Poeta (Tursi 1916 - Roma 1995). Il tursitano di P. non ha nulla a che vedere con i fenomeni folclorici o spontanei: vi si avvertono spesso la sorvegliata operazione filologica e lo studio del poeta, convinto della maggiore aderenza e profondità del dialetto. Il vero centro della poesia pierriana, che spesso persegue un linguaggio teso tra forti asprezze e toni lievissimi, non è riscontrabile tanto nella rievocazione di un microcosmo socio-antropologico, al quale pure l'autore è sentimentalmente legato, quanto nella tenace ricerca della parola dialettale, intesa essa stessa come strumento di ricordo e di significato. Infatti in P. si nota sì la componente corale, ma ancor di più quella monodica: la lirica dell'angoscia privata e della ricerca interiore. In questa dimensione, la sua poesia, capace di alternare le più intense accensioni amorose e il pianto accorato, si confronta con l'universale condizione d'abbandono e d'indifferenza e l'ostilità della società e del mondo, affermandosi come una delle più alte del Novecento.
Trasferitosi a Roma nel 1939, insegnò storia e filosofia nei licei. L'iniziale produzione poetica in lingua (Liriche, 1946; Mia madre passava, 1955; Il transito del vento, 1957; Agavi e sassi, 1960), antologizzata nel 1967 (Appuntamento) dallo stesso poeta, che non l'ha mai intesa come un'esperienza minore, già introduceva con esiti persuasivi l'orizzonte tematico e il mito personale che sarebbero stati poi al centro della sua poesia in tursitano. Nel dialetto natio, ma senza nulla concedere al folclorismo, P. trovò un mezzo espressivo più idoneo a rappresentare con immediata evidenza un'interiorità attingibile quasi solo attraverso il sogno e il ricordo. Tra le raccolte di questa seconda fase, per lo più pubblicate con versione italiana dello stesso autore: 'A terra d'u ricorde (1960), Metaponte (1963), I 'nnammurète (1963), poi confluite in Metaponto (1966); Nd'u piccicarelle di Turse («Nel precipizio di Tursi», 1967); Eccó 'a morte? («Perché la morte?», 1969); Famme dorme (1971); Curtelle a lu sóue («Coltelli al sole», 1973); Nu belle fatte («Una bella storia», in Almanacco dello Specchio, 1975); Com'agghi' 'a fè? («Come debbo fare?», 1977); Si pó' nu jurne («Se poi un giorno», 1983). In Non c'è pizze di munne («Non c'è angolo della terra», 1992), la sua ultima raccolta, rielaborò i temi del lutto in una dimensione quotidiana, dove riaffiorano antiche ossessioni in un dialogo, anche amoroso e dai tratti stilnovistici, con la figura assente. Si affermò per questa via, nella scrittura lirica di P., una nuova forma di epica personale destinata a dar voce e spessore a figure minime, marginali, come piccoli oggetti e animali domestici.