Agricoltura
di René Dumont
Agricoltura
sommario: 1. Introduzione. 2. L'agricoltura nei paesi industrializzati. 3. La questione agraria nel Terzo Mondo. 4. Unione Sovietica, Cina popolare, Cuba. 5. Alcuni esempi di socialismo africano e sudamericano. 6. Il caso di Ceylon. 7. Le responsabilità dell'Occidente. □ Bibliografia.
1. Introduzione
L' ‛ordine eterno dei campi': titolo classico, certamente, ma ampolloso e inesatto. La maggior parte della storia dell'umanità, dell'homo sapiens, si è svolta senza agricoltura, dunque senza campi; ed alcune popolazioni, chiamate un po' frettolosamente primitive, sanno ancor oggi farne a meno. L'umanità viveva un tempo - e queste popolazioni ne vivono ancora - di caccia e di pesca, e raccogliendo frutti selvatici: così i Pigmei del Congo e così gli Indiani non ancora massacrati o convertiti del nord del Brasile. Il che, se può nutrire solo un piccolo numero di persone, richiede certamente molto meno lavoro pro capite al giorno di quello necessario nelle risaie dei delta sovrappopolati del Sud-Est asiatico. L'agricoltura è una maledizione per l'umanità, costretta ad un duro lavoro da quello che è il vero peccato originale, la sua moltiplicazione eccessiva, per cui è stata cacciata dai paradisi terrestri della raccolta e della pastorizia: ‟Ti guadagnerai il pane col sudore della fronte!"
L'agricoltura ha origine con la moltiplicazione, voluta e controllata dagli uomini, dei vegetali riconosciuti come produttori di alimenti buoni o gradevoli, e capaci di riprodursi: ed è con ciò che l'umanità si svincola veramente dallo stato animale. In epoca neolitica il disboscamento della foresta vergine per mezzo del fuoco permette di utilizzare l'humus accumulato e i componenti minerali del legno depositatisi nelle ceneri: si ottiene un bel raccolto il primo anno, raccolto che è già fortemente ridotto il secondo anno se si continua a coltivare, cosa che non sempre accade. I semi o le talee sono spesso piantati con un bastone, dalla punta indurita col fuoco. Il lungo maggese forestale che segue, come ancora lo si pratica in Congo, ricostituisce la fertilità.
Ma questa coltura del 4%, al massimo, delle terre coltivabili permette soltanto - anche se i Hmong del Laos settentrionale raccolgono con tale sistema dai 40 ai 45 quintali di mais per ettaro - di nutrire un piccolo numero di persone: qualche individuo per km2. La pressione demografica, ci dice E. Boserup, produce l'‛intensificazione' agricola, che viene anzitutto realizzata attraverso la riduzione del maggese: spesso dai 6 ai 9 anni, come nell'Africa tropicale oggi; un anno in Europa, come dal Medioevo al sec. XIX. Infine il maggese scompare e si passa quindi dal raccolto annuale a più raccolti all'anno: tre raccolti di cereali (due di riso e uno di grano) od anche sette all'anno di legumi, come intorno a Canton (Kuang tung), nella Cina meridionale.
Fin dal 1933, quando, dopo una carriera coloniale interrotta, fui portato in un modo un po' imprevedibile ad insegnare agricoltura, ne proponevo questa definizione concisa: ‛artificializzazione dell'ambiente'. Il suolo costantemente coltivato è preparato, lavorato, calpestato dai bufali (risaie), solcato dall'aratro, erpicato o ‛trattato alla canadese'. Il suolo coltivato è spesso invaso da gramigne estranee, e finché non ci sono gli erbicidi si deve lottare contro di esse con le mani, con la zappetta, con la sarchiatrice. Tutto il lavoro è, a lungo, fatto a mano, con la zappa afroasiatica, che diverrà poi la vanga del giardino europeo, quella stessa vanga che ha dissodato i campi del Limagne; e questa modesta quantità di energia limita le sue possibilità. In seguito l'uomo si serve della collaborazione degli animali domestici, ma i bufali di Ceylon, mal nutriti, in due non riescono a trascinare che un piccolo aratro, per qualche ora al giorno, dissodando - e male - appena 20 are.
La prima rivoluzione agricola - che dalle Fiandre e dall'Italia settentrionale andrà diffondendosi, a partire dal sec. XVI, in Inghilterra - generalizza, dopo quella degli alimenti per l'uomo, la coltura degli alimenti per gli animali da tiro. Finalmente nutriti in modo appropriato, gli animali possono tirare aratri più potenti, capaci di rivoltare bene il terreno, di arabo in profondità, e quindi di sotterrare le erbe. Inoltre essi danno anche più letame, cuoio, lana e, soprattutto, carne e latte. Con la riduzione dei maggesi e con l'aumento del numero degli agricoltori, erano diminuite le risorse di selvaggina, e al ‛primitivo' carnivoro era succeduto il coltivatore, quasi vegetariano, più carente di proteine: in una parola, quel regime alimentare che persiste nell'India d'oggi, dove è stato persino sacralizzato.
Un'altra rivoluzione era avvenuta già da molto tempo in Cina, dove oltre un millennio prima della nostra era, presso Hsi an nello Shen hsi, nella valle del Wei ho (un affluente che si congiunge al Fiume Giallo poco prima della sua ultima ansa), la popolazione agricola era divenuta troppo numerosa. In un primo momento essa aveva praticato sui pendii una coltura itinerante, diventata, poi, semipermanente che aveva presto trascinato giù a valle, per erosione, le terre. Essendo la valle troppo stretta, fu necessario accrescere il rendimento per unità di superficie, ‛intensificare'. Fu allora che i laboriosi Cinesi intrapresero la ricerca accanita di tutte le risorse offerte dai fertilizzanti naturali: escrementi ed urine di uomini ed animali, erba, paglia e foglie, ceneri dei focolari, melme e spurghi dei fossati o degli stagni, ecc. Ricerca che continua ancor oggi, ché ai fertilizzanti naturali si aggiungono i concimi prodotti nelle piccole fabbriche delle Comuni;popolari.
Il secondo mezzo di ‛intensificazione' fu, dunque, la sistemazione idraulica; ed i grandi canali di irrigazione del Bacino Rosso, nel Ssu chuan cinese, festeggeranno fra non molto il loro XXIII secolo. Dopo aver sbarrato e deviato il medio corso dei fiumi, fu necessario impedire che essi dilagassero nelle grandi pianure mal livellate: si dovette, dunque, arginarli. E poi, drenare le paludi; lotta questa che si è conclusa con la conquista, sul mare, dei polders della Cina, dell'Olanda, della Vandea, del Suriname (già Guiana Olandese).
L'irrigazione ed il drenaggio assicurano dunque il controllo dell'acqua, base prima di ogni vegetazione; il che consente di coltivare intensivamente i semi-deserti della Mesopotamia, i giardini pensili di Babilonia. Dopo il miglioramento del suolo viene dunque il controllo del clima, che si ottiene con i ripari contro il vento: i cipressi di Provenza, i pioppi d'Italia, i preziosi boschi che circondano i recenti aranceti cubani. Le serre delle nostre tenute, che si impiantano nel Westland olandese su scala commerciale a partire dal XIX secolo e che si moltiplicano più di recente nelle nostre campagne, ne rappresentano la penultima tappa. In questa fase si regola la temperatura, il grado di umidità dell'aria, l'innaffiamento: i nostri cetrioli invernali crescono, infatti, con l'aria condizionata. Sin dal 1870 Bruxelles rifornisce Londra d'uva invernale, benché sia poi stata soppiantata dall'Africa del Sud. L'ultima tappa - oggi, nel 1971 - è la coltura senza terreno, l'idroponica, in cui le piante si nutrono di soluzioni minerali. E si è anche giunti ai lieviti del petrolio. Ma, in tal modo, si esce dall'ager, dalla campagna, e quindi dall'agricoltura, e si arriva all'industria con la manifattura (soluzioni acquose) e addirittura con la fabbrica (derivati del petrolio). Il massimo sviluppo dell'agricoltura ne annuncia già la fine, almeno nella sua forma tradizionale.
Le grandi rivoluzioni agricole dell'ultimo secolo cominciano con i concimi chimici. I nitrati di sodio arrivano dal Cile, il solfato d'ammonio dalle centrali del gas; i fosfati naturali, poco assimilabili, sono solubilizzati con l'acido solforico. Alla fine del secolo scorso il potassio, della Germania e poi dell'Alsazia, del Canada e del Congo, viene a completare la trilogia classica, l'NPK degli agronomi, sigla che designa rispettivamente l'azoto, l'acido fosforico ed il potassio. Vi si aggiungono anche altri elementi di minor conto, dal rame allo zinco, al boro, ecc.
Le grandi rivoluzioni continuano, poi, grazie alla genetica, e Vilmorin introduce in Francia i frumenti inglesi, migliora le barbabietole, allora poco zuccherine. Nel secolo precedente gli Inglesi avevano già selezionato bovini dal lombo possente, allevando per i Beefeaters le razze Durham, Hereford, o Abeerden Angus in Scozia, che si diffondono nel Nuovo Continente lasciando poco posto ai nostri Charolais ed ancor meno ai nostri Limousins. I Frisoni avevano selezionato delle vacche da latte, introdotte già prima del 1900 nel Cambrésis, specialmente da mio padre, col nome di ‛olandesi' e che si ritrovano oggi in tutto il mondo, anche nei paesi tropicali, se le si cura e le si nutre bene.
La peronospera della patata fa morire di fame, verso il 1845-1848, un milione di Irlandesi, scacciandone un numero ancora più grande dal loro paese. La fillossera verso il 1880-1890 conduce sull'orlo della rovina i viticoltori francesi. Se quest'ultima fu combattuta con l'innesto su soggetti resistenti, altrove la lotta fu chimica e ciò portò alla moltiplicazione dei fungicidi e degli insetticidi. Ed ecco che il DDT elimina gli anofeli vettori della malaria, ma provoca anche, in concentrazione, la scomparsa di certi uccelli, lasciandoci prevedere delle primavere silenziose. Gli erbicidi selettivi riducono, certamente, il lavoro degli uomini, ma tutto ciò sconvolge gli equilibri biologici: e giunge così il momento degli ‛apprendisti stregoni'.
Oltre all'uso della chimica in tutte le sue forme, progredisce anche l'uso della meccanica. Le grandi pianure spopolate dell'Ovest americano, della Prateria, non trovavano sufficienti braccia per falciare le messi, per legare e trebbiare i covoni. Dalla falciatrice, l'ingegnoso C. H. Mac Cormick passa alla mietitrice-legatrice. Nel 1847 fanno la loro comparsa, nella regione che diverrà in seguito il corn belt degli Stati Uniti, le prime mietitrici-trebbiatrici, trainate da due file di dieci muli ciascuna.
È lì che i mais ibridi rivoluzionano la produzione, ed è di lì che nel 1943 Borlaugh e la sua piccola équipe, inviati dalla Fondazione Ford, partono alla volta del Messico, per creare un grano resistente alle ruggini nere che regolarmente vi annientano i raccolti. Dopo esservi riusciti, come ho potuto constatare già dal 1957, essi incrociano ciò che hanno ottenuto con il grano nano giapponese resistente all'allettamento, quindi capace di sopportare forti dosi di concimi azotati. Dopo aver raddoppiato il rendimento medio nel loro paese, questi grani ‛messicani' attecchiscono almeno altrettanto bene, a partire dal 1960, nelle pianure irrigate del Pakistan.
Ciò porta, nel 1962, alla creazione a Los Banos (vicino a Manila, nelle Filippine) dell'Istituto Internazionale di Risicoltura. Dotato di maggiori mezzi e utilizzando l'esperienza già acquisita, gli bastano tre anni per produrre il primo della serie dei ‛risi miracolo', l'IR 8, seguito dall'IR 5, dall'IR 160 e poi da centinaia d'altri. Sono dunque pronti tutti gli elementi della ‛rivoluzione verde', che offrono all'agricoltura intertropicale la possibilità di ridurre il suo ritardo, per molto tempo ritenuto congenito, rispetto a quella dei paesi temperati.
Si avrebbe torto a sostenere l'infecondità dei terreni tropicali dato che, sin dalla fine del secolo scorso, la palma da olio piantata in Malesia e a Sumatra poteva già produrre tre tonnellate di olio per ettaro, mentre le piante oleose dei climi temperati, l'olivo, la colza o il girasole, restavano assai al di sotto di una tonnellata. I doni selezionati dell'hevea che dà la gomma hanno permesso di portare il rendimento da 300 kg a quasi tre tonnellate per ettaro. I doni del tè di Ceylon, riprodotti per talee, rendono 3, 5, 7 tonnellate, e nel corso di alcuni esperimenti si sono persino raggiunte le 10 tonnellate di tè trattato per ettaro! I tecnici si rallegrano ed alcuni tecnocrati annunciano, forse con troppa fretta, l'abbondanza universale. Chruščëv, al XXII Congresso del Partito Comunista dell'URSS, tenutosi nel 1961, la prometteva al ‛suo' popolo per il 1980: il che avrebbe consentito, quindi, il passaggio al comunismo. Ma già in occasione del mio viaggio del 1962, mi fu facile prevedere che quell'obiettivo non sarebbe stato raggiunto per tale data; e, oggi, nessuno in URSS oserebbe più pretenderlo.
Esistono dunque tutti i presupposti perché in teoria si possa produrre molto di più. Se ogni paese fosse coltivato come l'Olanda o il Giappone, come Formosa o certe Comuni cinesi, sembra sicuro, a molti autori, che si potrebbe nutrire abbondantemente decine di miliardi d'uomini; vi sono persino alcuni, certo un po' audaci, che ipotizzano con disinvoltura un numero superiore al centinaio di miliardi. Ma essi dimenticano un fatto fondamentale: cioè che l'agricoltura è praticata da uomini, per lo più da contadini, quasi tutti poverissimi, spesso sprovvisti di conoscenze tecniche, e talvolta analfabeti. Ci si trova dunque ad affrontare, innanzi tutto, un fenomeno sociale ed economico. Una volta risolto il problema tecnico nel laboratorio e nella fase sperimentale, resta la parte più difficile: far entrare le soluzioni nella pratica, nella società di quegli uomini che non sono mai stati troppo teneri gli uni verso gli altri e che spendono più energia a produrre armi che riso e proteine per i bambini poveri.
La comunità primitiva era una società preagricola, i cui caratteri comunitari continuano a esistere anche dopo l'adozione dell'agricoltura. Comunità di questo genere - quando Cortez giunse in quel paese che sarà poi chiamato Messico - ripartivano spesso le terre seguendo un criterio abbastanza egualitario: e ciò malgrado l'esistenza di minoranze privilegiate. Duemilatrecento anni fa, le grandi opere idrauliche delle pianure cinesi richiedevano un governo forte, comunità rurali organizzate, in grado di essere mobilitate, per controllare le acque del paese. Si è dunque potuto parlare di ‛società idrauliche' - che imponevano la disciplina necessaria al buon impiego dell'acqua - da quella dei Faraoni d'Egitto a quella dell'Impero di Mezzo. Marx parla di modo di produzione asiatico (che questo tipico europeo conosceva abbastanza male): e ciò mi sembra una schematizzazione eccessiva. Infatti - anche facendo l'ipotesi di un'originaria comunità primitiva dello stesso tipo, cosa che sembra già discutibile - gli sviluppi che se ne ebbero furono subito molto divergenti.
Se la Cina, ben presto sovrappopolata su uno spazio ristretto, ha risposto con una precoce intensificazione, l'In- dia ha cercato invece di far fronte ad un aumento demografico più lento, più insidioso, con la sola estensione delle colture e con la classica diminuzione dei maggesi. Quando questi ultimi scompaiono, la Cina fertilizza molto più intensamente. L'India al contrario, oltre ad aver disboscato le sue foreste, brucia il suo sterco secco: ossia, altrettante perdite per la concimazione organica minerale. Poiché le arature riducono i pascoli, il bestiame troppo numeroso è sottoalimentato, quindi produce meno latte e può tirare solo un piccolo aratro. Se l'imperatore della Cina afferrava simbolicamente i manici dell'aratro, il despota indiano, monarca estraneo al paese, imponeva una tassa ai contadini, il che permise di far progredire l'artigianato di lusso più della sistemazione idraulica. Questo passato segna ancora, con la sua impronta, le campagne di questi due paesi, la mentalità dei contadini e dei dirigenti. Un Partito Comunista Indiano incontrerà molte più difficoltà del Partito Comunista Cinese a trasformare in lavoro produttivo le energie sprecate.
Nel mondo mediterraneo si è individuata una successione di fasi, ormai divenuta classica dopo Marx, che ha avuto il merito di stabilirla: ad essa, tuttavia, si è dato, in seguito, un valore un po' troppo universale. Quando l'uomo forniva la parte essenziale delle risorse d'energia, egli cercava di far lavorare gli altri a suo profitto, senza salari, con la schiavitù. L'esistenza di questo fatto sociale permette di contestare il concetto ateniese di democrazia, perché questo ‛governo del popolo' era quello del popolo dei ricchi, che utilizzavano gli schiavi o approfittavano indirettamente del sistema: Pericle, Socrate e Platone compresi. In un primo periodo Roma poté vincere, perché basava la sua forza su una popolazione rurale stabile e organizzata, ma fu ben presto vinta quando i latifondisti si accaparrarono le terre, ai danni della produzione; mentre l'Impero reclutava i suoi nemici come mercenari!
L'economia, domestica e curtense dei ‛barbari' vincitori di Roma, soprattutto germanici, ci condusse al feudalesimo, durante il quale il semi-schiavo, il servo, lavorava gratuitamente per metà del suo tempo la proprietà del signore, come il peone dell'America Latina, che paga ancora oggi il suo canone con il lavoro. Ma in tal modo si creava anche un'economia di sussistenza, perché il servo, a differenza dello schiavo, non era affatto nutrito. La sua piccola conduzione rimaneva molto precaria, perché questo ‛villano' disprezzato (di qui il significato della parola villania) poteva vedersi confiscata ogni cosa; egli possedeva soltanto la sua persona, e non sempre... Durante la rivolta del 1381 i contadini inglesi diranno, come ci ricorda J. Froissart: ‛'Noi siamo uomini fatti a somiglianza del Cristo e siamo trattati come bestie selvagge". Quest'Europa che si diceva cristiana non conosceva nessun santo contadino, quando i contadini rappresentavano i tre quarti della popolazione.
Le jacqueries sono duramente represse, soprattutto durante la guerra dei contadini tedeschi, al tempo di Lutero. A partire da questo momento, dalla massa contadina incomincia ad emergere una borghesia che prende posizione a fianco dell'aristocrazia, talvolta in declino, per impadronirsi della te' rra, principale mezzo di produzione. Più tardi non si esitò a far ricorso alla forza armata per recintare grandi distese di terre, comprate, estorte o semplicemente rubate ai contadini: è il periodo delle grandi enclosures inglesi, dal XVI al XVIII secolo, che rendono possibile l'espansione più rapida di quella che possiamo chiamare la prima ‛rivoluzione agricola'.
Ed ecco allora, grazie alle grandi scoperte, seguite dalle conquiste, le epopee coloniali che assoggettano ai signori d'Europa la maggioranza delle comunità agricole d'America, poi d'Asia e infine d'Africa. La conduzione agricola familiare domina ‛ben presto il Nord-Est degli Stati Uniti, dove più tardi si cercherà di economizzare il ‛sudore dei padroni', più caro di quello degli operai. Di qui la rapida espansione della meccanizzazione agricola, soprattutto nel periodo della valorizzazione della Prateria, della conquista dell'Ovest, che è accompagnata da quel massiccio genocidio di Indiani che noi abbiamo ancora la sfrontatezza di idealizzare in certi film western.
Dalla Virginia al sud del Brasile si sviluppa, d'altra parte, la piantagione coltivata dagli schiavi, diffusa fin dal XVI secolo nel Nordeste brasiliano, la Zona da mata, nel litorale zuccheriero del Pernambuco e degli Stati vicini. Si ricrea, qui, una nuova società schiavista, mentre l'evoluzione delle tecniche, l'uso massiccio del bestiame, della forza dell'acqua e del vento, avrebbero consentito benissimo di farne a meno. E pensare che gli schiavi erano quasi spariti dall'Europa, salvo che presso i Tartari. Gli Indiani, d'altronde, soccombono rapidamente alle malattie importate dall'Europa e aggravate dal lavoro forzato. È necessario allora, per rimpiazzarli, trasportare in massa schiavi dall'Africa.
2. L'agricoltura nei paesi industrializzati
Attenzione: è qui che si consolida una struttura economica che conduce al grande dramma della nostra epoca, al sottosviluppo. Il capitalismo mercantile trae facili profitti dal commercio ‛triangolare'. Armi e chincaglierie, alcool e cotonina permettono di acquistare a buon prezzo gli schiavi sulla costa dell'Africa. In America essi vengono scambiati con zucchero, tabacco, cotone, cacao e, più tardi, caffè. Queste derrate, rivendute carissime in Europa, permettono un rapido arricchimento del capitalismo mercantile. Insieme al più celere sviluppo dell'agricoltura inglese - la produttività annuale del lavoratore della terra cresce infatti del 40% tra il 1730 e il 1780, contro il 14% dal 1680 al 1730, come ci insegna P. Bairoch, - ciò facilita il decollo della rivoluzione industriale, base dell'egemonia economica mondiale dell'Europa occidentale e, poi, del suo ‛ramo' nordamericano.
A partire da questo momento, le differenze non cesseranno di accentuarsi. Nei paesi atlantici, sulle due rive settentrionali di questo oceano, l'agricoltura si modernizza molto rapidamente e può produrre derrate sempre maggiori con sempre minor lavoro manuale. La maggior parte dell'attività agricola tradizionale lascia la fattoria, che non fabbrica più i propri utensili nè, a fortiori, le proprie macchine; che compra carburanti e concimi, erbicidi e fungicidi; che applica tecniche messe a punto nei laboratori e nelle coltivazioni sperimentali, divulgate poi da tecnici specializzati; che vende all'ingrosso il latte e non lo trasforma più sul posto in burro e formaggi, un tempo venduti al dettaglio sul mercato della borgata vicina; che consegna l'uva alla cooperativa vinicola, mentre riceve il pane da un fornaio o addirittura da un panificio industriale, e compra i legumi, che non coltiva più nell'orto divenuto prato e giardino per fiori ornamentali, ecc.
Nella popolazione attiva della Gran Bretagna, gli agricoltori sono meno del 4%: ma essa importa ancora circa la metà dei suoi alimenti. Meno del 7% sono invece negli Stati Uniti, che tuttavia iperalimentano la maggioranza della loro popolazione, sperperano, ed esportano il 15% della produzione. Si ipotizza che il 3%, i più efficienti, basteranno ben presto a coprire la domanda interna, e si ritiene generalmente che in questo paese, nell'anno 2000, non ci sarà più neanche l'1% di agricoltori, mentre l'agricoltura non fornirà che lo 0,5% del prodotto nazionale. Il che non significa affatto che l'agricoltura stia per scomparire, ma piuttosto che è in piena trasformazione.
Aggiungiamo che essa non sarà più, allora, la sola, principale fonte di alimenti. La pesca, che ha triplicato la sua produzione negli ultimi 25 anni, potrebbe nutrire un numero maggiore di uomini, soprattutto se tutti i pesci fossero loro destinati. Ma le farine di pesce ingozzano il bestiame dei ricchi del mondo atlantico, trasformandosi in carni, uova e latte, e sprecando un'enorme quantità di proteine. Per di più, la maggior parte dei pesci pescati sono carnivori, e hanno già mangiato i pesci erbivori che, a loro volta, si nutrono di plancton. Questa catena di sperperi potrà esser sempre più ridotta. La pesca resta un'attività di raccolta e potrà un giorno divenire un'enorme impresa di allevamento artificiale. Cosa questa che è già iniziata, ma su scala ridotta e per prodotti di lusso come i crostacei, perché non tutte le difficoltà sono state ancora risolte. Certo, se ci si dedicasse a questi problemi con tutta l'energia necessaria (invece di andare sulla luna), si potrebbe procedere molto più velocemente.
I lieviti coltivati in soluzioni acquose di solfato di ammonio, che ricavano la loro energia da paraffine di petroli greggi, ci danno proteine perfettamente consumabili e innocue. Essi potrebbero quindi contribuire largamente, per il loro basso costo, al superamento delle enormi carenze di proteine; carenze che l'agricoltura e l'allevamento tradizionali probabilmente non colmerebbero mai. Se si facessero sufficienti investimenti in questa direzione, tali lieviti potrebbero fornire, verso la fine del nostro secolo, tante proteine quante ne forniscono l'agricoltura e l'allevamento del mondo intero. Infine le alghe, di cui si comincia a mettere a punto la coltura a basso costo, potranno un giorno produrre per ettaro un numero di proteine maggiore di 20 o 50 volte rispetto a quello dei nostri migliori campi. I rendimenti dei concimi azotati, integralmente trasformati da questi organismi in proteine consumabili, sono molto superiori a quelli ottenuti nei campi.
Noi speriamo tuttavia che questo contributo non diventi una completa sostituzione, che i nostri alimenti non vengano tutti preparati nelle fabbriche, che i nostri pronipoti possano ancora apprezzare il sapore di un formaggio parmigiano o di un camembert, di un filetto di Charolais, o di una scaloppa di vitello italiano. Tuttavia l'agricoltura europea segue, anche se con una certa sfasatura, l'evoluzione agricola degli Stati Uniti, che è però resa più difficile, presso di noi, dalle conseguenze di una storia molto diversa. Noi dobbiamo trovare un lavoro urbano alla nostra eccedenza di popolazione agricola, prima di poterla spingere ad un ‛esodo rurale' più rapido, come propone, alla Comunità Economica Europea, il Rapporto Mansholt. Ancora nel 1952 ero biasimato dal mio ministro, quello dell'agricoltura, perché prevedevo che l'esodo si sarebbe accelerato!
Così si arriverà, dopo ‟una Francia senza contadini" che ci promettono Gervais, Servolin e Weil, all'Europa senza contadini. Dall'azienda familiare che coltiva più prodotti si passa alle imprese industriali a produzione specializzata, già realizzate per il pollame, in corso di diffusione per i suini e in fase di perfezionamento per i bovini. Ecco che in Savoia spuntano dal nulla stalle di parecchie centinaia di vacche lattifere, mentre si attendono i feed lots di migliaia di bovini da ingrasso, già diffusi negli Stati Uniti.
Per nutrirli verranno costituite, accanto alle grandi fattorie produttrici di cereali, aziende specializzate nella produzione intensiva del foraggio, praticanti lo zero grazing, e che saranno quindi in grado di consegnare tutti i giorni la loro erba fresca o alle aziende vicine o al laboratorio di disidratazione, indispensabile per assorbire le eccedenze stagionali. A questa razionale evoluzione verso la direttrice cereali-foraggi-allevamento che, associata ad una crescente orticoltura (frutta, legumi e fiori), è richiesta dalle condizioni naturali dei paesi temperati, si oppongono tuttavia interessi solidamente costituiti: e questi ‛gruppi di pressione' permettono di perpetuare coltivazioni meno produttive ma molto protette, a detrimento del Terzo Mondo, che produrrebbe a prezzi migliori.
La coltura della barbabietola da zucchero è, tutto sommato, un incidente economico bonapartista, una conseguenza del blocco continentale e delle guerre napoleoniche; senza di che questa pianta non avrebbe mai potuto far concorrenza alla canna da zucchero. Costituiti in gruppi di pressione, in lobby molto efficaci, i coltivatori di barbabietole francesi, belgi, olandesi, tedeschi e italiani, hanno imposto una politica protezionista molto forte che trova il suo coronamento a livello europeo. La CEE ha rifiutato di firmare l'accordo internazionale sullo zucchero dell'ottobre 1968, pretendendo che le si garantisse, sul mercato mondiale, una quota di esportazione pari a 1.200.000 tonnellate, il che verrebbe a costituire un ostacolo immediato allo sviluppo della produzione della canna da zucchero. Così il consumatore europeo non solo paga lo zucchero da due a tre volte più caro, ma il contribuente europeo paga anche le spese d'esportazione per il dumping delle eccedenze di zucchero...
Ecco dunque un'agricoltura evoluta, con produttività crescente, che a volte crolla sotto il peso delle eccedenze del burro europeo o del grano canadese, prodotti, a loro volta, con una mano d'opera sempre più ridotta. In questo consiste la moderna agricoltura della società dei consumi, di quella società che i nostri studenti condannano, pur continuando ad approfittarne. Ma all'interno di essa sussistono poi larghe sacche di povertà e quindi di denutrizione, di consumo potenziale ma non soddisfatto. Nel frattempo noi siamo, in Europa, grandi importatori di cereali da foraggio e di semi oleosi, per non parlare dei prodotti specificamente tropicali. Sebbene la colza francese sia meno ricca di olio (e di una qualità inferiore) dell'arachide, essa nel 1970-1971 è stata pagata al coltivatore francese tre volte di più di quanto l'arachide (che pure richiede molto più lavoro) è stata pagata al contadino senegalese. Ma la protezione è riservata all'agricoltura dei ricchi e dei potenti.
Tuttavia, quest'agricoltura costituisce nei paesi industrializzati, per il ritardo della sua evoluzione, un settore relativamente sottosviluppato, sovrappopolato, meno produttivo dell'industria: e ciò malgrado che i progressi recenti vi siano avvenuti più rapidamente. È pur vero, d'altra parte, che si va indebolendo la demagogica politica agricola che, fino all'inizio degli anni cinquanta, tentava di frenare l'esodo rurale, per mantenere un elettorato conservatore da contrapporre alle tendenze rivoluzionarie degli operai. Ed è anche vero che i Giovani agricoltori in Francia si battono, con maggior buon senso, per la riforma delle strutture, l'ampliamento delle coltivazioni, la proprietà fondiaria comunale, la conduzione comunitaria, piuttosto che sul solo tradizionale terreno dei prezzi agricoli. E infatti, il sostegno dei prezzi conviene molto di più al produttore di barbabietole dell'Aisne, o ai grossi produttori di grano, che non alle piccole aziende d'allevamento della Bretagna, o ai piccoli fondi del Mezzogiorno italiano.
3. La questione agraria nel Terzo Mondo
Ma, in fin dei conti, questi problemi di eccedenze, di prezzi, di struttura, di ‛parità' con le altre attività, per importanti che sembrino agli occhi degli interessati, spesso indebitati, non hanno poi il carattere drammatico delle ‛questioni agrarie' dei paesi del Terzo Mondo, che i marxisti preferiscono chiamare paesi di ‛capitalismo periferico', in opposizione al ‛capitalismo centrale' - e dominante - delle nazioni già industrializzate. Viene infatti da domandarsi se la corsa fra produzione alimentare e popolazione, che ha preso tutt'altra piega a partire dal 1946 (con la drastica riduzione della mortalità nei paesi tropicali), sarà vinta dalla prima. Dal 1946 al 1959 questa vittoria appariva probabile, l'agricoltura guadagnava terreno. Ma già nel 1966 io intitolavo un mio studio: Nous allons à la famine (v. Dumont e Rosier, 1966). A partire dal 1959 le due curve cambiano andamento, e quella indicante gli alimenti di tutto il Terzo Mondo cresce leggermente meno in fretta di quella indicante la popolazione. Salvo che in alcuni paesi del Sud-Est asiatico, in Cina, nelle due Coree e a Ceylon, dove la natalità comincia a diminuire, negli altri paesi tropicali invece, dall'India all'America cosiddetta Latina, l'esplosione demografica raggiunge livelli impressionanti. Anche senza tener conto degli incrementi annuali del 3,6% nel Messico o del 4% in Costarica, basterebbe che la popolazione del mondo continuasse a crescere al ritmo medio attuale, cioè del 2% all'anno, perché superasse, all'inizio del IV millennio, i 1.500 abitanti per metro quadrato delle terre emerse (Siberia, Canada e Antartico compresi): e l'anno tremila, se si guarda con gli occhi della storia, non è poi così lontano.
Qualche corso di matematica elementare, che facesse apprendere ai cardinali della curia romana il calcolo a interesse composto, sarebbe, certo, molto utile perché scomparisse più in fretta l'ostacolo posto dalla sola religione ancora contraria a certe forme di controllo delle nascite. E pensare che, molto curiosamente, questo atteggiamento è stato, per lunghi anni, comune ai cattolici e ai comunisti. L'uomo diverrà molto presto, per il suo sovrannumero, il principale nemico dell'uomo. Noi bruciamo sul posto le scorie vegetali, ma gli scolari del Kuang tung raccolgono ad una ad una le foglie secche lungo le strade per cuocere i loro cibi.
La civiltà americana dell'inquinamento e dello spreco, simboleggiata dalla nuvola arancione che spesso sovrasta Los Angeles, non può ‛fisicamente' essere ipotizzata per le zone sovrappopolate del Sud-Est asiatico. Non resterebbe più posto per coltivare, se si volessero far circolare due auto per famiglia, quando nelle campagne ci sono più di mille abitanti per km2 e in alcune città diversi milioni d'abitanti. Dallo spazio che Los Angeles riserva ai suoi parcheggi e alle sue autostrade, Shang hai, che conta anch'essa dieci milioni d'abitanti, ricava, attraverso un'orticoltura intensiva, larga parte del suo nutrimento.
Il controllo delle nascite e l'elaborazione di un tipo di civiltà che dia la priorità ai bisogni primari ed al consumo collettivo - l'educazione in primo luogo -, sembrano i due pilastri fondamentali capaci di far uscire più in fretta i paesi arretrati dal baratro in cui sprofondano sempre più. Fino ad oggi la Banca Mondiale, attraverso il Rapporto Pearson, ha spinto tali paesi a contrarre molti prestiti per sviluppare soprattutto le esportazioni dei loro prodotti primari, sia agricoli che minerari. Il risultato di questo tipo di politica è tuttavia ben noto.
A causa del deterioramento dei termini dello scambio, cioè del ribasso relativo dei prodotti primari, i contadini che producono di più guadagnano sempre di meno, ma pagano sempre più cari i prodotti industriali o le attrezzature che importano. Essi si indebitano ad un ritmo tale che ben presto tutte le loro esportazioni non saranno più sufficienti a coprire la crescita degli interessi sui prestiti contratti. Se a ciò si aggiungono gli utili esportati dalle società commerciali europee, americane o multinazionali, i risparmi esportati dai tecnici e dagli altri ‛consiglieri', l'uscita dei capitali dal Sudamerica ecc., ci si rende conto senza troppi sforzi che il flusso netto di denaro fresco va, da molti anni, dal Sud al Nord dell'America, dal povero al ricco.
L'industrializzazione, che in questi paesi inizia troppo tardi, esige una quantità maggiore di capitali - che invece scarseggiano - piuttosto che braccia, queste sì generalmente sovrabbondanti. Da mezzo secolo a questa parte la popolazione attiva impiegata nell'industria non è sensibilmente aumentata in percentuale nè in Brasile, né in Messico, nè in India, malgrado il forte aumento della produzione industriale. E si arriva così al nodo del problema: l'insufficienza dell'occupazione e del progresso agricoli, elementi basilari per lo sviluppo, il decollo, il take off dei paesi arretrati. Questa carenza riduce le possibilità di accumulazione interna del capitale, e il poco surplus, il poco plusvalore disponibile, è troppo spesso esportato. Questi paesi importano sempre più alimenti provenienti dai paesi ricchi: grano dagli Stati Uniti, corned beef argentino o persino legumi e frutta d'Europa, sono trasportati per via aerea in Africa; Maroua, nel nord del Camerun, consuma le banane del sud del paese, dopo che queste sono transitate per Dieppe e per Parigi-Orly: andata in nave, ritorno in aereo! L'aumentare di questi acquisti riduce di altrettanto le possibilità di industrializzazione di questi paesi.
Inoltre, il loro progresso industriale è frenato dalla concorrenza dei paesi sviluppati, che ne tassano all'importazione i manufatti, nonché dal debole potere d'acquisto delle popolazioni agricole e dei disoccupati. Il numero di questi ultimi non cessa di crescere: il Rapporto Pearson, preconizzando un maggior ‛aiuto' e l'apertura delle nostre frontiere ai prodotti dei paesi arretrati, calcola che la crescita economica dei paesi cosiddetti e ‛in via di sviluppo' potrebbe raggiungere il 6% l'anno nel decennio 1970-1980 (al posto del 4,8% annuo del decennio 1960-1970). Ammettiamo pure queste premesse, forse ottimistiche: ma, con il 3% di crescita demografica, il prodotto lordo per abitante non aumenterebbe che del 3% all'anno, e il consumo solo del 2%, ammesso che si voglia aumentare la proporzione degli investimenti produttivi. Anche in questo caso, dunque, lo scarto fra i paesi ricchi e i più poveri non cesserebbe di aumentare, ma si avvicinerebbe, ben presto, al punto di rottura.
Tanto più che, all'interno di questi paesi, la disoccupazione continua ad aumentare: in India, secondo dati ufficiali, il fenomeno riguarda 16 milioni di lavoratori, ossia 50 milioni di abitanti, contando le persone a carico: la popolazione della Francia. Ogni piano quinquennale, dal 1951 in poi, si propone il riassorbimento di questa disoccupazione; e ogni piano la vede aumentare. Fatto nuovo, essa riguarda oggi oltre centomila laureati (10.000 laureati e 167.000 diplomati solo in un piccolo paese come Ceylon). L'istruzione deruralizza i figli dei contadini, ne porta però la maggior parte alla disoccupazione.
Si sono studiati molti piani, molti progetti, molti programmi per tentare di risolvere il problema. La cooperazione è stata a lungo considerata come il mezzo migliore per liberare i contadini d'Africa o d'Asia dai temibili artigli del commercio ‛a tratta' e dall'usuraio. Il contadino senegalese viveva tradizionalmente di miglio, di sorgo o di riso, da lui prodotti, ai quali aveva aggiunto, con l'idea di spremerla per estrarne l'olio, un po' di arachide, coltura importata dall'America. I trafficanti per accrescere le loro vendite ‛a tratta', cominciarono ad acquistargliene verso il 1850, per rifornire gli oleifici di Marsiglia e di Bordeaux, ai quali l'arachide costava meno cara della colza e del ravizzone francesi, essendo il costo dei trasporti marittimi molto diminuito.
Questa coltura complementare divenne così, a poco a poco, dominante; ancora nel 1934-1938 il riso comprato quasi per niente a Nha-quê in Cocincina, era ceduto al contadino a un prezzo minore di quello che gli veniva pagato per il seme, la nocciolina: lo scambio era ancora conveniente. Ma appena il prezzo del riso aumenta - nel 1970 sono necessari 2,6 chili di arachide per pagare un chilo di riso - la necessità di comprare una parte del proprio nutrimento porta il contadino alla rovina. La monetizzazione dell'economia costringe a pagare, inoltre, le spese di trasporto e di distribuzione, alla vendita come all'acquisto. Questo ‛passaggio all'economia di mercato', considerato troppo spesso come un metro di progresso, non è vantaggioso se non quando si accompagna a un fortissimo aumento della produzione, come nel caso del cacao del Ghana meridionale. Io stesso ho visto nell'agosto del 1970 molti contadini senegalesi chiedersi come avrebbero fatto a nutrire la propria famiglia fino al prossimo raccolto.
Il problema delle ‛saldature' alimentari annuali e del raccolto diventa dunque sempre più difficile per il contadino povero; ed eccolo indebitarsi, almeno quanto al tempo dei trafficanti. Le società francesi di assistenza tecnica lo incitano a modernizzarsi. Il Senegal indipendente nazionalizza il commercio di esportazione, per investirne i profitti; mal gestite, gli utili delle società nazionali si assottigliano. Si crea una rete di cooperative per l'acquisto dei raccolti e per la fornitura di concimi e di materiale per la coltivazione con gli animali da tiro. Tutto ciò perché l'aratro sostituisca la zappa e la produttività aumenti.
Se la cooperazione agricola si è affermata in Danimarca verso il 1880, ciò è avvenuto solo un secolo dopo che l'istruzione primaria vi era divenuta obbligatoria, e in un ambiente di coltivatori luterani viventi in una società capitalistica moderna. Sono gli stessi agricoltori che hanno preso l'iniziativa, ne hanno assicurato la direzione e il successo, senza alcun sostegno da parte dello Stato, in libera concorrenza con il commercio privato. In Africa, sono il governo e l'amministrazione che cercano di promuovere, a partire dal vertice e non già dalla base, la cooperazione. Nella società Uoloff, strutturata ancora in modo gerarchico, il presidente è scelto non per la sua competenza o la sua dedizione, ma perché appartiene ad una grande famiglia. Egli nomina colui che gli gestisce la vendita delle arachidi nell'ambito della propria ‛clientela': e si tratta spesso di un ex-commerciante.
Fra i dirigenti della cooperativa, l'amministrazione che dovrebbe controllarli e i rappresentanti locali del partito unico al potere, quasi tutti provenienti da grandi famiglie, si viene a stabilire tutta una rete di complicità e di negligenze, che fa sì che la nuova struttura per lo sfruttamento dei contadini passi attraverso la cooperativa, lo Stato... e i paesi ricchi. Questi ultimi pagano sottocosto l'arachide, che sostiene a fatica la concorrenza della soja meccanizzata degli Stati Uniti e della colza europea troppo protetta. Quando nel 1968 i prezzi riescono comunque a risollevarsi, lo Stato senegalese continua a pagare l'arachide al contadino 35 centesimi al chilo, intascando la differenza per migliorare il bilancio, sempre in difficoltà. E spesso la cooperativa froda il contadino, con ricevute falsificate.
Il Senegal aveva messo in piedi un programma per aumentare l'uso dei concimi, aveva costruito una fabbrica per produrli sul posto, e, nel 1967, i contadini ne avevano acquistate, a credito, 57.000 tonnellate. I più poveri, tuttavia, per comprarsi il nutrimento, si vedono costretti a rivendere, spesso a due terzi del prezzo che dovranno rimborsare, i loro sacchi di concime ai più ricchi del villaggio, i quali approfittano così della miseria di costoro. La siccità del 1968 riduce ancora il numero dei rimborsi e governatori zelanti mettono in atto autentiche persecuzioni mandando i soldati a picchiare, mettere sul lastrico o imprigionare i contadini divenuti debitori insolvibili. Un grido si alza allora nelle campagne senegalesi: ‟Un contadino indebitato non è più un uomo libero".
Per reazione il coltivatore ripiega sull'economia tradizionale di sussistenza e, nel 1970, compra solo 10.000 tonnellate di concime e un terzo della quantità prevista di attrezzature. Si commerciano, nell'inverno 1970-1971, solo 450.000 tonnellate d'arachide, molto meno della metà di quanto previsto dal piano! Ecco dunque che nel villaggio migliora il livello alimentare, mentre tutto un programma di ammodernamento agricolo si trova bruscamente bloccato: e sarà più difficile riprenderlo. L'avvenire della zona della savana, a sud del Sahara e a nord della foresta, in quell'Africa occidentale che si estende dal Senegal al Ciad passando per il Mali, l'Alto Volta ed il Niger, mi sembra molto cupo. L'incremento demografico galoppante non è seguito da un aumento della produzione alimentare, mentre le due colture industriali importanti, l'arachide e il cotone, forniscono utili mediocri.
L'istruzione è da lungo tempo riconosciuta come base essenziale della modernizzazione ed essa vi ha di certo largamente contribuito nell'amministrazione, nel commercio, e un po' nell'industria. Ecco dunque che il settore terziario, e soprattutto l'amministrazione, distribuisce ad una minoranza privilegiata redditi talmente superiori a quelli dei contadini che i figli di questi ultimi non hanno speranze di autentica promozione sociale finché fanno quel mestiere. Essi vanno dunque a scuola per sfuggire alla condizione contadina, e non per rimodernare i loro troppo piccoli poderi, impresa difficilissima nel contesto economico che li circonda. Il contadino analfabeta non può controllare la gestione della sua cooperativa. La scuola non fa che privare il mondo rurale dei suoi giovani più dinamici e finisce per contribuire alla stagnazione agricola.
È dunque arrivato il momento, non di rinnovare un sistema di istruzione rurale troppo servilmente ricalcato su quello europeo, e che si è dimostrato dannoso, ma di smantellare un edificio che finisce per favorire una nuova divisione sociale, basata sull'educazione più che sulla nascita, e che compromette lo sviluppo agricolo. Al suo posto si dovrebbe costruire un sistema di educazione permanente, teso a soddisfare le necessità dell'economia, dello sviluppo; adatto ad ogni età, ad ogni mestiere, a ogni ambiente, urbano o rurale. L'alfabetizzazione funzionale, fornita in dialetto, ovunque questo abbia una diffusione sufficiente, potrebbe recuperare gli adolescenti e i giovani contadini fra i 15 e i 30 anni, che non hanno potuto essere ammessi nelle scuole congestionate, e che non possono più sperare di fare una carriera extraagricola. Li si ‛aiuterebbe così a diventare degli uomini più aperti al mondo moderno, e, in tal modo, migliori agricoltori. Poi gli si dovrebbero offrire corsi successivi di aggiornamento e perfezionamento...
Se dal Senegal risaliamo verso il nord, attraversando il Sahara, possiamo vedere la Tunisia indipendente tentare, a partire dal 1962, di rimodernare l'agricoltura dei suoi piccoli fellahin, nel nord del paese. A tal fine, essa riunisce d'autorità i loro piccoli poderi alle grandi proprietà tolte ai coloni francesi o italiani, per formare delle unità cooperative di produzione. Mal gestite, queste non possono fornire agli operai dei coloni e ai contadini ‛cooperativizzati' un'equa remunerazione, paragonabile a quella che ricevevano prima; e si nota, anche qui, una accentuata denutrizione.
Quando Ahmed ben Salah - al quale è stata attribuita l'intiera responsabilità di questa azione, invece condivisa da tutto il governo - decise, nel 1969, di estendere questa ‛cooperativizzazione' all'agricoltura tunisina nel suo complesso, i grossi agricoltori tunisini, questa volta toccati nei loro interessi, reagirono: il ministro dell'economia perse il suo posto, e più tardi la libertà. Seguì lo scioglimento di una gran parte di quelle cooperative ed i fellahin poterono riprendere le loro terre. Ma avevano nel frattempo venduto i loro scarsi averi e i loro attrezzi. Le loro piccole fattorie, che già prima avevano un'importanza marginale, per lo più non poterono essere ricostruite. Ed eccoli affittare le loro terre ai ‛grandi', che arano con i trattori e fanno il raccolto con la mietitrice-trebbiatrice. Man mano che i ‛piccoli' si indebitano, i ‛grandi' comprano le loro terre: la cooperazione obbligatoria, che si diceva destinata a modernizzare il fellah e ad elevare il suo livello di vita, ha contribuito a impoverirlo, ha finito con lo spossessarlo.
Insomma, dal colono alla cooperativa, fino al grande coltivatore tunisino, ha prevalso la stessa tendenza, quella alla meccanizzazione, riducendo troppo in fretta il fabbisogno di mano d'opera. Per ridurre la disoccupazione crescente, e l'importazione dei generi alimentari, sarebbe stato invece necessario dare la precedenza all'intensificazione, I cantieri, creati per assorbire mano d'opera disoccupata, hanno realizzato enormi opere antierosive e di rimboschimento; ma sono stati, spesso, mal concepiti. Sarebbe necessario dare la priorità agli investimenti più immediatamente produttivi, come l'allevamento su praterie artificiali, più produttive delle colture di cereali nel litorale settentrionale o nelle pianure irrigate. Anche nel centro della Tunisia l'allevamento è più redditizio dell'arboricoltura secca, di ulivi o di albicocchi; ma i tecnocrati, disprezzando l'economia e i pastori, hanno dato ovunque priorità agli alberi. Il figlio del fellah cerca lavoro in Francia, seguendo l'esempio del suo collega algerino.
Certe dighe, come quella di Nedromah, sono costate somme enormi per un reddito troppo modesto ed il coefficiente di capitale rischia qui di superare il rapporto di 30 a 1. Nel decennio 1960-1970, la Tunisia ha investito più di 200 milioni di dollari allo scopo di modernizzare la sua agricoltura; e tutto ciò quasi senza risultati: i 4/5 del pane consumato in città, nel 1970-1971, erano impastati con farina di grano importata. E tutto questo nel paese che ha rifornito la Roma antica di grano e di olio! Un punto comune può essere rilevato in questa serie di errori: il disprezzo per il contadino, considerato come un essere inferiore che il burocrate-tecnocrate si guarda bene dal consultare; è necessario ‟fare il suo bene suo malgrado": così si ottiene, invece, con assoluta certezza, la sua rovina.
L'India inizia il periodo della sua indipendenza con i massacri per la divisione dai due Pakistan, il più povero dei quali (l'attuale Bangla Desh) si trova oggi drammaticamente sovrappopolato, affamato, oppresso, attaccato prima dal ciclone dell'autunno 1970, poi dall'armata di occupazione della primavera del 1971, infine dal colera. Questa India del 1948, in ricordo della carestia dei due Bengala nel 1943, affidò come prima cosa ai suoi servizi agricoli la realizzazione dello slogan: ‟grow more food". I risultati insufficienti furono attribuiti, sin dal 1952, all'analfabetismo, alla cattiva salute e alla mancanza di risorse del contadino. Per contro alcune piccole realizzazioni, fatte da comunità numerose e ben inquadrate guidate da apostoli, realizzarono progressi notevoli, ma fortemente circoscritti. Si decise dunque di estendere progressivamente la loro tecnica di community development a tutto questo immenso paese, a tutti i suoi 550.000 villaggi.
Fu necessario, a questo scopo, dividere il paese in ‛blocchi' di sviluppo aventi in linea di massima 70.000 abitanti; ognuno di questi ‛era a sua volta suddiviso in 10 parti di 7.000 abitanti, con uno stato maggiore di 4 o 5 tecnici e 10 gram sevako servi del villaggio. Questi ultimi dovevano occuparsi di tutto, dall'alfabetizzazione alle tubature delle case, dai pozzi alle strade e ai viottoli, dalle vaccinazioni ai consigli municipali (panckayats), dalle cooperative ai suggerimenti tecnici... Per questi ultimi restava loro pochissimo tempo, e non ottennero perciò che modesti risultati. Frattanto, resi responsabili del piano, ed essendo quindi molto prudenti, i servizi statistici del Ministero dell'Agricoltura avevano sistematicamente sottovalutato i raccolti del periodo 1949-1951. Essi poterono così, riaccostandosi progressivamente alla realtà, esibire alla fine del primo piano, nel 1956, una bella curva di crescita. Ma questa si ridusse nel 1961, fino ad annullarsi nel 1966 alla fine del terzo piano!
Nel 1958-1959, incaricato dalle Nazioni Unite, insieme a Read e Coldwell, di una missione di ‛valutazione' di questo movimento, io insistevo sul fatto che esso non intaccava le strutture che maggiormente ostacolavano lo sviluppo, quali la mezzadria (perché il mezzadro non guadagna che la metà dell'eccedenza prodotta dalle sue fatiche) o l'usura (perché constatai tassi d'interesse che arrivavano, per una settimana, al 15%, e persino al 100% quando gli interessi erano versati in ritardo!).
Percorrendo le campagne indiane nello stesso periodo, una missione di 13 agronomi degli Stati Uniti, inviata dalla Fondazione Ford, concludeva che era impossibile far progredire contemporaneamente tutti i 550.000 villaggi e i 50 milioni di famiglie contadine. Essa consigliava dunque di trascurare le regioni meno fertili, come la maggior parte della penisola del Deccan, o troppo poco irrigate come l'ovest del paese: in tali regioni si sarebbe potuto, tutt'al più, continuare con i metodi utilizzati fino ad allora. Si sarebbero dovuti concentrare invece i principali mezzi disponibili, l'intervento più intensivo, nelle pianure fertili bene irrigate; in tal modo sarebbe stata trascurata una buona metà del paese.
All'interno di quella zona privilegiata ci si sarebbe dovuti occupare solamente delle aziende agricole capaci di autofinanziare il loro sviluppo ulteriore, e si riteneva che fossero le coltivazioni di più di 2 ettari; ciò che escludeva più della metà delle fattorie esistenti in questo settore ‛ricco'. Restava così la quinta parte delle fattorie indiane; solo queste avrebbero dovuto beneficiare del package deal. Gli si sarebbe dovuto mettere, cioè, a disposizione e ‛tutto il pacchetto' e gli si sarebbero dovuti fornire contemporaneamente una massiccia assistenza tecnica, un credito abbondante, un sicuro approvvigionamento di concimi e di altri inputs, nonché una buona possibilità di smercio. Questo ragionamento, valido su un piano economico e a breve termine, avrebbe contribuito però ad aggravare le differenze sociali, ad approfondire il fossato fra i ricchi e i poveri.
È in questo quadro che, subito dopo le penurie del 1965-1966 (che sarebbero divenute carestie senza un approvvigionamento massiccio di grano americano), si inserì la ‛rivoluzione verde'. I grani messicani, così come nel Pakistan, dettero buoni risultati nel Punjab, che ha agricoltori dinamici, intraprendenti, e una gran parte di terre irrigate. Fu meno facile con i ‛risi miracolo', di gusto non gradevole e più sensibili dei tipi tradizionali alle malattie crittogamiche. Di taglia molto piccola, hanno bisogno di una risaia perfettamente spianata e di accurate e frequenti diserbature. L'irrigazione è indispensabile, insieme ai concimi, alla realizzazione effettiva delle loro elevate potenzialità; ma la maggioranza delle risaie indiane è ancora alimentata solo dalle piogge. Non si trovano dappertutto falde freatiche così ricche da poter essere sfruttate con motopompe installate su pozzi, come nel Punjab. Nelle grandi reti di irrigazione, come il Damodar, l'imposta sull'acqua non tiene conto del volume consumato e perciò l'acqua viene sprecata; ciò impedisce di estendere la doppia coltura: il riso della stagione secca (più produttivo) dopo quello della stagione monsonica.
Le carestie del 1965-1966 fanno aumentare il prezzo dei cereali; le nuove varietà permettono di ottenere alti rendimenti. Alcuni proprietari, fino ad allora residenti nelle città, assenteisti e parassitari, si interessano sempre più direttamente alla coltivazione dei loro fondi, in quanto vi vedono possibilità di guadagni più elevati. Se avevano una ventina di mezzadri, sono spesso tentati di mantenerne una decina come salariati e di comprare trattori e attrezzature. Con questa meccanizzazione, la ‛rivoluzione verde' aumenta, in un sol colpo, la produzione... e la disoccupazione. Infatti la metà dei mezzadri, rimasti disoccupati, non hanno altra speranza di trovare lavoro, se non occasionale; e tale speranza li conduce sui marciapiedi di Calcutta, spettacolo da inferno dantesco... E i disoccupati, poi, non possono comprare tutta la massa di nuovi cereali.
L'India annuncia dunque che li esporterà. Però nel 1971 continua a importare; e non ha neppure raggiunto l'obiettivo che, nel 1958, si prefiggeva per il 1966, ossia 110.000.000 di tonnellate di food grains, cereali più legumi secchi. Se dunque l'India nei prossimi anni esporterà cereali, venderà miseria e sottoalimentazione: venderà cioè quei cereali che i suoi poveri avrebbero dovuto consumare, se ne avessero avuto la possibilità, il potere di acquisto. Le agitazioni agrarie si accentuano dal Bengala al Kerala, passando per il delta di Travancore, dove i salariati hanno visto diminuire il loro potere di acquisto, mentre esso è nettamente aumentato nel Punjab. Degli amici singalesi, di ritorno dalle Indie, mi dicono che la ‛rivoluzione verde' conduce il paese diritto alla ‛rivoluzione rossa'.
Questa rivolta agraria, il Messico l'ha conosciuta bene: e ancor prima della Russia, poiché vi si svolse dal 1910 al 1921. La condizione dei Peoni, spesso discendenti dagli Indiani, assomigliava ancora, in numerose haciendas, alla schiavitù. Essi erano più o meno maltrattati, sfruttati, indebitati e, quindi, incatenati alle tenute padronali, come ce li mostrano molti film da Que viva Mexico di Eisenstein a Viva Zapata di Kazan. Ci furono sanguinosi conflitti, anche fra gli sfruttati; terribili distruzioni, anche di opere produttive; rovesciamenti a catena dei nuovi governi, corrotti quanto i precedenti. Nel 1917 fu sancito nella Costituzione il passaggio alla nazione della proprietà del suolo, del sottosuolo e delle acque, i benefici dei quali dovevano essere ripartiti secondo l'interesse nazionale, e con lo scopo di ridurre le ineguaglianze sociali. La riforma agraria, che inizia verso il 1921, dà agli ejidos, a gruppi di contadini, la proprietà collettiva degli appezzamenti espropriati ai latifondisti; l'usufrutto soltanto resta individuale, a condizione però che ne sia continuata la coltivazione, proprio come nel diritto musulmano.
Chiunque, nel villaggio, lo richiedesse, riceveva un pezzo di terra, più a titolo di giustizia sociale (i ribelli gridavano: ‟Tierra y libertad" o ‟Tierra y libros") che come mezzo di sviluppo economico. I risultati furono deludenti e l'assegnazione delle terre diminuì in fretta, soprattutto dopo il 1928. Riprese nel 1935-1940, sotto l'impulso di Làzaro Càrdenas, il solo presidente di sinistra (e l'unico che non si sia arricchito con il potere) che il Messico abbia conosciuto dopo la rivoluzione. In un paese dove il partito al potere si chiama Partito Rivoluzionario Istituzionale come se queste ultime due parole potessero conciliarsi! - Càrdenas cercò dunque, insieme a una più razionale distribuzione delle terre, a una minore parcellizzazione dei lotti più importanti, di fornire anche gli altri mezzi capaci di far aumentare la produzione, soprattutto l'alfabetizzazione e i crediti.
Questi ultimi rimasero tuttavia sempre insufficienti, e dal 1940 il partito, passato nelle mani dei ricchi, ha dato loro la sicurezza del possesso per la parte delle loro proprietà che avevano conservato, nonché la priorità per i lavori pubblici di irrigazione e per la rete viaria. Dal 1946 al 1955, sotto l'impulso della domanda americana, della crescente industrializzazione con l'aiuto dei genetisti e degli agronomi, la produzione agricola messicana è cresciuta dal 7 all'8% anno, conseguendo così un primato mondiale. Questo aumento proveniva soprattutto dal settore privato, cosa che permetterebbe, a prima vista, di condannare il principio della riforma agraria.
È però necessario guardare più da vicino. Infatti il solo paese dell'America Latina ad aver registrato una tale crescita agricola è il Messico, il quale è anche il paese che ha realizzato la più profonda riforma agraria. Riducendo l'estensione delle grandi proprietà si è indotto chi le sfruttava a ricavarne di più per ettaro, se voleva conservare il suo livello di vita. D'altra parte la rivoluzione degli anni dieci lo ha spinto a svolgere un ruolo economico utile, per giustificare la funzione sociale della proprietà, di cui parla tanto la Chiesa; anche se egli paga ancora salari troppo bassi. Sarebbe ora necessario far progredire più in fretta il settore contadino; ma si tratta spesso di conduzioni agricole troppo piccole, poco fornite di crediti, che sono difficili da rimborsare, perché innanzi tutto è necessario mangiare. La parcella concessa ad un ejido è spesso troppo piccola per assicurare il pieno impiego, la vita e il tetto ai ‛beneficiari'. Essa costituisce allora una palla al piede che impedisce loro di andare a cercare altrove nuove occasioni di lavoro, se non vogliono perdere il diritto all'usufrutto della parcella. Infatti non si può, per principio, cederla e neppure affittarla. D'altra parte nel paese mancano terribilmente le occupazioni non agricole e gli Stati Uniti a loro volta, meccanizzando il raccolto del cotone e, in seguito, quello della frutta e dei legumi, hanno ridotto il loro fabbisogno di braceros. Quanto al piccolo ejidatario, continua ad essere sfruttato dal commerciante e dall'usuraio, che si accaparrano spesso il 40% della sua produzione: egli può cioè a malapena raggiungere il livello di sussistenza.
La riforma agraria non può accontentarsi di frazionare le grandi proprietà in piccoli fondi inefficienti, di dare la terra a chi la lavora. È necessario - ed è la cosa più difficile - educare i futuri beneficiari, costituire moderne coltivazioni intensive, il che non vuol dire, necessariamente, completamente meccanizzate, se la meccanizzazione deve farsi a scapito dell'occupazione. Bisogna fornire i crediti necessari, e permettere di commerciare i prodotti senza essere derubati. Tutto ciò pone il problema del potere, dei poteri economici. Vi è dappertutto la possibilità di trovare il modo di fare lavori produttivi: sistemazioni idrauliche, piantagioni di alberi da frutta, coltivazioni intensive di foraggio, rimboschimento e lotta contro l'erosione. Inoltre è necessario finanziarli, cosa che sarebbe facilitata da una imposta fondiaria notevole. Dall'India al Sudamerica i grandi proprietari si sono opposti a questa misura, leva indispensabile del progresso agricolo, che ha mostrato la sua efficacia in Europa verso la fine del XVIII secolo, e in Giappone un secolo più tardi. Per poter pagare questa tassa e conservare al tempo stesso le proprie rendite, il proprietario è infatti costretto ad ‛intensificare'.
Venezuela, Colombia, lo stesso Nicaragua parlano tutti di riforma agraria, laddove si tratta in realtà di colonizzazione di nuove terre, situate lontano da tutto, costose per le infrastrutture che richiedono, e che non meritano la priorità nella intensificazione. L'interesse nazionale richiede di valorizzare innanzi tutto gli immensi pascoli posti vicino ai grandi centri e sfruttati molto al di sotto delle loro possibilità. Certi llanos dell'Orinoco venezuelano (Guàrico) non producono che 5 chili di carne (peso vivo) per ettaro all'anno, in un territorio che permetterebbe di ottenere in modo economico 200 kg di carne!
Queste brevi sintesi che abbiamo fatto ci confermano il fallimento abbastanza generale dello sviluppo agricolo nei paesi del ‛capitalismo periferico'. Quando il Rapporto Pearson ci dice che la ‛rivoluzione verde' risolverà questi problemi, ne sottovaluta le difficoltà e la complessità. L'avvento dei vantaggiosi cereali ad alto rendimento pone nuovi problemi, quelli delle strutture socio-economiche che permettono di utilizzarli a fondo, in particolare fornendo anche ai piccoli agricoltori i crediti e le facilitazioni di approvvigionamento.
Davanti a tutte queste difficoltà molti giovani del Terzo Mondo ripongono le loro speranze nella lotta antimperialista, per liberarsi da un capitalismo che ha arricchito le nazioni progredite, ma si rivela incapace di fornire loro un lavoro interessante, e uno stile di vita che possa appassionarli. È arrivato, dunque, il momento di guardare più da vicino i risultati ottenuti, in materia di sviluppo agricolo, dagli Stati che si proclamano socialisti, ma che il marxista iugoslavo Stojanović preferisce chiamare ‛statalisti'.
4. Unione Sovietica, Cina popolare, Cuba
L'Unione Sovietica ha superato da più di un lustro il mezzo secolo di vita dalla rivoluzione del 1917: combinazione di una sconfitta militare, di rivolte agrarie e di una ribellione proletaria, contro le quali ultime un gran numero di soldati-contadini si rifiutò di combattere. La terra nazionalizzata fu divisa dai comitati contadini, ma con la guerra civile la penuria si trasformò in carestia, mentre le requisizioni operaie, a volte eccessive, indisposero i contadini. Fu necessario concedere loro, con la NEP, la libertà di commerciare, di affittare braccia e persino terre. La produzione agricola ritrovò quasi il suo livello di prima della guerra, ma l'accresciuto consumo rurale non lasciò che un'insufficiente produzione commerciabile. Per finanziare l'industrializzazione accelerata, in mancanza di crediti stranieri, bisognava - scriveva Stalin incoraggiato da Preobraženskij - far pagare un ‛tributo' ai contadini.
Rimasto solo al potere, Stalin decise nel 1929 una collettivizzazione accelerata che si trasformò ben presto in una vera guerra contro i kulaki, i contadini ricchi, ai quali si aggiungeranno molti contadini medi, legati alla loro azienda familiare, che avevano appena strappato alle proprietà feudali. Deportazioni nei vagoni della morte, esecuzioni sommarie, lavori forzati sul canale ghiacciato che porta al Mar Bianco: tutto ciò causò milioni di morti, e Stalin confessò a Churchill di avere veramente temuto in quel momento di perdere il potere. I contadini in rivolta distrussero metà delle scorte e si rassegnarono malvolentieri a lavorare nei 240.000 kolchoz.
Il compromesso del 1935 garantisce loro il godimento privato di un pezzetto di terra, da 1/4 a mezzo ettaro, e di scorte vive abbastanza consistenti. Mal pagati per il loro lavoro nelle fattorie collettive dal rendimento modesto, perché mal dirette dagli operai delegati dal Partito, i contadini vicini alle città alimentano un redditizio mercato kolchoziano. Gli altri almeno ne traggono di che mangiare. La guerra, i suoi massacri e le sue rovine, sono seguiti dalla ricostruzione nell'atmosfera dittatoriale dello stalinismo agonizzante. A partire dal 9 settembre 1953 Nikita Chruščëv sottolinea finalmente le deficenze agricole: ‟La Siberia non produce il burro che produceva nel 1913".
Fu un colpo durissimo per i fedeli propagandisti dei partiti comunisti occidentali; ma l'agricoltura sovietica aumentava la sua produzione del 50% in 5 anni, dal 1953 al 1958. Questo aumento era dovuto a migliori prezzi agricoli, dunque il tributo si riduceva; all'espansione del settore privato, nuovamente favorito, mentre dal 1947 lo si era frenato; al dissodamento estensivo delle ‛terre vergini', soprattutto nel Kazakistan del nord, il cui humus sarà ben presto esaurito...
Nel 1958 Nikita crede di poter promettere, per il settennio che si apre, un progresso agricolo del 70% ossia del 10% l'anno; ma si sforza di nuovo di contenere il settore privato! Nel 1964 l'aumento agricolo accertato è del 10%... in sette anni: ossia dello 1,5% l'anno, appena uguale a quello della popolazione. Sulle strade sovietiche, nell'ottobre del 1962, vidi che proprio accanto al cartello ufficiale: ‟Raggiungere e superare l'America in 5 anni", alcuni scherzosi ingegneri dei Lavori Pubblici ne avevano piazzato un altro che diceva: ‟I sorpassi a velocità elevata sono sempre pericolosi"! Nessuno in URSS parla più, nel 1972, di superare l'America, con cui si ricerca sempre più la coesistenza pacifica, in modo da poter alleggerire il peso degli armamenti difficilmente sopportabile per un' economia troppo poco efficiente.
Dal 1965 la riforma economica concede una maggiore autonomia alle imprese di produzione; il piano non è più diretto fin nei minimi particolari da Mosca, sempre male informata. Ogni volta che il centro decisionale si allontana troppo dal luogo di produzione, si sbaglia; e si impiegano 5 anni, dal 1949 al 1954, per capire che il cotone non matura nel sud dell'Ucraina. Tuttavia le fabbriche di concime e i grandi lavori di irrigazione cominciano a dare dei frutti.
A nord di Taskent, nella ‛steppa della fame', enormi macchine per innaffiare permettono di ridurre, per un fondo coltivato a cotone, la quantità di acqua necessaria da 6.000 a 3.000 metri cubi per ettaro. I sovchoz, riforniti dallo Stato, le utilizzano. I kolchoz, cooperative di produttori, non le comprano, perché bisogna pagarle senza che il risparmio di acqua così realizzato possa compensare questa spesa nel loro bilancio. Infatti l'acqua è gratuita. In tutto il mondo, ogni volta che un mezzo di produzione è dato gratuitamente, esso viene sprecato; anche in un'economia socialista.
L'Unione Sovietica militarizza i suoi contadini, i quali non possono circolare senza autorizzazione, e sono trattati ufficialmente come ‛minorenni' politici; gli operai, a parole proclamati ‛maggiorenni', non sono trattati gran che meglio. Si è costituita una ‛nuova classe dirigente, che profitta del plusvalore prodotto dagli operai e dai contadini, non più attraverso il possesso dei capitali, ma grazie al monopolio del potere politico. Quando i suoi privilegi sembrano compromessi dalla ‛primavera' di Praga, essa fa intervenire l'esercito; così come i potenti degli Stati Uniti, quando sentono minacciato il ‛loro' petrolio, massacrano il Vietnam...
Mao Tse-Tung ci ricorda che ‟la politica è al posto di comando", soprattutto in Cina. La condizione dei contadini dello Yün nan e del Kuang tung, quando percorrevo, fra il 1929 e il 1932, i dintorni di Kun ming e di Canton, era certamente spaventosa: ‟Non c'è più speranza nel mestiere di fittavolo", mi confidava un vecchio contadino. Egli accettava la miseria, anche prolungata, ma non l'impossibilità di sperare che un giorno ne sarebbe uscito.
Di qui la rivolta agraria, che inizia anche prima dell'intervento comunista, nello Hu nan, verso il 1924-1925. L'analisi che il giovane Mao ne fece gli permise di comprendere meglio l'importanza che poteva avere la classe contadina per il successo di una eventuale rivoluzione, in un paese quasi sprovvisto di proletariato.
L'insuccesso degli operai, a Shang hai nell'aprile e poi a Canton nel dicembre del 1927, portò Mao a ritirarsi nella e ‛vecchia culla' della rivoluzione, ossia verso la frontiera dello Hu nan e del Chiang hsi; e quindi, dopo la dura prova della ‛lunga marcia', intorno a Yen an nello Shen hsi. Se dal 1949 l'Armata Rossa può controllare tutta la Cina continentale, ciò avviene grazie alla partecipazione massiccia dei contadini, che le forniscono il 78% degli effettivi e la sostengono in tutti i modi. Infatti essi ne avevano fin troppo di pagare fitti iniqui (fino al 60% del raccolto lordo, nel sud), interessi esorbitanti (dal 30 al 100%), imposte troppo frequenti, di cui una parte eccessiva restava nelle tasche dei mandarini, invece di servire alla manutenzione delle dighe.
La riforma agraria ridistribuisce la terra dei proprietari non coltivatori e, a volte, quella dei contadini ricchi, ai coltivatori troppo piccoli, ai contadini poveri, ai braccianti senza terra. Essa viene seguita dalla costituzione di squadre di mutuo soccorso, prima stagionali e ben presto permanenti. Dal 1953 il Partito propone la costituzione di cooperative di produzione semisocialiste, che mantengono una rendita fondiaria. Nell'ottobre del 1955 il presidente Mao ordina l'accelerazione di questa collettivizzazione, che sarà sostanzialmente conclusa nel maggio del 1956, senza le difficoltà incontrate dai Soviet nel 1929-1933.
Si passa dunque a cooperative socialiste, sei volte più grandi, che raggruppano in media 170 famiglie e 150 ettari; viene soppressa, con la rendita fondiaria, l'ultima traccia di proprietà privata del suolo. I risultati non sono all'altezza delle aspettative, e anche le opere idrauliche, realizzate su vastissima scala a partire dall'inverno 1957-1958, spingono ad associare queste cooperative medie in complessi più grandi. Nella primavera del 1958 un vento di follia passa sulla Cina, che lancia improvvisamente la parola d'ordine del grande balzo in avanti, ‟superare tutti gli obiettivi del piano", il che equivale a negarlo; e si indica come direttiva generale: ‟Fare di più, meglio, più in fretta". Si mobilita, in un furore di costruzione, l'intera popolazione. Le Comuni popolari rurali, generalizzate con la decisione del 31 agosto 1958, vollero passare un po' troppo in fretta al comunismo: sei anni di duro lavoro per 10.000 anni di benessere" e ‟il comunismo è il paradiso; la Comune popolare è la scala per arrivarci", erano gli slogan dell'epoca!
Travolti, sconvolti nelle loro abitudini dalle mense gratuite, dove il riso era rapidamente sprecato; mobilitati giorno e notte nella costruzione delle grandi dighe nonché in quella dei piccoli altiforni di campagna (ai quali si dovette ben presto rinunciare), i contadini cinesi opposero questa volta forti resistenze ed il Partito dovette operare una prudente ritirata. Il tasso di investimento diminuì, i progetti di fabbriche multiple ed autarchiche non redditizie furono abbandonati, così come le mense gratuite e molto di frequente obbligatorie. Si ristabilì la norma socialista ‛a ciascuno secondo il suo lavoro', al posto del cibo gratuito, che segnava già una tappa verso lo stadio di ‛a ciascuno secondo i suoi bisogni'.
La decentralizzazione dava più autonomia alle brigate, che spesso erano le vecchie cooperative socialiste; e soprattutto alle squadre, le vecchie cooperative semisocialiste. Queste ultime ricevettero la proprietà dei mezzi indispensabili alla produzione agricola: la terra, il bestiame da tiro, l'attrezzatura ordinaria. Esse furono autorizzate a stipulare contratti per l'acquisto di concime ed altri inputs, e per la vendita dei loro prodotti allo Stato: in questo modo si assicurava l'esecuzione del piano, lasciando al tempo stesso che ogni squadra curasse l'organizzazione della sua piccola coltivazione. Le 24.000 Comuni popolari del 1958, raggruppanti allora 740.000 cooperative, sono oggi 74.000. Esse coordinano la produzione delle brigate e delle squadre, possiedono trattori, camion e officine semindustriali, magazzini cooperativi... La Comune dirige dunque l'essenziale dell'attività industriale, il commercio all'ingrosso, il credito - che consiste anche nel raccogliere il risparmio -, ma anche l'insegnamento, la sanità, la polizia, la milizia, e infine l'amministrazione. Non è più dunque soltanto un organismo di produzione, bensì dirige tutta la vita rurale, e non solamente l'agricoltura.
Seguono poi tre anni neri, in cui le calamità naturali associate alle resistenze dei contadini - è molto difficile dire se abbiano inciso più le une o più le altre - portano una terribile penuria, a volte quasi una carestia. Verso il 1962, a prezzo di duri sforzi, la Cina ha superato questa situazione; nella primavera del 1964, ho trovato laggiù un'alimentazione paragonabile a quella osservata ai tempi del mio studio dell'autunno del 1955. Nel 1970, Chou En-lai disse al suo amico E. Snow che la Cina avrebbe raccolto 240 milioni di tonnellate di alimenti di base, contro i 185 del 1957. Questo progresso del 30% appena, in 13 anni, sarebbe stato del tutto insufficiente, se la popolazione avesse continuato ad aumentare secondo il tasso approssimativo degli anni cinquanta, ossia circa del 2,3% l'anno.
Dal 1962 la Cina generalizza il controllo delle nascite, prefiggendosi un incremento demografico massimo dell'1% l'anno, dunque del 2% di natalità. Questo era infatti diventato un problema di indipendenza nazionale, poiché la Cina non può comprare, ogni anno, più dei 5 o 6 milioni di tonnellate di grano che importa dal 1961: anche se le sue esportazioni agricole superano di molto le sue importazioni alimentari.
Ecco dunque che l'agricoltura cinese ha largamente contribuito a liberare questo immenso paese dalle calamità che solo 25 anni fa gli sembravano congenite: siccità, inondazioni, carestie, miseria, malattie, analfabetismo, sporcizia, mendicità, prostituzione, furti... Ecco un popolo finalmente ben nutrito e ben curato, con le ineguaglianze sociali più ridotte del mondo, ma anche sottomesso ad una rigorosa disciplina politica, ad una sorprendente unità di pensiero, soprattutto per chi ha dimenticato le costrizioni sociali e morali della filosofia confuciana. Camminando sulle proprie gambe, modernizzando a poco a poco la propria industria, investendo il proprio lavoro nell'agricoltura, la Cina sa svilupparsi senza disoccupazione e senza aiuti esterni, contando solo sulle proprie forze.
In questo senso essa costituisce un esempio importante per il Terzo Mondo; ma il partito al potere, duramente forgiato da una lunga lotta senza pietà, non ha equivalenti al mondo. La grande avventura della ‛rivoluzione culturale' non avrebbe potuto essere tentata altrove e non sembra che abbia intaccato la produzione agricola. La self reliance può essere proposta ad esempio ovunque, come l'onestà e l'austerità dei dirigenti, cui non converrebbe, anche se lo volessero, imporre un'autorità troppo burocratica, se non troppo dogmatica, nell'atmosfera creata dalla rivoluzione della civiltà proletaria, correntemente chiamata ‛rivoluzione culturale'. Ma i vicini della Cina progrediscono più in fretta, in fatto di produzione...
Dopo un lungo passato di colonia spagnola, Cuba vive, in questo secolo, una delle prime esperienze neocoloniali, che inizia nell'euforia di una produzione di zucchero rapidamente cresciuta da i milione e mezzo a 4 milioni di tonnellate tra il 1900 e il 1921. Vi è in seguito una lunga stagnazione, e i 5,5 milioni di tonnellate del 1955-1958 corrispondono a importazioni accresciute e a una popolazione più che raddoppiata; rappresentano dunque una produzione pro capite molto minore. A partire dalla grande crisi del 1929-1933, Cuba conosce il più alto tasso di disoccupazione: circa la metà della sua popolazione attiva. Nel 1959, disoccupazione totale e stagionale infierivano, accompagnandosi ad una miseria rurale talvolta straziante.
In una tale situazione, si era instaurata una abominevole dittatura, che produsse l'opposizione quasi unanime della popolazione, quando degli arditi ribelli, appartenenti all'intellighenzia e non agli ambienti operai e contadini, dimostrarono la possibilità di abbatterla. Una volta al potere, i guerriglieri proposero una legge di riforma agraria essenzialmente riformista, che espropriava, dietro il pagamento di una indennità, solo quella parte delle proprietà più grandi che eccedeva i 400 ettari. Affidata all'armata ribelle, la riforma prese tuttavia molto rapidamente una piega rivoluzionaria: i latifondisti fuggirono, le indennità non furono versate. Le proprietà espropriate, chiamate cooperative, furono in realtà gestite sin dall'inizio da un organismo di Stato, l'Istituto Nazionale della Riforma Agraria, come imprese di Stato.
Dopo aver tentato per breve tempo, nel 1961-1962, una competizione fra le cooperative specializzate nella canna da zucchero e le granjas del pueblo (fattorie di Stato, chiamate fattorie del popolo), il gruppo dirigente, e soprattutto Fidel Castro, scelse la formula esclusiva della impresa di Stato - che, del resto, non aveva mai smesso di favorire - senza consultare i lavoratori, i principali interessati. Per riuscire, questa formula di gestione avrebbe richiesto da tutti un'altissima coscienza, sia professionale che rivoluzionaria. Ma la competenza fu ben presto scartata a vantaggio di chi sapeva proclamarsi rivoluzionario. Un tentativo di diversificazione eccessiva, teso alla quasi autarchia del paese, fallì rapidamente. Le nuove colture erano sconosciute, troppi tecnici se ne erano andati; giovani dirigenti improvvisati si rifiutavano di imparare dall'esperienza dei contadini, che troppo spesso disprezzavano.
Fidel Castro non teneva in alcun conto i rapporti degli esperti che aveva fatto venire e la stampa rifiutava di pubblicare la minima critica, fosse anche puramente tecnica. L'attacco dei mercenari della ‛baia dei Porci', ideato e sostenuto dalla stupidità politica dei dirigenti degli Stati Uniti, rinsaldò l'unità nazionale contro gli invasori, e spinse a far proclamare ufficialmente il passaggio al socialismo, nell'aprile del 1961. Tutte le grandi imprese passarono allora nelle mani dello Stato; ma ecco giungere al potere, anche qui, una burocrazia appartenente per la maggior parte alla piccola borghesia, che avrebbe molto da imparare dagli operai e dai contadini. Essa preferisce indottrinarli e irregimentarli, decidendo tutto senza tener conto dei competenti, adulando solo il lider máximo, il grande capo al quale le adulazioni cominciano a far girare la testa. Bisogna averla solida per resistervi!
Ecco dunque Fidel decidere tutto, con un Comitato Centrale del Partito Comunista scelto da lui, così come certi membri sono revocati da lui. Nel 1964 è deciso l'accordo sullo zucchero con l'Unione Sovietica, la quale comprende meglio dell'Europa occidentale che è suo interesse importare lo zucchero di canna; infatti le barbabietole dell'Ucraina sono molto mal coltivate. Contro il parere del ‛Che', della grande maggioranza dei suoi tecnici, della quasi unanimità dei consiglieri stranieri, Fidel fa allora la sconsiderata scommessa dei 10.000.000 di tonnellate di zucchero che egli si impegna, ‟sull'onore del suo popolo", a produrre nel 1970.
Nikita Chruščëv gli aveva promesso qualche migliaio di macchine automatiche per raccogliere la canna da zucchero, ma i prototipi sovietici sono inutilizzabili. 8.500.000 tonnellate potevano essere prodotte con investimenti modesti, ma per superare questa soglia bisognava creare tutto, e ciò costava troppo caro. Poiché le fattorie del popolo coltivavano spesso abbastanza male, furono sostituite a partire dal 1968 con planes immensi, organizzati secondo criteri militari. A partire dall'‛offensiva rivoluzionaria' del 13 marzo 1968 ogni attività privata è soppressa, anche il commercio ambulante è nazionalizzato; e gli stessi contadini, ai quali la rivoluzione aveva promesso l'usufrutto perpetuo nelle loro piccole proprietà, sono ‛integrati volontariamente' nei planes!
La zafra, il raccolto del 1970, benché fosse cominciata sin dal 14 luglio 1969, raggiunse solo gli 8,5 milioni di tonnellate che io avevo proposto, ma a un costo ben più elevato di quello necessario, dato che si erano realizzati investimenti in vista dei 10 milioni'. La media degli anni 1969 (4,3 milioni), 1970 (8,5 milioni) e 1971 (forse 5,8) certamente non supera i 6,2 milioni di tonnellate. Cuba investe a getto continuo in opere idrauliche e di irrigazione, in piantagioni di agrumi, di caffè e d'ananas... Ma molte piantagioni sono mal realizzate, le risaie non rendono che 3 tonnellate per ettaro, mentre le varietà filippine dovrebbero darne da 6 a 7. Questa enorme quantità di investimenti rende molto meno di quanto potrebbe, in gran parte per la presunzione di Fidel, che conosce tutto meglio di tutti ed in tutti i campi! Io ho visto ‛agonizzare' le canne ed i banani sulle argille nere ‛infernali' della bassa valle del Cauto, in un posto dove ognuno sa - e soprattutto lo sanno i contadini del luogo (e anch'io lo avevo detto per ben tre volte) - che non vi potranno mai essere che risaie o campi di foraggio. Ma il gruppo al potere non ascolta nè i contadini nè gli operai da cui avrebbe molto da imparare.
‟Non soltanto non c'è discussione democratica all'interno del Partito Comunista Cubano", mi disse nel luglio del 1969 uno dei suoi più alti dirigenti, pur non ignorando che preparo un libro severo per il regime, e ‟ma non c'è alcun meccanismo che permetta una tale discussione!" Fidel riconosce finalmente questa carenza di democrazia ed una parte dei suoi errori, nel suo drammatico discorso del 26 luglio 1970, che risveglia speranze di partecipazione, purtroppo ben presto deluse. Le recenti ‛leggi sulla pigrizia' si accompagnano ad una accentuazione della repressione poliziesca. Mobilitati come soldati, molti contadini ‛battono la fiacca'; e i militanti più impegnati ne hanno abbastanza di lavorare per gli altri. Sfuma dunque una speranza per il Terzo Mondo; del resto, sin dal 1965 Che Guevara preferì riprendere la via della guerriglia, perdendovi la vita, piuttosto che rimanere ministro di un regime di cui probabilmente non approvava la progressiva militarizzazione.
5. Alcuni esempi di socialismo africano e sudamericano
Il socialismo - per quanto riguarda l'agricoltura - non ha dunque, fino ad oggi, conseguito che modesti risultati; e ciò soprattutto in paesi già relativamente sviluppati come l'Unione Sovietica e Cuba, ai quali si potrebbero aggiungere le democrazie popolari dell'Est europeo. Peraltro nei paesi arretrati, dalla Corea del Nord al Vietnam del Nord, passando per l'immensa Cina, i risultati, benché inferiori a quelli di Formosa, sembrano migliori di quelli ottenuti in India. E ciò malgrado quest'ultima riceva importanti aiuti dall'estero, mentre la Cina, dopo aver completamente rimborsato l'URSS, anche delle ultime cartucce sparate nella guerra di Corea, ha aiutato persino paesi a volte più ricchi di lei, come Cuba ed il Ghana.
In Africa, noi esiteremmo a definire socialiste le esperienze senegalesi e tunisine, che abbiamo già descritto. Verso il 1958-1960 il Ghana, la Guinea ed il Mali hanno tentato tre esperimenti socialisti che, nell'insieme, si sono rivelati un fallimento. Una nazionalizzazione frettolosa, con una africanizzazione brutale, del commercio estero, realizzata per investirne gli utili, ha rapidamente trasformato questi utili in deficit. Nel Mali, Samir Amin sotto- linea e ‟il ristagno della produzione agricola, l'inefficienza del sistema burocratico per l'inquadramento dei contadini e delle cooperative, i progetti di prestigio realizzati a detrimento di quelli produttivi; l'aumento del 72% in 3 anni, 1959-1962, delle spese per l'ordinaria amministrazione
In Guinea, ‟un massiccio aiuto esterno, sia dei Paesi dell'Est che degli Stati Uniti e degli altri paesi occidentali, non ha permesso di raggiungere l'equilibrio della bilancia dei pagamenti [...] Dal 1968 l'interesse annuo del debito pubblico assorbe un terzo dei proventi delle esportazioni". L'insuccesso del Ghana è dovuto, in parte, al crollo dei prezzi del cacao, e al rifiuto dei consumatori occidentali di accettare l'organizzazione del suo mercato. Ma è dovuto anche alla moltiplicazione delle aziende di Stato burocratizzate, alla corruzione. In nessuno di questi tre paesi i contadini si sono sentiti coinvolti in uno sviluppo che si diceva fatto a loro vantaggio: ‟La burocrazia offriva lo spettacolo della corruzione e dell'aumento del proprio tenore di vita".
Dopo uno studio fatto nel corso della primavera e dell'estate del 1967, io ho sottolineato invece l'interesse dei tentativi di socialismo africano fatti nello Zambia e nella Tanzania. Con la dichiarazione d'Arusha, il 6 febbraio 1967, Nyerere cercava di suscitare l'entusiasmo delle masse contadine, orientandosi deliberatamente verso il socialismo, ma usando molta maggiore prudenza. È troppo presto per giudicare il successo o l'insuccesso di questi ‛esperimenti', ma era già possibile, a metà del 1971, sottolineare il loro inizio abbastanza buono. Nello Zambia, le miniere di rame vengono nazionalizzate progressivamente. Se Zanzibar sprofonda in un pericoloso totalitarismo, la Tanzania continentale vede alcune comunità contadine orientarsi spontaneamente verso soluzioni socialiste: i ‛villaggi Ujamaa', alcuni dei quali hanno perfino probabilità di successo. Essi tuttavia sono ben lungi dall'esser giunti alla fine delle loro fatiche.
La giunta militare peruviana ha realizzato una riforma agraria che ha radicalmente espropriato le grandi proprietà irrigue della costa settentrionale. Chiamate cooperative, esse sono gestite, nel momento in cui scrivo, dall'amministrazione, cosa che ne fa in realtà delle fattorie di Stato. Il rischio della burocratizzazione e con essa della inefficienza, se non della corruzione, è già presente. Non si potrà evitarlo che chiamando progressivamente i lavoratori a partecipare alla gestione.
Del tutto diversa è stata l'evoluzione politica e agraria del Cile, sotto l'impulso di Unidad Popular e del suo presidente Salvador Allende. Una prima, timida riforma, era stata iniziata dalla Democrazia Cristiana di Eduardo Frei, che mirava a consolidare un ceto medio contadino (che si sperava di veder votare ‛bene'), attraverso la spartizione di un certo numero di grandi proprietà. Il che lasciava però del tutto irrisolto il problema dei piccoli coltivatori diretti e dei braccianti, troppo spesso disoccupati e di gran lunga i più numerosi. J. Chonchol ha saputo organizzarli, incominciando al tempo stesso ad educarli. Riunendoli in cooperative si è facilitato il loro accesso ai mercati, fino allora troppo monopolizzati dalle grandi società, spesso legate ai grossi agricoltori privati.
Tutto il concetto di ‛riforma' agraria va ripensato, e, per prima cosa, si deve sapere se ci si vuole orientare verso il socialismo. Partendo dalla terra, una modernizzazione agricola (poiché questa è la meta) deve dunque ormai incidere anche su tutti gli altri mezzi di produzione, sul credito e sull'assistenza tecnica; deve creare un ente nazionale per i cereali, nonché altri enti controllati per il commercio. Inoltre deve organizzare la rappresentanza professionale dei contadini, in modo che esprimano essi stessi le loro rivendicazioni. Ciò non vuol dire che queste coincideranno sempre con l'interesse nazionale, nè che non sarà necessario discuterle. Ma è solo domandando ai contadini di riflettere sull'orientamento della politica agricola proposta che il potere li convincerà che sta lavorando nel loro interesse. Cosa di cui non tutti i kolchoziani sovietici e i lavoratori dei planes cubani sono persuasi.
6. Il caso di Ceylon
Rimane l'agricoltura dei paesi arretrati, ancora legati all'Occidente, e che viene orientata verso il commercio estero, verso l'aumento delle esportazioni - orientamento che finora ha aumentato soprattutto l'indebitamento e la disoccupazione. Sull'indebitamento - che, se si prolungasse, rischierebbe di raggiungere ben presto l'ammontare delle esportazioni - sarà pur necessario un giorno dare un colpo di spugna, e trasformare il maggior numero di crediti incerti in profitti e in perdite; e quanto prima ciò avverrà tanto meglio sarà, se si vuole sul serio guardare in faccia la realtà. Questo sarebbe il solo mezzo per dirigere, finalmente, un flusso reale di denaro verso i paesi poveri, e per porre fine al loro saccheggio. Resterà il problema della disoccupazione, che diventa sempre più angoscioso, soprattutto per i figli dei contadini poveri, una volta che essi abbiano compiuto gli studi.
Ceylon contava, nel 1971, 13 milioni di abitanti, dei quali circa un terzo (4.200.000) erano ‛potenzialmente' attivi. Di questi almeno un settimo (più di 600.000) erano completamente disoccupati, e c'era poi un numero pressoché uguale di sottoccupati, per la maggior parte giovani dai 15 ai 25 anni; 167.000 avevano un titolo di studio equivalente alla licenza liceale; più di 10.000 erano laurea- ti in lettere. Nel promemoria che scrissi all'inizio della tivolta, nell'aprile-maggio 1971, per il governo di Ceylon, dimostrai la possibilità di impiegare quasi tutti questi giovani in brevissimo tempo. In un solo distretto, quello di Kandy, mi appariva chiara la possibilità di costruire, con i mezzi già disponibili, più di un migliaio di piccoli bacini di irrigazione, capaci di far fronte alle brevi siccità che colpiscono talvolta le risaie. Ognuno di questi irrigherebbe dai 50 ai 100 acri, da 20 a 40 ettari, con una spesa che va dalle 150 alle 250 rupie per acro.
Le risaie da irrigare sono già coltivate intensamente due volte l'anno; per cui l'acqua così accumulata sarebbe utilizzata l'indomani stesso del giorno in cui la diga di terra fosse ultimata.
Sarebbe certo necessario formare dei topografi, costruire sul posto le livelle, prevedere officine che costruiscano pale, zappe, carriole, carrette. Utilizzando i trattori ed i camion già esistenti, le spese per le importazioni (per es. per l'acciaio degli attrezzi), non supererebbero certamente il 5%; Sarebbe invece possibile un aumento del raccolto da 150 a 260 rupie per acro (6 rupie fanno un dollaro al cambio ufficiale; ma bisognava darne 18 per dollaro, al mercato nero, nell'aprile 1971). Il coefficiente di capitale sarebbe dunque di circa 1 a 1. E queste spese fornirebbero lavoro a tutti, riassorbirebbero la disoccupazione. In attesa dei primi raccolti, il programma alimentare mondiale da una parte, e la Cina, che scambia il suo riso con la gomma di Ceylon, dall'altra, permetterebbero di nutrire i ragazzi dei cantieri. Una diminuzione limitata delle derrate farebbe salire i prezzi, cosa che indurrebbe a produrre di più.
Al contrario la Banca Mondiale finanzierà il gigantesco progetto del Mahaweli Ganga, il grande fiume dell'isola, certamente capace di migliorare l'irrigazione di 300.000 acri e di irrigarne altri 600.000 che non sono ancora valorizzati; ma il coefficiente di capitale per le grandi reti già costruite è di circa 12 a 1, ossia 12 volte più elevato di quello per le piccole dighe. E dopo 12 anni non si arriva ancora, l'esperienza lo ha dimostrato, al pieno impiego di quest'acqua. Inoltre, poiché essa viene fornita gratuitamente, i coltivatori ne utilizzano tre volte più del necessano; cosa che non avverrebbe con i piccoli laghi collinari da noi proposti, gestiti dalle collettività locali; lo spreco deruberebbe infatti il vicino, persona ben conosciuta, e non lo Stato, entità difficile da individuare. La parte degli investimenti stranieri nella impresa del Mahaweli Ganga ammonterà al 38%. L'offerta di impiego per gli indigeni sarà però molto minore, giacché si lavorerà con grosse attrezzature importate dall'estero. Si permetterà così alle imprese straniere di trarre notevoli profitti, ma l'indipendenza alimentare del paese ne risulterà molto ritardata.
Tuttavia è questo il progetto che tutte le forze in gioco sostengono, Banca e Governo, establishment locale e partiti detti di sinistra. È vero che dare la priorità ai molteplici piccoli lavori ‛alla cinese' richiederebbe una mobilitazione del risparmio interno, quindi più tasse sui ricchi, e riduzione dei vantaggi per la minoranza privilegiata. Inoltre sarebbe necessario convincere i giovani ribelli ad occuparsi direttamente del risanamento della loro economia, a contribuire con il loro sudore, con la pala e col piccone, con la zappa e con la sarchiatrice, all'indipendenza economica nazionale, fino al giorno in cui essi stessi saranno in grado di costruire le loro macchine automatiche, per la coltivazione.
Per una politica più indipendente, 8.000 giovani non hanno avuto paura di sacrificare la propria vita durante la ribellione dell'aprile-maggio 1971. I loro compagni accetteranno ora l'eroismo quotidiano del duro lavoro manuale? Sarà necessaria una mobilitazione politica molto forte, una specie di ‛rivoluzione culturale'. Sin dalla scuola primaria, il sistema metà lavoro - metà studio, dovrebbe insegnare ai giovani il rispetto per il lavoro manuale, che le attuali strutture socio-culturali portano invece a disprezzare. Nessuno studente dovrebbe essere ammesso all'università senza aver compiuto 2 anni di lavoro: il primo come contadino od operaio, il secondo come tecnico-assistente o educatore. Ma tutto ciò è più facile a scriversi che a realizzarsi: occorrerebbe, infatti, un'atmosfera politica totalmente rinnovata.
7. Le responsabilità dell'Occidente
Rimangono le responsabilità più pesanti, le nostre, quelle dei paesi ricchi. Noi abbiamo in mano tutti i mezzi per permettere un più rapido decollo dell'agricoltura dei paesi arretrati: conoscenze, educatori e tecnici, da una parte; possibilità di produzione massiccia di concimi e di materiali, di officine e di attrezzature, dall'altra. Inoltre sarebbe necessario che gli agronomi e gli specialisti di economia agraria inviati in questi paesi approfondissero maggiormente le loro ricerche per adattare le tecniche moderne alle migliaia di microambienti locali, che richiedono spesso soluzioni diversificate; e che queste ultime fossero anche meglio adeguate al livello di istruzione e alle risorse disponibili. Infine, bisognerebbe impegnarsi ad elevare più velocemente il livello di istruzione e ad accrescere più rapidamente le risorse.
Finora la scuola dei paesi tropicali ha soprattutto ‛deruralizzato' i figli dei contadini, conducendoli talvolta fino alle bidonvilles, alle favellas di Récife e di Rio o ai marcia- piedi di Bombay. Essa li ha troppo spesso distolti dall'agricoltura, in cui le prospettive di promozione sociale erano di gran lunga minori che altrove. È comunque necessario accrescere le conoscenze dei futuri agricoltori. La generalizzazione della ‛rivoluzione verde' esige contadini che conoscano perfettamente le funzioni, le qualità e i periodi ottimali per l'applicazione dei concimi; che sappiano dosare le soluzioni dei pesticidi o degli erbicidi; che sappiano insomma soppesare, calcolare, regolare... È inoltre necessario che essi siano in grado di controllare i dirigenti delle loro cooperative, ed anche di apprezzare l'opportunità economica di certe proposte dei tecnici venuti dai paesi ricchi, ma non sempre capaci di offrire soluzioni adeguate.
È assolutamente inammissibile che il numero degli analfabeti continui a crescere in valore assoluto. Il giovane contadino dei tropici, che ha dai 12 ai 15 anni, e che non è andato a scuola, non ha alcuna speranza - a causa della mancanza di istruzione - di fare una carriera non agricola. È condannato ad essere contadino per tutta la vita. Noi dobbiamo spalancargli le finestre della conoscenza del mondo esterno. Di qui l'importanza degli sforzi per l'alfabetizzazione funzionale, che cerca di insegnare contemporaneamente, nel dialetto locale, a leggere, scrivere, fare di conto, e al tempo stesso cerca di dare i rudimenti del mestiere di contadino o di artigiano, di pescatore o di meccanico. Per la formazione professionale, è necessario mobilitare gli educatori, i tecnici, in numero sufficiente per prendersi presto cura di tutti i giovani contadini del mondo desiderosi di istruirsi. Nel Mali, questi ultimi costruiscono le loro scuole, e i villaggi forniscono educatori generosi, che non hanno altra remunerazione che il prestigio: quale lezione per noi, mentre ogni impegno si affievolisce nei paesi imborghesiti!
Ma bisogna fornire lampade, quaderni, penne, lavagne, ecc.; e soprattutto mettere a punto i programmi di insegnamento, in ogni lingua e per ogni mestiere: il che non è lavoro da poco, e richiede la collaborazione di numerosi specialisti. Bisogna poi creare per ogni lingua una biblioteca adeguata: dai giornali ai manuali tecnici, ai racconti popolari: tutta una letteratura per evitare un rapido analfabetismo di ritorno. Logica conseguenza sarebbe la moltiplicazione, utilizzando i contadini così formati, del numero dei quadri di base, dei consiglieri agricoli che, provenendo appunto dall'ambiente contadino, saprebbero parlargli ed essergli più vicini che se avessero lungamente studiato in città. Per formarli in loco occorrerebbero evidentemente tecnici superiori e agronomi che abbiano anch'essi lavorato come contadini...
Fornire l'attrezzatura necessaria per l'industrializzazione di questi paesi costituisce il secondo pilastro della modernizzazione agricola, che passa, appunto, attraverso l'industria. Invece di vendere loro del materiale, occorre aiutarli a fabbricarlo sul posto. Se gli artigiani dei villaggi possono costruire gli attrezzi per la coltivazione con animali da tiro a minor prezzo della grande fabbrica dei sobborghi di Dakar, bisogna aiutare gli artigiani.
I fondi pubblici dei paesi ricchi devono contribuire alle industrie a monte e a valle dell'agricoltura. Concimi e materiale agricolo, e poi pesticidi ed erbicidi, non possono essere importati dai paesi ricchi nelle quantità massicce e sempre crescenti che saranno necessarie. Lo sviluppo agricolo esige che siano prodotti in loco. Inoltre, questi paesi arretrati non possono continuare a fornirci le balle di cotone o il legname grezzo; essi dovranno darci tessuti, mobili, carta, caffè solubile...
Crimine dei crimini: la maggioranza dei bambini di questi paesi non riceve la razione di proteine indispensabile al pieno sviluppo del loro cervello. Noi stiamo producendo intere generazioni di uomini incompleti. Dobbiamo mirare ad un'umanità felice; ma dobbiamo tenere presente che questo obiettivo è incompatibile con una popolazione troppo numerosa.
Il nostro primo compito è dunque quello di costruire per tappe una razionale organizzazione dell'economia internazionale, capace di aiutare lo sviluppo di tutte le agricolture. Se quelle dei paesi ricchi vengono sostenute, poiché non sono in grado di affrontare i prezzi mondiali, ciò dovrebbe valere ancora di più per le comunità contadine più povere, che noi abbandoniamo invero non alle loro forze, bensì al libero gioco delle leggi economiche, che conduce fatalmente al loro sfruttamento, al loro soggiogamento. Un maggiore aiuto, che giungesse all'1% del nostro prodotto lordo, costituirebbe già un progresso, ma non sarebbe sufficiente, finché il flusso netto del denaro fresco andrà dal povero al ricco.
Più importante sarebbe l'organizzazione dei mercati delle materie prime, e quello del caffè è spesso citato come esempio. Ma in esso si difendono i prezzi riducendo la produzione, mentre occorrerebbe difenderli lasciando a questa la sua necessaria espansione. Tutto ciò ci mostra la complessità dei problemi che porrà, ai nostri nipoti, l'agricoltura del XXI secolo. Ad ogni generazione le proprie difficoltà, altrimenti la vita perderebbe molte delle sue attrattive.
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