamento civile d'Italia (Parigi-Torino 1851). - Scritti postumi pubblicati a cura di G. Massari: Della riforma cattolica della Chiesa (Torino-Parigi 1856); La filosofia della rivelazione (Torino-Parigi 1857); Della protologia (Torino-Parigi 1857): Pensieri di V. G.: Miscellanee (Torino 1859-60); Ricordi biografici e carteggio (Torino 1860-62). - Altri scritti postumi: Meditazioni filosofiche inedite di V. G. (pubblicate da E. Solmi, Firenze 1909); La teorica della mente umana. Rosmini e i Rosminiani. La libertà cattolica (Torino 1910): Ultima replica ai municipali (a cura di G. Balsamo-Crivelli, Torino 1917). Da notarsi: I frammenti "Della riforma cattolica" e "Della libertà cattolica" Firenze 1924); Epistolario (ediz. naz. a cura di G. Gentile e G. Balsamo-Crivelli, giunta al vol. VI).
Bibl.: Per la cronologia delle opere cfr. la prefazione di G. Gentile a: V. Gioberti, Nuova Protologia, voll. 2, Bari 1912; G. Saitta, Il pensiero di V. G., 2ª ed., Firenze 1927, pp. 13-30. - Sul pensiero filosofico del G. vedi: B. Spaventa, La filosofia di G., Napoli 1863; G. Gentile, Rosmini e G., Pisa 1898; G. Saitta, op. cit.: S. Caramella, La formazione della filosofia giobertiana, Genova 1927; F. Palhoriès, G., Parigi 1930. - Sul pensiero politico vedi: D. Berti, Di V. G. riformatore politico e ministro, Firenze 1881; E. Solmi, Mazzini e G., Roma-Milano 1913; A. Anzilotti, G., Firenze 1922; id., La funzione storica del giobertismo, Firenze 1923; G. Gentile, I profeti del Risorg., 2ª ed., Firenze 1927; G. Saitta, Introd. al vol.: La politica, 2ª ed., Firenze 1928; U. Padovani, V. G. ed il cattolicismo, Milano 1927. - Sulle dottrine estetiche vedi: C. Sgroi, L'estetica e la crit. lett. di V. G., Firenze 1921; S. Caramella, in Giorn. crit. d. fil. it., 1921; in Nuova riv. stor., 1922. - Per una più ampia bibl. vedi: A. Bruers, G., Roma 1924.