Yoga
Sistema filosofico indiano. La delimitazione dell’ambito dello Y. come sistema filosofico è complicata dal fatto che ogni corrente filosofica o religiosa indiana che abbia come obiettivo il superamento del fenomenico, in qualunque epoca, incorpora pratiche di y., dalla meditazione all’autodisciplina; come pure dall’ampia diffusione, in varie accezioni, del termine yoga. In senso aspecifico, yoga indica un insieme di pratiche fisiche e meditative capaci di condurre a forme superiori di consapevolezza. In tale accezione, pratiche di y. sono considerate da molte scuole filosofiche indiane (dal buddismo Yogācāra all’Advaita Vedānta) come strumentali al raggiungimento di una conoscenza intuitiva (appunto detta «percezione dello yogin», yogipratyakṣa) della verità ultima. Tale conoscenza avrebbe lo stesso grado di certezza della percezione sensibile perché non mediata da alcuna concettualizzazione (vikalpa) e costituirebbe perciò un ulteriore accesso all’Assoluto oltre a quello costituito dai testi sacri (➔ śabda). Conseguentemente, solo le scuole che negano la possibilità di tale conoscenza extraordinaria (➔ Mīmāṃsā) non accordano allo y. un ruolo rilevante.
Il ritrovamento di un sigillo della civiltà di Mohenjo Daro (3° millennio a.C.) raffigurante un uomo seduto in posizione del loto (gambe incrociate con palme dei piedi in alto) ha indotto alcuni studiosi a ipotizzare un’origine delle pratiche di y. indipendente dalle popolazioni indoarie responsabili della composizione dei Veda. Sicuramente tali pratiche erano però già state incorporate nella cultura vedica all’epoca della composizione delle Upaniṣad che la filologia chiama «medie», ossia presumibilmente successive alla vita del Buddha, come la Śvetāśvatara Upaniṣad, le quali chiamano y. la consapevolezza mistica del brahman. Tracce di y. si trovano anche nel canone buddista pāli e lo y. è citato pure nella Bhagavadgītā. Il testo fondamentale dello y., lo Yogasūtra, è attribuito a Patañjali. Tuttavia esso forma con il suo primo commento, lo Yogabhāṣya, un insieme molto più coerente rispetto agli insiemi di sūtra e commento delle altre scuole. Ciò ha indotto alcuni studiosi (fra cui per primo J. Bronkhorst) a ipotizzare che, almeno nella loro redazione finale, essi siano opera di un unico autore. Questi avrebbe raccolto aforismi già in uso nella pratica dello y., unendovi alcuni aforismi di propria invenzione e un commento che li legasse tutti. Commenta l’insieme di Yogasūtra e Yogabhāṣya Vācaspati Miśra. In Occidente, le innumerevoli pratiche di y. sono legate alla diffusione dello y. da parte di singoli maestri.
Nonostante pratiche di y. siano state adottate da Yogācāra e Advaita Vedānta come strumenti per realizzare l’inesistenza del mondo esterno, lo Y. come sistema ritiene il mondo esterno reale. Esso è però in costante mutazione in quanto prodotto di prakr̥ti, come per il Sāṅkhya, da cui lo Y. riprende interamente ontologia ed epistemologia. All’ontologia del Sāṅkhya lo Y. aggiunge solo, al vertice, una coscienza (puruṣa) particolare, superiore agli altri e identificabile con Dio. Questi non è un Dio creatore e non si distingue qualitativamente dagli altri puruṣa se non per il fatto di essere da sempre isolato dalla natura, e può perciò fungere da modello su cui concentrarsi. Anzi, gli studiosi contemporanei del sistema dello Y. sostengono che tale puruṣa particolare sia stato introdotto nella cornice Sāṅkhya dello Yogasūtra proprio perché la concentrazione su Dio era già uno strumento meditativo in uso nello Y. precedente la composizione di Yogasūtra e Yogabhāṣya. Nel corso dell’evoluzione dello Y., però, tale puruṣa particolare acquisisce sempre più caratteri teistici e lo stesso termine Y. viene a volte riletto come indicante l’unione (dalla radice yuj-, «congiungere») con Dio.
Quale che sia il fine ultimo, lo Y. comporta una componente negativa. Deve infatti mettere a tacere le evoluzioni caotiche della mente (Yogasūtra, 1.2), al fine di permettere al puruṣa di stabilirsi nella propria natura (quella di osservatore, distinto dalla natura, 1.3). La cessazione di tali turbolenze mentali è compiuta tramite sforzo e distacco (1.12), ossia tramite un giusto equilibrio fra impegno e capacità di rinunciare, o, in alternativa, mediante l’abbandono a Dio (1.20), che costituisce un antidoto all’identificazione con un io personale tramite l’esempio di un puruṣa da sempre pura luce, perché distinto da prakr̥ti. Il fine della disidentificazione da prakr̥ti è perseguito nello Y. attraverso un processo di riappropriazione di funzioni fisiche e soprattutto mentali, di modo da rendere corpo e mente strumenti docili. Questo processo si articola in otto pratiche, dette «membra» dello Y. e elencate in ordine ascendente (2.29-3.3). La prima e preliminare è la disciplina nelle relazioni con gli altri (yama, che comprende anche ahiṃsā). Seguono le pratiche legate al rapporto con sé stessi (niyama, fra cui la purezza, lo studio dei Veda e l’abbandono a Dio), la regolazione del respiro (prāņāyāma), la posizione fisica (āsana), la ritrazione dei sensi dal mondo esterno (pratyāhāra), la concentrazione (dhāraṇā, quando la mente è fissa su un oggetto o un’idea), meditazione (dhyāna) e assorbimento (samādhi, in cui il pensiero diventa così translucido da coincidere con l’oggetto pensato).