Abstract
La vittima dei fatti penalmente illeciti, da soggetto “ai margini” del diritto penale classico, ha acquisito, specie negli ultimi decenni, un ruolo protagonistico nelle scelte politico-criminali interne e sovranazionali, con vistose ripercussioni sulla stessa concezione del reato e sulla portata degli scopi in generale assegnati al diritto e alla sanzione criminale. Tuttavia, le modalità attraverso le quali la “riscoperta” della vittima ha avuto luogo nel diritto penale testimoniano come non di rado l’attenzione rivolta alla persona offesa dal reato muova da una considerazione oltremodo semplicistica di quest’ultima, e sia diretta ad una strumentalizzazione politica di questo soggetto debole per fini che vanno ben al di là dell’attuazione dei doveri costituzionali di solidarietà sociale; doveri che al contrario potrebbero essere talvolta soddisfatti più compiutamente grazie al superamento delle logiche punitive tradizionali.
Ancorché utilizzata abitualmente, la locuzione “vittima di reato” stenta ad affermarsi nel lessico legislativo al di fuori di particolari ambiti come i testi normativi sovranazionali e le leggi interne istitutive di fondi pubblici di solidarietà a favore di particolari categorie di vittime. Il codice penale e il codice di procedura penale continuano infatti ad avvalersi delle espressioni “persona offesa dal reato”, “offeso dal reato” e “persona danneggiata da reato”, mentre la dottrina penalistica appare ancora legata al tradizionale concetto dogmatico di “soggetto passivo del reato” quale titolare del bene giuridico offeso dall’illecito penale. Al contrario di quest’ultimo concetto, la nozione di vittima, avallata dalla scienza criminologico-vittimologica, risulta incentrata non tanto sulla titolarità dell’interesse leso dal reato quanto piuttosto sui pregiudizi nel complesso arrecati, direttamente o indirettamente, dal fatto penalmente rilevante (sui problemi definitori v., per esempio, Del Tufo, V., Vittima del reato, in Enc. dir., vol. XLVI, Milano, 1993, 996 ss.; Pagliaro, A., Tutela penale della vittima nel sistema penale delle garanzie, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2010, 44 s.): appare al riguardo probante la definizione scritta all’art. 2 della direttiva 29/2012/UE contenente «norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato», secondo cui vittima è «una persona fisica che ha subito un danno, anche fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono state causate direttamente da un reato», nonché «un familiare di una persona la cui morte è stata causata direttamente da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona» (sul punto v. Allegrezza, S., Il ruolo della vittima nella direttiva 29/2012/UE, in Luparia, L., a cura di, Lo statuto europeo delle vittime di reato, Milano, 2015, 6 s.).
È dunque evidente la non perfetta sovrapponibilità tra la nozione criminologica di “vittima” e la categoria dogmatica di “soggetto passivo del reato”, messa per esempio in evidenza dal delitto di concussione ove il secondo è ravvisabile sia nella Pubblica amministrazione sia nell’individuo concusso, mentre la prima, da un punto di vista strettamente vittimologico, sarà unicamente la persona fisica indotta a dare o promettere qualcosa al pubblico ufficiale.
Tuttavia, poste queste doverose precisazioni definitorie, oggidì è la stessa dottrina penalistica a utilizzare sovente la più “generica” espressione “vittima di reato” in luogo delle succitate formule e anche nella presente voce ci si avvarrà indifferentemente delle locuzioni in questione, avendo ad ogni modo cura di specificare ogni volta in cui ciascuna di esse verrà richiamata nel rispettivo significato tecnico.
Uno dei tratti distintivi dello Stato moderno è rappresentato dall’allontanamento della vittima dal sistema della giustizia criminale (Hassemer, W., Perché punire è necessario, Bologna, 2012, 233): la gestione dei conflitti derivanti da reato diviene infatti appannaggio dell’autorità pubblica in risposta a quel modello privatistico dominante nel diritto romano arcaico e germanico ove le vittime e i rispettivi familiari tutelavano i propri diritti in via autonoma (si tratta della cd. “età dell’oro” della vittima come definita da Silva Sánchez, J.M., La victimologia desde la política criminal y ed Derecho penal. Intodución a la ‘victimodogmatica’, in Rev. peruana de ciencias penal, 1994, 595).
Questo processo di esclusione della vittima dagli affari penali, che affonda le proprie origini al tempo della formazione degli Stati nazionali, si caratterizza ad ogni modo per una sua intensificazione via via crescente nel corso dei secoli, sino a giungere alla sua massima espressione nell’ottocento: gli interessi della vittima individuale vengono assorbiti, sotto il profilo sostanziale, nel concetto di bene giuridico protetto dalle norme incriminatrici, mentre, sotto il profilo processuale, nell’alveo dell’esercizio pubblico dell’azione penale (v. Garapon, A.-Salas, D., La Repubblica penale, Macerata, 1997, 12 ss.): sicché, la persona offesa diviene “poco più di un normale testimone”, un mero “paziente” come la definì efficacemente il Carnelutti (Carnelutti, F., Teoria generale del processo, Padova, 1933, 245).
In breve, lo Stato si è sostituito interamente alla vittima nell’attività di protezione dei beni di quest’ultima (cfr. Donini, M., Il volto attuale dell’illecito penale. La democrazia penale tra differenziazione e sussidiarietà, Milano, 2004, 80) e il diritto penale viene a conseguire una dimensione essenzialmente garantistica e contenitiva dell’intervento punitivo statuale, tanto da essere emblematicamente additato come magna charta del reo.
Sicché la pena, in una prospettiva perlopiù retributiva, viene a operare su di un duplice piano: da un lato, ripristinando nella comunità la pace sociale infranta dal reato e, dall’altro lato, riparando il torto subito dalla persona offesa comunque elevata al rango di entità astratta (cfr. Venafro, E., Brevi cenni introduttivi sull’evoluzione della vittima nel nostro sistema penale, in Venafro, E.-Piemontese, C., a cura di, Ruolo e tutela della vittima in diritto penale, Torino, 2004, 12 ss).
La vittima rimarrà per secoli nell’oblio più completo non solo del legislatore, ma altresì dei cultori delle scienze tanto criminologiche quanto giuridico-penali, i quali concentreranno le proprie attenzioni unicamente sullo studio del reo e delle sue prerogative.
In Italia il più emblematico esempio della estromissione della vittima dal diritto penale è rinvenibile nel codice Zanardelli del 1889, il quale – come si sa – rappresenta la principale concretizzazione normativa del pensiero della Scuola classica. Il numero assai circoscritto di norme in cui vengono in rilievo nel primo codice penale unitario le caratteristiche personologiche e i comportamenti della vittima è sintomatico dell’adesione del legislatore dell’epoca all’idea liberale che qualifica il reato come “ente giuridico” di natura statica, nonché lo ius criminale come strumento punitivo di extrema ratio totalmente estraneo a qualsivoglia istanza di solidarietà ed equità sociale, il cui accoglimento verrebbe a compromettere l’imparzialità dell’intervento penale (in argomento sia consentito rinviare a Venturoli, M., La vittima nel sistema penale. Dall’oblio al protagonismo?, Napoli, 2015, 135 ss.).
E la marginalizzazione della vittima non riguarda unicamente i reati posti a protezione di oggettività giuridiche a carattere generale-pubblicistico, ma altresì quelli collocati a tutela di interessi di portata più strettamente individuale-privatistico; tant’è che la dottrina più risalente (cfr. Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, in Nuvolone, P.-Pisapia, G.D., a cura di, Torino, 1981, 626) individua nello Stato la vittima costantemente presente in ogni comportamento penalmente rilevante accanto al soggetto passivo “concreto”. Questa impostazione subisce poi una radicalizzazione da parte di quanti negano una dimensione autonoma del diritto penale rispetto alle altre branche dell’ordinamento, secondo cui lo Stato sarebbe sempre e soltanto il vero soggetto passivo del reato, mentre la persona che subisce in via immediata la lesione rappresenterebbe unicamente il soggetto passivo del fatto materiale nel contempo illecito in ambito extra penale (cfr. Grispigni, F., Diritto penale, vol. II, Milano, 1952, 285).
Dopo un prima “riscoperta” della persona offesa dal reato, avvenuta, a livello scientifico, ad opera degli appartenenti alla Scuola positiva, e, a livello politico-legislativo, con la nascita dello Stato sociale (cfr. Venafro, E., Brevi cenni introduttivi sull’evoluzione della vittima nel nostro sistema penale, cit., 11 ss.), l’impulso decisivo all’emancipazione della vittima proviene, sul finire degli anni quaranta del secolo scorso, dalla criminologia, nel cui ambito nasce la vittimologia; disciplina autonoma per alcuni e branca della criminologia per altri, «che ha per oggetto lo studio della vittima del reato, della sua personalità, delle sue caratteristiche biologiche, psicologiche, morali sociali e culturali, delle sue relazioni con l’autore del reato e del ruolo che ha assunto nella criminogenesi e nella crimodinamica» (Gulotta, G., La vittima, Milano, 1976, 9; per una panoramica generale sulla vittimologia v., per esempio, Saponaro, A., Vittimologia. Origini – Concetti – Tematiche, Milano, 2004; Portigliatti Barbos, M., Vittimologia, in Dig. pen., vol. XV, Torino, 1999, 314 ss.).
In estrema sintesi – grazie soprattutto al contributo dei pionieri della materia – si inizia a studiare il crimine non solo con riferimento al reo, in una prospettiva unilaterale e statica, ma altresì in rapporto alla vittima, in una prospettiva bilaterale e dinamica (Von Hentig, H., The Criminal and his Victim. Studies in Sociology of Crime, New Haven, 1948, parla al riguardo di “coppia-penale” per esplicare la relazione tra autore e vittima riscontrabile nella dinamica criminale).
Vengono indagati i fattori di predisposizione vittimologica (in particolare da Ellemberger, H., Relations psychologiques entre le criminel et la victim, in Rev. inter. crim. pol. tec., 1954, VIII) e il rapporto tra autore e vittima con lo scopo di individuare gli strumenti più adeguati per la prevenzione dei fenomeni di vittimizzazione e per la tutela delle persone offese dal reato (la necessità di apprestare forme di assistenza a favore delle vittime, reputate quali soggetti bisognosi, è messa in evidenza, per la prima volta e in via specifica, da Mendelsohn, B., La Victimologie, science actuelle, in Rev. dr. pén., 1959, 625).
A partire da questo momento la rivitalizzazione dell’offeso da reato investirà in via trasversale tutti i settori delle scienze criminali e in ambito normativo conoscerà le sue prime manifestazioni nel contesto delle organizzazioni internazionali (ONU, ed, in particolare, Consiglio d’Europa e Unione europea), le quali arriveranno a disegnare nel corso degli anni un vero e proprio corpus normativo dedicato alla protezione delle vittime dei fatti penalmente illeciti (in argomento v., tra gli altri, Aimonetto, G., La valorizzazione del ruolo della vittima in sede internazionale, in Giur. it., 2005, 1327 ss.).
Pure la dogmatica penale costituirà terreno d’importazione del principio vittimologico. Negli anni settanta del secolo scorso si sviluppa infatti in Germania la cd. “vittimodogmatica”, ovverosia quell’indirizzo dottrinale che cerca di elaborare una dogmatica del soggetto passivo dell’illecito penale muovendo dalla succitata idea vittimologica del reato quale fenomeno interpersonale e dinamico nella cui genesi e realizzazione la vittima può rivestire un ruolo attivo (cfr. Schünemann, B., Methodologische Prolegomena zur Rechtsfindung im Besonderen Teil des Strafrecht, in Festschrift für P. Bockelmann Zum 70. Geburtstag, München 1979, p. 130 ss.; e nella dottrina italiana, in prospettiva comunque critica, Del Tufo, V., Profili critici della vittimo-dogmatica. Comportamento della vittima e delitto di truffa, Napoli, 1990).
Dalle prime forme più moderate – che ravvisano nella condotta, dolosa o colposa, della vittima un mero elemento da valutare in sede di commisurazione della pena – si giunge alle espressioni più radicali dell’impostazione de qua, secondo cui la tipicità del fatto deve essere esclusa nei casi in cui il soggetto passivo avrebbe potuto con i mezzi a sua disposizione proteggere i propri interessi.
Il diritto penale diviene così strumento sussidiario anche alla capacità di autodifesa della vittima, capovolgendo lo schema classico della legittima difesa, imperniato di contro, come si sa, sulla sussidiarietà della difesa del cittadino rispetto all’intervento dello Stato (cfr. Pagliaro, A., Tutela della vittima nel sistema penale delle garanzie, cit., 44).
Nelle norme incriminatrici vi sarebbe dunque una presunzione della meritevolezza di protezione della vittima, confutabile però nel caso concreto dal giudice, il quale deve ritenere non necessaria la tutela penale laddove non riscontri il bisogno di tutela dell’offeso. Tra i numerosi argomenti avanzati a ragion veduta in dottrina per confutare le argomentazioni dei vittimodogmatici, basta qui rammentare la distorsione del principio di sussidiarietà operata da questa corrente di pensiero: tale principio infatti – come notorio – è unicamente rivolto al legislatore per scegliere lo strumento sanzionatorio più idoneo alla protezione di un dato bene giuridico e non anche al giudice come canone ermeneutico delle fattispecie criminose nell’ottica di selezionare i comportamenti penalmente rilevanti (circa la ratio del principio di sussidiarietà cfr., per esempio, Marinucci, G.-Dolcini, E., Manuale di Diritto Penale. Parte Generale, Milano, 2015, p. 13; Donini, M., Il volto attuale dell’illecito penale, cit., 85 ss.).
Benché in estrema sintesi, occorre precisare che le condivisibili critiche all’impostazione in oggetto non concernono i risultati cui quest’ultima approda – vale a dire l’esclusione o l’attenuazione della responsabilità penale del reo nel caso in cui la vittima abbia concorso con la propria condotta alla verificazione del reato – bensì i mezzi invocati dai vittimodogmatici per giungere a siffatti risultati. Invero, alle medesime conclusioni cui perviene questa dottrina d’oltralpe si può giungere attraverso le consolidate categorie dogmatiche, quali la causalità e la colpevolezza o ancora la teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento, che possono rappresentare un “filtro” atto a consentire una lettura delle fattispecie criminose alla luce del principio vittimologico (cfr., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, Cagli, S., Condotta della vittima ed analisi del reato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, 1167 ss.), senza minare le fondamenta legalitarie del diritto penale moderno e lasciar passare il messaggio secondo cui «la vittima è tale perché se lo è meritato, non avendo attivato le difese che poteva attivare» (Di Martino, A., Voce della vittima, sguardo della vittima, in Venafro, E. - Piemontese, C., a cura di, Ruolo e tutela della vittima in diritto penale, Torino, 2004, 193).
Orbene, gli studi vittimologici, originariamente destinati alla predisposizione di strumenti di tutela della persona offesa, vengono declinati dalla dottrina vittimodogmatica in una direzione pro reo, ossia per giustificare l’ingresso nell’ordinamento di un principio di autodifesa del soggetto passivo quale criterio di delimitazione della tipicità dei fatti.
Sfogliando le pagine del codice penale si può appurare come la vittima del reato venga in esse richiamata in due differenti prospettive; prospettive che erano già ben riconoscibili all’epoca del varo del codice Rocco, ma oggi distinguibili in modo ancora più chiaro alla luce dell’espansione che ha segnatamente contraddistinto una di esse negli ultimi lustri pure nell’ambito della legislazione penale complementare.
In primo luogo, le caratteristiche personologiche della vittima (come l’età, il sesso, la condizione di debolezza psico-fisica, i fattori socio-professionali, ecc.) e le relazioni tra quest’ultima e l’autore del reato (per esempio, i rapporti di parentela o lavorativi) possono contrassegnare il disvalore dell’illecito penale o comportare un aggravamento dell’offesa al bene protetto. A titolo di esempio e in ordine sparso, si possono qui ricordare i reati contro i minorenni previsti dagli artt. 570, co. 2, e 572 c.p. («Violazione degli obblighi di assistenza familiare» e «Maltrattamenti contro familiari e conviventi»), ovvero l’«Abbandono di minori o incapaci» e l’«Omissione di soccorso» (artt. 591 e 593 c.p.), che annoverano quali possibili vittime sia soggetti di giovane età sia soggetti anziani; gli atti sessuali con persona infraquattordicenne (art. 609 quater c.p.); la prostituzione e la pornografia minorile (artt. 600 bis e ter c.p.); la circonvenzione di incapaci (art. 643 c.p.) e la mutilazione degli organi genitali femminili (art. 583 bis c.p.); e, ancora, la resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) e l’oltraggio a un magistrato in udienza (art. 343 c.p.) ove i soggetti passivi rivestono precipue posizioni professionali. Viceversa, le caratteristiche della persona offesa rilevano come ipotesi aggravatrici, per esempio, nell’omicidio e nelle lesioni personali commesse in presenza di particolari rapporti di parentela tra reo e soggetto passivo (artt. 576 e 577 c.p.) e nella violenza sessuale perpetrata a danno di infraquattordicenne (art. 609 ter, n. 1, c.p).
La prospettiva in parola comprende pure i cd. “reati a vittima collettiva”, dove i fenomeni di vittimizzazione coinvolgono una pluralità di persone complessivamente considerate, talora accomunate da precipue caratteristiche personali (per esempio, gli hate crimes e i crimini di guerra, nonché i reati ambientali o taluni illeciti penali in materia economica; sul concetto di vittima collettiva v., per esempio, Gulotta, G., Collective Victimization, in Vict., 1985, 710 ss.).
Del pari, sempre più frequenti sono le fattispecie criminose che, pur nell’assenza di una esplicita qualificazione del soggetto passivo, presentano una innegabile ratio vittimologica: si allude qui alle ipotesi in cui l’esigenza di protezione di alcune categorie di vittime si traduce essenzialmente nella formulazione di elementi strutturali della fattispecie distonici rispetto ai tradizionali principi garantistici (per esempio, determinatezza, offensività e colpevolezza), come pure nella colorazione dei reati de qua con evidenti “tinte” simboliche di rassicurazione sociale appalesate talora dagli stessi proclami politici che accompagnano il varo delle incriminazioni. Un esempio per tutti di questa tendenza politico-criminale è rinvenibile nelle recenti fattispecie di omicidio e lesioni personali stradali (artt. 589 bis e 590 bis c.p.), la cui introduzione è stata qualificata dallo stesso potere esecutivo come “atto di giustizia” verso le vittime e la cui portata mostra non pochi profili di dubbia ragionevolezza (in argomento cfr. per tutti, Menghini, A., L’omicidio stradale. Scelte di politica criminale e frammentazione del sistema, Trento, 2017).
Ebbene, l’idea in oggetto viene alimentata dalla convergenza di istanze differenti, direzionate tutte, in un modo o nell’altro, verso una valorizzazione della vittima nel nucleo concettuale dell’illecito criminale, e, più in generale, nell’ottica di assegnare alla sanzione penale un vero e proprio scopo di protezione dell’offeso dal reato. Istanze solidaristico-vittimologiche da un lato e istanze social-difensive dall’altro, che, in senso ascendente o discendente, orientano la rotta del legislatore penale: in senso ascendente, si pensi all’influenza vieppiù intensa esercitata dalla collettività (composta perlopiù da vittime potenziali) sulle scelte politico-criminali, mentre in senso discendente, all’incidenza sempre più ingombrante delle fonti penali europee – che presentano una spiccata sensibilità verso la protezione delle vittime – negli ordinamenti dei Paesi membri (cfr., per tutti, Del Tufo, M., La vittima di fronte al reato nell’orizzonte europeo, in Fiandaca, G.-Visconti, C., a cura di, Punire, mediare, riconciliare. Dalla giustizia penale internazionale all’elaborazione dei conflitti individuali, Torino, 2009, 107 ss.).
Viene in tal guisa scardinata quell’idea di tutela penale spersonalizzata propugnata dal diritto criminale liberale: invero, l’illecito penale è sottoposto ad un processo vieppiù cangiante di personalizzazione non solo sul suo versante attivo, ma altresì passivo: accanto ad un diritto penale per “tipi d’autore” si afferma un diritto penale per “tipi di vittima” e in taluni ambiti le differenti tipologie di rei e persone offese arrivano a coesistere, come ad esempio nel caso dei delitti sessuali (sul punto sia consentito rinviare a Venturoli, M., La protezione della vittima del reato come autonomo scopo del diritto penale, in Cortesi, M.F.-La Rosa, E.-Parlato, L.-Selvaggi, N., in Sistema penale e tutela delle vittime tra diritto e giustizia, a cura di, in Atti del II Convegno Del Laboratorio Permanente di Diritto e Procedura Penale, Milano, 2015, p. 11 ss.).
L’interesse del legislatore post-moderno non pare però essere rivolto in eguale misura verso ogni categoria di vittima. A parere di chi scrive, infatti, sono attualmente tre le species di vittime rispetto alle quali si riscontra una particolare attenzione negli odierni indirizzi politico-criminali: a) le vittime vulnerabili, considerate bisognose di una protezione più intensa in ragione delle caratteristiche di debolezza che le contraddistinguono (età, sesso, condizioni di disabilità, ecc.) ovvero della gravità dei reati da esse subiti, come per esempio i fatti di terrorismo (particolarmente critico nei confronti della nozione di “vittima vulnerabile” è, tra gli altri, Dolcini, E., Vittime vulnerabili nell’Italia di oggi e “durata determinata del processo penale”, in Corr. mer., 2010, 5 ss.); b) le vittime dei fatti che destano il maggior allarme sociale, identificabili o meno con le persone offese vulnerabili, verso le quali la collettività si identifica facilmente posto che i reati da esse patiti possono verificarsi a danno di chicchessia (per esempio, la criminalità di strada); c) le vittime storicamente particolari, come quelle della Shoa o in generale dei crimini contro l’umanità e di guerra, vale a dire soggetti che hanno sofferto gravi violazioni dei diritti fondamentali.
Per converso, altre categorie di vittime non sembrano essere destinatarie di altrettanta attenzione a livello politico-legislativo (si pensi, per esempio, ai reati contro l’economia e alla tortura). Fatto che dimostrerebbe la vieppiù energica attitudine della domanda collettiva di penalità a orientare gli indirizzi del legislatore: infatti, certi accadimenti – complice talora l’azione dei mass media – non vengono percepiti dalla maggioranza dei cittadini quale minaccia alla propria sicurezza; di talché, l’assenza di istanze di origine popolare sembra indurre il legislatore all’inerzia o al ritardo nell’adozione di interventi diretti alla tutela delle vittime in oggetto, pur talvolta disattendendo obblighi di incriminazione di fonte sovranazionale (come nel caso della tortura).
In secondo luogo, il comportamento della vittima e le sue relazioni con l’autore vengono in rilevo in una prospettiva diametralmente opposta alla precedente, ossia con lo scopo di attenuare o financo escludere la responsabilità penale del reo: si pensi, per esempio, alle scriminati del consenso dell’avente diritto (art. 50 c.p.) e della legittima difesa (art. 52 c.p.), alle attenuanti della provocazione (art. 62, n. 2, c.p.) e del fatto doloso della persona offesa (art. 62, n. 5, c.p.), nonché alle cause di non punibilità legate alle relazioni di parentela e affinità tra autore e vittima nei delitti contro il patrimonio (art. 649 c.p.).
Questa prospettiva – che può essere considerata come antesignana, sia pure con le manifeste differenze, alla succitata dottrina vittimodogmatica – viene originariamente sviluppata negli studi della Scuola positiva, la quale sdoganò, come si è visto, lo studio della vittima nell’ambito delle scienze criminali: l’attenzione per il ruolo dell’offeso nella dinamica del reato rappresenta agli occhi dei positivisti un passaggio imprescindibile per calibrare la pericolosità sociale del reo.
Nella notoria logica di compromesso tra postulati della Scuola classica e insegnamenti della Scuola positiva sottesa al codice Rocco, il legislatore del 1930 recepirà la prospettiva vittimologica di Ferri e Garofalo ovviamente adattata alla sua collocazione all’interno di un sistema rimasto ancorato al dogma della responsabilità penale.
A differenza della prima prospettiva scandagliata, che ha subito nel corso degli anni un vistoso allargamento, quella in parola è rimasta essenzialmente immutata nel tempo, “cristallizzata” come al momento dell’entrata in vigore del codice. Verosimilmente l’unica nuova ipotesi riconducibile a questo secondo indirizzo è riscontrabile nel delitto di induzione indebita previsto all’art. 319 quater c.p., introdotto dalla l. 6.11.2012, n. 190, in cui anche il soggetto indotto dal pubblico ufficiale a dare o promettere indebitamente a quest’ultimo o a un terzo denaro o altre utilità è sottoposto a pena, sia pure attenuata, analogamente all’autore del reato: il legislatore avrebbe così ravvisato nell’individuo indotto dal pubblico ufficiale una “vittima partecipante”, giacché esso avrebbe mantenuto un margine di scelta a differenza di quanto si verifica nella concussione.
Lo squilibrio tra le due impostazioni sopra riportate non rimane, in ogni caso, on the books, ma si riscontra in via speculare nel diritto vivente, che viene così a palesare connotati spiccatamente vittimocentrici: la giurisprudenza maggioritaria, sia di merito sia di legittimità, tende infatti ad adottare soluzioni dettate dall’ “imperativo categorico” di tutelare la persona offesa dal reato, specie se essa ricopre una posizione di inferiorità rispetto al reo (come accade nell’ambito dell’infortunistica sul lavoro, della responsabilità da prodotto o da emissione di sostanze tossiche); e questa tendenza si manifesta pure in presenza di comportamenti della vittima – colposi o financo volontari – idonei a dimostrare il pieno disinteresse di essa verso i beni giuridici di cui è titolare: per esempio, macroscopiche violazioni di regole cautelari gravanti sui lavoratori o l’autoassunzione cosciente e volontaria di droghe (una panoramica più ampia su questa tendenza giurisprudenziale è rinvenibile, volendo, in Venturoli, M., La vittima nel sistema penale, cit., 232 ss.). I giudici penali, con un approccio paternalistico, giungono a negare spazi di riconoscimento all’autodeterminazione o all’autoresponsabilità della vittima per il proprio comportamento, adottando soluzioni di matrice ideologico-valoriale che si caratterizzano sovente per stravolgere le categorie dogmatiche tradizionali, quali la causalità e la colpevolezza, in vista della protezione dell’offeso dal reato (sul paternalismo giudiziario v., per tutti, Micheletti, D., Il paternalismo penale giudiziario e le insidie della bad samaritan jurisprudence, in Criminalia, 2011, 275 ss.). Dalle pronunce giurisprudenziali emerge dunque un’idea di soggetto passivo del reato abbastanza semplicistica e noncurante dei numerosi studi vittimologici sinora condotti: la persona offesa viene difatti considerata meritevole di tutela incondizionata.
Si è sinora osservata la vittima del reato attraverso le tradizionali “lenti” del modello retributivo, ove l’attenzione per la persona offesa si esaurisce nella minaccia o nell’inflizione di una pena con lo scopo di pacificazione sociale e di ristoro simbolico, in ossequio alla logica secondo cui “al male deve corrispondere il male”. In siffatto modello la realizzazione di prestazioni riparatorie verso la vittima effettiva può rilevare unicamente sul piano extra-penale quale generale manifestazione dell’obbligo di risarcimento del danno, gravante sull’autore del reato ex art. 185 c.p. (sul punto v., per tutti, Zeno Zencovich, V., La responsabilità civile da reato, Padova, 1989), che potrà comunque essere ottemperato anche all’interno del processo penale grazie all’istituto della costituzione di parte civile. E l’adempimento di tale dovere risarcitorio potrebbe in via sussidiaria aver luogo ad opera dello Stato nel caso di insolvenza del reo, da un lato, alla luce di una concezione social-difensiva che ravvisa nell’autorità pubblica una responsabilità per omesso impedimento del fatto criminoso, oppure, dall’altro lato, in ossequio al principio costituzionale di solidarietà sociale (per una dettagliata ricostruzione storica della riparazione pubblica alle vittime del reato v. Casaroli, G., La riparazione pubblica alle vittime del reato fra solidarietà sociale e politica criminale, in Indice pen., 1990, p. 277 ss.).
Numerose sono oramai le fonti europee che prescrivono l’istituzione di fondi pubblici per l’indennizzo delle vittime dei reati intenzionali violenti, specie se a carattere transfrontaliero; e rispetto a questi obblighi sovranazionali l’Italia risulta tuttora inadempiente, posto che nel nostro Paese l’attività risarcitoria statale è limitata alle vittime di alcune categorie di delitti (terrorismo, criminalità organizzata, richieste estorsive ed usura), dalle quali gran parte delle fattispecie dolose a base violenta risulta esclusa (in argomento v. Scoletta, M., Il risarcimento del danno da reato nel sistema penale italiano a fronte dei vincoli europei, in Luparia, L., a cura di, Lo statuto europeo delle vittime di reato, Milano, 2015, 307 ss.).
Al di là della prospettiva or ora considerata, in un sistema penale classico l’attività riparatoria a favore delle vittime può venire in rilevo in un’ottica “premiale” e “clemenziale”. Si allude al riguardo alle ipotesi in cui lo svolgimento di prestazioni riparatorie verso le persone offese comporta una diminuzione del trattamento punitivo oppure costituisce il presupposto per poter beneficiare di alcune cause estintive del reato o della pena, oppure di misure alternative alla detenzione: senza pretesa alcuna di esaustività, si pensi alla circostanza attenuante di cui all’art. 62, co. 1, n. 6, c.p., applicabile nel caso in cui il reo, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno mediante il risarcimento, o quando sia possibile, mediante le restituzioni; o alla sospensione condizionale della pena cd. breve, prevista all’art. 163, co. 4, c.p., la cui concessione può aver luogo solo a seguito della riparazione integrale del danno (per una panoramica più dettagliata sulle ipotesi ascrivibili a questo modello v., Scoletta, M., Il risarcimento del danno da reato nel sistema penale italiano a fronte dei vincoli europei, cit., p. 314 ss; e, volendo, Venturoli, M., La vittima nel sistema penale, cit., 269 ss.).
In ultimo, nei decenni più recenti si è assistito ad un processo, più o meno intenso nei differenti ordinamenti europei, di valorizzazione della componente sanzionatoria della riparazione del danno, che giunge in particolari casi a porsi in maniera “alternativa” alla pena. Sembra stagliarsi un sistema “a triplo binario”, in cui il risarcimento alla vittima del reato può incarnare l’epilogo della vicenda penale in luogo della tradizionale sanzione punitiva (il principale propugnatore di tale concezione è Roxin, C., Risarcimento del danno e fini della pena, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1987, 3 ss.). Al di là delle perplessità, più o meno condivisibili, manifestate al riguardo (cfr., per tutti, Romano, M., Risarcimento del danno da reato. Diritto civile, diritto penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1993, 3 ss.), sulle quali non è possibile qui soffermarsi, è innegabile l’attitudine di un modello siffatto a valorizzare la posizione della vittima, rispetto alla quale la prestazione riparatoria viene a dirigersi in via diretta (sulle recenti tendenze della riparazione del danno in ambito penale v. Donini, M., Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, in Dir. pen. cont., fasc. 2, 2015, 236 ss.).
Occorre tuttavia distinguere l’ipotesi in cui la condotta risarcitoria può intervenire tout court senza un preliminare percorso “dialogico” tra autore e vittima e finanche su imposizione del giudice, da quella in cui essa consegue soltanto all’espletamento di un processo di mediazione tra le parti.
Quanto alla prima tendenza, in un panorama oggi assai ampio, può essere ricordata la riparazione del danno come causa estintiva del delitto di oltraggio (art. 341 bis, co. 3, c.p.), di taluni reati societari (artt. 2627, 2629, 2633 c.c.) e ambientali (art. 257 del cd. “codice dell’ambiente”), nonché nella giustizia penale di pace l’ipotesi di cui all’art. 35 del d.lgs. 28.8.2000, n. 274.
Solo i casi caratterizzati dalla presenza di un percorso in cui l’autore e la vittima si confrontano con l’ausilio di un soggetto imparziale (cd. mediatore) per giungere alla soluzione del conflitto tra loro verificatosi a causa del reato sono ascrivibili alla restorative justice (sul significato preciso da assegnare al concetto di “giustizia riparativa”, v., da ultimo, Mazzucato, C., Ostacoli e pietre d’inciampo nel contesto della giustizia riparativa in Italia, in Mannozzi, G.-Lodigiani, G.A., a cura di, Giustizia riparativa, Bologna, 2015, p. 128 ss.; in argomento, in una bibliografia oramai amplissima v. l’imprescindibile opera monografica di Mannozzi, G., La giustizia senza spada. Uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, Milano, 2003.). Si tratta di un modello “alternativo” di giustizia che riconduce la reazione al reato su di un piano di individualizzazione e concretezza, superando la logica che offre «ai bisogni della vittima una risposta nella sostanza simbolica, rappresentata dal quantum della sanzione inflitta» (Eusebi, L., La svolta riparativa del paradigma sanzionatorio. Vademecum per un’evoluzione necessaria, in Mannozzi, G.-Lodigiani, G.A., a cura di, Giustizia riparativa, Bologna, 2015, p. 113); viene così a sostanziarsi anche in sede giudiziale quell’idea “relazionale” di reato sostenuta dai vittimologi e difficilmente riproducibile all’interno del processo penale classico.
Si tratta tuttavia di una concezione recepita sinora con estrema timidezza dal legislatore italiano e limitatamente al contesto della giustizia penale minorile e della giurisdizione di pace, anche se una qualche apertura verso di essa pare attualmente riconoscersi pure nella giustizia degli adulti tramite l’istituto, di recente introduzione, della sospensione del processo con messa alla prova dell’accusato, pur in presenza di fondati dubbi circa la genuina natura riparatoria della misura sospensiva de qua alla luce di elementi retributivi in essa previsti, quale per esempio l’obbligo del lavoro (cfr. Bertolini, B., La messa alla prova per adulti sotto le lenti della giustizia riparativa, in Marandola, A.-La Regina, K.-Aprati, R., a cura di, Verso un processo penale accelerato, riflessioni intorno alla l. 67/2014, al d.lgs 28/2015 e al d.l. 2798/2014, Napoli, 2015, p. 25 ss.).
Nessuna.
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