AGRICOLTURA (I, p. 955)
L'agricoltura italiana (I, p. 960). - Presenta una complessità di aspetti che non ha uguali in altri paesi, anche dotati di estensioni territoriali molto vaste, e ciò per l'ampiezza della latitudine (37°-47°), lo sviluppo costiero, la diversa altitudine e le svariate condizioni che derivano dalla coesistenza di questi fattori. Essa assume caratteri molto differenti col variare delle regioni geografiche, ma, prescindendo da queste, varia non solo nei limiti di una circoscrizione provinciale, ma pure entro i confini di una stessa azienda, anche se di modesta estensione.
I dati del Catasto agrario del 1929 relativi alla superficie agraria, (Tab. 1) servono a prospettare i caratteri salienti dell'agricoltura italiana e le strette relazioni che essa ha con l'economia agraria delle diverse regioni, la quale è prevalentemente legata alla coltivazione dei terreni posti in zone di montagna e di collina, dove le difficoltà sono maggiori e le rese più limitate.
Attraverso importanti trasformazioni fondiarie si è realizzata nell'ultimo ventennio una maggiore intensificazione colturale, ma lo spostamento di poche decine di migliaia di ettari - che è avvenuto specialmente nei prati stabili e nei pascoli - verso sistemi di coltivazione più intensivi, non ha modificato gli aspetti tipici dell'agricoltura italiana, i quali mettono in rilievo quanto sia difficile sperare in questo vitale settore dell'economia nazionale, ove operano con intraprendenza e tenacia milioni di agricoltori.
La situazione delle principali colture, in superficie occupata, produzione complessiva e resa, risulta dalla tabella 2; da essa, anche ammettendo che le rilevazioni post-belliche siano inferiori alla realtà, appare evidente come l'agricoltura italiana sia uscita prostrata dal secondo conflitto mondiale e la necessità di una ripresa, che è del resto già in atto.
Un importante fattore del progresso agrario è costituito dal patrimonio zootecnico (tab. 3), che però è ancora molto scarso nell'Italia meridionale e insulare, soprattutto a causa della lunga siccità estiva che impedisce una normale e ben distribuita produzione foraggera.
Anch'esso ha subìto una notevole riduzione durante la guerra, e di ciò è indice significativo la caduta delle cifre relative al 1945, ma va in buona parte rapidamente ricostituendosi, come risulta dalle posizioni raggiunte nel 1947 (interessa in modo particolare l'aumento del bestiame bovino, che corrisponde ad una maggiore intensità colturale) e non mancherà di contribuire efficacemente al progresso dell'agricoltura nazionale.
Nel ventennio di governo fascista l'agricoltura italiana ha mirato anzitutto a risolvere l'assillante problema di assicurare il grano necessario alla popolazione. Problema non nuovo, ma impostato come il più grave ed importante. Parve, infatti, suprema necessità che una nazione che si avviava rapidamente verso i 46 milioni di abitanti cercasse di evitare o, almeno, di ridurre al minimo l'importazione di quanto era indispensabile alla propria alimentazione, sia per ovvie ragioni finanziarie e di valuta, sia per non rendersi schiava, come allora si diceva, dei paesi dai quali si dovevano attingere i quantitativi di grano mancanti. Problema urgente, dacché apparve più chiaro, e di anno in anno progrediente, lo squilibrio fra l'incremento della popolazione e l'aumento della produzione granaria.
Mentre, infatti, la popolazione era passata da 25.017.000 ab. al 31 dicembre 1861 a poco meno di 44.500.000 nel 1939, con un accrescimento medio annuo che da 300.000 saliva e si stabilizzava intorno a 400.000, la produzione del grano da una media di 40.718.000 q. nel 1870-71, toccava appena 44.000.000 q. nel 1916-20 e raggiungeva la media di 60.700.000 q. nel 1926-30. Cioè, mentre la popolazione cresceva del 43,80%, la produzione granaria aumentava di appena il 32,95%; sicché la disponibilità media di grano per abitante tendeva a declinare, e da 179 kg. nel 1922 passava a 151 kg. nel 1935.
Per ridurre al minimo lo sbilancio alimentare, nel 1925 veniva proclamata la "battaglia del grano" (v. XIX, p. 748 e App. I, p. 688), primo segno della politica autarchica, che fu condotta con intensa azione di propaganda e sostenuta da numerose misure governative intese ad incoraggiare il perfezionamento dei metodi colturali, a sostenere i prezzi alla produzione, a ostacolare la concorrenza dei grani esteri. Qualunque sia il giudizio che si può formulare dal punto di vista economico su questa politica, si deve riconoscere che essa portò all'accrescimento della produzione.
Di grande giovamento fu l'aumentato impiego dei concimi chimici, che, insignificante nel 1913 e rimasto stazionario nel quindicennio seguente, toccò alti vertici nel triennio 1936-38: il solfato d'ammonio da q. 350.000 nel 1913 salì a q. 2.013.396 annui nel 1936-38; la calciocianamide da q. 150.000 salì a q. 2.328.817; il nitrato di calcio da q. 7000 a q.1.186.355. Fu fatta più larga adozione di trattrici agricole e di motoaratrici su terre fino allora superficialmente coltivate o che da secoli non avevano sentito la punta del vomere; e furono introdotte trebbiatrici e mietitrebbie. Giovò la sperimentazione agraria, dagli studi di genetica e dall'incrocio dei semi, ai trapianti tentati dal Semerano, alla selezione delle sementi studiate dallo Strampelli, dal Todaro e altri; i migliorati procedimenti delle semine; le razionali colture. Giovò pure la legge sulla bonifica integrale (v. bonifica, VII, p. 413 e App. I, p. 195).
Per effetto di tale impulso, la produzione del grano salì alla media annuale di 70.700.000 q. nel 1931-35, e a circa 80 milioni di q. nel 1936-40; toccando nel 1938, ultimo anno di produzione normale avanti la guerra, 81.838.340 quintali. La disponibilità media per abitante, pur restando al disotto dei kg. 179 del 1922, raggiungeva i 174 kg. nel 1938. Ovviamente, in corrispondenza all'accresciuta produzione granaria nazionale, diminuiva l'importazione di frumento estero: dalla punta di q. 27.887.400 nel 1923, a 19.351.000 q. nel 1930, e soli 2.505.000 q. nel 1938.
L'agricoltura italiana si andava pure gradatamente industrializzando, assorbiva cioè maggior capitale; questo, in ambiente più appropriato, aumentava il reddito e limitava i rischi inerenti alle avversità della natura. Verso quella meta di benessere e di più larga produzione il regime fascista intese mobilitare tutte le forze della nazione, ma quel tanto di buono che era nell'iniziativa venne inficiato dall'intento politico di essa, e ciò fu sufficiente per alterarne il corso e i risultati. Fu male, per es., che l'aumento della produzione granaria fosse ottenuto, negli ultimi anni, a spese soprattutto del pascolo. La crociata bandita contro la pastorizia diminuì notevolmente le risorse da essa fornite, quali i formaggi, la lana, le carni. I dissodamenti rapidi e gli appoderamenti del Grossetano, della Maremma toscana e dell'Agro romano ridussero l'allevamento dei cavalli e dei buoi maremmani. A spese della pastorizia, più che a miglioramenti tecnici delle colture, fu dovuto soprattutto l'incremento nella produzione delle patate (da 15 milioni di q. nel 1922 a circa 30 milioni nel 1938). L'estensione della coltura granaria fu fatta anche a detrimento di quella d'altri cereali, per es., del granoturco, dell'avena e dell'orzo. Si contraevano pure vigneti ed oliveti; stazionarie restavano le coltivazioni della canapa e del lino.
Alla esecuzione delle opere pubbliche che costituiscono il primo piano dell'edificio agrario, non sempre fecero poi seguito gli altri due piani, e cioè il miglioramento fondiario e la trasformazione delle colture. Né dovunque fu combattuta la malaria, estesa tuttora a 6 milioni di ha. nel Mezzogiorno e ad oltre duemila centri abitati. Rallentarono il progresso agrario la tenace resistenza di antichi ordinamenti agrarî e fondiarî; l'estrema modestia di redditi e, quindi, di rispammi; la lenta formazione di capitali; la difficilissima situazione delle operazioni di credito; infine, ed in larga parte del paese, il mancato apporto di capitali formatisi in attività non agricole. Aggravò la situazione l'invalso principio dell'autarchia, che era esattamente l'opposto di quanto richiedevano le condizioni geografiche, economiche e sociali del paese. Riguardata come mezzo per fronteggiare l'eventualità della guerra, essa ebbe come conseguenza immediata di aumentare il costo della vita. L'aumento dei prezzi si ebbe non solo nei prodotti industriali, fra cui i concimi, ma anche e soprattutto per i cereali, il cui prezzo fu tenuto artificialmente alto con dazî protettivi, ogni anno crescenti.
Nel 1935-38, quando più rigorosamente furono applicati i principî della politica autarchica, l'indice dei prezzi del grano all'interno aumentava da 104 a 143, mentre sul mercato internazionale diminuiva da 106 a 79; quello del granoturco cresceva all'interno da 75 a 88, mentre diminuiva da 81 a 54 sul mercato internazionale; lo zucchero, che all'interno cresceva da 609 a 638, diminuiva all'estero da 233 a 203; e per i concimi: l'indice dei prezzi del perfosfato saliva sul mercato interno da 20,54 a 29,10 mentre scendeva all'estero da 3,20 a 1,85; quello del solfato ammonico passava all'interno da 74 a 87, mentre scendeva sul mercato internazionale da 65 a 45. E siccome nel settore agrario e pastorale l'aumento dei detti prezzi non si associò a un proporzionale aumento di redditi, si ebbe in conseguenza la diminuzione dei consumi. Come risulta dagli indici medî dei consumi per abitante dal 1922-29 al 1930-38:
Una delle più gravi manifestazioni della contrazione dei consumi fu l'aggravarsi della mortalità dei bambini, che, nonostante la propaganda e le misure per la difesa della razza, segnò cifre impressionanti: 106 bimbi su mille, morti al disotto di un anno di età (in Germania 60, Danimarca 59, Regno Unito 55, Svezia 42, Norvegia 37). Altre conseguenze: la limitazione degli allevamenti di pollame e suini, a causa dell'alto prezzo del granoturco, in un momento in cui altre nazioni provvedevano ad aumentarli e migliorarli; il prezzo politico del grano che indusse i coltivatori a seminarlo su terre inadatte proprio mentre tecnici ed economisti agrarî suggerivano di restringerne le coltivazione alle sole terre naturalmente più adatte se si volevano raggiungere più alte rese unitarie: nel 1934-38 la superficie destinata al grano (salita da 4.470.000 ha. nel 1909-13 a 4.880.000 nel 1927-30) aveva raggiunto i 5.060.000 ha. e rappresentava il 68,2% delle terre a coltura cerealica (7.400.000 ha.), percentuale assai superiore alla media dell'Europa (34,9%) e alla testa di tutti gli altri paesi europei.
All'inizio delle ostilità, anche in Italia, come in altri paesi belligeranti, le autorità governative non mancarono di preoccuparsi del mantenimento e, per quanto possibile, dello sviluppo della produzione agricola. Ma, in pratica, i piuttosto timidi piani di produzione e le varie misure di disciplina dei mercati che continuamente si escogitavano non potevano mai essere effettivamente e completamente applicati.
D'altronde, le colture avevano di già raggiunto precedentemente, e forse anche sorpassato in più casi, il limite massimo d'estensione consentito dalle condizioni naturali del paese, sicché ben poco margine restava per un aumento delle superfici coltivate. Quanto all'intensificazione delle coltivazioni e all'aumento della produzione mediante rese unitarie più elevate era dubbio che, nelle circostanze create dalla guerra, si potessero ottenere miglioramenti. Piuttosto era da pensare che sarebbe stato difficile, come fu, mantenere le rese ottenute negli ultimi anni.
Infatti, l'aumento di esse, sia per i cereali che per le altre colture rientranti nell'avvicendamento, era strettamente connesso ai perfezionamenti ottenuti mediante la selezione e l'ibridazione delle sementi del grano ed alla sempre più larga diffusione delle varietà particolarmente adatte alle condizioni locali. Nel 1933 i semi selezionati erano impiegati sul 57% dell'area totale coltivata a grano, nel 1934 sul 62% e certo questo progresso era continuato fino alla vigilia del conflitto. Ora, l'adozione delle sementi selezionate richiedeva cure colturali più accurate che nel passato ed un sempre più abbondante uso di concimi chimici: requisiti che, con la guerra, non potevano inevitabilmente esser mantenuti.
Un sistema di coscrizione e di richiami alle armi negativo per i bisogni dell'agricoltura, nonché l'allettamento del lavoro meglio retribuito, nelle fabbriche determinarono una riduzione della manodopera agricola di circa il 20%. Né c'era una riserva di forza di lavoro, costituita per es. da donne, ragazzi ed anziani, che potesse sostituire quella degli uomini validi assenti. In parecchie località i bombardamenti aerei, lo stato di tensione dovuto ai rischi di guerra, l'incertezza sullo sviluppo degli avvenimenti militari, contribuirono a provocare un rilasciamento nei lavori dei campi. Le disponibilità di fertilizzanti scemarono progressivamente, sia per la difficoltà prima, e l'impossibilità più tardi, d'importarne, sia perché gran parte delle fabbriche di concimi azotati erano impegnate nella produzione d'esplosivi. Già nel 1942 la quantità di concimi fosfatici e azotati distribuiti per il consumo era fortemente diminuita, né l'aumento delle importazioni di sali potassici dalla Germania poteva compensarne l'insufficienza.
Questi fattori sfavorevoli non impedirono di mantenere l'estensione dei seminativi al livello prebellico, ma determinarono un abbassamento generale ed assai sensibile delle rese unitarie e, quindi, delle produzioni. Sicché, nel 1942, per l'insieme dei cereali, patate, piante industriali e foraggere temporanee si ebbe una produzione inferiore di circa il 13% alla media del 1935-39. Una forte diminuzione subì anche la produzione di fieno dei pascoli permanenti, che fu di 58 milioni di q. contro 78 milioni della media.
L'intensificazione delle operazioni belliche, soprattutto dopo il luglio 1943, quando l'Italia divenne un attivo teatro di guerra, contribuì sia direttamente con la distruzione (o l'asportazione forzata da parte dei Tedeschi) di colture, bestiame, macchine e attrezzi agricoli, fabbricati rurali, mezzi di trasporto, ecc., sia indirettamente, agendo sulle possibilità di lavoro dei coltivatori, a recare gravi danni all'agricoltura.
Secondo il Ministero dell'agricoltura questi danni, riferiti al 30 giugno 1945, ammontano a circa 318 miliardi di lire. Di essi: 170 riguardano il capitale fondiario e d'esercizio dei privati, 60 miliardi i boschi demaniali, 275 milioni i prodotti ammassati, 4 miliardi gli immobili e le attrezzature dei consorzî di bonifica, 83 miliardi le requisizioni varie e le perdite di prodotti durante i venti mesi successivi alla fine della guerra. I compartimenti più colpiti nel patrimonio privato degli agricoltori furono: l'Emilia con 65 miliardi (provincie di Bologna, Forlì, Ravenna), il Lazio con 25,3 miliardi (Frosinone, Latina, Roma), la Toscana con 21,4 miliardi (Firenze, Arezzo, Pisa) e poi il Veneto, l'Abruzzo, le Marche, la Campania e la Sicilia. L'ammontare dei danni per grandi ripartizioni geografiche precisa che il 52% di essi spetta all'Italia settentrionale (88,4 miliardi), il 34,2% all'Italia centrale (58,1 miliardi) e il 13,8% all'Italia meridionale e insulare (23,5 miliardi).
I danni arrecati alla proprietà privata hanno la seguente composizione: terreni e arborature 31,4 miliardi; immobili ed impianti 71,1; scorte e derrate 15,2; patrimonio zootecnico 45,0; varî 7,6.
Furono variamente danneggiati circa 690.000 ha. di seminativi, 85.000 ha. di prati e pascoli, 67.000 ha. di boschi e castagneti. Particolarmente rilevanti furono le distruzioni delle coltivazioni legnose: 57 milioni di viti, 5 milioni di oliveti, 4,5 milioni di piante da frutto; mentre il patrimonio zootecnico perdette 600.000 bovini, 142.000 equini, 1 milione di ovini e caprini, 388.000 suini e più di 8 milioni di capi di bassa corte.
La riparazione dei danni nell'Italia meridionale e centrale cominciò mentre ancora la battaglia continuava al nord, cosicché fin dall'autunno 1945 l'intero Agro Pontino, che i Tedeschi avevano di nuovo ridotto a palude, tornava ad esser messo in produzione. Alcuni mesi dopo la fine della campagna nel nord, altre terre allagate erano prosciugate e le mine rimosse da molti campi.
I cospicui danni subiti non indicano, tuttavia, i più serî effetti che la guerra ha avuto sull'agricoltura. Essi consistono soprattutto nella diminuita efficienza di fattori produttivi quali il restringersi delle aree coltivate e ancor più il declino della fertilità del suolo causato dalla mancata conveniente concimazione e di cui si risentiranno le conseguenze ancora per lungo tempo.
La ricostruzione agricola, pur fortemente ostacolata anche dalla natura con la siccità del 1946, dalle difficoltà economiche e tecniche, dalla instabilità politica dell'immediato dopoguerra, ebbe un inizio confortante. Di grande utilità furono gli aiuti ricevuti attraverso l'AMG, l'UNRRA, ecc. (sementi, fertilizzanti, insetticidi, macchine agricole) e già nel 1947 la capacità produttiva dell'agricoltura era riattivata di circa il 90% rispetto al periodo prebellico.
Problema immediato è quello di provvedere, mediante la più grande produzione possibile, ai bisogni alimentari della nazione. A ciò mira il piano governativo studiato nel quadro dell'ERP: riportare entro il 1952 la cerealicoltura al livello di anteguerra; sviluppare le colture agricole mediterranee per l'esportazione (frutta, ortaggi, ecc.); aumentare di molto la produzione di zucchero, patate, olî e grassi; incoraggiare l'allevamento del bestiame e la formazione d'una solida economia agraria basata anche sulla produzione animale. Ma bisognerà altresì soddisfare finalmente la "fame di terra" del contadino italiano. Problema questo che implica la riforma agraria, che divenne acuto nel periodo d'emergenza subito dopo la guerra che può essere ancora dilazionato per breve tempo, di fronte ad altri problemi più urgenti, ma che dovrà essere risolto affinché il paese possa raggiungere la stabilità economica e sociale.
Dal censimento del 1936 risulta che la popolazione addetta all'agricoltura ammonta a 8.736.064 ab. e di questi i contadini maschi di età superiore a 10 anni erano 6.528.531, cioè il 47,7% del totale della popolazione maschile attiva. I prestatori d'opera (salariati fissi e braccianti), costituivano circa il 28% del totale maschile; gli affittuari di terreni altrui rappresentavano il 18,4%, i coloni parziarî (mezzadri in massima parte) il 20% e i piccoli proprietarî il 33% circa. Queste cifre, dànno un'idea abbastanza chiara della situazione italiana, in cui più di un quinto della popolazione agricola maschile superiore ai 10 anni è composta di braccianti (21,6%), ai quali non arride nessuna sicurezza di vita, estranei come sono ad uno stabile rapporto contrattuale che li leghi alla terra che essi lavorano.
Bibl.: A. Serpieri, l'agricoltura nell'economia della nazione, Firenze 1940; V. Dore, L'agriculture italienne pendant la guerre, in Bull. mens. de statistique agricole et commerciale, (I. I. A.), n. 1-2, 1945; Ministero della costituente, Rapporto della commissione economica: Agricoltura, Roma 1947, 2 voll.; A. Canaletti Gaudenti, Caratteristiche strutturali dell'agricoltura italiana, in Annali di statistica, I, 1947; U. Ruffolo, The outlook for Italian Agriculture (I. I. A.), Roma 1947; G. Medici, L'agricoltura e la riforma agraria, Milano 1947; Ist. centr. di Statistica, Annuario statistico dell'agricoltura italiana, 1939-42, Roma, 1948; id., Compendio statistico italiano 1947-48, Roma 1948.
Istituto internazionale d'agricoltura (I, p. 975).
La formazione di blocchi antagonisti di potenze in dipendenza della guerra 1939-45, e specialmente la partecipazione dell'Italia al conflitto, posero l'Istituto in una situazione delicatissima alla quale si cercò di ovviare soprattutto traendo ogni possibile profitto dalle garanzie diplomatiche derivanti dalla Convenzione del 1905. Non mancarono i contrasti con le autorità, come quelli sorti nel 1938 per la protezione del personale israelita di fronte alle leggi razziali, le pressioni fatte dalle autorità tedesche di occupazione (settembre 1943-maggio 1944) allo scopo di far trasferire l'Istituto nell'Italia settentrionale. L'Istituto riuscì, ciononostante, a mantenere la sua posizione di indipendenza e neutralità, non solo, ma finché le comunicazioni lo permisero, cioè fino all'autunno 1943, continuò a mantenere rapporti con gli altri organismi internazionali: Società delle Nazioni, Ufficio internazionale del Lavoro, Centro internazionale di Silvicoltura. Malgrado le crescenti difficoltà finanziarie e il personale ridotto, fu mantenuto ed elevato il livello scientifico delle pubblicazioni aggiungendo alle antiche il Bulletin international de droit agricole e preparando una serie di studî sui problemi della ricostruzione agricola nel dopoguerra.
Nel maggio 1943 le Nazioni Unite avevano fondato la FAO (v. in questa App.), organismo dai compiti più vasti al quale aderirono molti degli stati membri dell'Istituto. Nel marzo 1946, su proposta di questi stati, il primo Comitato permanente riunitosi dopo la guerra approvò il Protocollo di assorbimento dell'Istituto nella FAO. Tale assorbimento ebbe inizio dal 1° agosto successivo, allorché nella sede di Roma si stabilì l'Ufficio temporaneo in Europa della FAO, e compimento il 28 febbraio 1948. Fra le ultime pubblicazioni che figurano curate dall'Istituto, con la partecipazione, della FAO, è l'Annuaire international de statistique agricole, 1941-42 à 1945-46 (3 voll., Roma 1947).