ORLANDO, Vittorio Emanuele
ORLANDO, Vittorio Emanuele. – Nacque a Palermo il 19 maggio 1860, da Camillo, avvocato appartenente a una famiglia di antiche tradizioni forensi, e da Carmela Barabbino.
Compiuti gli studi classici, si iscrisse alla facoltà giuridica palermitana nel 1877, nello stesso anno di Gaetano Mosca.
I giovani che arrivarono allora alle università furono i protagonisti del rinnovamento della cultura scientifica italiana, che si realizzò dopo la guerra franco-prussiana, anche con la recezione massiccia dell’influenza culturale germanica, nello sforzo di ammodernamento della vita intellettuale del paese. Oltre a Orlando, in Sicilia furono Mosca, Francesco Scaduto, Angelo Majorana e Antonio Longo i giovani giuristi che operarono per inserire completamente la cultura giuridica regionale in quella nazionale e rinnovare la stessa cultura nazionale.
Se anche la cultura regionale continuava a esprimere eminenti personalità come il filosofo Simone Corleo e grandissimi studiosi delle tradizioni popolari come Giuseppe Pitrè e Salvatore Salomone Marino, fu soprattutto la nuova apertura nazionale e internazionale della cultura isolana, specie universitaria, a segnare della propria impronta quegli anni. Arrivarono dal continente personaggi come Adolfo Holm, studioso tedesco di storia antica siciliana, chiamato da Michele Amari a coprire la cattedra di storia antica e moderna (e che guidò negli studi storici Mosca); alla cattedra di diritto costituzionale fu nominato Alessandro Paternostro, studioso anche di diritto internazionale, dal 1888 al 1892 consigliere giuridico in Giappone del ministero della Giustizia di Tokyo, avvocato, deputato, membro del ‘Comitato dei sette’ incaricato dell’inchiesta parlamentare sullo scandalo della Banca Romana; nel 1884 Giuseppe Salvioli, reduce da esperienze di studio in Germania e in Inghilterra, coprì la cattedra di storia del diritto, partecipò alla vita politica e lesse a Palermo il 9 novembre 1890 quella prolusione intitolata ai Difetti sociali del codice civile in relazione alle classi non abbienti ed operaie che si può considerare il manifesto del socialismo giuridico italiano; nel 1881 arrivò nella facoltà giuridica anche il filosofo positivista Raffaele Schiattarella, che suscitò «un vero fermento di spiriti», destinato a esercitare «un forte influsso sulla cultura dell’isola» nell’ultimo ventennio del secolo (G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, Firenze 1963, pp.147 ss.).
Dunque, l’Università assunse un ruolo di punta nella modernizzazione intellettuale dell’isola, un rinnovamento che accompagnò anche lo sviluppo economico, industriale e armatoriale palermitano, in una fase di forte dinamicità dell’intera vita sociale e intellettuale siciliana, destinata poi ad arrestarsi negli anni Novanta con la repressione dei Fasci siciliani e la grande emigrazione di fine del secolo e d’inizio Novecento.
Orlando fu sin da studente fervido lettore degli scritti di Herbert Spencer e di Joseph-Ernest Renan sulla Revue philosophique e la Revue des deux Mondes e a Renan inviò il suo primo lavoro, Il Prometeo di Eschilo e il Prometeo della mitologia greca, apparso nel 1879 nella Rivista europea (pp. 475 ss.); nello stesso anno curò la rubrica economica della Rassegna palermitana, battagliando in difesa del liberismo (uno dei motivi culturali dell’intellettualità siciliana, culminato nel magistero di Francesco Ferrara), e scrisse per essa (I, pp. 161 ss.) un lungo articolo su Le condizioni finanziarie de’ nostri comuni, ove si mostrò ben addentro a problemi di finanze locali, bilanci e decentramento e buon conoscitore dei lavori di Antonio Salandra, Costantino Baer e Rudolf von Gneist; nel 1881 si cimentò, contemporaneamente, su un tema spenceriano, pubblicando l’articolo Delle forme e delle forze politiche secondo H. Spencer sulla Rivista europea (pp. 3 ss.), e su un tema già affrontato anni prima da Luigi Palma, quello de La riforma elettorale, dato quell’anno come argomento al concorso indetto dal Reale Istituto Lombardo, poi rielaborato e pubblicato in forma di monografia (Milano 1883).
Laureatosi nel 1881, nel 1882 si recò a Monaco di Baviera dove seguì i corsi tenuti da Aloys Brinz, celebre romanista civilista, uno dei più eminenti pandettisti tedeschi. Il medesimo anno ottenne la libera docenza in Diritto costituzionale all’Università di Palermo e nel 1885 vinse la cattedra di Diritto costituzionale presso l’Università di Modena.
L’incontro con Palma segnò una tappa fondamentale della sua formazione, assieme allo studio dell’opera di Johann Kaspar Bluntschli e all’insegnamento di Brinz. Nei lavori di Palma i tradizionali richiami ai rappresentanti del pensiero politico-costituzionale inglese e francese, John Stuart Mill, Benjamin Constant, Alexis de Tocqueville, spartivano il campo con quelli rivolti alla costituzionalistica liberale tedesca, Robert von Mohl, Bluntschli, Lorenz von Stein e Gneist. Ma l’apertura di Palma alla dottrina tedesca non arrivò fino a un confronto con i risultati raggiunti dalla scuola storica, dalla pandettistica e dall’introduzione del metodo giuridico nello studio del diritto pubblico a opera di Karl von Gerber e di Paul Laband. Orlando, invece, accostatosi direttamente alla pandettistica seguendo i corsi di Brinz, conosciuta l’opera della Scuola storica di Friedrich Carl von Savigny e gli scritti dell’ultima giuspubblicistica tedesca, compì il passo non compiuto da Palma e poté avviare il rinnovamento dello studio del diritto pubblico in Italia.
L’ormai avvenuto distacco da Spencer e l’adesione alla Scuola storica del diritto si manifestarono in quegli anni in due ricerche di carattere espressamente storico, Delle fratellanze artigiane in Italia (Firenze 1884) e La legislazione statutaria e i giureconsulti italiani del secolo XIV (Palermo 1884). Sempre nel 1884 si inserì nel dibattito ormai vivo intorno a La decadenza del sistema parlamentare con un articolo pubblicato sulla Rassegna di scienze sociali e politiche (II,1, pp. 589-600) scritto secondo i canoni della dottrina politico-costituzionale del tempo, aperto, al di là delle forme giuridiche, a considerare lo stato delle forze sociali e politiche. A partire proprio dalla netta separazione tra ordine giuridico e ordine politico, di lì a poco la svolta orlandiana avrebbe proposto lo studio delle forme dell’organizzazione costituzionale e amministrativa come l’oggetto esclusivo della giuspubblicistica italiana.
La vicenda iniziò con il saggio Della resistenza individuale e collettiva (Torino 1885), ripubblicato con modifiche di poco conto nel quinto volume della «Biblioteca di scienze politiche» di Attilio Brunialti come seconda parte della Teoria giuridica delle guarentigie della libertà (Torino 1890), sotto il titolo di Guarentigie costituzionali, per completare la prima dedicata alle Guarentigie giurisdizionali. Si sviluppò così quel progetto di sistemazione rigorosamente giuridica delle libertà, avviato nel saggio sulla resistenza.
Furono le nozioni del diritto e dello Stato assunti − sulle orme della Scuola storica di Savigny e nel rifiuto della concezione volontaristica e contrattualistica rousseauiana − come prodotti della storia, fatti storico-naturali, e anche la concezione gneistiana del Rechtsstaat e quella überöffentliche Rechte, svolta dai maestri dello Staatsrecht germanico a partire da Gerber, a fornire a Orlando, dal 1885 in poi, il modello statualistico teoricamente più maturo per un esame del problema della libertà «dal lato della guarentigia giuridica» dei «cittadini in rispetto all’autorità dello Stato» (p. 919 n. 2), dal lato insomma delle guarentigie giurisdizionali. Ma accanto a esse Orlando riaffermò l’esistenza anche delle guarentigie costituzionali, il loro nesso con le libertà politiche e i diritti politici in cui queste si attuano, così come il legame delle guarentigie giurisdizionali con le libertà e i diritti civili e l’indicazione della «storia costituzionale inglese» come solo «esempio mirabile del modo armonico con cui quelle due forme di libertà si sono sviluppate» (pp. 919-937).
Un altro aspetto specifico che distinse il lavoro di Orlando dalla pubblicistica antiparlamentaristica della Destra e dai giuristi tedeschi, da Gerber a Laband, a Gneist, fu la difesa scientifica del governo parlamentare, del suo carattere giuridico, lo sforzo teso a mostrare come il governo parlamentare fosse scientificamente conciliabile con il Rechtsstaat, anzi fosse il Rechtsstaat.
Non a caso, la prima applicazione concreta del metodo giuridico fu dedicata nel 1886 agli Studi giuridici sul governo parlamentare (in Diritto pubblico generale, Milano 1940, pp. 345-415), alla fondazione scientifica della natura giuridica del governo parlamentare, che postulava sia la critica al principio della divisione dei poteri (perché la specialità dello Stato costituzionale moderno riguardava piuttosto la distinzione, garantita da norme di diritto pubblico, della forma, natura ed efficacia degli atti legislativi, esecutivi e giudiziari in cui si manifestavano le singole funzioni fondamentali della sovranità); sia quella della rappresentanza politica per via di delegazione di poteri (perché il popolo non era un ‘organismo giuridico’ che potesse conferire mandati, non era persona, si personificava nello Stato), per affermare invece che la forma rappresentativa mirava solo ad assicurare l’elezione e l’esercizio del governo ai migliori, ai più capaci, e che il Gabinetto derivava il suo carattere giuridico dalla Corona: insomma, per sostenere una concezione dualistica della costituzione e della forma di governo, palesemente tributaria nei confronti della storia e del modello costituzionale inglesi, che contemperava in una forma di governo bilanciato, nel governo di gabinetto, prerogativa regia e maggioranza parlamentare.
Provata l’identità di Rechtsstaat e governo parlamentare, iniziò in quegli anni gli studi sull’altro istituto fondativo del Rechtsstaat italico, la giustizia amministrativa. Fu l’avvio di un lungo travaglio ermeneutico che approdò, in una Nota pubblicata nel 1896 nell’Archivio di diritto pubblico (VI, pp. 24-30) alla negazione del carattere giurisdizionale della IV Sezione del Consiglio di Stato all’affermazione della sua natura di semplice contenzioso amministrativo esercitato con le garanzie del contraddittorio (a integrazione della funzione garantista svolta dal giudice ordinario) e dunque al principio della non impugnabilità delle decisioni della IV Sezione dinanzi alla Cassazione di Roma. Nonostante la giurisprudenza contraria e pur prendendo poi atto dell’esplicito dettato della legge del 1907, Orlando sostenne quelle opinioni nella voce Contenzioso amministrativo (in Digesto italiano, VIII, 2, Torino 1895-98, pp. 849-947), nel saggio su La giustizia amministrativa (in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, III, Torino 1901, pp. 633-1165) e anche nelle edizioni dei Principii di diritto amministrativo successive alle riforme del Consiglio di Stato e della Giunta provinciale amministrativa del 1907.
Nel 1885 vinse il concorso per la cattedra di diritto costituzionale dell’Università di Modena e l’anno successivo di quella di Messina. I principi indicati nelle prolusioni inaugurali di Modena e di Messina furono rielaborati nella prolusione su I criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico (in Diritto pubblico generale, cit., pp. 3-22), letta l’8 gennaio 1889 nell’Università di Palermo, dove il 16 dicembre dell’anno precedente era stato chiamato alla cattedra di diritto amministrativo.
La prolusione costituì il manifesto del moderno specialismo scientifico disciplinare nella giuspubblicistica italiana e «fece in questo senso epoca» per il diritto pubblico (S. Romano, Il diritto pubblico italiano, Milano 1988, p. 6 n.13). Orlando − distinti «l’ordine politico ed il giuridico», «la discussione filosofica e politica circa la natura e la convenienza» di un istituto dallo «studio giuridico di esso», e rifiutata l’aridità del «commento esegetico» − non formulò invero una compiuta trama teorica ma semplici indicazioni tecniche, propose di ricorrere alla tecnica perfezionata nella secolare elaborazione del diritto romano e di costruire il diritto pubblico come «un complesso di principi giuridici sistematicamente coordinati», a cominciare dalle idee «di personalità giuridica dello Stato», di «diritti pubblici subiettivi» e di rapporto giuridico, regolato dalla signoria della volontà dello Stato e dei soggetti individuali, a cominciare dunque dagli elementi costitutivi del soggettivismo pandettistico.
Se la prolusione di Orlando fece epoca per il diritto pubblico in Italia, più risalente e corale era stato l’inizio del rinnovamento nelle scienze del diritto romano e privato, a opera di Filippo Serafini, Vittorio Scialoja, Carlo Fadda e Paolo Emilio Bensa. Medesimi ne furono, però, gli obiettivi: la costruzione dello Stato giuridico italiano e l’affermazione in esso del ruolo di guida teorica da assegnare alla scienza giuridica universitaria nei confronti della pratica forense, amministrativa e politico-legislativa. Ed era nell’accoglimento della lezione savigniana riguardo al dualismo tra diritto e legge, tra legge e sistema che si aprivano al giurista universitario gli spazi necessari per interporsi tra il momento della statuizione e quelli dell’interpretazione e applicazione giudiziale e amministrativa; per farsi garante del controllo scientifico di legittimità dell’operato della giurisprudenza, subordinando l’applicazione della legge al suo inserimento nel sistema del diritto positivo e affidando la costruzione scientifica del sistema al concettualismo giuridico.
A sua volta, il dualismo tra diritto e legge generava nella dottrina l’ipostatizzazione dei principi e degli istituti del sistema, con il richiamo al Rudolf von Jhering del Geist des römischen Rechts, ancora rappresentante della Begriffsjurisprudenz,«l’abitudine a considerare le varie nozioni e i vari istituti giuridici, come delle entità reali, esistenti, viventi»; e pareva assicurare solidità e generalità ai concetti, sino a ricordare a Orlando il «calcolo colle idee» dei giuristi romani di leibniziana e savigniana memoria. Tra Ottocento e Novecento il paradigma pandettistico divenne così, a partire dalla scienza romanistica e da quella giuspubblicistica, lo statuto scientifico del moderno specialismo in tutte le discipline giuridiche e permise a tutti i nuovi rami della scienza giuridica la costruzione della specifica identità di propri ambiti teorici rigorosamente disciplinari. Nel diritto pubblico il giurista diventava il tecnico, lo specialista, l’elaboratore esclusivo delle forme di organizzazione e di esercizio del potere statuale. Il formalismo del sapere giuridico era in funzione del formalismo del potere statuale e Orlando, adottando il primo, legava indissolubilmente le discipline giuspubblicistiche allo Stato italiano e faceva di quest’ultimo, del polo statuale, del modello statocentrico, il loro unico oggetto teorico.
Le Università, luoghi di produzione del paradigma pandettistico, ne erano naturalmente anche luoghi privilegiati di trasmissione: «il centro motore di questo nuovo indirizzo», come aveva auspicato nella prolusione palermitana. E come Gneist aveva concluso il suo Rechtsstaat invitando i giuristi tedeschi alla ‘missione’ del Rechtsstaat germanico, Orlando concluse la prolusione palermitana indicando ai giuristi italiani nella ricostruzione scientifica del diritto pubblico italiano l’apporto che potevano dare all’edificazione dello Stato giuridico nazionale e al compimento della «meravigliosa storia del Risorgimento».
Con i Principii di diritto costituzionale (Firenze 1889), Orlando cercò di introdurre nella stessa manualistica il metodo giuridico e i concetti con esso costruiti. Era un’opera anticipatrice, ma con tutti i limiti di un tentativo di sistemazione precoce in un campo teorico ancora quasi tutto da dissodare e da trasformare con analisi particolari informate al nuovo metodo giuridico. Ne seguì quel carattere eclettico tipico «di un periodo di preparazione e transizione», come lo stesso Orlando avrebbe avvertito quindici anni dopo pubblicando la quarta edizione (Firenze 1905, p. 6).
Uno dei risultati costruttivi importanti comunque raggiunti nei Principii fu, per esempio, l’affinamento formale delle nozioni di personalità e sovranità dello Stato, già attinte dall’insegnamento di Bluntschli fin dal saggio del 1885 sulla resistenza e poi perfezionate confrontandole con l’elaborazione che avevano avuto nell’opera di Gerber. Orlando ritenne di poter precisare la nozione gerberiana per definire la sovranità «come l’affermarsi dello Stato come giuridica persona, e quindi la fonte della sua generale capacità di diritto» (p. 45), una definizione che saldava sovranità e diritto, ovvero sovranità e limite giuridico al suo esercizio, che fondava insomma lo Stato liberale di diritto come Stato a un tempo sovrano e limitato appunto dal diritto.
Ben più innovatori apparvero i Principii di diritto amministrativo (Firenze 1891), che segnarono un decisivo avanzamento del metodo, della dogmatica e della sistematica giuridica. Definivano la scienza del diritto amministrativo come «il sistema di quei principi giuridici che regolano l’attività dello Stato pel raggiungimento dei suoi fini» (p. 17) e «dalla definizione della scienza» ricavavano, «per via di deduzione, le [tre] parti costitutive di essa»: l’«organizzazione dell’amministrazione», l’«attività dell’amministrazione» e la «difesa del diritto individuale verso l’amministrazione» (p. 45). La definizione pose il ‘centro di gravitazione’ del sistema nella «nozione di attività amministrativa» (G. Miele, Contributi al diritto amministrativo, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, III [1953], p. 54), svolta dall’organizzazione amministrativa, e dunque riproduceva l’architettura concettuale pandettistica, accoglieva lo schema soggettivistico das Rechtssubject - die Rechtsgeschäfte, doppiava il dualismo privatistico tra soggetto e negozio.
Lo Stato soggetto, persona giuridica, era titolare di una peculiare capacità di agire, la sovranità, che esercitava necessariamente tramite i suoi strumenti, gli organi (Principii di diritto amministrativo, p. 46), i quali nel loro insieme formavano, accanto all’organizzazione costituzionale, l’organizzazione dell’amministrazione (cui erano dedicati i libri secondo, terzo e quarto). Oltre a compiere attività di diritto privato comune, gli organi esercitavano la sovranità nella forma di ‘atti imperativi’, che nel loro complesso costituivano l’attività dell’amministrazione (libri quinto e sesto), sicché i privati, titolari dei diritti o degli interessi che assumessero lesi dall’attività amministrativa, potevano adire gli organi della giustizia ordinaria o amministrativa, preposti alla difesa giurisdizionale contro l’azione amministrativa (libro settimo). Il principio dello Stato persona giuridica appariva, infine, un presupposto necessario delle obbligazioni dello Stato (libro ottavo) e della responsabilità dello Stato per gli atti dei suoi funzionari. Al tema della responsabilità dello Stato era dedicata negli ultimi due capitoli del libro ottavo una riflessione insieme innovativa e tradizionale, volta a soddisfare le esigenze di specialità del diritto pubblico amministrativo, ma anche a «non alterare l’unità del diritto espressa dai principi del diritto comune civilistico» (G. Cazzetta, Responsabilità aquiliana, Milano 1991, p. 502).
Nel 1891, nell’anno in cui uscirono i Principii di diritto amministrativo, Orlando fondò a Palermo l’Archivio di diritto pubblico. Nel Programma della rivista riassunse i nuovi principi metodici e teorici di diritto pubblico generale, di diritto costituzionale e amministrativo e nell’Archivio svolse in quegli anni una gran parte del lavoro di elaborazione teorica e di direzione culturale volto alla rifondazione della scienza del diritto pubblico secondo i canoni del nuovo metodo giuridico.
Nella storia della giuspubblicistica italiana, l’Archivio risultò la prima rivista programmaticamente impegnata a elaborare un’identità disciplinare specialistica per il diritto costituzionale e per quello amministrativo e a dare inizio alla formazione di una ‘scuola nazionale’ di una nuova scienza del diritto pubblico italiano intesa come scienza giuridica autonoma, articolata in una pluralità di discipline specialistiche, capace di immettere i giuristi nelle forme dello specialismo giuridico e, attraverso esse, nelle istituzioni dello Stato nazionale.
Il progetto dell’Archivio, interrotto nel 1896 (risorse per un breve periodo a Roma sotto la direzione di Orlando e Luigi Luzzatti tra il 1902 e il 1903, per riprendere le pubblicazioni nel 1909 col titolo di Rivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione in Italia e diventare l’organo ufficiale della giuspubblicistica italiana), venne continuato l’anno dopo con la pubblicazione, presso la Società Editrice Libraria di Milano, dei fascicoli iniziali del Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, che, nell’arco di quasi un trentennio e con il concorso di gran parte degli amministrativisti italiani, illustrò tutte le branche del diritto amministrativo.
Nella partizione del Trattato, anticipata assieme alle teorie fondamentali nella Introduzione dell’opera e rappresentata anche in un grande prospetto grafico, Orlando riprendeva lo schema dei Principii, articolato nel dualismo soggettivistico organizzazione/attività − fedele, come abbiamo visto, al modello pandettistico soggetto/negozio − e nella distinzione dell’attività in giuridica e sociale; distribuiva la materia amministrativa in una serie di monografie, che seguivano in prevalenza un ordine espositivo, di tipo contenutistico, senza curarsi di raggruppare i diversi «istituti retti da comuni principi» in un quadro sistematico di teorie generali. Ma così operando si «contribuì in maggior copia al progresso scientifico della nostra scienza, perché, applicandosi direttamente al diritto positivo», finalmente si «ridusse nei freni della costruzione giuridica, certi gineprai di norme complessi e intricati» (M.S. Giannini, Profili storici della scienza del diritto amministrativo [1940], ora in Id., Scritti, II, Milano 2002, p. 151). Né, d’altra parte, il tentativo di inquadrare gli istituti giuridici in teorie generali fu sempre assente. Non mancarono nel Trattato monografie che miravano proprio alle «generalizzazioni e alle costruzioni sistematiche» e intendevano comporre i risultati delle indagini analitiche «in una sintesi sistematica, la teoria generale» (S. Romano, Le giurisdizioni speciali amministrative, in Primo Trattato, cit., III, pp. 507 s.).
Il grande lavoro di ‘caposcuola’, promotore e organizzatore degli studi delle nuove scienze costituzionalistica e amministrativistica italiane svolto da Orlando poté dirsi esaurito intorno al 1900, con l’inizio della sua attività politica.
Chiamato nel 1903 alla Sapienza di Roma − dove continuò l’insegnamento di Diritto pubblico interno sino al 1931, quando chiese il collocamento a riposo per evitare di prestare giuramento di fedeltà al regime fascista, per riprenderlo poi nel 1947 con la prolusione su La rivoluzione mondiale e il diritto (in Scritti giuridici varii (1941-1952), Milano 1955, pp. 373-435), letta a sessantadue anni dalla prima − i suoi interventi scientifici assunsero, prevalentemente, la forma dei lavori d’occasione e della discussione di teorie altrui, a principiare dai gran temi della natura del diritto e del rapporto tra diritto e Stato, svolti in un confronto ininterrotto con le teorie, formulate dal suo allievo Santi Romano, del diritto come istituzione e della pluralità degli ordinamenti giuridici, tra i quali, a suo avviso, lo Stato rimaneva comunque «l’organizzazione giuridica per eccellenza» (Stato e diritto [1926], in Diritto pubblico generale, cit., p. 235) e, dinanzi a «i dissidi e gli urti sociali» di partiti, sindacati e classi, il «principale presidio di […] libertà politica» (Sul concetto di Stato [1910], ibid., p. 220) e l’«organo di un interesse generale, come rappresentante di una collettività di popolo» (Lo Stato sindacale nella letteratura giuridica contemporanea [1924], ibid., p. 331).
In quel periodo il suo contributo scientifico più rilevante fu l’introduzione dell’opera di Georg Jellinek nella cultura giuridica italiana, con la traduzione e la prefazione del System der subjektiven öffentlichen Rechte nel 1912 (un libro cui si era rifatto già negli anni Novanta Romano nel saggio su La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, in Primo trattato, cit., I, pp. 111-220) e l’accoglimento del principio dell’autolimitazione dello Stato come loro presupposto (le cui aporie gli furono però ben presenti), cui fecero seguito la traduzione e l’annotazione della Allgemeine Staatslehre tra il 1921 (G. Jellinek-V.E. Orlando, La dottrina generale dello Stato, Milano 1921) e il 1949 (La dottrina generale del diritto dello Stato, Milano 1949).
Orlando − che nel 1890 aveva sposato Ida Castellano (da cui ebbe sei figli), figlia di Ambrogio, fondatore del Lloyd Siciliano e socio dei Florio, la grande famiglia di imprenditori e armatori palermitani − iniziò l’attività politica nel 1895, quando si presentò nel collegio di Partinico contro l’uscente deputato Paolo Figlia, un vecchio parlamentare della Sinistra storica, fedelissimo sostenitore di Francesco Crispi: ottenne una buona affermazione personale ma non fu eletto. Con l’appoggio del ‘partito di Antonio di Rudinì’, fu eletto invece nel 1897, rimanendo rappresentante del collegio di Partinico sino alle dimissioni dal Parlamento, nel 1925.
Seguì la maggioranza di centro-destra nel sostegno ai governi Pelloux e Saracco, ma il 20 giugno 1901 nel discorso di approvazione del bilancio dell’Interno prese le distanze dalla Destra e, aderendo ai motivi dell’intervento di Giovanni Giolitti, auspicò la neutralità dello Stato dinanzi alle agitazioni operaie e il riconoscimento del diritto di sciopero. Chiamato da Giolitti al ministero dell’Istruzione nel 1903, vi rimase sino al 1905 e realizzò la riforma della scuola primaria: una riforma non organica, ma importante, perché estendeva l’obbligo scolastico dal nono al dodicesimo anno di età, migliorava le condizioni economiche degli insegnanti e sosteneva l’assistenza scolastica.
Con Giolitti fu di nuovo ministro, di Grazia e Giustizia dal 1907 al 1909, quando portò a compimento la riforma dell’ordinamento giudiziario che unì alle garanzie di status giuridico dei magistrati e all’istituzione del Consiglio superiore della magistratura l’avvio di un processo di burocratizzazione e il rafforzamento del ruolo interno di direzione svolto dagli alti gradi, destinato a divenire il principale canale di trasmissione dell’influenza politica sulla magistratura. Nel 1908 fu autore dello statuto giuridico degli impiegati dello Stato, basato su un sistema di tutele inderogabili dei pubblici dipendenti, che confermò nel 1919 con la legge sull’impiego privato.
Ancora ministro di Grazia e Giustizia con Salandra, dal 1914 al 1916, preparò il disegno di legge per la «difesa economica e militare dello Stato» con l’attribuzione al governo dei pieni poteri in un ampio numero di materie, e predispose l’ordinamento della legislazione di guerra. Come già nella sua precedente attività ministeriale, operò anche per il miglioramento dei rapporti tra Stato e Chiesa e, intervenuta la guerra, seppe garantire la salvaguardia delle prerogative sovrane e delle immunità diplomatiche assicurate alla S. Sede dalla legge delle guarentigie.
Questi buoni rapporti furono la premessa dei colloqui riservati a Parigi con l’inviato pontificio, monsignor Bonaventura Cerretti, tra il maggio e il giugno 1919, nei mesi della conferenza della pace, volti a predisporre una soluzione normativa del rapporto tra lo Stato italiano e la Chiesa, contatti che Orlando volle più tardi ricordare come una preparazione del Concordato del 1929 (Miei rapporti di governo con la S. Sede, Napoli 1930, 2a ed. Milano 1944, rist. Bologna 1980).
Ministro dell’Interno con Paolo Boselli dal 1916, avendo ispirata la sua azione di governo del ‘fronte interno’ al rispetto delle libertà costituzionali, venne coinvolto in un durissimo scontro con il comando supremo di Luigi Cadorna, che lo accusò di mancata repressione del disfattismo dei partiti estremi.
Fu presidente del Consiglio dal 29 ottobre 1917 al 23 giugno 1919; dai giorni della rovinosa sconfitta di Caporetto a Vittorio Veneto seppe dirigere l’enorme sforzo di resistenza militare e civile del paese, che accompagnò e sostenne con la sua efficacissima oratoria parlamentare ed eloquenza politica, una retorica patriottica culminata in memorabili discorsi parlamentari come quello del «Resistere! resistere! resistere!» del 22 dicembre 1917 o quello del «Monte Grappa, tu sei la mia patria!» del 23 febbraio 1918, che concorse a fondare ‘la leggenda del Piave’.
Alla vittoria seguirono le delusioni della Conferenza della pace a Parigi, dove sulla questione adriatica finì con esaurirsi in sei mesi di negoziati inconcludenti, tra il gennaio e il giugno 1919, l’intera attività della delegazione italiana guidata da Orlando e dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino. Le incertezze e le divergenze della delegazione, tra il rispetto integrale del patto di Londra e la volontà di servirsene come mezzo di scambio per ottenere Fiume, le oggettive difficoltà delle rivendicazioni italiane che si scontravano con il nazionalismo slavo, la politica filoslava del presidente americano Thomas Woodrow Wilson e le chiusure francesi e inglesi, portarono all’isolamento dell’Italia, al messaggio di Wilson diretto al popolo italiano il 23 aprile e all’abbandono della conferenza da parte della delegazione italiana il giorno successivo.
Il rientro a Roma, il bagno di folla del 26 e il voto di fiducia della Camera del 29 aprile non influirono affatto sulla conferenza, che continuò senza i delegati italiani. Orlando e Sonnino rientrarono a Parigi il 7 maggio a seguito delle pressioni di Francia e Inghilterra e senza giustificazioni ufficiali. L’insuccesso diplomatico, attribuito all’indecisione e alla debolezza della linea politica di Orlando, compromise il prestigio del governo e del paese, diffuse il sentimento di un’umiliazione subita, creò il mito della ‘vittoria mutilata’ e provocò la caduta del governo il 19 giugno 1919.
Lasciato il governo, dal 1919 al 1920 Orlando fu presidente della Camera dei deputati. Di fronte alla lotta politica e sindacale del dopoguerra e alla nascita e all’affermarsi del movimento fascista, assunse, come buona parte della classe dirigente liberale, un atteggiamento favorevole a quest’ultimo, perché, come scrisse nel novembre 1922, all’indomani della marcia su Roma, in una delle sue corrispondenze inviate al giornale La Nación di Buenos Aires, riteneva il fascismo un movimento di necessaria reazione a una «profonda crisi istituzionale»: allo «stato patologico» del governo parlamentare tramutato in un «direttorio», nella «più anarchica e perniciosa forma di governo che la storia delle costituzioni conosca», in un’«assemblea di delegati dei gruppi» parlamentari e degli interessi partitici e particolaristici, in cui la legge elettorale proporzionale, invano da lui osteggiata, aveva dissolto il parlamento, infrangendo «la spirituale unità del popolo» e provocando la «permanente impotenza di costituire un forte e saldo governo» (Cianferotti, 1980, pp. 220 s.)
Sembra che la notte tra il 27 e il 28 ottobre 1922 Orlando intervenisse presso il re Vittorio Emanuele III perché non firmasse il decreto di stato d’assedio predisposto dal governo Facta per reprimere l’insurrezione fascista e opporsi alla marcia su Roma. Lo raccontano le memorie di Dino Grandi (Il mio paese, Bologna 1985, pp. 181 s.) e lo attesta una lettera autografa indirizzata a Orlando il 28 luglio 1943 dallo stesso Grandi, che ricordava «l’episodio che tutti ignorano: quando il 27 ottobre [1]922 Ella intervenne presso il Sovrano per evitare la guerra civile a seguito di una visita che allora Le feci» (Archivio centrale dello Stato, Archivio V.E. Orlando, b. 12, f. 588).
Nel 1924, dopo aver appoggiato il governo fascista e svolto un ruolo di primo piano nella stesura della nuova legge elettorale maggioritaria, la legge Acerbo (cfr. anche una lettera di Giacomo Acerbo a Orlando del 21 giugno 1923, ibid., b.1, f. 7), ed essere stato eletto nel listone nazionale, fu sorpreso dall’assassinio di Giacomo Matteotti mentre si trovava impegnato in un viaggio in Sud America. Non aderì all’Aventino ma il 22 novembre 1924, in occasione della votazione del bilancio del ministero dell’Interno, passò all’opposizione, seguendo di pochi giorni la scelta compiuta da Giolitti.
Il discorso che in quell’occasione pronunciò alla Camera risultò la confessione pubblica delle ragioni dell’abdicazione della classe dirigente liberale in favore del governo fascista. Fu il discorso «di una crisi di coscienza, che segnava la fine della «fiducia» riposta sino ad allora nel fascismo, la «fiducia» che aveva giustificato l’intera sequenza degli eventi di quegli anni in nome della legge storica della «necessità, per la salvezza del paese»: dall’«atto extra-parlamentare e [...] di violenza» della marcia su Roma al voto di fiducia parlamentare per «una sanatoria […] della violenza [e] la legalizzazione della illegalità», alla «dittatura» del governo fascista (perché «non v’è incompatibilità tra dittatura e governo parlamentare», purché «la dittatura sia temporanea»), alla «cooperazione» con esso. Ma ora la «fiducia» nel governo fascista come «controrivoluzione» capace di restaurare il regime parlamentare era venuta meno, soprattutto perché «oltre» e «accanto» al governo si era imposto «un altro potere costituzionalmente indefinito e indefinibile, cioè il potere del partito politico» fascista: «questo quid, imprecisato e imprecisabile, che si chiama partito, colla sua organizzazione non statale e che può essere antistatale, il quale interviene, il quale svia l’azione dell’autorità, [...] sovverte le basi del regime» parlamentare e ferisce «nella sua essenza il principio dello Stato». Nello statualismo liberale orlandiano mancava uno spazio teorico per il partito politico (che contrastava con l’«unità organica» del popolo e con l’unità e la sovranità della persona giuridica statale) e dinanzi a un partito fascista che addirittura si poneva «come un’entità accanto al governo, concorrente all’esercizio dei poteri sovrani» e annunciava così il sorgere dello Stato totalitario del Novecento, la sua «ripugnanza» era «insuperabile»» (Discorsi parlamentari di Vittorio Emanuele Orlando, IV, Roma 1965, pp. 1566-1575).
Dopo il famoso discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, nella tornata del 16 gennaio un intervento di Orlando nella discussione sulle modifiche della legge elettorale fatto per illustrare un energico ordine del giorno recante, tra le altre, le firme di Giolitti e di Salandra, che denunciava la violazione di tutte le libertà costituzionali a causa degli «attuali metodi di governo», venne ripetutamente e aspramente interrotto da Giuseppe Bottai, Italo Balbo e dallo stesso Mussolini (Discorsi, cit., IV, pp. 1576-1584). Il 10 agosto dette le dimissioni da deputato e si ritirò dalla vita politica per le sopraffazioni e le violenze subite nelle elezioni amministrative palermitane, dove si era presentato a capo di una lista antifascista. Dopo l’abbandono dell’Università, nel 1931, si dedicò solo alla professione di avvocato e non prese più parte alla vita politica, eccetto la lettera indirizzata a Mussolini il 3 ottobre 1935 in occasione della guerra d’Etiopia, in cui offriva la sua opera «nella pura forma del servizio» alla patria.
Convocato dal re alla vigilia della caduta di Mussolini, fu autore della famosa frase «la guerra continua» (ibid., cit., IV, p. 1692; cfr. anche una minuta di lettera di Orlando a Palmiro Togliatti datata 23 giugno 1945, con annotazione autografa, «lettera progettata ma non inviata», in Archivio centrale dello Stato, Archivio V.E. Orlando, b. 24, f. 1163), ma anche radicalmente contrario alle esitazioni del re e di Pietro Badoglio che portarono al disastro dell’8 settembre. All’indomani dell’armistizio e sino alla liberazione di Roma trovò rifugio in una casa di religiosi sotto la protezione del Vaticano.
Tornato all’attività politica dopo la liberazione di Roma, nominato nel settembre 1945 alla Consulta su designazione del Partito liberale, presiedette la commissione per le modifiche al decreto luogotenenziale 25 giugno 1944 n. 151 relativo all’Assemblea costituente, stabilite dal decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946 n. 98, che sottrasse alla Costituente e affidò a un referendum popolare la decisione sulla forma istituzionale dello Stato (Repubblica o Monarchia).
Il 9 marzo 1946, come relatore sulla proposta di modifica, Orlando riprese dopo ventun anni la parola a Montecitorio in un discorso che volle intitolare «Da un’epoca ad un’altra», come testimone ed «estremo superstite» («di un’altra età, di un altro mondo, di un’altra storia») di un’epoca storica e costituzionale che si chiudeva e di un’altra che si apriva, un discorso di cui l’Assemblea deliberò l’affissione negli albi pretori dei Comuni italiani.
Eletto alla Costituente tra i candidati indipendenti proposti dalla Unione democratica nazionale, presiedette quale decano le prime due sedute dell’assemblea del 25 e 26 giugno 1946. Non fu designato a far parte della Commissione dei 75 delegata a redigere la bozza della nuova Costituzione. Su di essa intervenne in maniera radicalmente critica nel discorso del 10 marzo 1947, a cominciare dalla forma di governo, negando che quella prevista fosse una forma di governo parlamentare e che anzi, per i limiti imposti ai poteri del capo dello Stato e «per la debolezza del potere esecutivo», rischiava di mutarsi in una confusa forma di governo assembleare di giacobina memoria.
La fedeltà alle antiche convinzioni liberali, il modello storicistico di fondazione delle libertà costituzionali, l’avversione al giacobinismo politico-costituzionale risultavano perfettamente contrari ai principi e agli istituti che fondavano la legittimità stessa dell’attività costituente e della nuova Costituzione repubblicana: dalla dottrina del potere costituente al concetto di una legalità costituzionale sovraordinata alla legge ordinaria, dalla nozione di rigidità della Costituzione all’istituzione di una Corte costituzionale e alla formulazione di norme programmatiche, come quelle contenute nel titolo secondo della parte prima della Costituzione sui rapporti etico-sociali, da lui ritenute lesive della certezza del diritto e che invano tentò di far eliminare (Fioravanti, 1988, pp. 288-290; Quaglioni, 2007, pp. 421-459). I suoi pensieri e le sue idee non ebbero, insomma, «alcun peso sulle decisioni dei costituenti italiani» (C. Esposito, La dottrina del diritto e dello Stato di V. E. Orlando, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, III [1953], p. 93).
Quanto ai suoi interventi alla Costituente in materia di politica estera, furono fatalmente dominati dalla sua storia personale di ‘presidente della Vittoria’ che aveva portato al compimento dell’Unità d’Italia; ciò spiega la strenua opposizione alla ratifica del Trattato di pace, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, avversione giunta sino ad accusare il 30 luglio 1947 i negoziatori di abiezioni fatte per cupidigia di servilismo.
Nominato senatore di diritto in base alla terza disposizione transitoria della Costituzione, partecipò ai lavori del Senato sui maggiori temi di politica estera e interna. Si astenne nel voto di adesione al Patto Atlantico, criticò la proposta della Comunità europea di difesa (CED) e prese posizione contro la legge maggioritaria. Il suo tempo di ‘estremo superstite’ della vecchia Italia liberale era passato.
Morì a Roma il 1° dicembre 1952 dopo una breve malattia.
Il 19 novembre aveva discusso la sua ultima causa di fronte alla seconda Sezione civile della Cassazione e Piero Calamandrei ebbe la ventura di essergli associato nello stesso patrocinio.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Archivio V. E. Orlando; A. Volpicelli, V.E. O., in Nuovi studi di diritto, economia e politica, I (1927-28), pp. 13-23, 95-104, 183-207; V. Crisafulli, Significato dell’opera giuridica di V.E. O., in Annali triestini, XXIII (1953), pp. 19-33; Rivista trimestrale di diritto pubblico, III (1953), con testi di F. Carnelutti, P. Calamandrei, E. Crosa, G. Miele, C. Esposito, M. Bracci, G. Ambrosini; T. Marchi, V.E. O. giureconsulto e uomo di Stato, in Studi parmensi, III (1953), pp. 409-422; O. Ranelletti, V.E. O. nel suo pensiero e nella sua opera, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, IV (1954), pp. 265-285; Scritti giuridici in memoria di V.E. O., I-II, Padova 1957; G. Capograssi, Il problema di V.E. O., in Id., Opere, V, Milano 1959, pp. 359-387; M. Galizia, Profili storico-comparativi della scienza del diritto costituzionale, in Archivio giuridico, CLXIV (1963), pp. 84-89; F. Tessitore, Crisi e trasformazioni dello Stato, Napoli 1963, pp. 117-173; O. Condorelli, V.E. O., in Scritti sul diritto e sullo Stato, Milano 1970, pp. 559-573; P. Alatri, Le origini del fascismo, Roma 1971, ad ind.; S. Cassese, Cultura e politica del diritto amministrativo, Bologna 1971, pp. 21-29;M. Fioravanti, La vicenda intellettuale del giovane O., Firenze 1979; G. Cianferotti, Il pensiero di V.E.O. e la giuspubblicistica italiana, Milano 1980; M. Fioravanti, G. Mosca e V.E. O.: due itinerari paralleli, in Archivio internazionale G. Mosca, I, Palermo 1982, pp. 349-366; B. Sordi, Giustizia e amministrazione nell’Italia liberale, Milano 1985, pp. 252-268, 285-330; P. Costa, Lo Stato immaginario, Milano 1986, ad ind.; L. Mangoni, La crisi dello Stato liberale e i giuristi italiani, in I giuristi e la crisi dello Stato liberale, a cura di A. Mazzacane, Napoli 1986, pp. 29-56; M. Fioravanti, Alle origini di una disciplina giuridica, in Quaderni fiorentini, XVI (1987), pp. 209-283; Id., V.E. O., in Il Parlamento italiano, IX, Milano 1988, pp. 273-290; G. Cianferotti, La prolusione di O., in Rivista trimestrale di diritto pubblico, XXIX (1989), pp. 995-1024 (ibid., contributi di G. Rebuffa, A. Massera, G. Azzariti); M. Ganci, V. E. O., Roma 1991; G. Cianferotti, Storia della letteratura amministrativistica italiana, Milano 1998, pp. 734-812; P. Grossi, Scienza giuridica italiana, Milano 2000, ad ind.; M. Fioravanti, La scienza del diritto pubblico, I, Milano 2001, pp. 67-275; M. Fotia, Il liberalismo incompiuto. Gaetano Mosca, V.E. O., Santi Romano tra pensiero europeo e cultura meridionale, Milano 2001; F. Grassi Orsini, O., profilo dell’uomo politico e dello statista: la fortuna e la virtù, in V.E. Orlando, Discorsi Parlamentari, Bologna 2002, pp. 13-118; D. Quaglioni, Ordine giuridico e ordine politico: V.E. O. alla Costituente, in Studi di storia del diritto medievale e moderno, a cura di F. Liotta, Bologna 2007, pp. 421-459, con modifiche anche in Ordine giuridico e ordine politico, a cura di P. Carta - F. Cortese, Padova 2008; A. Sandulli, Costruire lo Stato, Milano 2009, ad indicem.