Gioberti, Vincenzo
Filosofo e uomo politico (Torino 1801 - Parigi 1852). Nato da famiglia di modeste condizioni economiche, si laureò nel 1823 in teologia e nel 1825 fu ordinato sacerdote. Cappellano di corte dal 1826, divenne presto noto per gli studi teologici e per le forti convinzioni repubblicane. Affiliato a una società segreta, detta dei Circoli, strinse inoltre rapporti con alcuni membri della Giovine Italia, senza però aderire all’associazione. Lasciata nel maggio 1833 la carica di cappellano, a causa dei sospetti causati dalle sue idee, venne immediatamente coinvolto nella repressione seguita alla scoperta della congiura mazziniana: arrestato con pesanti accuse e tenuto in carcere, senza processo, per alcuni mesi, venne infine condannato all’esilio. Si trasferì prima a Parigi e poi a Bruxelles, dove ottenne un posto da insegnante, rimanendovi per oltre un decennio. Durante il periodo dell’esilio scrisse gran parte delle sue opere, tra cui Teorica del sovrannaturale (1838), Introduzione allo studio della filosofia (1839-40), Degli errori filosofici di Antonio Rosmini (1841) e Il gesuita moderno (1846-47). Nel 1843 pubblicò l’opera che gli avrebbe dato la celebrità, Del primato morale e civile degli italiani. In essa diede espressione a un indirizzo in seguito definito «neoguelfo»: perorava una soluzione federalista del problema nazionale sotto l’egida del papa, ritenendo l’afflato ideale e la tradizione monarchica del cattolicesimo in grado di sostenere l’aspirazione all’indipendenza nazionale e di armonizzare gli interessi particolari. Il neoguelfismo mirava dunque a una saldatura tra la riaffermazione del potere civile del papato e l’unificazione nazionale e, al tempo stesso, tracciava una via consensuale, pacifica e aliena da fratture rivoluzionarie per la costruzione dello Stato nazionale. L’opera ebbe grande risonanza. Vasti furono i consensi, soprattutto dopo che – con la salita di Pio IX al soglio pontificio nel 1846 – la politica vaticana sembrò orientarsi nella direzione da lui indicata. Negative furono invece le reazioni dei mazziniani. Nell’aprile 1848 rientrò a Torino, dopo oltre quattordici anni di esilio. Nominato senatore, rinunciò per accettare il mandato alla Camera dei deputati, alla quale nel frattempo era stato eletto. Nel Parlamento però entrò di fatto solo qualche mese dopo. Appena tornato in Italia, infatti, iniziò un lungo giro politico che lo portò in Piemonte, in Lombardia, in Emilia, a Genova, a Livorno e infine a Roma. Durante il viaggio ebbe incontri, tra gli altri, con Mazzini, Carlo Alberto e Pio IX. Fu per breve tempo presidente della Camera, quindi ministro senza portafoglio e poi ministro dell’Istruzione nel governo Casati. Nel dicembre 1848 venne nominato presidente del Consiglio, ma già nel febbraio successivo dovette rassegnare le dimissioni, non potendo più contare sulla maggioranza parlamentare. Il periodo della breve esperienza al governo coincise con il definitivo tramonto dell’ipotesi neoguelfa. In seguito alla battaglia di Novara fu mandato da Vittorio Emanuele a Parigi come ambasciatore, ma ben presto, per profonde divergenze politiche col governo, si ritirò a vita privata. Rimase nella capitale francese, dedicandosi agli studi, e nel 1851 diede alle stampe Del rinnovamento civile d’Italia, la sua seconda grande opera politica, nella quale, riconoscendo gli errori di previsione sulle potenzialità della politica ecclesiastica, tornava a perorare la causa nazionale affidandone i destini ai principi sabaudi, cui sarebbe spettato l’onere dell’unificazione dell’Italia e dell’elevazione di Roma a capitale. La sua riflessione, al di là dei contingenti insuccessi, ebbe grande rilevanza nell’azione risorgimentale e costituisce uno dei momenti più significativi del pensiero politico italiano del periodo. Numerose sono le opere pubblicate postume o rimaste incompiute, per lo più di argomento filosofico e religioso. Particolarmente significative sono considerate: Della riforma cattolica della Chiesa (1856); Della filosofia della rivelazione (1856)