Alimentazione
sommario: 1. Dati storici. a) Le carestie. b) La leggenda. c) Le ricerche storiche. d) Progressi nella conoscenza. e) Il consumo. f) L'azione internazionale. g) La grande crisi e la guerra.2. Consapevolezza di un problema mondiale dell'alimentazione. a) I mezzi della FAO. b) Altre organizzazioni internazionali. c) Le ragioni della nascita di un problema mondiale. 3. Precisazioni preliminari. a) Fame, carestia, ipoalimentazione. b) I metodi di misura. 4. L'evoluzione dell'alimentazione dalla creazione della FAO. a) Prime delusioni. b) Il consumo. c) La crisi del 1965-1966 in Estremo Oriente. d) La ‛rivoluzione verde'. e) I risultati di lungo periodo. f) Consumo alimentare nel mondo. g) La quota dell'alimentazione nei bilanci e nell'economia. h) Ipoalimentazione e iperalimentazione. i) Commercio interno e industria dei prodotti alimentari. l) Commercio internazionale. m) Popolazione impiegata nell'agricoltura. n) Demografia, istruzione. o) Le ragioni dell'insuccesso e del persistere dell'ipoalimentazione. p) L'aiuto alimentare. q) Il caso della Cina. 5. Considerazioni generali sul futuro. a) La lotta per le proteine. b) L'aspetto tecnico e l'aspetto socio-politico. c) Gli ottimisti. d) I pessimisti. e) Una previsione dell'OCDE. f) Il problema socio-politico. g) Conclusione. □ Bibliografia.
Fin dai tempi più antichi l'alimentazione è stata una delle preoccupazioni maggiori dell'uomo. La sentenza divina: ‟col sudore della fronte mangerai il pane" (Genesi, 3, 19), è nata senz'altro nell'età neolitica, quando il mito di un passato roseo avrà fatto apparire all'uomo, chino sulla terra, lo stadio della raccolta come un paradiso perduto.
L'incremento demografico, malgrado guerre ed epidemie letali, doveva condurre gli uomini ad una penuria di risorse alimentari. Il ritmo del progresso tecnico era in effetti molto inferiore al ritmo di moltiplicazione naturale della specie umana, valutabile intorno allo 0,50 o all'1% annuo. Ma al tempo stesso la spinta del bisogno ha stimolato il progresso. Se la raccolta fosse stata sufficiente a nutrirli, gli uomini sarebbero forse rimasti a questo stadio, o almeno avrebbero impiegato molto più tempo a superarlo.
La penuria cronica era aggravata talvolta da crisi letali, dette carestie, accentuate ancora di più dalla carenza di mezzi di trasporto. La storia del mondo è scandita da grandi carestie e da periodi di grave penuria, senza che sia possibile delineare il confine tra questi due flagelli.
La più antica carestia a noi nota, si è verificata in Egitto circa 4.000 anni avanti Cristo. In età più recenti, la carestia del 1877 in Cina, avrebbe fatto 9 milioni di morti; quella del 1929 nello Hu nan, 2 milioni di morti; in India nel 1876-1878 vi furono 5 milioni di morti. In Europa occidentale, le ultime vere carestie hanno avuto luogo nel 1709 (Francia, Inghilterra, Scozia), ma anche nel 1847 in Irlanda; e durante la guerra 1939-1945 (v. sotto, cap. 3, È a).
Il mondo contemporaneo ha in parte perduto il ricordo di questa lotta millenaria degli uomini contro la fame.
Se questa penuria cronica e spesso mortale non è stata, in seguito, tenuta presente come avrebbe dovuto, se viceversa persiste la leggenda di pasti sostanziosi, ciò e avvenuto per effetto di due forme di selezione: a) da sempre le cronache sono state redatte da uomini relativamente ben nutriti e che non avevano affatto coscienza della dura sorte dei contadini, privati del necessario, pur essendo produttori; b) le memorie e i documenti hanno subito una selezione sistematica. Per quanto fosse carente - e senza dubbio perché carente - l'alimentazione disponibile era molto disuguale a seconda delle persone e delle circostanze. I pasti dei nostri antenati, come sono giunti a noi nei racconti erano quelli di persone privilegiate, oppure quelli dei giorni di festa e delle ricorrenze, quelli delle annate propizie. Quanto più è penosa la sorte dell'uomo, tanto più grande è il bisogno di distensione e di evasione.
Oggi sappiamo che la produzione totale di animali da cortile verso il 1600 sarebbe stata di gran lunga insufficiente ad assicurare ai contadini il ‛pollo in pentola' ogni domenica, secondo la celebre promessa di Enrico IV.
A poco a poco le ricerche storiche hanno messo in evidenza queste difficoltà millenarie, sia con calcoli di rendimento per ettaro dei cereali, sia, nei tempi moderni, con statistiche di produzione e di consumo. Il lavoro più preciso su questo punto sembra essere quello di J.-C. Toutain, nella raccolta di storia quantitativa intrapresa da J. Marczewski.
Il consumo alimentare in Francia è stato valutato, dal 1781 ai giorni nostri, con medie all'incirca decennali. Ecco i dati riassunti in calorie giornaliere pro capite (bevande alcoliche escluse):
Il livello alimentare era senza dubbio un po' più elevato in Inghilterra (specie se ci si rifà ad A. Young), ma non doveva essere molto diverso in Belgio e in Germania. Se questi calcoli sono esatti, i paesi dell'Europa occidentale dovevano essere allora malnutriti come i paesi oggi meno floridi (per es., l'Arabia Saudita), cioè proprio come quelli che tanto soffrono di sottoalimentazione.
Le cifre riportate più sopra, ci sembrano invero un po' inferiori alla realtà, per quanto riguarda le prime righe della tabella. M. Cépède parla di 2.200 calorie, nel 1791 e nel 1840, per il consumatore parigino. Bisogna del resto tener conto della differenza di temperatura tra questi paesi e i paesi tropicali. La tabella riportata, che ripercorre lo sviluppo nel tempo, ci rivela un carattere importante che ritroveremo confrontando popolazioni contemporanee. Salvo eccezioni (regioni dove si esercita la pesca), quanto più una popolazione è sottoalimentata, tanto più la sua alimentazione è di tipo vegetale. La percentuale di calorie animali nel pasto giornaliero è aumentata dal 16,7% (1781-1790) al 45,1% (1965-1966). Questo legame tra quantità e qualità si spiega e si misura: per produrre una caloria animale (tralasciando la pesca), si impiegano circa 7 calorie vegetali. Su questa base il consumo di calorie vegetali primarie, sempre a persona e al giorno, è passato da 3.511 a 12.273 calorie. Invece di essere moltiplicata per 1,9 la razione giornaliera del XVIII secolo lo è stata per 3,5. Questa cifra dà insomma la misura dello sviluppo della produzione totale pro capite.
L'aumento di statura degli uomini, osservato in molti paesi occidentali da un secolo a questa parte, viene spesso attribuito a un miglioramento nell'alimentazione. Ma possono avervi concorso altre cause.
Per molto tempo, la conoscenza di dati circa la produzione è stata solo molto circoscritta, non superando lo stadio della proprietà individuale. Le sole informazioni disponibili a livello nazionale erano quelle riguardanti il commercio estero, certamente molto utili, ma per niente indicative della produzione e del consumo nazionale. A poco a poco la raccolta di dati si è estesa in tre direzioni: produzione, consumo e bisogni fisiologici.
La necessità di regolari statistiche della produzione agricola si è fatta sentire fin dalla fine del XVIII secolo. Il metodo, piuttosto semplice, consisteva nel richiedere ad ogni unità amministrativa i dati relativi alla produzione di diverse derrate fondamentali, e nel farne il totale. Queste unità amministrative potevano rivolgersi ad un livello più basso, o tentare una valutazione approssimativa di ogni prodotto. Quando non c'erano errori sistematici (ad esempio per timore del fisco), la legge dei grandi numeri assicurava una certa compensazione. Tuttavia le statistiche ottenute con questo metodo sono ancora oggi poco attendibili. Le statistiche relative alla produzione agricola forniscono informazioni economiche tanto più importanti quanto più il paese considerato è sottosviluppato e quindi prevalentemente agricolo.
Conoscendo la produzione e il commercio estero era possibile calcolare il consumo nazionale dei diversi prodotti o, più esattamente, il ‛consumo apparente', senza tener conto delle variazioni delle scorte. In questo modo si poteva stabilire il pasto medio degli abitanti di una nazione. Ma l'imprecisione di questo calcolo globale, le difficoltà particolari derivanti dai prodotti a doppio consumo, umano e animale, la preoccupazione di distinguere le diverse classi sociali, hanno portato a studi più diretti. Per molto tempo, le ricerche sociali si sono limitate a denunciare la miseria operaia, o a redigere soltanto in teoria un bilancio finanziario di un nucleo familiare popolare. All'inizio del XX secolo, si è diffusa la tecnica delle inchieste sui bilanci familiari. La grande quantità di bilanci necessari per ottenere delle medie plausibili, hanno ritardato per molto tempo questo metodo diretto, sicché esse sono state messe a punto solo quando ormai l'alimentazione delle classi modeste aveva superato, nei paesi evoluti, la situazione di grave carenza.
Nel corso del liberale XIX secolo, questi progressi nella conoscenza dei dati venivano utilizzati soltanto nell'ambito nazionale. L'idea di accordi internazionali, lanciata dal banchiere ginevrino Necker, era stata del tutto dimenticata. Essa fu ripresa in considerazione soltanto all'inizio del XX secolo, dall'americano D. Lubin. Essendo riuscito a persuadere Vittorio Emanuele III a convocare una conferenza a Roma, egli patrocinò, nel 1905, la creazione di un Istituto Internazionale di Agricoltura.
La Società delle Nazioni, creata all'indomani della prima guerra mondiale, si interessò ai problemi della salute e dell'igiene, coadiuvata, sul piano sociale, dall'Ufficio Internazionale del Lavoro. Alcuni alimentaristi intrapresero studi che dovevano trovare ben presto la loro applicazione.
L'ignoranza delle necessità fisiologiche, per molto tempo, ha protetto la diseguaglianza sociale. Espressioni come: ‟quella gente non è bisognosa", rassicuravano ancora la coscienza dei ricchi, all'inizio del XX secolo.
Nel 1930, la grande crisi economica ha dato luogo a diagnosi assurde: ben presto si è denunciata la superproduzione, e in particolare la superproduzione alimentare. In molti paesi sono state persino operate delle distruzioni.
Tuttavia, fin dal 1933, si sono avute reazioni contro la distruzione dei beni e la situazione denominata ‟la miseria nell'abbondanza". Nel 1935, anno di crisi e di disoccupazione, ancora più duro per i paesi agricoli che per i paesi industriali, queste reazioni contro la politica delle distruzioni, invano praticata per risollevare i corsi e combattere la crisi, hanno avuto ripercussioni alla Società delle Nazioni: un gruppo di esperti in economia e in alimentazione ha proposto di capovolgere la tendenza, tenendo conto delle necessità, in un modo che oggi chiameremmo inflazionistico, o almeno ‛reflazionistico', e ha suggerito la creazione di un Consiglio Mondiale dell'Alimentazione, il cui fondo finanziario doveva essere fornito dai diversi paesi, in proporzione alla loro ricchezza.
Una delegazione, guidata dall'australiano S. Bruce, fu inviata a Ginevra, alla Società delle Nazioni, per proporre questo grande capovolgimento. Fra la sorpresa generale, la proposta fu approvata, o almeno il suo principio fondamentale, e fu deciso di creare un Consiglio Mondiale dell'Alimentazione. Venne costituito un comitato di esperti, per precisare i modi di realizzazione dei progetti. Il rapporto di questo comitato fu approvato nel 1937, in una riunione della Società delle Nazioni. Nel 1938 i rappresentanti dei 22 paesi più ricchi, compresi gli Stati Uniti (che non erano membri della Società delle Nazioni) e l'Unione Sovietica, si sono riuniti a Ginevra, ma la guerra ha interrotto ogni cosa.
In seguito alla conferenza convocata da F.D. Roosevelt a Hot Springs (Virginia) nel maggio-giugno del 1943, nel 1945 ebbe luogo a Quebec una grande conferenza internazionale sull'alimentazione mondiale. Nonostante la sua importanza, essa non riuscì ad attirare l'attenzione dell'opinione pubblica, come avvenne invece per il processo di Norimberga contro i criminali di guerra. Il progetto di creare un Consiglio Mondiale dell'Alimentazione fu ripreso da lord J. Boyd Orr, questa volta senza successo. Su questo punto l'ONU andava meno lontano della Società delle Nazioni.
La conferenza si concluse invece con la creazione dell'Organizzazione per l'Agricoltura e l'Alimentazione (FAO), istituzione specializzata delle Nazioni Unite. Il nuovo organismo si è insediato dal 1951 a Roma, dove aveva già avuto sede l'Istituto Internazionale di Agricoltura. Suo compito è concorrere all'incremento della produzione agricola nel mondo, e al miglioramento dell'alimentazione.
Appena creato, il nuovo organismo ha portato a termine l'inchiesta mondiale sull'alimentazione, cominciata prima della guerra dalla Società delle Nazioni, e ne ha pubblicato i risultati nel 1946.
Come tutte le organizzazioni delle Nazioni Unite, la FAO non dispone di giurisdizione sovranazionale. Essa ha il compito di aiutare e suggerire, non di imporre.
La FAO dispone di agenzie regionali, promuove inchieste, compie studi, elabora statistiche, pubblica opere, organizza congressi regionali o mondiali, aiuta i paesi sottosviluppati, inviando esperti, concedendo sovvenzioni e, in caso di bisogno, fornendo generi alimentari.
Sono stati indetti due Congressi mondiali dell'alimentazione: il primo nel giugno del 1963, nel quadro della campagna contro la fame lanciata il primo luglio 1960, ha riunito a Washington 1.200 congressisti di ogni paese. Il secondo, nel giugno del 1970 all'Aia, ha riunito 1.500 congressisti e ha introdotto un'innovazione, dando più volte la parola al pubblico, e, in particolare, ai giovani. Del resto era stato creato un villaggio per i giovani dove ebbero luogo dibattiti, spesso assai vivaci, soprattutto quando i giovani dei paesi poco progrediti criticavano con forza i paesi ricchi, e in modo particolare la loro politica degli armamenti.
L'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità, Ginevra) e la FISE (Parigi) spesso formulano la loro opinione su questioni di economia alimentare; l'UNESCO ha una certa competenza in materia di scuole rurali. Del resto tutte le istituzioni specializzate trattano di problemi connessi con l'agricoltura e l'alimentazione, in particolare a Ginevra il GATT (Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio) e la UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo), che si occupano del commercio internazionale e in special modo dei prezzi. Per alcuni prodotti, come lo zucchero, esistono accordi internazionali riguardanti prezzi e quantità. Ritroveremo questa questione a proposito del commercio internazionale (v. sotto, cap. 4, È 1).
Di tutte le organizzazioni internazionali a carattere regionale, la più importante è la Comunità Economica Europea, soprattutto per la politica agricola che è riuscita a darsi nonostante grandi difficoltà.
Prima della seconda guerra mondiale, non soltanto i dati sulle produzioni agricole nazionali erano poco conosciuti anche in paesi evoluti, ma non si poneva affatto il problema della loro conformità ai bisogni: su scala mondiale, il problema era impensabile. Certo non mancavano le leggende (bambini cinesi gettati ai maiali, cannibalismo africano, ecc.), ma esse servivano, in ultima analisi, a evitare e a eludere la questione.
Dopo la guerra il problema si è bruscamente imposto in tutta la sua portata e gravità: la guerra aveva fatto progredire le conoscenze di dietetica e, in Europa, aveva fatto prendere coscienza dei danni della sottoalimentazione; in reazione al nazismo e al razzismo, si è formata una sorta di ‛solidarietà umana'; la fine del colonialismo ha posto in nuova luce i rapporti internazionali; il rapido incremento della popolazione mondiale ha fatto sorgere nuovi timori.
Due opere di impostazione molto diversa, l'una maltusiana, l'altra antimaltusiana, hanno avuto una vasta risonanza. Nel 1948, il naturalista americano W. Vogt, nell'opera Road to Survival, ha denunciato i pericoli dell'incremento della popolazione mondiale e la minaccia di una carestia generale. Nel 1949, nell'opera Geopolitica da fome, il brasiliano J. de Castro ha mostrato la portata delle carenze alimentari in numerose regioni del mondo. Per molti fu una rivelazione.
Nel 1950, un comitato di esperti delle Nazioni Unite, ha steso un rapporto allarmante sulla necessità di investimenti dei paesi sottosviluppati. Da allora il problema è aperto.
Spesso hanno luogo confusioni, in seguito ad un uso errato dei termini: l'espressione ‛fame', usata per commuovere l'opinione pubblica, è spesso impropria. Un bambino saziato di manioca non ha fame, ma nondimeno, potrebbe ugualmente avere delle carenze. Del resto non è provato che un uomo che mangi secondo la propria fame, agisca a vantaggio della propria salute. Dobbiamo perciò distinguere: a) la fame, ovvero il desiderio individuale, più o meno vivo, di consumare del cibo; b) la carestia acuta, situazione grave di una collettività, che si traduce in scompensi fisiologici immediati, accompagnati da un anormale tasso di mortalità; c) la denutrizione e la malnutrizione croniche di un individuo o di una collettività, che si traducono in carenze, in una minore attitudine al lavoro, in una maggiore predisposizione a certe malattie.
Agli occhi dei colonizzatori bianchi, i Negri, gli Arabi e altri popoli hanno avuto per molto tempo la fama di essere pigri o indolenti. Questo giudizio non teneva conto delle loro possibilità fisiologiche. Poiché la loro alimentazione non era sufficiente, i loro sforzi e i loro ritmi erano istintivamente proporzionati alle loro possibilità. Nello stesso modo, all'inizio del XIX secolo, gli operai costretti a 12 o 13 ore di lavoro in fabbrica non potevano mantenere un ritmo serrato di attività, non potendo fornire più delle 500 o 600 calorie da essi consumate, oltre quelle necessarie al metabolismo basale. Quando la giornata è stata ridotta a 10 ore, ben presto essi hanno raggiunto di nuovo la loro precedente produzione.
Come l'ipoalimentazione, l'iperalimentazione può essere mortale. Ma al contrario della prima, quest'ultima è volontaria e non è accompagnata da sofferenze se non per le malattie che ne derivano.
Numerosi medici hanno denunciato, dall'inizio del secolo ed anche precedentemente, gli eccessi di alimentazione al di sopra dei 40 anni. Per molto tempo, le persone nutrite meglio sono state proprio quelle che non facevano alcun moto, non bruciavano gli alimenti e li trasformavano in grasso.
Del resto i membri delle classi sociali privilegiate si distinguevano spesso per la pinguedine, soprattutto le donne.
Le esperienze della grande crisi degli anni trenta e della seconda guerra mondiale hanno confermato l'opinione dei medici. Durante la crisi, nonostante la disoccupazione e la diminuzione del livello di vita, in Europa occidentale l'indice di mortalità ha continuato a scendere a un ritmo altrettanto rapido che in precedenza (in Germania per esempio dall'11,8% nel 1926-1930 al 10,9% nel 1934).
Le esperienze della seconda guerra mondiale hanno apportato nuove conferme: in Francia, dove vi è stata una severa riduzione del consumo alimentare, la mortalità fra i civili è aumentata del 18% dai 15 ai 25 anni, ma è diminuita del 9% dai 40 ai 55 anni (8% per gli uomini e 10% per le donne). In Svezia, in Inghilterra, in Danimarca, la mortalità ha toccato il minimo nel 1942-1943. In Svizzera, il dottor A. Fleisch (v., 1947) ha fatto sull'argomento studi degni di nota. Il numero di calorie consumate pro capite è passato dalle 2.500 calorie prima della guerra, alle 2.100 nel 1943, il consumo di proteine è diminuito del 25%, e quello di lipidi del 60-70%. Il miglioramento dello stato di salute è stato generale, con un minimo di mortalità nel 1943 (nel 1944 l'alimentazione è diventata troppo carente); la carie dentaria è diminuita della metà. La mortalità per affezioni all'apparato digerente è diminuita del 16%.
Il potere nutritivo dell'alcool è stato per lungo tempo oggetto di discussione; sembra certo che una piccola percentuale dell'alcool consumato possa essere bruciata, sostituendo così dei glucidi. Tuttavia, anche a questo riguardo, l'esperienza della seconda guerra mondiale è istruttiva. Per esempio, le regioni dove la mortalità è maggiormente aumentata in Francia (Linguadoca mediterranea), sono proprio quelle i cui abitanti hanno tentato di reintegrare col vino le calorie alimentari mancanti; al contrario, dove l'alcool era meno abbondante e il cibo rimase sufficiente (Bretagna, Normandia), la mortalità è diminuita del 6-10%.
Prima di giudicare i risultati, spendiamo qualche parola sui metodi impiegati per conoscere la produzione, la vendita e il consumo nei diversi paesi.
In linea di massima, il compito della FAO potrebbe limitarsi a unificare le informazioni fornite dagli Stati, siano essi membri o no, e a compiere i calcoli necessari. È necessario inoltre che il lavoro venga fatto per ogni prodotto, in ogni nazione. Nell'immediato dopoguerra i dati lasciavano molto a desiderare, persino in alcuni paesi evoluti. Anche in questo campo, la necessità ha agito da stimolo: per completare le tabelle internazionali, e fornire totali regionali e mondiali, è necessario disporre di cifre per ogni paese. Viene quindi esercitata una certa pressione dall'alto al basso dell'amministrazione. Le cifre iniziali, dovute in parte all'immaginazione delle agenzie locali, vengono a poco a poco corrette con dati più esatti.
Per quanto riguarda la produzione agricola, il metodo iniziale (valutazione delle superfici e del rendimento) a poco a poco è stato sostituito da inchieste seguite da verifiche. I sondaggi probabilistici, particolarmente delicati dove la natura del terreno è molto varia, e i controlli vengono talvolta compiuti con l'ausilio di fotografie aeree. Tutte queste operazioni richiedono la formazione di personale specializzato: esperti di inchieste, di statistiche, di agronomia ecc.
La popolazione agricola è per lo più rilevata dai censimenti generali della popolazione. Censimenti agricoli mondiali sono stati compiuti nel 1930, 1950, 1960, 1970. Ma lo spoglio di questi dati è troppo lungo (i risultati del censimento del 1960 sono apparsi soltanto tra il 1968 e il 1971), giacché i progressi realizzati con il calcolatore elettronico sono stati accompagnati da un regresso nell'esecuzione dei lavori non meccanizzabili.
Le vendite interne di generi alimentari sono, in generale, assai poco note e, il più delle volte, vengono ricavate da statistiche sui trasporti o da statistiche fiscali. Gli stock sono noti soltanto in parte.
Il commercio estero è invece suscettibile di rilievi statistici piuttosto precisi, sebbene si debbano prendere alcuni accorgimenti per conoscere il significato preciso delle cifre. Raramente le esportazioni di un determinato prodotto, dal paese A al paese B, coincidono con le importazioni dal paese A nel paese B, dello stesso prodotto, nello stesso periodo. Come abbiamo visto, per rilevare dati sul consumo sono possibili due metodi fondamentali. Il consumo globale per abitante in una nazione si ottiene, la maggior parte delle volte, con il bilancio: produzione+importazione−esportazione; il risultato di questi calcoli sarà poi corretto, per quanto è possibile, tenendo conto delle variazioni delle scorte. Ma in numerosi paesi, sono state condotte inchieste direttamente sulle famiglie di una determinata condizione sociale.
Fin dall'inizio degli anni cinquanta si è dovuta fare un'amara constatazione: le tecniche di produzione economica (soprattutto nel campo dell'agricoltura), e le tecniche di controllo delle nascite (soprattutto nel campo degli antifecondativi) si diffondevano assai meno rapidamente delle tecniche contro la mortalità. A causa di questa sfasatura, il rapido accrescimento, soprattutto nei paesi tropicali, di numerose popolazioni già malnutrite ha reso più difficile l'aumento, così necessario, del consumo alimentare. Negli anni cinquanta le previsioni demografiche, dovute alla felice iniziativa di J. Durand presso la Divisione della Popolazione delle Nazioni Unite, hanno mostrato la gravità di un simile compito; l'aumento della popolazione superava largamente il 2% nella maggior parte dei paesi, e in molti di essi anche il 3%. Bisognava dunque fronteggiare questo aumento, perché le carenze non si estendessero ancora. Ma anche lasciando da parte i problemi finanziari, le moderne tecniche agrarie non possono essere applicate in maniera adeguata senza un minimo d'istruzione. D'altra parte le macchine agricole rischiano qualche volta di creare dei disoccupati, senza tuttavia raggiungere l'obiettivo essenziale, che è quello dell'aumento della produzione per ettaro.
Il paragone con la situazione precedente la seconda guerra mondiale ha presto mostrato come il divario tra paesi ricchi e paesi poveri fosse ancora in aumento.
Si è valutato che prima della guerra (1937-1938), più della metà della popolazione mondiale consumava meno di 2.500 calorie ed era quindi ipoalimentata, pur attenendosi soltanto al fattore quantitativo. Circa 1/6 consumava tra le 2.250 e le 2.750 calorie; il resto, ossia meno di 1/3, consumava più di 2.750 calorie.
Dopo l'istituzione della FAO si sono potuti raccogliere dati più precisi, ma, per quanto riguarda l'anteguerra, essi concernono soprattutto i paesi ad alto sviluppo, ossia quelli che presentano meno problemi. Ecco intanto come si presentava all'inizio degli anni sessanta il consumo quotidiano di calorie e di proteine per abitante, in alcuni paesi anglosassoni e dell'Europa occidentale:
Non bisogna attribuire eccessiva importanza alle piccole differenze né tra paesi diversi, né in uno stesso paese in periodi diversi.
In linea di massima il consumo calorico dell'anteguerra era stato nuovamente raggiunto fin dal 1950 o dal 1952. La diminuzione nel consumo delle proteine osservata in alcuni paesi non è probante. Comunque i minimi fisiologici vengono raggiunti o superati.
Ecco ora i dati per l'Europa meridionale:
Nell'insieme il consumo rimaneva sempre inferiore a quello dell'Europa occidentale, soprattutto per le proteine animali, ma dalla guerra in poi erano stati compiuti importanti progressi.
Ecco ora dati analoghi per alcuni paesi sottosviluppati:
Benché le cifre non siano rappresentative del quadro complessivo (i paesi più malnutriti sono infatti anche quelli meno provvisti quanto a statistiche), la differenza è significativa, in particolare per quel che riguarda le proteine animali. Verso il 1960-1962 numerosi erano i paesi ancora al di sotto delle 2.000 calorie: Bolivia, Ecuador, El Salvador, Filippine, ‛Irāq, Libia, Gabon, Tunisia, ecc.
Per fronteggiare queste difficoltà nel 1960 è stata lanciata la campagna di lotta contro la fame.
Questi due anni sono stati caratterizzati da una grande crisi di pessimismo. Nel 1966 R. Dumont ha lanciato un grido di allarme, pubblicando l'opera: Nous allons à la famine. Circa nello stesso periodo W. e P. Paddock, negli Stati Uniti, hanno preannunciato una carestia per il 1975. Secondo il loro punto di vista, i paesi poveri dovrebbero essere divisi in tre categorie: quelli da aiutare a salvarsi, quelli da abbandonare a se stessi, e quelli da tenere in osservazione.
Alla Commissione per la Popolazione delle Nazioni Unite, riunita a New York nel 1965, B.R. Sen, direttore generale della FAO, ha chiesto la parola ancora prima che venisse affrontato l'ordine del giorno e ha dichiarato: Devo dirvi che noi, incaricati dell'agricoltura e dell'alimentazione nel mondo, abbiamo fallito nel nostro compito. Sta a voi, come Commissione per la Popolazione, indicare i mezzi per limitare il numero degli uomini
E tuttavia, in base ai risultati globali, un simile pessimismo non sembrava giustificato. Infatti la produzione alimentare per abitante era progredita abbastanza regolarmente da 100,0 nel 1958-1960 a 103,6 nel 1966.
È da un esame dettagliato che possiamo ricavarne la spiegazione: l'Europa e il Nordamerica hanno continuato la loro ascesa e si è accentuato il divario tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati. Dal 1960-1961 al 1965-1966 la produzione alimentare per abitante è ancora aumentata del 7% nei paesi sviluppati, è diminuita del 2% nei paesi in via di sviluppo. Spingendoci oltre vediamo che l'America Latina e il Medio Oriente hanno mantenuto la loro situazione; sono dunque soprattutto l'Africa e l'Estremo Oriente che destano serie preoccupazioni. In cinque anni, la produzione alimentare per abitante è diminuita del 9% in Pakistan, del 19% in Birmania, del 13% in India, del 20% nel Nepal. Anche l'Indonesia si è trovata in una situazione difficile, con un regresso del 5%. Nell'insieme l'Estremo Oriente diminuisce del 5% rispetto ad un livello già molto basso.
Il numero di calorie giornaliere è sceso in India a 1.810, in Indonesia a 1.870, e il consumo di proteine al di sotto dei 45 grammi al giorno (in India 5 grammi di proteine animali, con una diminuzione di un terzo rispetto all'anteguerra).
Si ebbe un periodo estremamente critico. L'aiuto alimentare diretto riuscì a malapena a salvare la situazione. Le importazioni in Estremo Oriente sono passate da 8.860.000 tonnellate nel 1961, a 16.960.000 tonnellate nel 1967 per il grano; e da 3.750.000 a 4.310.000 tonnellate per il riso. Principali fornitori o donatori sono stati: Australia, Unione Sovietica, Francia, e soprattutto Canada e Stati Uniti. In certe regioni questi cereali, inoltrati lungo percorsi molto ardui, arrivarono in extremis.
Migliori condizioni atmosferiche e l'introduzione di sementi di cereali ad alto rendimento hanno salvato la situazione. Le varietà di sementi, dovute all'opera di E.N. Borlaug (premio Nobel per la pace nel 1970), che hanno bisogno di più acqua e più concime, si adattano meglio a colture curate, dunque a contadini più ricchi, tuttavia questa considerazione sociale non deve arrestare l'azione, giacché l'essenziale è incrementare la produzione. Nel 1969-1970, la percentuale delle superfici coltivate con sementi ad alto rendimento, per quel che riguarda il riso, non superava il 7%.
Comunque, la produzione alimentare per abitante è risalita in Estremo Oriente, fino a superare il livello più alto raggiunto nel 1961. Ciò nonostante nel 1970 l'India accusava ancora un leggero calo.
Questo episodio si presta a due interpretazioni: o queste sementi sono arrivate per un caso fortuito nel momento opportuno, o la miseria ha accelerato le ricerche e ha permesso di ottenere il risultato; ipotesi che farebbe pensare all'esistenza di un equilibrio fondamentale, a livelli molto bassi. In ogni modo, non si tratta della soluzione del problema alimentare, ma di un semplice rinvio, comunque prezioso.
Confrontiamo ora, nel mondo intero, la situazione alimentare con quella precedente la seconda guerra mondiale (media 1934-1938).
La produzione alimentare ha registrato, nel 1970, un aumento del 95% che potrebbe far credere che il problema dell'alimentazione sia stato risolto, o sia in via di soluzione. Ma due osservazioni modificano radicalmente questo giudizio: a) la produzione per abitante è aumentata solo del 16%; b) questo aumento si è verificato quasi esclusivamente nei paesi sviluppati, che erano già ben nutriti. Infatti i dati d'incremento esaminati per paesi si presentano così:
Dato che l'Estremo Oriente è la zona più popolata nell'insieme dei paesi sottosviluppati, la produzione alimentare per abitante è qui pressappoco la stessa di prima della guerra.
Segnaliamo l'aumento particolarmente importante dei prodotti della pesca. La produzione in cifra assoluta si è triplicata dalla fine della guerra, e la produzione per abitante è aumentata del 70%. La produzione mondiale, esclusa la Cina, si avvicina ai 56 milioni di tonnellate, cifra che acquista tutta la sua importanza quando la si confronti con la cifra della carne (80 milioni di tonnellate), del latte (394 milioni) e delle uova (14 milioni). Tuttavia un terzo della produzione non è destinato direttamente all'alimentazione umana.
Il consumo alimentare è ancora molto insufficiente nella maggior parte dei paesi sottosviluppati, soprattutto per quel che riguarda le proteine e in particolare le proteine animali. Sono state condotte tre inchieste mondiali, nel 1946, nel 1953 e nel 1963, che non hanno dato risultati sicuri. Ma la FAO pubblica ogni anno cifre globali per ogni paese. Ecco il consumo giornaliero per abitante di alcuni paesi significativi intorno al 1970:
Dal periodo 1960-1962, per il quale abbiamo fornito dati più dettagliati, la situazione è cambiata solo per alcuni paesi, che hanno beneficiato di uno sviluppo economico piuttosto rapido (Giappone, Israele, Spagna, paesi socialisti d'Europa).
Per giudicare della diseguaglianza di alimentazione nel mondo, bisogna inoltre tener conto della diseguaglianza fra le classi sociali per quel che riguarda l'alimentazione. Nei paesi con situazione di carenza alimentare, la ripartizione quantitativa dei consumi alimentari è ancor più ineguale che nei paesi a livello di alimentazione sufficiente. La diseguaglianza si accentua ulteriormente per ciò che riguarda le proteine; sovente si sono infatti constatati consumi inferiori ai 30 grammi giornalieri pro capite.
Ecco la percentuale di nuclei familiari contadini, divisi per categorie di reddito, in cui à Madras si consumano meno di 27 grammi di proteine al giorno pro capite: meno di 5 rupie mensili, 46%; da 50 a 100 rupie mensili, 36%; 100 e più rupie mensili, 17%.
Dopo la guerra si è avuta una trasformazione nel consumo nei paesi ricchi, con una diminuzione degli alimenti a buon mercato, come pane e patate, a vantaggio di alimenti più costosi: prodotti animali, frutta e legumi freschi, conserve alimentari. Così, dopo 35 anni di osservazione, il risultato non è stato né il trionfo dell'abbondanza, annunciato da ottimisti superficiali, né la carestia generale paventata dai pessimisti. Per più della metà degli uomini, la situazione è stata caratterizzata da un'evoluzione deludente e contraddittoria: l'incremento nella miseria. Vedremo più avanti le ragioni di questo insuccesso.
Anche qui abbiamo due sistemi di misura: l'osservazione diretta su un gruppo limitato di famiglie, e il calcolo di ciò che rappresenta il consumo alimentare nel reddito nazionale o nel consumo nazionale.
Secondo la vecchia ‛legge di Engel', quando il reddito di una famiglia aumenta, le spese alimentari non aumentano nella stessa proporzione, e quindi nel bilancio diminuisce la quota destinata all'alimentazione. In altre parole, il bisogno vitale è meno elastico degli altri bisogni. Nei paesi sviluppati, la quota destinata all'alimentazione è passata dal 50% circa di prima della guerra, al 30% o anche meno, riferendosi queste cifre piuttosto a dei modesti o medi salariati. Nei paesi sottosviluppati, la percentuale è molto più elevata (tenendo conto, beninteso, dell'autoconsumo come di una spesa), ma essa varia in maniera notevole da un paese all'altro. D'altra parte essa è leggermente diminuita anche in questi paesi, giacché il reddito per abitante è leggermente aumentato in valore reale (in 10 anni del 60% circa), mentre il consumo alimentare, come abbiamo visto, è rimasto nel dopoguerra del tutto invariato. Questo è l'effetto della concorrenza delle altre attività economiche, delle quali parleremo più avanti.
La contabilità nazionale non permette di fare dei paragoni validi, giacché essa riguarda più la produzione agricola che l'alimentazione.
Lo stato di carestia acuta è oggi raro e, il più delle volte, dovuto a circostanze particolari (Biafra 1968-1970, Bengala 1971); ma, in gran parte del mondo, soprattutto nelle zone tropicali, gli uomini soffrono di ipoalimentazione e di malnutrizione, e particolarmente di mancanza di proteine. Ne derivano una debolezza generale e diverse carenze, fra le quali il kwashiorkor descritto da Lieurade nel 1932, che infierisce sui bambini dopo lo svezzamento.
Del resto in molti paesi si ha una fase critica tra il primo e il quinto anno di età, quando il bambino non è più nutrito dalla madre, e non è ancora in grado di cercarsi da solo complementi nutritivi, proteine in particolare.
Spesso si legge che milioni di uomini muoiono ogni anno di fame o, per meglio dire, di denutrizione. Ma nessuno è in grado di fornire, su questo punto, nemmeno dati approssimativi, giacché il fenomeno sfugge a ogni valutazione e perfino a ogni definizione. Bisognerebbe sapere, insomma, di quanto diminuirebbe la mortalità se gli uomini fossero nutriti a sufficienza pur rimanendo nelle stesse condizioni economiche e sociali (cure mediche, istruzione, igiene, abitazioni, ecc.). Ma questi fattori variano tutti contemporaneamente. L'indice di mortalità varia molto da un paese sottosviluppato all'altro (dal 7‰ al 35‰ in certe regioni dell'Africa Nera). Se prendiamo in considerazione la media del 15‰, abbiamo un'eccedenza dell'8‰ rispetto ai paesi più sviluppati. Su 1.700 milioni di abitanti ci sarebbero quindi 15 milioni di morti all'anno per eccesso, ma questo sarebbe un limite molto più alto di quello imputabile all'ipoalimentazione, poiché tutti i fattori di sottosviluppo agiscono insieme.
Nei paesi sviluppati l'iperalimentazione è invece molto più frequente della ipoalimentazione e si osserva anche in classi modeste. È ancora più difficile misurarne gli effetti, poiché l'eccesso di nutrimento spesso si accompagna ad un eccessivo consumo di alcool.
La maggiore mortalità maschile, osservata in diversi paesi, rivela una tendenza all'aumento; ma essa è prova più di un eccessivo consumo di alcool che di una iperalimentazione. Ad esempio essa è molto debole nei Paesi Bassi, molto elevata in Francia (differenza di sei anni della vita media secondo il sesso) e in Unione Sovietica (nove anni). Essa può dipendere anche dai diversi modi di vita.
La mortalità per affezioni cardiovascolari è più elevata del 30% negli Stati Uniti rispetto al Giappone, tenendo conto della ripartizione secondo l'età. Non si tratta di una questione di razza giacché, per questa malattia, i Giapponesi della California hanno un tasso di mortalità pari a quello degli altri Americani.
Il commercio interno, cioè all'interno delle frontiere nazionali, dipende in larga parte dal grado di sviluppo. L'autarchia iniziale, pressoché totale, del contadino o almeno del villaggio, cede il posto all'urbanizzazione e alla specializzazione delle colture, riducendo al minimo l'autoconsumo. Il commercio interno mal si presta a rilevazioni statistiche, e ancor meno a comparazioni internazionali. Il censimento della popolazione per professioni dà tuttavia un'idea della sua importanza.
Come il commercio, le industrie alimentari sono direttamente correlate al grado di sviluppo. In uno stadio primitivo, il contadino fa il pane, il vino, macella egli stesso il bestiame, prepara cibi sotto sale e salumi per l'inverno e, naturalmente, provvede a cuocere da sé gli alimenti.
In un paese molto evoluto, la tendenza all'industrializzazione, o almeno il ricorso a professionisti, si accentua sotto forme diverse: burro, olio, latticini e zucchero naturalmente, sono prodotti da aziende pubbliche nei paesi socialisti) o da cooperative. Questa trasformazione che libera il contadino, può prodursi anche per ridurre il lavoro dei consumatori: fabbriche di conserve, di marmellate, di succhi di frutta e, in una fase ancora più elaborata, preparazione di piatti cucinati, ristoranti.
I vari passaggi, i trasporti, le trasformazioni, le imposte da cui sono gravati, hanno l'effetto di alzare di molto i prezzi, o più precisamente di aumentare la differenza tra i prezzi alla produzione e i prezzi di vendita al dettaglio, differenza di cui si lamentano in pari modo produttori e consumatori. Le inchieste condotte su questo problema e i più vari controlli hanno mostrato le gravi difficoltà che si incontrano nella riduzione di questa differenza.
Nei paesi sviluppati si segue una politica volta a proteggere l'agricoltura, e quindi anche a mantenere i prezzi degli alimenti a un livello superiore a quello del mercato. Oli eventuali prodotti in eccesso sono immagazzinati o venduti in perdita.
Come il commercio interno, il commercio internazionale trae beneficio dallo sviluppo generale, conseguente alla diversificazione delle colture e dei consumi.
Il commercio internazionale si può meglio seguire e misurare, grazie alle statistiche doganali, che riguardano tutti i prodotti, compresi quelli che non sono sottoposti ad alcun diritto doganale. Ma le statistiche sono qualitativamente diverse, concernendo in genere l'agricoltura più che l'alimentazione, e male si prestano a confronti su vasta scala.
La quota dell'agricoltura nel commercio complessivo varia molto a seconda dei paesi, così come il bilancio. Ecco intanto questa percentuale in alcuni paesi grandi esportatori:
Quasi tutti i paesi sottosviluppati esportano prodotti agricoli, ma non sempre si tratta di prodotti alimentari. Questi prodotti vengono importati soprattutto nei paesi europei o nei paesi produttori di petrolio:
Produttori di materie prime e di alimenti, i paesi sottosviluppati si lamentano di vendere questi prodotti a prezzi da considerare senz'altro insufficienti se messi a confronto con i prezzi dei manufatti e dei prodotti industriali che essi comprano. Numerosi sono fra gli occidentali coloro che accettano questo punto di vista (trade, not aid). Nella conferenza di Santiago, nell'aprile 1972, hanno avuto luogo ancora una volta dei dibattiti su questa questione che in realtà può considerarsi mal posta. Il deterioramento dei termini di scambio (terms of trade), non è in effetti provato; il risultato dipende dal periodo di partenza. D'altra parte, la qualità dei manufatti migliora, senza che l'indice dei prezzi ne tenga conto.
Comunque, si sono fatti sforzi per regolarizzare e, se possibile, rivalutare i prezzi delle materie prime. Il caso più classico è quello dello zucchero e il metodo più comune è quello delle scorte. Questi procedimenti sono però pericolosi; perché, come è accaduto più volte, sotto il peso delle scorte accumulate, si rischia di arrivare a un crollo finale, e in qualche caso di favorire, nei paesi occidentali, la produzione di prodotti sintetici. Infine la riuscita, poco probabile, di un tale progetto, paradossalmente porterebbe al ritorno di accordi di tipo coloniale, giacché i paesi sottosviluppati resterebbero confinati nella produzione delle materie prime.
Per quanto riguarda la rilevazione della popolazione impiegata nell'agricoltura, le statistiche correnti non separano l'alimentazione dall'agricoltura, laddove un coltivatore può dedicarsi a colture alimentari come a colture industriali. La popolazione occupata nella pesca non è invece compresa nella popolazione agricola.
La percentuale di agricoltori, nella popolazione attiva, è uno degli indici classici dello sviluppo di un paese, e si presta a confronti nel tempo e nello spazio. Questi dati, ciò nonostante, sono lungi dall'essere precisi, giacché la definizione della donna agricoltore varia a seconda dei paesi, e a volte a seconda dei censimenti in uno stesso paese. Con queste riserve, ecco per alcuni paesi sviluppati il numero di agricoltori, per ogni 100 persone attive, nel periodo 1967- 1968:
Questo indice è molto sensibile, come si vede dai dati dell'Italia e del Giappone. Questi paesi e più ancora la Spagna, dispongono di una riserva di popolazione attiva, che richiede un'industrializzazione più spinta.
In tutti i paesi socialisti, il ritardo è ugualmente molto accentuato:
Tra i paesi sottosviluppati si notano ragguardevoli differenze che dipendono in parte dall'aleatorietà dei censimenti:
Se lasciamo da parte l'Argentina e il Cile, più avanzati e fuori discussione da un punto di vista alimentare, vediamo che almeno la metà della popolazione attiva lavora nell'agricoltura; la proporzione arriva fino al 90 o al 95% in certi paesi africani. I paesi più malnutriti sono anche quelli che compiono lo sforzo umano più grande per nutrirsi: il che prova la scarsità del loro rendimento.
Si può anche tener presente la percentuale della produzione agricola nel prodotto interno lordo al costo dei fattori. Ecco alcuni dati per il 1967:
Queste cifre sono lungi dal rappresentare la parte dell'alimentazione nell'economia di ciascun paese, poiché bisogna tener conto: a) del commercio estero, molto diverso da un paese all'altro (il Regno Unito è essenzialmente importatore, la Nuova Zelanda esportatrice); b) del valore aggiunto con le industrie alimentari e i commerci, imposte comprese (nei paesi ad alto grado di sviluppo bisognerebbe moltiplicare le cifre almeno per due); c) del fatto che il prodotto interno lordo al costo dei fattori è notevolmente superiore alla spesa nazionale, giacché è comprensivo degli ammortamenti e del costo di certi servizi pubblici improduttivi.
Nonostante queste differenze, l'ordine generale dei paesi è abbastanza significativo.
La penuria alimentare evoca facilmente l'idea della sovrappopolazione. Tuttavia le popolazioni a bassa densità sprecano il suolo e lo degradano, come spesso avviene in Africa.
Secondo J. de Castro, autore di Geopolitica da fome, il consumo di proteine ridurrebbe la fecondità fisiologica. Questa legge, già enunciata da Ch. Fourier (la ‛gastrosofia'), poi ripresa da Th. Doubleday e da H. Spencer, non ha avuto alcuna conferma. I Canadesi di lingua francese del XIX secolo, i più fecondi di tutta la storia, avevano proteine a sufficienza. Senza dubbio, le cifre darebbero, tra consumo di proteine e fecondità, una forte correlazione negativa, ma senza relazione di causa-effetto, giacché si tratta di due indici dello sviluppo generale. Il fenomeno è sociale e non fisiologico. Una correlazione negativa altrettanto forte si potrebbe trovare tra la fecondità e il numero di cabine telefoniche ogni 1.000 abitanti, o tutt'altro indice.
Dal 1966, la FAO si interessa della pianificazione della famiglia. Essa riconosce la necessità di preoccuparsi della limitazione delle nascite nei paesi già molto popolati; e poiché un'alimentazione migliore può ridurre la mortalità infantile, occorre ridurre il numero dei bambini nella famiglia.
Bisogna combattere anche l'ignoranza in materia alimentare. L'istruzione e la soppressione dei tabù possono permettere non solo una migliore riutilizzazione delle risorse, ma favorire anche la pianificazione familiare.
Dopo 25 o addirittura 35 anni di presa di coscienza del problema dell'alimentazione nel mondo e di sforzi per risolverlo, l'alimentazione rimane insufficiente, e le differenze tra gli uomini si sono ancora accentuate, a seconda della regione dove sono nati e a seconda della classe sociale di appartenenza. Quest'insuccesso è dovuto a due cause fondamentali: a) l'aumento rapido ed eccezionale della popolazione, ossia delle bocche da sfamare; b) l'insufficienza degli sforzi e il loro errato orientamento.
Abbiamo già visto i dati relativi all'incremento della popolazione; precisiamo ora che l'affermazione: ‟le braccia sono aumentate nella stessa proporzione delle bocche", non è del tutto esatta, né probante, perché le terre e i mezzi per coltivarle non hanno seguito di pari passo l'aumento della popolazione.
L'insufficienza degli sforzi potrebbe essere riassunta in una semplice formula: l'obiettivo alimentazione, tanto vitale, non ha avuto la priorità assoluta, ma questo punto di vista va chiarito perché comporta due aspetti fra loro complementari.
1. Grande responsabile è stata la supremazia dell'industria, o, più esattamente, la tesi secondo la quale l'industria arricchisce più dell'agricoltura e nobilita, in qualche modo, chi vi fa ricorso. I Sovietici sono stati influenzati in larga misura dal dogma secondo cui l'industria pesante sarebbe liberatrice. Si è fatto appello anche allo sviluppo occidentale del XIX secolo, senza tener conto che la nazione d'avanguardia, l'Inghilterra, deve il suo sviluppo iniziale al XVIII secolo, e il suo vantaggio in campo industriale sugli altri paesi al progresso nell'agricoltura. Dal giorno in cui il cibo è stato relativamente sufficiente è stato possibile impiegare un numero adeguato di marittimi, di operai, di carpentieri, ecc. Questa preminenza attribuita all'industria si è manifestata sia sul piano nazionale che su scala internazionale. Nel 1966-1967 l'aiuto ai paesi in via di sviluppo (prestiti della BIRS, Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, e crediti dell'AID, Associazione Internazionale per lo Sviluppo) non rappresentava ancora, per l'alimentazione, che il 7% dell'aiuto totale (ivi comprese anche le colture industriali i cui dati non sono separabili). In seguito alla minaccia di carestia la percentuale è stata tardivamente portata al 18% nel 1969-1970, l'irrigazione da sola è così passata dall'1,7 al 9%.
2. Il consumatore stesso, pur essendo la vittima, non ha attribuito all'alimentazione l'importanza che merita. Per dirla in soldoni, essa ha subito quella che si può chiamare la ‛concorrenza del transistor'. Nella storia, i non abbienti non hanno mai rispettato la gerarchia dei bisogni, come può definirli il fisiologo o il moralista. La tentazione era là, sotto forma di oggetti diversi, provenienti il più delle volte dai paesi sviluppati. Una domanda alimentare più forte avrebbe senza dubbio fatto salire i prezzi, ma allo stesso tempo stimolato la produzione.
Il disfavore di cui hanno sofferto l'agricoltura e l'alimentazione s'inquadra più generalmente in tutto il processo di sviluppo: i paesi arretrati hanno manifestato un vivo amor proprio che li porta a voler bruciare le tappe e a non lasciarsi confinare nelle attività meno rilevanti. I paesi evoluti hanno spinto nello stesso senso, per paura di essere accusati di colonialismo o di razzismo. È stato necessario il grave allarme del 1965-1966 perché la verità cominciasse a manifestarsi e perché il sentimento cedesse davanti alla realtà.
Possiamo inoltre menzionare l'insufficienza delle riforme agrarie, gli sprechi dei latifondi soprattutto in America Latina.
A prima vista, la necessità per i paesi ricchi di limitare la produzione per mancanza di mercato, e l'estremo bisogno dei paesi poveri sembrano complementari. La soluzione non è comunque quella di una ridistribuzione diretta, per due motivi.
1. Le eccedenze reali o potenziali di cereali in alcuni paesi (Stati Uniti, Canada, e soprattutto Francia) sarebbero di gran lunga insufficienti a soddisfare il fabbisogno di due miliardi di persone. Aggiungere 400 calorie al giorno a testa, equivarrebbe a 700 milioni di tonnellate di cereali all'anno, cifra fuori da ogni possibilità. Bisognerebbe fare anche il calcolo in calorie vegetali primarie, per tener conto della carenza di proteine.
2. L'aiuto alimentare diretto rischierebbe di favorire un aumento dell'inerzia, e si creerebbe quasi un immenso campo mondiale di profughi. Questa soluzione sarebbe troppo contraria al famoso proverbio cinese: ‟Dai a un uomo un pesce, mangerà un giorno, insegnagli a pescare, mangerà tutta la vita".
Comunque l'aiuto diretto s'impone in due casi: a) quando la carestia è in atto o è alle porte (in questo caso è una questione d'urgenza; l'aiuto prende soprattutto la forma di ‛scambi speciali'); b) quando è dato in cambio di lavori produttivi stabiliti in precedenza, e quando serve a nutrire i lavoratori adibiti a questi lavori.
Nel 1969, 81 milioni di dollari in alimenti sono stati forniti a questo scopo dal Programma Alimentare Mondiale, che era stato stabilito all'indomani della campagna contro la fame.
Non bisogna confondere il Programma Alimentare Mondiale con il Piano Indicativo Mondiale della FAO, che mira a un progresso generale della produzione agricola. Stabilito nel 1968, all'indomani degli anni duri per l'Estremo Oriente, e distribuito il primo luglio 1969, esso ha previsto dei settori di concentrazione e di priorità articolati in cinque punti: a) mobilitazione di risorse umane; b) promozione di varietà di cereali ad alto rendimento; c) eliminazione della carenza proteica; d) guerra allo spreco; e) profitti ed economie di valuta.
È stata istituita una Banca Internazionale per l'Alimentazione.
Fino ad oggi la Cina e i paesi socialisti dell'Estremo Oriente, vale a dire circa 1/4 della popolazione mondiale, non hanno figurato nelle statistiche alimentari. Questa lacuna verrà forse colmata in un prossimo avvenire, ma fin d'ora è possibile gettare uno sguardo sul problema fondamentale dei cereali.
Il consumo dei cereali è aumentato in Cina da 156 milioni di tonnellate nel 1953 a 204 milioni nel 1970, con un incremento del 31%. Non si conoscevano bene i dati circa la popolazione. Nel 1953 essa doveva raggiungere circa i 596 milioni (Cina continentale), il che corrisponde a 262 kg annui per abitante, pari a 720 grammi al giorno.
L'incremento della popolazione non è noto, ma si può stimare che essa oggi superi gli 800 milioni. I calcoli propriamente demografici porterebbero a dare delle cifre anche più elevate, ma l'argomento contrario è fornito proprio dal consumo di cereali. Dato che la popolazione non sembra soffrire di carenze, non le si può attribuire un incremento più alto di quello del consumo dei cereali.
Se ne conclude che lo sforzo per la limitazione delle nascite ha ottenuto risultati molto notevoli.
Ci troviamo qui sul terreno decisivo. Quando avremo vinto la battaglia delle proteine ci è lecito pensare che avremo vinto anche quella dell'alimentazione. Per ora comunque, ricordiamolo, il deficit è grave; il consumo giornaliero è il seguente:
Procedendo in questo modo, il deficit mondiale raggiungerebbe i 42 milioni di tonnellate nel 1980 e i 65 milioni alla fine del secolo.
Attualmente il prezzo delle proteine varia sul mercato in notevole misura a seconda della qualità, da 52 centesimi di dollaro (S.U.A.) al kg per la soia una volta estrattone l'olio, a 450 centesimi per l'uovo.
In questo settore, inoltre, i paesi ricchi provocano, pur senza cattive intenzioni, ma per un meccanismo implacabile, la miseria dei paesi poveri. Per accrescere il consumo animale, utilizzano come cibo per il bestiame prodotti che potrebbero servire per l'alimentazione umana: soprattutto farine di pesce e soia, che forniscono una quantità notevole di proteine a basso costo.
Al contrario, fortunatamente, i paesi sviluppati possono mettere al servizio di tutti le risorse della scienza e della tecnica; la chimica e la biologia svolgono infatti in questo campo un ruolo importante.
Nel 1955 l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha creato il Panel of Experts on the Protein Problem Confronting Developing Countries. Nel 1968 questo organismo è stato promosso al rango di organo consultivo principale.
Nel 1967, un rapporto fatto proprio dal Consiglio Economico e Sociale e dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite fornisce i mezzi per combattere la penuria di proteine, proponendo i seguenti sette obiettivi: a) aumentare la produzione normale di proteine di origine agricola; b) accrescere i prodotti della pesca; c) ridurre le perdite di calorie nelle diverse fasi di elaborazione dei prodotti; d) aumentare il consumo umano diretto di semi oleosi e dei loro derivati; e) incoraggiare la produzione e il consumo di concentrati proteici di pesce; f) accrescere la produzione e il consumo di amminoacidi sintetici; g) incoraggiare le ricerche sulle proteine derivate da organismi unicellulari.
I primi tre obiettivi sono classici e la loro enunciazione è puramente formale. Il quarto e il quinto mirano a una migliore utilizzazione da parte dell'uomo delle sue risorse. Sono soprattutto gli ultimi due che attirano l'attenzione per le prospettive che aprono.
La sintesi di vari amminoacidi è stata realizzata da molti anni. Così si aggiunge la lisina al grano, il triptofano al mais. D'altra parte, la produzione di azoto non proteico e specialmente di urea ha migliorato in modo decisivo l'alimentazione del bestiame: i bovini, in particolare, operano la sintesi delle proteine a base di urea prodotta a basso costo dall'industria. La produzione mondiale di urea è passata da 150.000 tonnellate nel 1965 a 1.000.000 nel 1970.
Quanto alla derivazione di proteine da organismi unicellulari, essa rappresenta il procedimento che offre maggiori prospettive. Non si tratta, come è stato detto, di produrre bistecche di petrolio, ma di nutrire microrganismi unicellulari, utilizzando l'energia del gas naturale o di idrocarburi derivati dal petrolio. Ideato nel 1957 da A. Champagnat, il procedimento è passato allo stadio commerciale, poiché il prezzo sembra inferiore a quello delle proteine di soia. Esistono ancora forti divergenze sulle quantità che se ne possono produrre. La concorrenza tra le macchine degli uomini ricchi e lo stomaco degli uomini poveri potrebbe infatti porre un giorno problemi delicati.
Anche certi amidi vegetali servono alla nutrizione di microrganismi unicellulari. Il petrolio è, d'altronde, lungi dall'essere l'unica fonte di energia. In Giappone sono state coltivate, senza grande successo, le Chlorellae e lo Scenedesmus. Le Spirulines o alghe azzurre sono coltivate in bacini soleggiati.
Il problema è in piena evoluzione ed è lecito nutrire vive speranze, ma il compito è immenso e i progressi troppo lenti.
Un'alimentazione mondiale sufficiente, obiettivo che nessuno contesta, presenta due aspetti, certo strettamente legati, ma di carattere diverso e spesso esaminati separatamente: a) aspetto tecnico, cioè l'accrescimento delle risorse; b) aspetto socio-politico, in particolare i rapporti tra paesi ricchi e paesi poveri.
Sul piano propriamente tecnico, globale, le opinioni ottimiste e pessimiste sono molto discordanti. Questi punti di vista conducono sia a un egoismo puro, come quello dei Paddock precedentemente citato, sia a una concezione che invita il mondo intero a rinunciare non solo all'incremento della popolazione (zero grow rate), ma anche all'espansione economica, in modo da preservare il capitale naturale.
I loro argomenti si basano sulla scienza pura e sulle reazioni dell'uomo davanti alle difficoltà.
E. Boserup pensa che l'incremento demografico darà alla produzione l'impulso necessario. È il concetto della difficoltà creativa. In effetti le reazioni dell'uomo davanti alle difficoltà hanno spesso smentito le previsioni dei pessimisti.
Verso la metà del XVIII secolo, ad esempio, sono stati espressi, a ragion veduta, vivi timori, riguardanti la penuria di legname, poiché l'incremento della popolazione provocava contemporaneamente un aumento del consumo e una diminuzione delle risorse, a causa del diboscamento. L'importanza stessa delle perdite e degli sprechi è un fattore positivo, poiché essi forniscono, in un certo senso, una riserva da sfruttare.
Ancora più ottimista di E. Boserup, C. Clark non pone alcun limite alle possibilità mondiali di nutrimento. Quanto all'agronomo F. Baade (v., 1963), già direttore dell'Istituto dell'Economia Mondiale di Kiel, egli riteneva, verso il 1960, che la terra potesse nutrire più di 30 miliardi di uomini.
Sempre sul piano tecnico, le principali ragioni per sperare sono: a) la chimica di sintesi, di cui abbiamo già parlato a proposito delle proteine; b) la desalinizzazione dell'acqua marina (tecnicamente risolta, non lo è economicamente; ma quando il prezzo di costo sarà sufficientemente diminuito, l'irrigazione permetterà grandi realizzazioni, in particolare nel Medio Oriente); c) le risorse del mare; mentre la terra è coltivata da diverse migliaia di anni, lo sfruttamento del mare resta allo stadio della raccolta, anteriore alla rivoluzione neolitica.
La produzione annuale di vegetali negli oceani può essere stimata intorno ai 130 miliardi di tonnellate, ma il rendimento è in realtà estremamente basso. Il plancton animale, primo anello della catena, comporta già una perdita dall'80 al 90%. Altre due cospicue perdite, del 90% ognuna, sopraggiungono nella produzione della carne di pesce prima, del pesce commestibile poi. Cosicché in definitiva, 5.000 calorie di plancton vegetale primitivo si risolvono in sole 100 calorie di aringa e in una o due calorie di tonno. I progetti di coltura ittica su vasta scala presuppongono come è comprensibile un'organizzazione internazionale. L'oceanografia attira giustamente un numero sempre più grande di giovani ricercatori.
Dopo il segnale di allarme dato da W. Vogt (v. sopra, cap. 2, È c) il numero dei pessimisti non fa che aumentare, soprattutto negli Stati Uniti.
Secondo la tesi più classica, gli sforzi per limitare le nascite nei paesi in pericolo (India e Pakistan soprattutto), e insieme la sfasatura tra la diffusione delle tecniche contro la mortalità e altre tecniche, ha creato quella che può essere considerata una corsa verso la morte che non è più possibile fermare. A questo argomento iniziale si aggiunge ancora quello dell'inquinamento, nei suoi vari aspetti, ossia la distruzione del capitale naturale proprio per effetto della potenza e dei progressi della scienza. Quest'ultima si ritorce così contro gli uomini. In particolare, dicono sempre i pessimisti, il mare, che dà adito a tante speranze, è contaminato progressivamente dai rifiuti dell'uomo ed è costantemente minacciato, a causa della fragilità delle grandi petroliere, da una catastrofe ben più disastrosa dei danni provocati dalla Torrey Canyon.
Già considerando i punti di partenza, d'altronde, la sproporzione delle risorse è chiaramente visibile. Ecco la ripartizione delle terre coltivabili in milioni di ettari secondo i dati della FAO (1966):
Anche se si vuol prendere in considerazione l'estensione delle terre che devono ancora essere conquistate dall'uomo e che sono localizzate in Africa e in America Latina, la sproporzione è rilevante, tenuto conto delle rispettive popolazioni.
In ogni modo, gli sforzi più meritevoli si scontreranno, affermano i pessimisti, con la penuria, già preoccupante, dei concimi minerali, fosfati e potassio, e con la mancanza d'acqua, già preoccupante nei paesi sviluppati. Infatti questi ultimi consumano l'82% della produzione mondiale di concime.
P.R. Ehrlich si è espresso in modo categorico: ‟La battaglia per nutrire l'umanità è finita. Essa è perduta". Ed E. Snow concludeva tristemente: ‟Li vedremo morire alla televisione".
È più che evidente che i pessimisti non possono giungere a fornire una previsione o addirittura un calendario preciso, mentre gli ottimisti si credono obbligati a farlo. Qualche volta l'ottimismo è d'obbligo. È, in particolare, il caso dell'OCDE, che ha formulato, per l'anno 2050, il seguente pronostico:
Il contrasto tra paesi ricchi e paesi poveri acquista così tutta la sua forza. Da una parte popolazioni denutrite, dall'altra popolazioni iperalimentate che sfruttano solo una parte del suolo e consumano, al di fuori dell'alimentazione e dei bisogni vitali, risorse considerevoli. Questo problema è più importante del problema delle classi sociali all'interno di un paese ricco, poiché riguarda la vita. Gli sforzi dei paesi ricchi per diventarlo ancor di più vengono compiuti spesso direttamente o indirettamente a discapito degli altri paesi.
Affermare nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo che l'uomo ha il diritto di mangiare secondo i suoi bisogni, appaga la coscienza, ma non il corpo. Non potendo descrivere in questa sede le controversie sugli aiuti internazionali (v. popolazione), ricordiamo che la corsa agli armamenti compromette i bisogni vitali dei paesi poveri, pur non danneggiandoli immediatamente. Una parte delle risorse destinate a questo scopo sarebbe sufficiente ad assicurare lo sviluppo economico e culturale necessario alla limitazione delle nascite.
D'altra parte la vendita di armi da parte dei paesi ricchi ai paesi poveri, ha un effetto negativo diretto. In questo caso la responsabilità è ancora più evidente.
Il netto disaccordo su un tema di così fondamentale importanza non deve sorprendere. Si possono fare due osservazioni.
1. Una questione di ritmo e di scadenze. I limiti delle risorse alimentari del pianeta sono indubbi e la speranza di sfruttare altri mondi a fini alimentari diminuisce di anno in anno. Ma i nostri limiti non sono ben noti. Gli argomenti basati sui limiti senza ulteriori precisazioni, potevano presentarsi in ogni epoca storica. La risposta e la condotta da seguire sono molto diverse, a seconda del limite di tempo concesso all'uomo. Qual è l'orizzonte della previsione umana? L'annuncio di una catastrofe inevitabile entro un migliaio di anni, non provocherebbe alcun cambiamento nel comportamento, mentre una scadenza di mezzo secolo rientrerebbe nell'orizzonte dei viventi. Più la conoscenza sarà precisa, più le reazioni saranno vivaci.
2. Le reazioni alle difficoltà. Abbiamo parlato della difficoltà creativa, come anche dello stimolo costituito nel 1965 dalla minaccia di carestia. Lo sforzo sarà proporzionato all'intensità delle sofferenze e delle inquietudini. Questa osservazione non porta ad una conclusione ottimistica, giacché essa significa, al contrario, che i paesi ricchi lasceranno gli altri nel loro stato di carenza, non reagendo che in caso di catastrofe o di minaccia imminente. Continuerebbe così la moltiplicazione demografica nella miseria, osservata da più di un quarto di secolo, e che, sia ben chiaro, rende il problema più difficile di anno in anno.
Le ricerche scientifiche non devono condurre unicamente a metodi migliori per produrre alimenti, ma anche all'acquisizione di conoscenze atte ad aprire gli occhi agli uomini.
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