Alimentazione
L'alimentazione comprende tutto l'insieme dei momenti e dei processi che, tramite il procacciamento e l'uso di generi di origine animale e vegetale, forniscono agli organismi viventi l'energia e i costituenti chimici (nutrienti) necessari per il loro mantenimento e sviluppo. Per ogni essere vivente il dilemma alimentare consiste, infatti, nella difficoltà di soddisfare un bisogno permanente e imprescindibile di energia e di principi nutritivi semplici, mediante sostanze alimentari complesse. L'attitudine a consumare simultaneamente cibi di natura differente, che si completino dal punto di vista dell'appagamento sensoriale e dell'efficacia nutrizionale - così come avviene nel tipico pasto umano, costituito da alimenti di base, generalmente di per sé insufficienti e, quindi, opportunamente integrati - si manifesta a differenti livelli della scala filogenetica, assicurando la sopravvivenza della specie. Per quanto riguarda specificatamente l'alimentazione umana, nelle moderne società industrializzate essa scaturisce dalla catena agroindustriale, da cui discendono produzione, trasformazione e condizionamento del cibo. L'impatto di fattori economici (come disponibilità, rete distributiva e potere d'acquisto) e socioculturali (come forza delle tradizioni e livello di educazione) determina la possibilità di accesso ai vari alimenti e la bontà della loro scelta. Tutto ciò, anche in funzione delle modalità di preparazione del cibo e della quantità ingerita, si riflette sulla biologia della nutrizione (vale a dire sui fenomeni e meccanismi che regolano l'incorporazione e il metabolismo dei nutrienti) e, conseguentemente, sulla salute, in ragione degli squilibri per difetto o eccesso eventualmente determinatisi. Tenendo a mente le molteplici valenze socioeconomiche, biologiche ed epidemiologiche, che intrinsecamente la contraddistinguono, l'alimentazione costituisce, pertanto, una sorta di sistema reticolare, da cui, per reciproche interazioni, dipende la qualità della vita.
Nell'uso comune, particolarmente nelle lingue latine, i termini alimentazione e nutrizione sono intesi come sinonimi, distinti da semplice sfumature di senso; persino nel caso codificato dell'ordine degli studi delle scuole medie superiori e delle università italiane la scienza dell'alimentazione è considerata comprensiva anche di studi sulla nutrizione. Per contro, nel linguaggio della comunità scientifica internazionale il riferimento alla nutrizione viene a inglobare in misura preponderante la complessa materia, com'è codificato per es. nelle competenze attribuite, anche in Italia, agli istituti nazionali della nutrizione. Per evitare confusioni o sovrapposizioni concettuali anche parziali, sul piano pratico conviene invece, in vista delle implicite interrelazioni, stabilire una distinzione operativa tra i significati da attribuire caso per caso ai due termini. Ciò consente, oltretutto, di identificare e comprendere più chiaramente la reciproca complementarità nel continuo processo di confronto e integrazione delle materie attinenti. Indichiamo così, come contenuto della presente voce, l'insieme dei fenomeni, variamente modulati e concatenati, che hanno come fine, tramite il veicolo degli alimenti naturali o trasformati, il trasferimento dei componenti in essi variamente contenuti con funzione biotica o xenobiotica dall'ambiente all'uomo.
Disponibilità e varietà del cibo hanno esercitato un ruolo non secondario sullo sviluppo evolutivo della specie umana. Naturalmente, nel corso dei millenni, Ominoidi e Ominidi trovarono fonti estremamente differenziate di sostentamento, in dipendenza in primo luogo del clima e dell'habitat e, quindi, della possibilità di reperire e utilizzare sostanze commestibili. Al riguardo, lo studio di fossili, sia di residui alimentari, sia, in particolare, di ossa (mediante l'analisi dei rapporti fra isotopi stabili del carbonio e dell'azoto) e di denti (mediante la rilevazione delle caratteristiche dell'apparato masticatorio e delle alterazioni microscopiche del rivestimento dentario), ha fornito importanti evidenze scientifiche, consentendo la formulazione di ipotesi sulle remote tipologie di consumo alimentare. Risulterebbe così che tra i nostri più antichi progenitori le Australopithecinae (scimmie esistite da 4 a 2,5 milioni di anni fa) si alimentassero fondamentalmente di resti e rifiuti di animali uccisi da altri animali; non ancora raccoglitrici di foglie e frutti, né cacciatrici, esse si comportavano dunque sostanzialmente da 'spazzini' dell'ambiente; poiché si cibavano prevalentemente di visceri, come fegato, ricco in vitamina A, è talvolta possibile ritrovare nelle loro ossa segni di iperdosaggio di questa vitamina.
Gli Ominidi che seguirono furono invece prevalentemente cacciatori, in climi freddi, di animali di grossa taglia. Nel corso del tempo, tuttavia, la quantità di carne, e quindi di proteine animali, consumata diminuì con l'avvento della raccolta di granaglie, abbassandosi ulteriormente con l'introduzione delle prime coltivazioni di cereali. Da questa modificazione delle abitudini conseguì una concomitante riduzione della corporatura, dovuta anche al fatto che nel corso dell'evoluzione l'alimentazione è stata naturalmente povera, specialmente in situazioni climatiche estreme, spesso carenzata, nonché foriera di intossicazioni e infezioni di origine alimentare; non bisogna infatti trascurare il fatto che sporcizia, tritume di sabbia e pietra e fibra caratterizzavano una larga parte delle diete primitive. Un elemento, comunque, sembra emergere per particolare importanza: la variabile rappresentata dall'ampiezza delle opzioni alimentari. Di fatto, se si dipende troppo da un particolare tipo di cibo, questo può venire più facilmente a mancare; se, invece, si mangia di tutto è meno probabile che l'indispensabile venga a mancare completamente. Si spiega così come l'Homo habilis, onnivoro, sia sopravvissuto allo Australopithecus robustus, ominoide che viveva di sola frutta, noci ed erbe.
Superata l'epoca della caccia e della raccolta, lo sviluppo dell'agricoltura ha contribuito potentemente, con l'addomesticamento e l'allevamento di animali e la coltivazione di piante, ad allargare la base alimentare, pur riducendo la gamma delle specie vegetali ritenute commestibili. Tuttavia nel mondo antico e fino alla scoperta dell'America, le disponibilità alimentari furono limitate, se non addirittura precarie, ai fini della sussistenza, soprattutto per i gruppi più poveri. Nell'Europa centrale, per es., la scarsità di base è rimasta per secoli quella enunciata da J. Boemus nella prima metà del 16° secolo: "Pane, avena e verdura cotta sono il cibo del contadino; acqua e siero la sua bevanda".
Dopo la scoperta e l'esplorazione dell'America e la conseguente acquisizione delle risorse del nuovo continente, lo scenario cambiò. Malgrado sofferenze ed errori, che afflissero i popoli assoggettati nel Nuovo Mondo, si avviò un interscambio di risorse. Ciò contribuì a introdurre in Europa i prodotti dei coltivatori protoamericani (dal mais ai fagioli, dalla patata al pomodoro, per finire con peperoni, zucche e zucchine e numerosi altri ortaggi e frutta) e ad ampliare fortemente le disponibilità mondiali, arricchite dalle vaste possibilità aperte dalla produzione nel Nuovo Mondo: dall'estesa coltivazione di cereali e di canna da zucchero all'allevamento animale. Un ulteriore incremento delle risorse alimentari scaturì, infine, a partire dal 19° secolo, dallo sviluppo dell'industria agroalimentare che, con l'introduzione delle moderne tecnologie di conservazione delle derrate deperibili e di trasformazione e innovazione di prodotti, aumentò fortemente il potenziale di consumo.
Per quanto riguarda l'alimentazione, il primo rilevante contributo del nuovo approccio scientifico, scaturito con il Rinascimento e con l'affermarsi del principio dell'osservazione diretta e della libera analisi critica, dev'essere attribuito a Leonardo da Vinci, il quale, anatomizzando e descrivendo minuziosamente le strutture corporee nelle sue tavole, avviava, in assoluta libertà dai canoni allora dominanti, la riflessione sulle funzioni organiche, giungendo a esprimere il fondamentale concetto che "al corpo [...] se tu non li rendi nutrimento eguale al nutrimento partito, allora la vita manca di sua valetudine; e se tu levi esso nutrimento, la vita in tutto resta distrutta; ma se tu ne rendi tanto quanto se ne destrugge la giornata, allora tanto rinasce di vita quanto se ne consuma; a similitudine del lume fatto dalla candela col nutrimento datali dell'omore d'essa candela, il quale lume ancora lui, al continuo, con velocissimo soccorso, restaura da sotto quanto sopra se ne consuma". Ma le tavole e le note di Leonardo (quale quella citata, che anticipava il concetto di metabolismo energetico) non furono pubblicate e rimasero sconosciute fino al 19° secolo.
Storicamente un altro contributo prioritario va quindi riconosciuto a Paracelso, il quale ebbe il grande merito di introdurre la chimica nello studio dei fenomeni vitali, arrivando a concepire una sorta di 'alchimista', specifico di ogni organismo, capace di riconoscere la natura dei soli alimenti da esso utilizzabili e di trasformarli quindi nei componenti corporei. Ciò costituì evidentemente la prima rappresentazione di un macchinario biochimico preposto all'assimilazione del cibo, anche se, in sostanza, tale rappresentazione convertiva nel processo materiale della chimica l'azione dello 'spirito naturale' enunciato da Galeno come regolatore della concozione e dell'utilizzazione degli alimenti. La moderna scienza dell'alimentazione nacque nel Seicento, quando il nuovo indirizzo impresso alla ricerca dal metodo sperimentale galileiano portò S. Santorio, con le prime misure di bilancio materiale, condotte su sé stesso, ad affermare: "se ogni giorno nella quantità e nella qualità necessarie si aggiungessero quei [principi] che mancano e si detraessero quelli in eccesso, la salute perduta verrebbe recuperata e quella che si possiede verrebbe sempre conservata".
Sempre mediante l'applicazione del metodo sperimentale I.B. Beccari affrontò lo studio dell'alimentazione e dei processi nutritivi, proponendo la questione "quid aliud sumus nisi id ipsum unde alimur?"; di fatto, secondo Beccari, che giunse anche a identificare la natura del glutine, il corpo si nutre di quelle stesse cose di cui consta, affermazione che precede quindi quella più nota di L.A. Feuerbach: "l'uomo è ciò che mangia". Infine, nel secolo dei lumi, l'analisi sperimentale consentì ad A. Lavoisier di determinare i parametri regolatori degli scambi gassosi e del metabolismo energetico nelle diverse condizioni fisiologiche.L'importanza di queste prime originali osservazioni ed elaborazioni teoriche va sottolineata, ma fu soltanto nel 19° secolo che il progresso scientifico permise la dimostrazione dei fondamenti delle scienze dell'alimentazione.
Al riguardo, due principali linee di ricerca risultarono fruttifere: con la prima, di carattere sociale, furono presi in considerazione i consumi reali di alimenti da parte di individui e collettività più o meno vaste, onde arrivare alla conoscenza del fabbisogno alimentare; con la seconda, di natura sperimentale, si cercò di stabilire il dispendio energetico animale e di identificare natura e funzioni delle sostanze quaternarie (composte da carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto), come le proteine (v.), e terziarie (composte da carbonio, idrogeno e ossigeno), come i carboidrati (v.) e i grassi o lipidi (v.). I grandi progressi ottenuti furono indubbiamente conseguenza dello sviluppo dell'analisi chimica dei materiali da studiare. L'identificazione dei principali costituenti degli alimenti introdusse, secondo l'indicazione fornita da F. Magendie già nel 1816, la procedura di alimentare gli animali da esperimento con sostanze semplici come appunto proteine, grassi e carboidrati, al fine di rendere i risultati più facilmente analizzabili. Sostanzialmente la conoscenza della composizione chimica, integrata dalla sperimentazione biologica, consentì di mettere in luce il valore e la equipollenza (legge della isodinamica di M. Rubner) di proteine, grassi e carboidrati, nonché la valenza plastica delle prime.
Contestualmente fu avviata la discussione sulle razioni giornaliere necessarie. Ma per vagliare l'adeguatezza della dieta altre questioni restavano da risolvere. Già nel 1843 J. Pereira, sottolineando come la riconosciuta capacità del succo di limone di prevenire e curare lo scorbuto sicuramente non potesse essere attribuita all'acqua e alle sostanze quaternarie e ternarie in esso contenute, faceva notare l'impossibilità di ridurre ai tre principi indicati (proteine, carboidrati e grassi) i costituenti necessari per l'alimentazione. Occorsero tuttavia ancora molti anni affinché J. Forster introducesse (1873) nella scienza dell'alimentazione un'altra concezione fondamentale, cioè che gli animali che ricevono una dieta composta da acqua e sostanze organiche eliminano costituenti inorganici con le urine, presentando in breve tempo disturbi gravi che portano alla morte. Si aprì così lo studio degli elementi minerali, macro e micro, cui diedero un contributo rilevante G. Bunge e N. Lunin. All'epoca, comunque, il concetto di alimentazione come possibile materia morbis non era ancora preso in considerazione, avendo le grandi scoperte di L. Pasteur portato in primo piano la natura microbica, parassitaria o tossica delle varie malattie.
Fuori dalle accademie e dai laboratori scientifici, tuttavia, l'osservazione pratica forniva indicazioni significative. Tipico fu il caso del beri-beri, malattia caratteristica dell'Estremo Oriente, di cui Wernich e van Leent, rispettivamente nel 1788 e nel 1880, furono i primi a supporre un rapporto con il consumo di riso. Successivamente un ufficiale medico della flotta giapponese, K.T. Takaki, ottenne la rapida scomparsa del beri-beri fra i marinai mediante opportune variazioni della loro razione alimentare, costituita prevalentemente di riso bollito. Il definitivo chiarimento di queste intuizioni venne dalla ricerca sperimentale specifica sui rapporti fra consumo di riso e beri-beri, condotta a Giava dai ricercatori olandesi A.G. Vonderman, C. Eijkman, nel 1895-96, e G. Grijns, nel 1901, grazie alla quale si arrivò alla conclusione che il beri-beri dipendesse dalla mancanza di un elemento nutritivo essenziale, perduto nel processo di brillatura del riso. Sorse così il concetto di malattia da carenza, su cui da quel momento si venne accumulando un'imponente serie di lavori, volti a identificare gli indispensabili fattori accessori della dieta, che, nel 1912, C. Funk definì vitamine (v.), in considerazione della funzione aminica (amina vitale) propria della B₁ (tiamina), il fattore anti beri-beri da lui studiato. L'eziologia delle malattie da deficienza teorizzata da Funk rappresentò per la prima metà del nostro secolo la sola causa morbosa legata all'alimentazione. Obesità e diabete erano infatti visti come specifiche malattie del ricambio e connessi più a disturbi endogeni ormonali che a eccessi e squilibri alimentari.
"La questione fondamentale è sempre la stessa: quella del rapporto tra le popolazioni e le sussistenze che sono loro necessarie. È questa una questione antichissima e su di essa la discussione è sempre aperta perché alla sua base sono due fattori essenzialmente dinamici: la popolazione che varia di numero e di esigenze e le sussistenze che si modificano continuamente, in relazione non solo al variare della popolazione, ma anche alle aspirazioni e ai progressi scientifici e tecnici che ne rendono possibile la soddisfazione". Così, agli inizi degli anni Cinquanta, mentre prendeva avvio l'attività della FAO (Food and agriculture organization), S. Visco definiva i termini del problema alimentare (Visco 1994) e, per illustrarne il significato, si richiamava ai concetti originalmente espressi da A. Genovesi nelle Lezioni di economia civile (1765): "primo fondo della robustezza di un popolo è la moltitudine delle famiglie, la giusta popolazione", intendendo che "un paese che per la sua estensione, per il clima, per la bontà delle sue terre, pel sito, per gli ingegni degli abitanti, può alimentare cinque milioni di persone se non ne nutrisce che due e mezzo, è mezzo spopolato, se ne alimenta uno è spopolato di quattro quinte, se ne mantiene tre è spopolato di due quinte. Ma se gli avvenisse di averne sei o sette sarebbe popolato al di sopra delle sue forze, vizio non meno contrario e nemico alla civile felicità di quel che sia la spopolazione".
Genovesi riferiva la quantità di popolazione in grado di vivere su una determinata superficie alla bontà della parte coltivabile di essa, al clima e all'ingegno degli abitanti e poneva fra le cause determinanti lo spopolamento la scarsa fertilità del terreno e l'ignoranza nella pratica dell'agricoltura, perché nessuna altra arte più della coltivazione poteva impiegare e alimentare maggior numero di uomini e perciò nessuna era più atta a mantenere un giusto numero di abitanti. Il pensiero di Genovesi anticipava dunque chiaramente quanto avrebbe poi espresso T.R. Malthus nel suo An essay on the principle of population (1798). Secondo Malthus, tuttavia, poiché "la specie umana ha un grande impulso a moltiplicarsi, perché vi sia equilibrio stabile tra uomini e sussistenze è necessario che la produzione dei viveri abbia tanta tendenza all'accrescimento quanta ne ha la riproduzione degli uomini. Ma siccome la forza che moltiplica le sussistenze è molto inferiore a quella che moltiplica gli uomini, così si ha sempre uno stato di lotta tra di loro e una perfetta tendenza al disquilibrio, dal quale derivano tutti i mali del mondo". Per Malthus, infatti, gli esseri viventi aumenterebbero secondo una progressione geometrica e le sussistenze, invece, secondo una progressione aritmetica.
Genovesi e Malthus, anche se giungevano a conclusioni sostanzialmente identiche, avevano peraltro una visione ben diversa del rapporto tra sussistenze e popolazione. Malthus aveva un concetto statico della questione, Genovesi uno dinamico. Il primo vedeva nell'aumento della popolazione un danno ineluttabile immediato, il secondo riteneva invece che l'evoluzione numerica della popolazione costituisse un fattore importante di produzione e di benessere per la collettività, a condizione che questo aumento si realizzasse in funzione di una serie di interventi atti, quanto meno, ad attenuarne le conseguenze dannose. È singolare constatare come la visione di Genovesi sia in accordo con il prerequisito che è alla base dell'attuale impostazione della FAO di sustainable agriculture, cioè di sviluppo compatibile della produzione agricola.Oggi, comunque, in una più aperta considerazione dei rapporti di interscambio della produzione mondiale, l'angolo visuale del problema diviene sempre più ampio. Entrano in gioco nuovi fattori di orientamento che discendono, in una stretta congiunzione, dalle politiche del settore e dai progressi realizzati nel campo della chimica, della genetica, della scienza dell'alimentazione e, quindi, dagli impulsi che queste discipline hanno impresso allo sviluppo delle nuove biotecnologie agroalimentari.
Densità della popolazione e moltiplicazione logistica delle risorse costituiscono condizioni su cui appare al presente possibile influire per assicurare il necessario sostentamento, evitando un eccessivo sfruttamento dell'ambiente.
Due differenti situazioni si contrappongono oggi nel mondo: da un lato gli effetti di carenze gravi, più o meno estese, e, dall'altro, gli effetti di eccessi o squilibri nell'alimentazione. Nelle aree povere il problema di fondo è costituito da quanto A. Sen (1981) ha icasticamente identificato nell'ineguale 'titolarità del cibo', condizione ancora largamente diffusa nel mondo e che consiste nella disparità nell'accesso agli alimenti, cioè nella possibilità di procurarseli o meno, sia per difetto di produzione sia per scarso potere di acquisto e di mezzi di scambio.Considerando sottoalimentata la popolazione di tutte le età per la quale l'assunzione di energia (kcal pro capite per giorno) risulti inferiore al valore del metabolismo di base (MB) moltiplicato per il fattore 1,54, si può constatare che un certo miglioramento è intervenuto negli ultimi anni. Ponendo a confronto infatti i periodi 1974-76 e 1988-90, si rileva che la quota di popolazione sofferente è scesa dal 33% al 20% e, in termini assoluti, da 976 milioni a 786 milioni. Questo miglioramento, riconoscibile nel complesso del mondo afflitto da povertà, presenta, tuttavia, larghi margini di disomogeneità. La situazione è fortemente migliorata soprattutto nel Vicino Oriente e nell'America centrale e meridionale, mentre rimane grave nell'Asia meridionale e gravissima nell'Africa subsahariana. Il minor peso raggiunto dai bambini in età prescolare rappresenta l'indicatore più chiaramente e immediatamente rilevabile della sottoalimentazione. Nell'Africa subsahariana, dove la popolazione tende, comunque, all'espansione, il persistere dell'insufficienza di cibo viene a innescare un circolo vizioso che porta ad aggravare sempre più la situazione: i bambini sottopeso (cioè al disotto del valore corrispondente a -2 deviazioni standard del peso per età), mentre restano percentualmente intorno a un livello costante, aumentano numericamente in misura preoccupante. Altre importanti conseguenze della sottoalimentazione colpiscono in particolare le donne: si ha, sul piano somatico, ridotto sviluppo pondo-staturale, più basso indice di massa corporea (IMC), anemia e, relativamente alla sfera riproduttiva, basso peso della prole alla nascita ed elevata mortalità materna.
Anche se apprezzabili miglioramenti della questione alimentare si sono indubbiamente verificati su scala mondiale, rimane inaccettabile che circa 786 milioni di abitanti dei paesi in via di sviluppo (PVS), corrispondenti al 20% della loro intera popolazione, non abbiano possibilità di accesso al cibo sufficiente a soddisfare i bisogni essenziali per il benessere nutrizionale. FAO e OMS (Organizzazione mondiale della sanità), nella Conferenza internazionale sulla nutrizione, tenutasi a Roma nel dicembre 1992, e nella Conferenza mondiale sull'alimentazione, tenutasi a Roma nel novembre 1996, hanno a tal proposito invitato i ministri degli Esteri, dell'Agricoltura e della Sanità dei paesi aderenti alle Nazioni Unite ad attuare un complesso coerente di concatenate iniziative e interventi concernenti i vari settori del sistema di alimentazione a livello mondiale e regionale.In questo quadro l'identificazione e la definizione degli obiettivi prioritari di politica alimentare divengono requisiti basilari per lo sviluppo. Tra essi, la sicurezza alimentare delle famiglie, cioè la possibilità di approvvigionarsi di tutti gli alimenti indispensabili per una vita sana, si colloca in primo piano. Ciò comporta la necessità di sollecitare ogni proficua azione di ricerca e sviluppo nel settore, promuovendo l'avanzamento tecnologico e le attività educative al fine di proteggere i consumatori mediante il miglioramento della qualità e della sicurezza degli alimenti. Affinché gli Stati membri delle Nazioni Unite possano condurre a effetto gli accordi sottoscritti in vista del 2000, è stata considerata inderogabile l'assunzione di precise responsabilità.
Il Piano di Azione elaborato dalla Conferenza internazionale sulla nutrizione del 1992, come guida per la formulazione di piani nazionali, ha proposto così un complesso di impegnativi obiettivi da perseguire per eliminare nei dieci anni successivi: a) le carestie e la fame, con la mortalità a esse correlate; b) le carenze nutrizionali provocate da insufficiente alimentazione nelle comunità colpite da calamità naturali o causate da attività umane; c) le deficienze alimentari che siano causa di avitaminosi A e, per mancanza di iodio, di gozzismo.
È stato considerato, inoltre, necessario mirare a una sostanziale riduzione: a) dell'inanizione e fame cronica, diffusa specialmente fra i bambini, le donne e gli anziani; b) delle carenze alimentari che riducano l'apporto di micronutrienti fra cui il ferro; c) delle malattie trasmissibili o non, di cui è dimostrata una correlazione con la dieta; d) degli impedimenti sociali o di altra natura nei confronti dell'allattamento al seno; e) delle situazioni inadeguate sul piano sanitario e igienico, ivi compreso l'uso di acqua potabile insicura.In particolare, per quanto riguarda i bambini, soggetti sociali cui riservare la massima priorità, gli obiettivi nutrizionali da perseguire per l'anno 2000 attraverso un generale miglioramento dell'alimentazione sono stati così elencati: a) riduzione del 50%, rispetto ai livelli 1990, dei casi di malnutrizione tra i bambini al disotto dei 5 anni; b) riduzione almeno del 10% del numero di soggetti con basso peso alla nascita (2,5 kg o meno); c) riduzione di 1/3, rispetto ai valori 1990, dell'anemia da carenza di ferro nelle donne; d) virtuale eliminazione dei disturbi da mancanza di iodio; e) virtuale eliminazione della carenza di vitamina A e delle sue conseguenze, compresa la cecità; f) sostegno a tutte le donne che allattano esclusivamente al seno per 4-6 mesi e che continuano l'allattamento al seno con altri alimenti di complemento sino a 2 anni dal parto; g) promozione dell'accrescimento con regolare monitoraggio istituzionalizzato in tutti i paesi; h) diffusione delle conoscenze e rafforzamento dei servizi per aumentare la produzione di alimenti, al fine di garantire sicure disponibilità alimentari alle famiglie.
Tra gli obiettivi prioritari, come già accennato, compare quello di ridurre le malattie trasmissibili. È infatti dimostrato che l'alimentazione carente, generalmente accompagnata da scarsa igiene, accresce esponenzialmente la diffusione e la gravità delle infezioni. Per contro, se la mancanza di adeguate risorse alimentari affligge, con tutte le sue gravi conseguenze, vaste aree del mondo povero, nei paesi industrializzati la patologia o quanto meno il rischio di malattia in funzione del comportamento alimentare appare sempre più dipendente da eccessi o squilibri della dieta e questo fenomeno comincia a emergere in misura sempre più estensiva e allarmante anche in quelle aree e fasce sociali dei paesi in via di sviluppo in cui l'acquisizione di un maggior benessere, aumentando il potenziale di accesso al cibo, ha sconvolto le precedenti abitudini, esagerando alcuni consumi.Tra le malattie associate a eccessi o squilibri dell'alimentazione sono certamente al primo posto quelle cardiovascolari, che comprendono la cardiopatia coronarica, l'ictus e altri disturbi del cuore e dei vasi, tra cui, principalmente, l'ipertensione, che rappresentano, a livello mondiale, il 25% delle cause di morte, valore medio che peraltro oscilla ampiamente, passando da circa il 50% nei paesi industrializzati al 16% in quelli meno sviluppati. Il ruolo della complessiva alimentazione come determinante fattore di rischio nell'insorgere delle malattie cardiovascolari è oggi riconosciuto grazie a una solida base di dimostrazioni scientifiche. Si deve alla classica ricerca epidemiologica, promossa da A. Keys e collaboratori a metà degli anni Cinquanta (il cosiddetto Seven countries study; Keys 1980), il primo fondamentale contributo al riguardo, che mise in evidenza come in paesi (per es., il Giappone e l'Italia), nei quali più bassa appariva l'incidenza delle malattie cardiovascolari, minore risultava la percentuale di calorie totali della dieta fornite dalle sostanze grasse.
Passando poi a esaminare l'influenza della qualità di queste ultime, si poté rilevare che le più alte mortalità registrate, come, per es., nel caso della Finlandia, erano correlate all'elevata assunzione di alimenti ricchi di grassi saturi. Scaturì da questa osservazione, che è stata sostenuta da una vasta serie di ulteriori ricerche epidemiologiche, cliniche e sperimentali, l'ipotesi 'lipidica' nella patogenesi delle malattie cardiovascolari. Tale ipotesi suggeriva conseguentemente di moderare a fini preventivi il consumo di alimenti ricchi in grassi animali, come burro, carni, uova, formaggi ecc., che sono oltretutto fonti di colesterolo, e di favorire per contro quello degli alimenti ricchi di grassi insaturi, dai poli-insaturi degli oli di semi, ai mono-insaturi dell'olio di oliva, agli altamente insaturi (acidi grassi ω-3) del pesce. Lo stesso Keys, comunque, arrivò coerentemente a pensare che la protezione nei confronti dell'insorgenza delle malattie cardiovascolari, riscontrabile nei paesi dell'area mediterranea, non fosse dovuta unicamente alla proporzione e alla qualità dei grassi consumati, ma anche al profilo e agli equilibri complessivi della dieta, con particolare riferimento agli alimenti di base ricchi in carboidrati complessi e al prevalente uso di olio di oliva come condimento.
Negli ultimi anni, peraltro, è stata prospettata e vagliata, relativamente alla natura delle lesioni biochimiche che provocano la malattia cardiovascolare, una nuova ipotesi, che individuerebbe il sostrato dell'alterazione nel danno ossidativo di particelle lipidiche determinato da radicali liberi (appunto per questo l'ipotesi è chiamata 'radicalica'). Un meccanismo protettivo potrebbe essere comunque innescato con effetto modulante dai fattori antiossidanti presenti nella dieta stessa (come vitamine, polifenoli ecc.), sicché anche sotto questo punto di vista risulterebbe confermata l'azione preventiva della dieta mediterranea nei confronti delle malattie cardiovascolari, e ciò non solo a causa del modesto apporto di grassi animali, ma, in particolare, grazie alla ricchezza di molecole bioattive, come quelle sopra citate, che operano mediante la loro azione antiossidante e altri complessi meccanismi biochimici.
Tra i rischi associati all'alimentazione, dopo le malattie vascolari, deve naturalmente essere preso in considerazione, per la sua attuale importanza in termini di morbosità e mortalità, il problema del cancro. Già nel 1981 R. Doll e R. Peto calcolarono che circa 1/3 di tutti i tumori poteva essere correlato alla dieta (Doll-Peto 1981). Un aggiornamento del loro calcolo agli anni Novanta porta ora a stimare che il 20-60% di tutti i tumori possa essere comunque in relazione con il regime alimentare seguito. Si comprende quindi perché sin dal 1982 lo statunitense National research council abbia raccomandato specifiche linee guida alimentari per la prevenzione del cancro. In questo campo, tuttavia, l'evidenza scientifica non porta a conclusioni definitive. Per es., è indubbio che fra i giapponesi il passaggio da una dieta povera in grassi e ricca di vegetali e amido di riso a una 'occidentale' più ricca di grassi animali e calorie ha coinciso con un aumento dei tumori mammari e colo-rettali; per contro, fra i finnici, per i quali il 40% delle calorie è fornito da grassi, per la massima parte animali, l'incidenza del cancro colo-rettale è bassa. Ulteriori studi sembrano quindi necessari. Se al momento appare arduo stabilire a quale tipologia alimentare e, soprattutto, a quali ingredienti o componenti della dieta possa essere imputata l'insorgenza dei tumori, maggiori progressi sono stati invece compiuti in ordine ai fattori dietetici che possono esercitare un ruolo protettivo. Tra questi, il primo a essere considerato, nell'ordine temporale degli studi, è stato il beta-carotene, uno dei circa 500 pigmenti vegetali chiamati carotenoidi, per il quale è stato anche ipotizzato il meccanismo d'azione: agirebbe come antiossidante intrappolando i radicali ossigeno e rendendo in tal modo la cellula meno suscettibile nei confronti di sostanze cancerogene. Se questa è la prima ragione per cui è raccomandato un maggior uso di vegetali per prevenire il cancro, è da tenere presente che i vegetali sono ricchi di un altro importante fattore antiossidante, la vitamina C, oltre che di fibra vegetale, la cui azione protettiva nei confronti del cancro e di altre patologie è stata messa in evidenza negli ultimi anni.
Si discute, pertanto, se nei casi riportati dagli studi prospettici, in cui il più alto livello di beta-carotene nel sangue si è accompagnato a una minore incidenza di cancro dello stomaco e del polmone, questo fenomeno rifletta l'effetto esercitato direttamente dallo stesso beta-carotene o non rappresenti, piuttosto, un buon marcatore di un'accresciuta assunzione di vegetali e di frutta e quindi, tra l'altro, di carotenoidi non convertiti in vitamina A, come luteina e licopene, di vitamina C e infine di fibra. A prescindere dai fattori o meccanismi in gioco è su questa base, comunque, che negli USA la FDA (Food and drug administration) ha ora autorizzato a menzionare nell'etichettatura dei vegetali l'azione protettiva nei confronti del cancro. Se un più ampio ricorso a ortaggi e frutta rientra nei principi della dieta mediterranea, è peraltro paradossale che esso si verifichi proprio quando, riguardo ai vegetali, è assai vivace il dibattito se siano più da temere come cancerogeni i 'pesticidi' prodotti dall'uomo e su cui principalmente si concentrano i timori dell'opinione pubblica, o non piuttosto i fattori di contaminazione naturali prodotti in misura largamente maggiore qualora a difendere i vegetali stessi non intervengano i primi. Ma ciò evidentemente rientra nei più opportuni equilibri tra i fattori nocivi e quelli salutari, che debbono essere adeguatamente bilanciati nell'alimentazione abituale, tenendo in ogni caso presente che i rischi connessi all'alimentazione, contrariamente a come vengono correntemente percepiti dall'opinione pubblica (secondo la quale il pericolo principale è costituito da additivi e contaminanti ambientali), hanno un ordine decrescente di importanza.
Struttura e qualità della razione alimentare sono sostanzialmente dipendenti dal reddito. La stretta correlazione esistente in questo campo, da tempo nota agli studiosi di economia, nel 1973 è stata messa in evidenza dalla FAO attraverso lo studio dei consumi alimentari di 84 paesi. A ogni incremento del livello di reddito pro capite corrisponde un aumento delle quote di energia fornite da proteine animali, lipidi visibili (cioè grassi di condimento animali e vegetali) e lipidi invisibili, contenuti in alimenti di origine animale, e zucchero (saccarosio). Parallelamente si verifica, per compensazione, una diminuzione delle quote energetiche fornite da proteine vegetali, lipidi invisibili di origine vegetale e amido. Questo comportamento ha trovato puntuale conferma in Italia, nel periodo compreso fra gli anni 1952-54 e 1976-78, in cui si è osservata, per la prima volta nella storia del paese, la triplicazione del reddito pro capite. Partita dalla condizione di profondo malessere alimentare che la caratterizzava all'inizio del secolo, dai primi anni Cinquanta, con l'avvio dello sviluppo economico, l'Italia è andata incontro, come confermano i più recenti rilevamenti, a una radicale modificazione dei principali consumi alimentari. È diminuito il consumo degli alimenti di base, come i cereali, ritenuti, a torto, espressione di povertà, mentre è aumentato il consumo degli alimenti indici di ricchezza e quindi, in ordine crescente, di grassi, carni, zucchero. Le nuove tendenze di consumo, oltre che dall'accresciuto potere di acquisto della popolazione, sono state guidate da motivazioni psicologiche e socio-culturali, piuttosto che dalla consapevolezza dei reali bisogni fisiologici.
Il raggiungimento degli stili alimentari proposti dai modelli di vita dominanti nelle società industrializzate occidentali ha rappresentato, di conseguenza, l'obiettivo da raggiungere come simbolo del benessere e dello stato sociale conquistato. Ciò ha chiaramente comportato quegli squilibri con ripercussioni negative sulla salute cui si è accennato. È singolare che le abitudini degli italiani siano cambiate, allineandosi ai valori dei paesi più industrializzati, proprio negli anni in cui nel resto del mondo il modello di alimentazione mediterraneo veniva proposto come riferimento di sano comportamento alimentare. In questo quadro è particolarmente rilevante il fatto che le differenze di consumo tra le diverse zone d'Italia sono divenute notevolmente inferiori, non solo rispetto a 30-40 anni fa, ma anche a 10 anni fa. L'esame complessivo conferma la generale adozione di una dieta ricca di alimenti di origine animale e, soprattutto, di sostanze grasse. Un ulteriore aspetto di particolare significato che emerge prepotentemente dal complesso dei consumi è rappresentato dalla crescente presenza di alimenti 'nuovi', quali biscotti e pasticceria, legumi e ortaggi conservati, succhi di frutta, bevande analcoliche, acqua minerale. In altri termini, aumenta nella razione media la presenza di alimenti di produzione industriale, mentre le tendenze di consumo delle varie zone del paese con tradizioni alimentari diverse vanno omologandosi in misura sempre maggiore.
Giunti ormai in prossimità del 21° secolo, appare conclusa una fase storica dello sviluppo scientifico, sociale e politico in materia di alimentazione. Mentre nel passato il tema centrale in discussione era focalizzato essenzialmente sull'analisi dei vari costituenti degli alimenti e sul riconoscimento del loro valore - biologico per la nutrizione e sociale per il benessere della popolazione - nell'ultimo periodo interessi e indirizzi di studio e di applicazione si sono via via allargati in vista dell'obiettivo prioritario della qualità e della sicurezza dell'alimentazione in tutti i suoi aspetti. A partire dai domini originari e classici della chimica, gli studi in materia della biochimica e della fisiologia si sono approfonditi ed estesi in un sempre più aperto intreccio interdisciplinare tra i più vari campi di ricerca, applicazione e meccanismi di feedback connessi con la vasta materia. Oggi, pertanto, alimentazione e nutrizione si collocano specularmente al centro di un sistema interattivo, il quale, per quanto riguarda il trasferimento dei risultati delle varie azioni e le ricadute politiche e sociali della iniziative intraprese, deve necessariamente poggiare sulla logica del rapporto costo/beneficio. Sono infatti evidenti gli apporti che dall'interazione tra le diverse discipline e aree di ricerca possono derivare per la comprensione dei processi e meccanismi di base, il miglioramento della qualità, la tutela della salute, lo sviluppo economico e il progresso sociale.
Questa più ampia impostazione, come si è posto in evidenza, discende dal fatto che all'orizzonte dell'alimentazione sono emerse nuove questioni che non riguardano soltanto il contenuto e il valore degli alimenti in nutrienti, ma giungono a investire altri aspetti importanti per la salute, come quelli inerenti alla presenza negli alimenti di composti non nutrienti con funzioni protettive o nocive (da un lato fibra alimentare e antiossidanti naturali, dall'altro tossine), ai rapporti fra i diversi nutrienti in funzione dell'età e dell'attività fisica, agli effetti dei trattamenti tecnologici tradizionali o innovativi sul valore nutritivo, alla geodemografia e alla generale sicurezza dell'alimentazione.
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