volontà (volontade; volontate; voluntade)
Il termine ricorre in D. con il valore fondamentale di " appetito determinato " o " appetizione deliberata ". Il tema della v. è intimamente connesso con quello del libero arbitrio, intorno al quale si sviluppò un ampio dibattito nella seconda metà del XIII secolo, in relazione ai rapporti tra le varie facoltà dell'anima, e in particolare tra l'intelletto e la volontà. Per una trattazione generale di tale problema è da vedere la voce ‛ arbitrio ', mentre in questa voce si darà conto del ruolo accordato da D. alla v. in rapporto all'intelletto e alla libertà umana.
Infatti, se confrontata con le complesse e violente dispute intorno alla libertà umana e al rapporto ragione-v., che videro in polemico contrasto francescani e averroisti, l'intenzionale chiarezza con cui D., in Mn I XII 2, pone i termini del problema (sciendum quod principium primum nostrae libertatis est libertas arbitrii, quam multi habent in ore, in intellectu vero pauci), ha tutti i caratteri di una decisa presa di posizione e, implicitamente, di una condanna per la falsa sottigliezza di quelle dispute, ove il rigore della retta ragione veniva prevenuto e sopraffatto dalle opinioni di parte e dall'amore per l'argomentazione contenziosa. Tale appunto era il caso, agli occhi di D., del principio direttivo della morale: liberum arbitrium esse liberum de voluntate iudicium che, pur enunciato dai più, ben pochi avevano la purezza d'intelletto per tradurre, in tutte le sue corrette implicazioni, sul piano della dottrina (Et verum dicunt; sed importatum per verba longe est ab eis). Un analogo caso D. rilevava - con significativo spostamento nell'ambito della ragione speculativa - tra i logici nostri che relegando a pura funzione esemplificativa le " notiones communes " (tale era infatti l'esempio: ‛ triangulus habet tres duobus rectis aequales ') finivano col rendere inoperanti sul piano della corretta argomentazione deduttiva quelle ‛ prime notizie ' da cui pure l'intelletto doveva muovere.
Ciò posto, D. enuncia ex professo la propria teoria sul libero arbitrio e sui rapporti tra ragione e v. muovendo appunto dalla definizione boeziana " liberum arbitrium est liberum de voluntate iudicium " come da primo principio, fondamento della libertà umana.
Diceva infatti Boezio: " Nos autem liberum voluntatis arbitrium non id dicimus quod quisque voluerit, sed quod quisque iudicio et examinatione collegerit. Alioquin multa quoque animalia habebunt liberum voluntatis arbitrium. Illa enim videmus sponte quaedam refugere, quibusdam sponte concurrere. Quod si velle aliquid vel nolle hoc recte liberi arbitrii vocabulo teneretur, non solum hoc esset hominum, sed ceterorum quoque animalium, quibus hanc liberi arbitrii potestatem abesse quis nesciat? Sed est liberum arbitrium, quod ipsa quoque vocabula produnt, liberum nobis de voluntate iudicium. Quotiescumque enim imaginationes quaedam concurrunt animo, et voluntatem irritant, eas ratio perpendit, et de his iudicat, et quod ei melius videtur, cum arbitrio perpenderit et iudicatione collegerit, facit. Atque ideo quaedam dulcia et speciem utilitatis monstrantia spernimus, quaedam amara, licet nolentes, tamen fortiter sustinemus; adeo non in voluntate sed in iudicatione voluntatis liberum constat arbitrium, et non in imaginatione sed in ipsius imaginationis perpensione consistit " (In Lib. Arist. de interpretatione ediz. sec. III 9).
Lo iudicium, per D., è il giudizio di ragione che è medium tra l'atto dell'apprendimento e l'atto della volizione (Et ideo dico quod iudicium medium est apprehensionis et appetitus, Mn I XII 3) in quanto si pone come ‛ termine medio ', come passaggio o ‛ soglia ' entro il processo che va dalle notificazioni della conoscenza alla determinazione dell'appetito. Tale processo D. individua in tre momenti, di cui il primo pone la condizione preliminare e l'ultimo la conseguenza necessaria del giudizio di ragione.
Dapprima infatti la cosa è fatta oggetto di apprensione (primo res apprehenditur) e come tale determinata rispetto al vero e al falso; quindi interviene la ragione che, partendo dal dato conosciuto, lo costituisce come premessa di un sillogismo (in cui la maggiore attiene all'intelletto speculativo e la minore all'intelletto pratico) in base al quale essa giudica della conformità o meno della cosa con il bene perseguito, concludendo sulla bontà o meno della cosa stessa (deinde apprehensa bona vel mala iudicatur); infine, solo in virtù di tale conclusione o iudicium preventivo, la ragione del soggetto giudicante determina l'appetito a perseguire o a rifuggire l'oggetto conosciuto (et ultimo iudicans prosequitur sive fugit).
La libertà di arbitrio è dunque tutta in questo prevenire dello iudicium sull'appetitum che in tal modo comanda e determina omnino l'appetizione, senza essere nullo modo prevenuto da essa (Si ergo iudicium moveat omnino appetitum et nullo modo praeveniatur ab eo, liberum est, § 4). È questo il solo e vero " liberum de voluntate iudicium " della definizione boeziana, cioè un giudizio libero in quanto pronuncia ‛ ciò che si ha da volere ', prima e al di fuori di ogni condizionamento appetitivo.
La posizione di D. è formale e suffragata con una prova ‛ e contrario ', infatti: si vero ab appetitu quocunque modo praeveniente iudicium moveatur, liberum esse non potest, quia non a se, sed ab alio captivum trahitur (§ 4). Se l'appetito previene il giudizio quocunque modo (e con questo D. prende consapevolmente le distanze da tutte le posizioni attenuate e concordistiche che cercavano di mediare i contrasti tra ‛ volontaristi ' e ‛ intellettualisti ') è esso a determinare la mozione; in tal caso l'intelletto, da libero (nel senso di autocausante; qui D. accetta la nozione di libero in quanto " suimet, et non alterius causa est " di Arist. Metaph. I 2, 982b 25-28; cfr. Mn I XII 8 e Cv III XIV 10) si rende fatalmente in servitù di altri (ab alio captivum trahitur).
Propriamente parlando, è dunque solo il giudizio di ragione che, pronunciata la sua deliberazione, muta l'appetito in volontà. L'appetitum è infatti (v. anche APPETITO) un'appetizione naturale e non deliberata - e in tal senso equivale a voglia (v.) - che nell'uomo, per tradursi in operazione volontaria, deve passare attraverso l'assenso preventivo della ragione, mentre nell'animale bruto esso previene e quindi determina di necessità lo iudicium, che è facoltà estimativa incapace di astrazione, legata all'oggetto particolare e soggetta per natura all'istinto: Et hinc est quod bruta iudicium liberum habere non possunt, quia eorum iudicia semper ab appefitti praeveniuntur (Mn I XII 5).
La v. è dunque per D. un'appetizione posta nella ragione o, secondo il dettato di Aristotele (An. III 9, 432b 5-7), un " appetitus " che " in ratiocinatione voluntas fit ". La v. è perciò una ὄρεξις (appetitus) che solo in quanto è ἐν τῷ λογισμῷ (in ratiocinatione) può divenire βούλησις (voluntas). Ma la ragione come ratiocinatio non implica solo la facoltà, ma l'operare specifico di essa. Nella ratiocinatio infatti la ratio diviene ragione discorsiva, che istituisce rapporti e confronta, partendo - mediante l'assiomatizzazione sillogistica - dalle premesse per trarne conclusioni. È mediante questo processo che l'appetito diviene determinato, che l'appetizione diviene deliberata, e appunto in questo processo sta ciò che muta l'appetito in volontà. È in tale senso forte che l'uomo è libero in quanto è razionale. La v. è dunque in sé e per sé " appetito razionale ".
Da notare, inoltre, che D. qualifica la v. come potenza propria dell'essere razionale e posta nella parte più alta dell'anima. Quando quest'ultima, infatti, sciolta dal corpo, salirà in cielo mentre l'altre potenze saranno tutte quante mute, solo memoria, intelligenza e volontade (elencate secondo la triade agostiniana) diverranno in atto molto più che prima agute (Pg XXV 83).
Quindi solo le sostanze dotate d'intelletto sono dotate di libertà, in quanto la libertà è attuazione operante degli appetiti in conformità al preventivo giudizio formulato dalla ragione. Anche laddove, come negli angeli e nei beati, si assiste a uno stato d'immutabilità del volere, il libero arbitrio è salvo, in quanto il loro intelletto ha determinato l'appetitum rispetto al bene in assoluto e quindi ha mosso il volere a esercitarsi nella perfezione dell'abito (perfectissime) e nella pienezza delle operazioni (potissime): Et hinc etiam patere potest quod substantiae intellectuales, quarum sunt inmutabiles voluntates, necnon animae separatae bene hinc abeuntes, libertatem arbitrii ob inmutabilitatem voluntatis non amictunt, sed perfectissime atque potissime hoc retinent (Mn I XII 5).
Fondata com'è sul giudizio di ragione, la libertà in D. non consiste né nel potere della v. di sollecitare l'intelletto a giudicare in merito all'oggetto dell'appetizione, né nel potere di non voler appetire l'oggetto giudicato conforme al bene dell'intelletto, ma nel fatto che l'intelletto ha potestà - prevenendo l'appetito - di analizzare discorsivamente tale oggetto, in quanto ordinato a un fine e, sulla base della regola tratta da quel fine, intendere ciò che è meglio quanto alla volizione. Non quindi libertà della v. ‛ di ' determinarsi rispetto agli oggetti appetibili, ma libertà della ragione ‛ da ' ogni appetito per determinare rettamente la volizione.
Il rapporto tra v. e ragione è ripreso, ampiamente, nei canti XVII e XVIII del Purgatorio, attraverso uno studiato incrociarsi del tema della conoscenza e del tema dell'appetizione e dell'amore. Ogni essere è soggetto a un'inclinazione o appetizione naturale che lo spinge al suo bene, identificabile con l'attuazione della propria essenza entro il complesso dell'ordine cosmico governato dalla v. divina (Né creator né creatura mai / ... fu sanza amore, Pg XVII 91-92, e cfr. Pd I 109 ss.). Ma mentre in ogni ente sprovvisto di ragione tale inclinazione si svolge per necessità naturale, cioè l'appetito è determinato a esercitarsi e compiersi secondo la forma insita nel proprio essere, nell'uomo gli appetiti non soltanto si distinguono secondo i gradi della sua natura, ma, inoltre, sono insiti in lui soltanto come prime mozioni, mentre il loro esercizio e il loro compimento rimangono soggetti alla libera determinazione della ragione.
In Pg XVIII 19 ss. la nozione di v. è celata sotto le specie dell' ‛ amore ', del ‛ disire ' e del ‛ piacere ', appunto perché considerata nel suo antecedente di natura, cioè dell'animo non ancora soggetto a deliberazione, ma comunque tendente ad attuarsi. A tal riguardo va rilevato che l'animo, ch'è creato ad amar presto (v. 19) non è altri che l'‛ appetito razionale ' (destinato, dalla ragione, a farsi v.) da D. identificato con l'appetito d'animo naturale derivato dalla divina bontade, in noi seminata e infusa dal principio de la nostra generazione e impressoci da Dio come hormen (Cv IV XXII 4). E non dicesse alcuno - aveva specificato D. a tal proposito - che ogni appetito sia animo; ché qui s'intende animo solamente quello che spetta a la parte razionale, cioè la volontade e lo intelletto; sì che se volesse chiamare animo l'appetito sensitivo, qui non ha luogo, né instanza puote avere, ché nullo dubita che l'appetito razionale non sia più nobile che 'l sensuale (§ 10). Ebbene, questo animo disposto per natura ad attuare l'appetito razionale che lo costituisce, ogni qual volta avverte cosa... che piace (cioè un oggetto appetibile) da questo piacere in atto è desto (Pg XVIII 20-21). Ma qui, il processo attraverso cui l'appetito è posto in atto da parte dell'oggetto, è analizzato da D. solo e unicamente in quanto processo di apprensione: dall'oggetto appetibile, infatti, in quanto esser verace - cioè oggettivamente determinato ‛ in re ' - la facoltà apprensiva (cfr.) dell'uomo (che è capacità di ‛ accogliere forme ') astrae la forma conoscibile o intenzione (cfr.) dell'oggetto e l'elabora e giudica rispetto al vero e al falso rendendola così ‛ cognitio explicita ' (dentro a voi la spiega); a questo punto, l'apprensiva propone l'intenzione all'animo suscitandolo a considerarla (sì che l'animo ad essa volger face). Con questo ‛ rivolgersi ' dell'appetito razionale verso l'oggetto la funzione della facoltà apprensiva termina (vv. 22-24). Infatti se, una volta rivoltosi a considerare' (e se, rivolto), l'animo ‛ s'inclina ' verso la forma dell'oggetto appetibile (inver' di lei si piega), esso è fatalmente determinato a perseguire quell'appetibile. È in questo ‛ appetito inclinato ' all'oggetto che consiste l'amore (quel piegare è amor), il quale si costituisce come nuova natura - cioè abito operativo o atto secondo - che vincola l'uomo attraverso il piacer che ha destato in atto l'appetito (quell'è natura / che per piacer di novo in voi si lega, vv. 25-27). Questo vincolo naturale agisce con la stessa cogenza della forma... nata a salire che ‛ muove ' il fuoco in alto, esso cioè corrisponde alla tendenza naturale che spinge i corpi semplici a seguire il loro interno principio di attività, che tuttavia non è in loro dominio (vv. 28-30). Non diversamente l'animo, una volta preso dall'appetibile, cioè ‛ tratto in signoria di altri ' (e qui preso equivale, con tutto ciò che implica, all'ab alio captivum trahitur di Mn I XII 4), inizia a muoversi dalla potenza all'atto secondo il moto spirituale del disire, né è in grado di arrestarsi (mai non posa) finché dura il godimento derivante dall'unione con la cosa amata (vv. 31-33).
Come si vede, considerato dal punto di vista della teoria dell'appetizione e del solo processo dell'apprensione dell'oggetto, l'‛ appetito razionale ' appare come potenza passiva determinata all'inclinazione e all'atto dall'apparire dell'appetibile (l'animo infatti dal piacere in atto è desto, è fatto volger verso l'oggetto e, ancora, si piega, si lega, è preso, entra in disire... e mai non posa [vv. 21-33], mentre l'amore che è di fuori a noi offerto [v. 43] agisce come mozione esterna). Quanto dire che, sul piano del meccanismo dell'appetito naturale, non si vede ciò che distingue l'uomo dagli animali o dai corpi elementari. Attraverso le " formae imaginatae " l'oggetto provoca dall'esterno l'atto dell'appetizione (s'amore è di fuori a noi offerto, v. 43) e quindi, per questo aspetto, l'uomo non è ‛ causa suI ', non si determina autonomamente; nell'apprensione conoscitiva l'unico suo potere è di determinare l'oggetto rispetto alla verità o falsità dell'apparire.
Di qui sorge la ricerca di ciò che fonda la libera scelta rispetto agli appetibili. Ecco perché nel XVIII del Purgatorio la teoria dell'appetizione precede la teoria della determinazione razionale dell'appetito. Anzitutto (vv. 36-39) il fatto che pervenga da natura, non sanziona di per sé la bontà di ogni amore; esso è infatti inclinazione passiva, matera disposta alla forma. E anche se per disposizione materiale esso può esser potenzialmente buono (ancor che buona sia la cera), la sua attuale bontà dipende dal sigillo (segno) che su di esso s'imprime, cioè dalla bontà o meno della ‛ forma intenzionale ' che lo reca in atto. Tuttavia la sua passività rimane: l'animo che riceve passivamente le forme intenzionali da esser verace, in seguito a tale apprensione è determinato dall'oggetto. Per questa via è distrutta ogni responsabilità morale (vv. 40-45). Quanto più, perciò, l'appetito appare necessitato, tanto più la libertà della v. rimarrà legata alla potestà di regolare il segno che la informa. Ecco dunque svelarsi il ruolo capitale del giudizio di ragione, quale termine medio tra apprensione e v., tra l'insorgere dell'oggetto e la determinazione a perseguirlo o rifuggirlo; di qui prende le mosse la teoria della determinazione razionale dell'appetito.
Nell'uomo, al pari di ogni essere creato, risiedono disposizioni naturali ad attuarsi secondo la propria essenza. Queste prime mozioni (Pg XVIII 55-57) sono ordinate all'attività sia speculativa che operativa: l'una, di ordine razionale, è lo 'ntelletto / de le prime notizie, cioè il νοῦς ἀρκῶν o " intellectus principiorum " di Aristotele (An. post. II 19, 100b 5 ss.) in cui risiedono i " principia per se nota " quali premesse prime dell'intelletto speculativo, il quale è identificabile con l'intelletto possibile che reca in sé, potenzialmente, le forme universali del conoscere derivate dalla mente divina (Cv IV XXI 5); l'altra è l'affetto dei primi appetibili (Pg XVIII 57), cioè un ‛ appetito ' o inclinazione al bene in generale (analogo in qualche modo alla ‛ synderesis ' degli scolastici), in quanto i primi appetibili sono da identificare con le regole universali della legge naturale, quali premesse dell'intelletto pratico. Questa duplice mozione, che è in stato potenziale e latente nella natura umana, è ordinata a sospingere l'uomo alla conoscenza del vero e all'appetito del bene, allo stesso modo che lo studio insito nell'ape la sospinge a far lo mele per dettato di natura. In tal senso D. parla di essa come di prima voglia (v. 59), si tratta cioè di un'appetizione originaria, di un abito innato e non acquisito, e che pertanto - non derivando dall'esercizio deliberato e ripetuto di operazioni che sia in potestà dell'uomo di fare o non fare (Cv III IV 8) - non è suscettibile di merito o di pena (Pg XVIII 60).
Ma questa dotazione di prime notizie e di primi appetibili costituisce pur sempre la specifica vertute della forma sostanziale umana (vv. 47-51). In quanto tale, essa giace come potenzialità incipiente che rende l'uomo, al pari di ciascuna cosa da providenza di propria natura impinta... inclinabile a la sua propria perfezione (Cv I I 1). Ma poiché è abito innato e non acquisito, essa non è né percepita né conosciuta dall'essere che ne è dotato, fino a che non sia destata in atto. L'origine di tale prima mozione, pertanto, omo non sape (Pg XVIII 56), e in questo ‛ non sapere ' sta l'intrinseca motivazione ontologica del suo libero volere. Se infatti conoscesse ciò che ha determinato la virtù specifica del suo essere potenziale, ne riconoscerebbe con atto di sapere intuitivo l'origine nella v. divina, e da essa sarebbe determinato a un'immediata corretta attuazione di sé, con un atto intuitivo dell'intelletto e un'adeguazione conseguente della volontà. Invece, per norma ontologica, spetta all'uomo il graduale discoprimento (cioè per sapere discorsivo) della propria vertute o natura, e ciò non può fare se non attuandola - nel tempo, e con il rischio del merito o del biasimo - attraverso l'operar della potenza affettiva e motiva e attraverso il fine o effetto, regolato dal ‛ dimostrar ' discorsivo dell'intelletto (la qual [virtù specifica] sanza operar non è sentita, / né si dimostra mai che per effetto, vv. 52-54).
In questo orientare l'operare degli appetiti di natura rispetto all'effetto, interviene il termine medio della ragione: essa è innata... virtù che consiglia (v. 62), cioè facoltà giudicativa, il cui compito è di serrare o aprire la soglia dell'assenso (v. 63), pronunciando, per via dimostrativa, uno iudicium o " consilium " in merito agli appetiti da tradurre o meno in v. operante. Tale serrare o aprire è dunque in potere della sola ragione, la quale - valendosi, da un lato, delle forme universali del conoscere (prime notizie) e, dall'altro, delle norme universali del bene (primi appetibili) - ha l'innata liberiate d'istituire un sillogismo con cui giudicare buona o rea un'inclinazione all'oggetto appetibile e, quindi, accoglierla e respingerla. Nel giudizio di ragione è dunque il principio della libera scelta morale, e della connessa possibilità di meritare o demeritare (vv. 64-69). Mediante tale sorta di assiomatizzazione sillogistica della ragione, infatti, ogni singolo appetito conseguente all'esercizio della prima voglia viene dapprima con questa confrontato, e poi deliberato o meno. Confrontato in forza della maggiore e minore del sillogismo, deliberato in forza della conclusione. In questo confrontare o ‛ raccogliere ' (perché a questa [‛ prima voglia '] ogn'altra si raccoglia, v. 61) è da riconoscere la specifica funzione della ragione umana, la quale in tanto è ‛ collativa ' in quanto ha il potere di " raccogliere " o " confrontare " (‛ colligere ') con le prime notizie e i primi appetibili, le ‛ intentiones individuales ' che sollecitano via via i singoli appetiti (per la ‛ collatio ' come atto specifico del giudizio dell'uomo cfr. Boezio In Arist. de interpret. edit. sec. III 9 e Tommaso Sum. theol. I 78 4c, 83 1c).
È nella potestate d'istituire siffatto giudizio di confronto - prima dell'appetito - che l'uomo differisce per essenza dai corpi naturali e dai bruti: anche volendo supporre che, al pari dei bruti, di necessitate / surga ogne amor che dentro a voi s'accende, / di ritenerlo è in voi la potestate (vv. 70-72). E se ci rivolgiamo di nuovo alla teoria della semplice appetizione, si svela allora come tale potestate di trattenere ogne amor, vale a dire il giudizio di legittimità che regola il segno della forma intenzionale derivata dall'oggetto, non potrà che esercitarsi tra il momento del volger e quello del piegare dell'animo verso l'oggetto (Pg XVIII 24-26). È qui che il coltello del giudizio purga lo illicito e 'l non ragionevole (Cv I II 2) ed è qui che l'amore naturale (che in quanto hormen divino non soggetto a deliberazione è sempre senza errore) viene esercitato come amore d'animo, cioè come inclinazione deliberata dell' ‛ appetito razionale ' la quale - appunto perché deliberata - puote errar per malo obietto (Pg XVII 96-97). E l'errore della deliberazione non grava sulla v., ma sul sillogismo di ragione che la determina. In virtù di esso ogni appetito misura, cioè " confronta " (torna qui il tema del ‛ colligere ') sé stesso istituendosi quale ‛ medio ' proporzionale tra il primo ben - che sé con sé misura (Pd XIX 51) - e i beni secondi (Pg XVII 97-99).
L'anima umana è dunque libera ne la sua propia potestate, che è la ragione (Cv III XIV 9). Solo la ragione, infatti, che è in grado di muovere sé stessa e le facoltà a essa soggette, risponde al requisito essenziale della libertà che suona, secondo quanto dice il Filosofo, quella cosa è libera che per sua cagione è, non per altrui (§ 10). Essa è ‛ causa sui ' perché non soggetta alle cause seconde ma soltanto a Dio che ne è il diretto creatore e principio di ogni libertà. Tale diretta soggezione della mente a Dio, che è forza maggiore e natura migliore dei cieli, è garanzia della libertà dell'uomo (A maggior forza e a miglior natura / liberi soggiacete; e quella cria / la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura, Pg XVI 79-81).
Di qui la divaricazione tra fatalismo astrale e libertà morale, tra mozione celeste e mozione divina (vv. 67-72). L'influenza celeste, che pure esiste, determina soltanto le prime mozioni degli appetiti e neppure di tutti; ma, posto che lo si dica, da esse comunque rimane indenne il lume della ragione che, giudicando del bene e della malizia di questi appetiti, è fondamento unico del libero voler (vv. 73-75). Contro le maligne disposizioni astrali il volere ha dunque possibilità di resistere e vincere (vv. 76-78) ove l'amore che l'inclina sia ‛ torto ' dalla guida e dal fren della ragione (vv. 91-93).
In tal senso, la libertà della v. guidata dal giudizio è il solo mezzo di ritorno a Dio dell'anima semplicetta che, uscita dalle mani di lui ma inconsapevole della sua origine, volontier torna a ciò che la trastulla per stimolo innato impressole da lieto fattore (vv. 85-90). Se quel ‛ reditus ' può e deve avvenire a dispetto e contro le appetizioni di falsi beni, e - comunque - condizionando ogni bene relativo al bene assoluto, appare manifesto come il maggior don che Dio, nella sua larghezza e nella sua bontà (" bonum est diffusivum sui "), concesse all'uomo creandolo, fu de la volontà la libertate (Pd V 22); dote concessa a tutte e sole le creature intelligenti proprio in quanto la v. è libera in virtù della libertà dell'intelletto. È tutta in questi termini la possibilità della salvazione e del conseguente raggiungimento della beatitudine terrena e celeste: Hoc viso, iterum manifestum esse potest quod haec libertas sive principium hoc totius nostrae libertatis est maximum donum humanae naturae a Deo collatum - sicut in Paradiso Comoediae iam dixi [cioè nel passo ora citato] - quia per ipsum hic felicitamur ut homines, per ipsum alibi felicitamur ut dii (Mn I XII 6).
La v. di ogni ente creato ha giurisdizione nell'ambito e nei termini di ciò che è nel suo potere di fare e di non fare; velle e posse coincidono quanto a latitudine, e se la potestas definisce i limiti della giurisdizione, la voluntas è arbitra e responsabile della legittima giurisdizione entro quei limiti. Per tale ragione, col salire la scala degli enti, sale e si amplia il potere e la giurisdizione della volontà. Così come nella gerarchia delle cause e degli esseri, anche per la v. si assiste a un graduale ampliamento della sua giurisdizione e a un graduale intensificarsi dei suoi poteri, quanto più alto è l'ente cui essa attiene. E poiché un agente superiore è naturalmente sovraordinato all'agente inferiore, anche una v. superiore sarà naturalmente - e perciò per diritto - sovraordinata a una v. inferiore (cfr. Cv IV XI 1-3).
Pertanto, essendo Dio primo agente universale, la sua v. sarà naturalmente sovraordinata a tutte le v. inferiori; essendo inoltre infinita potenza, la giurisdizione della sua v. sarà di pari estensione; essendo, infine, infinita bontà, la sua v. non potrà che volere il bene in assoluto. La v. divina coincide dunque con la giurisdizione dell'universo, esercitata con somma potenza e somma bontà. Dio è infatti all'origine dell'ordine cosmico, da lui guidato al bene, e retto con potenza superiore a qualsiasi agente a lui subordinato. In tale reggere e guidare, la sua v. diviene legge universale che determina ogni essere nelle prime mozioni e nei fini da conseguire per natura: in tal senso la sua volontade è quel mare al qual tutto si move, sia cioè gli esseri da lui creati direttamente (ciò ch'ella cria) sia gli esseri generati tramite le cause seconde (o che natura face, Pd III 85; e cfr. I 109-114).
Inoltre, la prima volontà, cioè la v. dell'essere primo, non potrà essere che da sé buona; se infatti Dio è a un tempo prima v. e sommo ben, motore e fine coincidono e pertanto la sua v., trovando in sé stessa il bene, non ha necessità di appetirlo fuori di sé; Dio, volendo il bene, vuole sé stesso ed è attirato da sé stesso (da sé, ch'è sommo ben, mai non si mosse, Pd XIX 86). Due conseguenze ne derivano: che ogni bene creato, essendo tale per partecipazione al bene sommo, da questo procede come effetto da causa, e l'effetto non ha potere di attirare la causa; e che, coincidendo v. divina e sommo bene, poiché ciò che è bene è anche giusto, tutto ciò che è giusto per partecipazione è tale in quanto conformato alla v. di Dio (Cotanto è giusto quanto a lei consuona: / nullo creato bene a sé la tira, / ma essa, radïando, lui cagiona, vv. 88-90). In Dio dunque ius, bonum e voluntas coincidono: ius, cum sit bonum, per prius in mente Dei est; et cum omne quod in mente Dei est sit Deus... et Deus maxime se ipsum velit, sequitur quod ius a Deo, prout in eo est, sit volitum. Et cum voluntas et volitum in Deo sit idem, sequitur ulterius quod divina voluntas sit ipsum ius (Mn II II 4). Posta l'identificazione tra bonum e ius, a quel modo che ogni bene derivato reca in sé una similitudo bonitatis aecternae, ogni ius derivato reca in sé similitudo divinae voluntatis, donde la conclusione: unde fit quod quicquid divinae voluntati non consonat, ipsum ius esse non possit, et quicquid divinae voluntati est consonum, ius ipsum sit (§§ 2 e 5).
La v. divina, anche se fonte di diritto e giustizia e fonte dell'ordinamento universale, tuttavia non è manifesta di per sé (Voluntas... Dei per se invisibilis est, § 8). Conoscere la v. di Dio significherebbe infatti conoscere con un solo atto d'intellezione le sue intenzioni universali e il suo piano provvidenziale. Il mistero della divina voluntas si manifesta, nella vicenda del mondo e della storia, solo per effetti e per signa, l'indagare i quali spetta all'uomo come via e prova per riconoscere e adeguarsi al disegno della v. universale; non diversamente dalla stessa v. umana, che inaccessibile nelle sue prime mozioni, è da percepirsi per signa, cioè attraverso le operazioni e gli effetti che l'hanno attuata (Mn II II 8). Di qui la reverentia ogni qual volta de aeterna Voluntate aliquid iudicamus (VE I V 2) poiché il giudizio non verte su ciò che può esser fatto o non fatto da noi, ma su ciò che è stato fatto e decretato ab aeterno.
A un grado inferiore di giurisdizione e di potere, la v. della natura si esercita conformemente alla v. di Dio: poiché ogni fine perseguito dalle cause seconde è provveduto dalla Provvidenza divina (cfr. Pd VIII 97-111) risulta con altrettanta irrefragabile verità quod illud quod naturae intentioni repugnat Deus nolit (Mn III II 2). Parimenti se Deus finem naturae vult, ciò vuol dire che non vuole l'impedimentum finis, e se non lo vuole, significa che non lo cura et per consequens non habet in voluntate; et quod qui: non habet in voluntate, non vult (§ 6). Della volontà de la natura è ancora detto in Cv IV IX 12 (v. anche NATURA).
Quanto all'uomo - di cui D. ha analizzato i fondamenti della libertà del volere - il suo potere e la sua giurisdizione sono limitati alle operazioni che subiacciono a la ragione e a la volontade (Cv IV IX 4). Ma al potere e alla giurisdizione dell'uomo, propriamente, soggiacciono quegli atti e quelle operazioni di cui egli ha totale dominio, sia quanto a poterle produrre o non produrre, sia quanto ai principi e all'ordine della loro produzione. Il che vuol dire che l'uomo ha dominio - cioè è ‛ fattore ' - delle operazioni che procedono dai poteri della v., secondo i principi e l'ordine determinato dalla ragione. Ove l'ordine della ragione non coincide con il potere della v., non si danno operazioni propriamente umane. Pertanto, le operazioni prodotte e attuate fuori della ragione e che essa fa solo oggetto di speculazione (come quella degli enti naturali, soprannaturali o matematici) o quelle che attengono alla ragione solo quanto all'attuazione entro di sé (quali le operazioni razionali, attuate nelle arti del discorso) o fuori di sé (come le operazioni delle arti meccaniche), elle per loro a nostra volontade non subiacciono (§ 6) in quanto il principio e/o l'ordine della loro produzione non dipendono totalmente dalla ragione, non è nei poteri della v. di attuarle o meno. Tali operazioni soggiacciono a la nostra volontade (§ 6) solo in quanto sta in noi volerle o no considerare (§ 5), cioè pur non producendole, possiamo o no determinarci a ‛ scoprirne ' la causa e il modo di effettuarsi (di queste operazioni non fattori propriamente, ma li trovatori semo, § 6).
Sotto la giurisdizione della nostra v. sono perciò le operazioni coincidenti con i suoi poteri, cioè quelle che, orientate all'ordine speculativo della ragione, sono soggette all'attuazione della sola volontà. Tali appunto sono le azioni morali di cui possediamo principio regolativo e potere attuante: Sono anche operazioni che la nostra [ragione] considera ne l'atto de la volontade, sì come offendere e giovare, sì come star fermo e fuggire a la battaglia, sì come stare casto e lussuriare, e queste del tutto soggiacciono a la nostra volontade; e però semo detti da loro buoni e rei perch'elle sono proprie nostre del tutto, perché, quanto la nostra volontade ottenere puote, tanto le nostre operazioni si stendono (§ 7).
Ciò che procede da noi, di cui siamo unica causa, sono le volontarie operazioni. Ma esse sono a loro volta soggette a un principio e a un ordine di produzione, che spetta - come si è visto - alla ragione determinare secondo bene o male. Di qui il tema della giustizia che, nell'uomo, risiede solamente ne la parte razionale o intellettuale, cioè ne la volontade (Cv I XII 9). Se in Dio ius, bonum e voluntas coincidono, nell'uomo il bene e il diritto procedono da Dio per via di partecipazione e spetta alla v., come a loro soggetto, adeguarsi o meno alla loro informazione. La giustizia, che è regula, " forma ideale ", " modello " presente idealmente in Dio, si cala nella voluntas come in subiectum materiale. Pertanto, che questa forma ideale s'imprima in fulgore suae puritatis dipende dal fatto che la materia sia " incorrotta ed immista " (sincera) e quindi pronta a ricevere secondo ottima disposizione. Se corruzione e mistione c'è, ciò dipende dalla cupiditas, che rende la voluntas contraria alla perfetta informazione della giustizia: iustitia contrarietatem habet quandoque in velle; nam ubi voluntas ab omni cupiditate sincera non est, etsi assit iustitia, non tamen omnino Mesi in fulgore suae puritatis: habet enim subiectum... sibi resistens (Mn I XI 6, ma anche 4 e 5).
La v. in tanto è sincera in quanto ‛ appetito prevenuto dal giudizio di ragione '; se tale non è, vuol dire che essa è ‛ appetito preveniente il giudizio di ragione '. In ciò è dunque il potere corruttivo della cupiditas. La sua malvagità non consiste, genericamente, nell'essere appetito oltre misura, ma - più specificamente e tecnicamente - nel guastare - prevenendolo - il meccanismo dello iudicium di ragione (che, se libero, determina l'appetitum in v. buona e sincera) e nell'impedire di conseguenza il manifestarsi della iustitia entro la v.: cupiditas ipsa sola sit corruptiva iudicii et iustitia praepeditiva (XIII 7). Ciò avviene negli uomini male affecti, cioè il cui ‛ affetto dei primi appetibili ' è torto al male da un appetito che previene il lumen rationis. Di qui l'irrecepibilità della lezione Ricci di Mn III III 4 Hominibus nanque rationis intuitu voluntatem praevolantibus, da ricostituire secondo quella tràdita: Hominibus nanque rationis intuitum voluntate praevolantibus hoc saepe contingit: ut, male affecti, lumine rationis postposito [cioè il giudizio " posto dopo " l'affectus], affectus quasi caeci trahantur [cioè l'ab alio captivum trabitur di I XII 4] et pertinaciter suam denegent caecitatem (passo decisamente confortato, in questa lezione, dai paralleli di I XII 3-5, Cv III X 2 e Pd XIII 115-120). Un caso di falso giudizio, che conduce l'umana volontade in vizio d'avarizia, è quello indotto dalla promissione delle false traditrici, cioè le ricchezze (Cv IV XII 4).
Correttivo della cupidigia e del vizio è pertanto il ricondursi, attraverso la iustitia partecipata, all'ens, unum e bonum, cioè Dio, che in essa esprime la sua v. universale. Tale soggezione secondo giustizia alla v. di Dio non può non operare un'unificazione dei fini del volere, cioè un'unificazione della forma che attua la volontà. Poiché infatti virtus volitiva potentia quaedam est, sed speties boni apprehensi forma est eius (Mn I XV 7), ove la ragione di ogni uomo riconosca, attraverso la giustizia, il bonum che è ens e unum lo proporrà come unica forma attivante il volere. In questo caso si opererà, nell'umanità, una concordia uniformis motus plurium voluntatum, un moveri secundum vello ad unun che ripeterà, sul piano del consorzio civile, l'armonia della giustizia cosmica secondo cui, con uniformem motum, si muovono concordi tutti i corpi naturali (§§ 5-6). Ma la concordia degli uomini non dipende da un moto necessitante di natura come per i corpi naturali, bensì ab unitale quae est in voluntatibus (§ 8), cioè dal fatto che le v. riconoscano o meno quell'unum e a esso tutte si adeguino. La concordia dipende, insomma, dalla ‛ determinatio ad unum ' del libero arbitrio di ogni uomo, e poiché la v. di ogni singolo uomo ha giurisdizione nei limiti dei suoi singoli poteri e poiché le mortalium voluntates rimangono soggette alle blandas adolescentiae delectationes, occorre una v. i cui poteri si estendano su una giurisdizione comprendente tutte le singole v. e che su di esse agisca come ‛ principio direttivo '. Questa voluntas che si erge a domina et regulatrix aliarum omnium è quella del monarca, princeps unus omnium, la cui giurisdizione è media tra quella infinita di Dio e finita della natura e quella particolare dell'uomo (cfr. Cv IV IX 1-3. Di qui la legittima definizione dell'imperatore quale cavalcatore de la umana volontade, § 10).
La v. determinata al bene dalla ragione è dunque alla radice della pace e della concordia del mondo. E in tal senso D. lesse il versetto di Luca (11, 13-14) " Gloria in altissimi: Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis " (Mn I IV 3); intanto è benigna volontade in quanto in essa trova compimento operativo l'amor che drittamente spira, cioè l'appetito orientato da retta ragione mentre nella iniqua l'appetito è orientato da cupidità (Pd XV 1). Ove nell'ambito della propria giurisdizione la v. abbia attuato rettamente i propri poteri, poiché è in questi termini che possiamo dirci fattori, la buona volontade è soddisfatta e solo rispetto a essa vanno misurati li meriti umani (Cv III IV 13). Nei riguardi di Dio, di un essere superiore o di un ‛ signore ', cioè nei riguardi di una v. di più ampio potere e giurisdizione, ciò che attiene all'uomo, ‛ quantum in se est ', è di assimilarsi a quella attuando pienamente la propria v. secondo retta ragione (buona volontade) e sollecitamente (pronta volontade, I 8 e 9).
La v. buona, determinata al bene per deliberazione razionale, esercita un'efficacia pari al moto naturale dei corpi che, seppur contrastato da un moto violento e perciò contro natura, finisce per vincerlo e per attuare sé stesso. Così, la volontà umana, di fronte alla violenza che la torce a un fine contro natura, se non vuol, se è determinata al no dal giudizio di ragione, non s'ammorza, non si estingue, poiché le appetizioni naturali una volta indirizzate alla perfezione della loro natura fanno come natura face in foco che non smette di appetire il suo luogo naturale anche se mille volte vïolenza il torza (Pd IV 76: infatti l'appetito determinato mai non posa, Pg XVIII 32; v. VIOLENTI; VIOLENZA). Per l'opposizione volontà forza è da vedere anche Cv III III 7.
Diverso è il caso della divina volontate (Pd XX 96) la quale è vinta solo dalla violenza dell'ardore di carità e dalla speranza di vita eterna; quest'esser vinta non è infatti quale il soccombere di un uomo a un uomo, poiché la v. divina vuole esser vinta proprio in quanto in questo cedere è la sua vittoria: è cioè il ritornare della v. dell'uomo a quell'unum, ens e bonum che è fattore universale e la cui beninanza è mozione prima di ogni buon volere che appetisce al ritorno nel Regnum caelorum: la violenza della v. buona è null'altro che la piena esplicazione della potenza seminata per buona natura dalla v. e dalla bontà diffusiva di Dio (cfr. Cv III VII 13) e in virtù della quale l'anima all'altissimo e gloriosissimo seminadore al cielo ritorna (IV XXIII 3).
Nel mondo delle animae... bene hinc abeuntes (Mn I XII 5), cioè nei cieli, beati e penitenti non dismettono l'esercizio del loro arbitrio. Nel caso dei penitenti, la liberazione finale della loro v. verso il bene è descritta nel notevole passo di Pg XXI 63-96 (per cui v. anche VOGLIA) dove tutto è giocato sulla triade talento, cioè appetito che previene la deliberazione della ragione, voglia cioè appetito naturale precedente ogni deliberazione e libera volontà (v. 69), cioè appetizione deliberata rispetto al bene dal liberum de voluntate iudicium. Nella pena degli espianti si opera un meticoloso contrapasso: l'anima, infatti, è già predisposta a volere il bene (Prima vuol ben), ma al libero esercizio della v. si oppone il talento, in quanto - conformandosi alla divina giustizia - è appetito alla pena (tormento) e previene quel giudizio col quale la ragione indica nella visione beatifica (miglior soglia) l'oggetto cui la voglia naturalmente tende; in tal senso il talento agisce contra voglia, cioè contro l'appetizione alla perfezione di natura. Ebbene, se nella vita terrena il talento si esplicò in un appetito che, prevenendo il giudizio di ragione, determinò al peccato (agendo pertanto contro la voglia che per natura spingerebbe al bene), ora, nello stato di espiazione, il talento rimane ma rovesciato, in quanto convuole con Dio e impedisce che la voglia di bene divenga v. efficace (voler le giova, v. 63) finché non sia compiuta la purgazione del peccato. Perciò, solo al termine dell'espiazione la volontà diviene libera, cioè può determinare la voglia in conformità della miglior soglia. Nelle anime dei beati, invece, la v. è in pieno appagamento, cioè è determinata in conformità ai propri poteri e ai propri retti desideri (Pd III 70) e il loro distribuirsi per gradi di beatitudine è dovuto alla diversa esplicazione della v. in proporzione ai diversi poteri infusi per natura da Dio: per tale ragione nulla volontà è di più aula (Pd XXXII 63) attingendo il godimento conforme ai propri desideri.
Quanto agli angeli fedeli, che seguirono la bontate divina in quanto la riconobbero come loro origine, Dio oltre le viste (cioè l'intelletto separato di cui li dotò) concesse loro la grazia illuminante in virtù della quale le loro menti salirono tanto nel potere direttivo sulla v. che quest'ultima risulta ferma, cioè fissamente diretta al primo bene, e piena, cioè esplicata nella perfezione della sua operazione (ferma e piena volontate, Pd XXIX 63).
Un caso particolare è quello di Pd XV 68 dove Cacciaguida invita D. a esplicare in parole la sua volontà e il suo disio, onde il proprio amore e il proprio disiar sia attuato più perfettamente nella risposta.
Altre occorrenze hanno il valore di " preciso, specifico desiderio "; l'appetito, il desiderio, cioè, è designato come v. quando sia specificato e determinato in un'esperienza che condiziona la vita affettiva del poeta.
Così in Vn XXXVI 5 12 e voi crescete sì lor volontate, / che de la voglia si consuman tutti, dove il termine fa riferimento al desiderio di piangere del verso precedente, che muove gli occhi del poeta in modo che egli non riesce a trattenerli, e si distingue da voglia, che è piuttosto il conseguente " bisogno " di piangere. Così anche in XX I. Tale specificazione e determinazione è connotazione che distingue v. da altri termini designanti il destarsi e il tendere dell'appetito verso il suo oggetto e meglio si coglie là dove D. designa l'amore per Beatrice come ‛ sua v. '; il desiderio amoroso, infatti, è ‛ attuato ' da colei che è portatrice di ogni beatitudine.
Beatrice costituisce così la causa materiale, formale ed efficiente dell'amore di D., e v. è il " verace, autentico orientamento del suo desiderio amoroso ", che D. protegge mediante il ricorso alla donna dello schermo (VII 1 La donna co la quale io avea tanto tempo celata la mia volontade), e che Amore incita a rivelare a Beatrice al fine di dissipare le malevole illazioni degl'invidiosi (XII 7 e per questo [le parole della poesia] sentirà ella [Beatrice] la tua volontade, la quale sentendo, conoscerà le parole de li ingannati). La v. di D. è qui, dunque, appetito attuato secondo quella virtù di cui la donna è portatrice e mediatrice. Altrove, ‛ v. d'Amore ' è l'esplicito precetto d'Amore, la " decisione " di lui: in IV 2, dove si narra del malvagio domandare che molti pieni d'invidia facevano a proposito della fraile e debole condizione del poeta, D. risponde che la causa del suo stato è Amore; tale risposta è data per la volontade d'Amore, lo quale mi comandava secondo lo consiglio de la ragione: la v. d'Amore comanda ciò che ragione, o intelletto pratico, consiglia per combattere ‛ invidia ' e ‛ malvagità ' e dar conto delle insegne d'Amore che D. portava nel viso. In XXXVIII 1 la donna gentile, bella, giovane e savia sembra a D. apparita forse per volontade d'Amore; in Rime L 61 è l'esplicita decisione (volontà) della potenza (vertù) d'Amore che chiude il cuore e rende i messi d'Amore capaci di aprirlo, essendo ‛ potenziati ' a fare ciò da Amore stesso; in XC 67 per tua volontà vale " per tuo intervento espresso " (Contini).
Con riferimento all'esperienza del ‛ dire parole per rima ' D. usa il termine a designare il " preciso intendimento ", l'" intenzione " di esprimere un sentimento, di manifestare una convinzione calandola in una struttura poetica adeguata. In tal senso vanno Vn XIII 7 mi giunse volontade di scriverne parole rimate, XVI 1 mi mosse una volontade di dire, XIX 1 a me giunse tanta volontade di dire, XXXVI 3 E però mi venne volontade di dire anche parole, parlando di lei, e dissi questo sonetto, Cv III I 3 E sì come lo multiplicato incendio pur vuole di fuori mostrarsi... volontade mi giunse di parlare d'amore. A questi vanno accostati Vn VI 1 (mi venne una volontade di volere ricordare lo nome di Beatrice, in una pistola sotto forma di serventese, § 2) e XXI 1 (vennemi volontade di voler dire), dove l'uso fraseologico di volere (v.) sottolinea la forza e l'urgenza della decisione poetica.
Altre volte, infine, il termine ricorre con riferimento alla volontade di Orfeo poeta-teologo la cui voce è in grado di sommuovere gli esseri irrazionali come il sapiente la v. ottusa di coloro che non hanno vita di scienza e d'arte (Cv II I 3). Ancora alla volontà della Sapienza si riferisce III XV 18, mentre in IV XXIV 17 ultima volontade è il volere del padre perpetuato, oltre la morte, nelle disposizioni testamentarie. In XXVII 16 il termine ricorre in traduzione da Cic. Senect. XIV 46 e in Mn II X 3 in una citazione da Paolo (Eph. 1,5). Per l'alternanza dantesca voluntade-voluptade di Cv IV VI 11, vedi VOLUPTADE.