CLAUDIO Cieco, Appio (Appius Claudius C. f. App. n. Caecus)
Nato circa la metà del sec. IV a. C., rivesti intorno al 310 la censura ancora prima del consolato. Come censore è famoso per aver costruito il primo acquedotto romano, quello dell'acqua Appia, e la prima grande strada militare, quella da Roma a Capua che da lui prese il nome. Inoltre per primo distribui fra tutte le tribù quei cittadini che non avevano beni fondiarî, compresi i figli dei liberti, e permise loro d'iscriversi in tutte le classi dell'ordinamento centuriato in proporzione delle loro ricchezze: riforma audace e feconda di conseguenze in una società che fino allora aveva messo in condizione privilegiata i proprietarî, patrizî o plebei che fossero. Anche nella sua lectio senatus C., giusta lo spirito della sua riforma, introdusse uomini nuovi e figli di liberti. Ma se la sua riforma per ciò che riguarda i comizî rimase, nonostante le modificazioni apportatevi poi da Fabio Rulliano, la sua lectio senatus sollevò tale scandalo che i nuovi consoli non convocarono il senato secondo la sua lista ma secondo quella dei censori antecedenti. Fu poi Appio console due volte, nel 307 e nel 296, avendo sempre a collega Lucio Volumnio. Nel primo consolato non pare prendesse parte attiva alla guerra che allora si combatteva contro i Sanniti; nel secondo ci viene riferito di sue vittorie, ma la tradizione è molto incerta e ad ogni modo né egli né il collega trionfarono. L'ultimo atto della sua vita politica fu il discorso in senato per combattere la pace con Pirro nel 280. Aiutato dalle contingenze, cioè probabilmente dall'offerta di aiuto fatta allora da Cartagine, ottenne l'intento e la guerra continuò.
Ardito innovatore in politica, C. è il primo degli antichi personaggi romani la cui personalità si stacchi nettamente sullo sfondo della tradizione. Egli era considerato anche come il primo antico prosatore latino. Non c'è ragione infatti di mettere in dubbio l'autenticità di quella sua orazione contro Pirro che si leggeva anche al tempo di Cicerone. Si può invece dubitare se abbiano fondamento le notizie che ce ne dànno Plutarco ed Appiano. Forse più degna di fede era la parafrasi in versi che ne dava Ennio, della quale ci rimane un frammento. Appio scrisse anche una raccolta di sentenze desunte da fonti greche, tra le quali quella notissima fabrum esse suae quemque fortunae. Viene anche riguardato come il primo degli scrittori di diritto; ma si dubita sulla esattezza delle notizie di Pomponio circa il suo libro De usurpationibus. Ad ogni modo è certo che sotto i suoi auspici avvenne la pubblicazione fatta da Gneo Flavio dei fasti e delle formule delle actiones. Anche in religione fu novatore. Lasciando da parte gli aneddoti delle sue beghe con i tibicines, di cui avrebbe voluto invano frenare la licenza, certo è che avocò allo stato il culto di Ercole mll'ara massima, esercitato fino allora dalle genti dei Potizî e dei Pinarî, colpendo anche qui i privilegi aristocratici. Di che, secondo la leggenda (fondata soltanto sul suo cognome), sarebbe stato punito con la cecità. Lasciò, per quel che si dice, quattro figli e cinque figlie. Certo a lui, a torto o a ragione, riferivano la loro origine i Claudî Pulcri e i Neroni.
Fonti: Livio, IX, 29; 33-34; Diodoro, XX, 36. Inoltre il suo elogio in Corpus Inscr. Lat., I, 2ª ed., p. 292, n. 9-10; De Viris illustribus, XXXIV; Plutarco, Pirro, 19; Cicerone, Bruto, 16, 61, ecc.
Bibl.: Th. Mommsen, Römische Forschungen, I, p. 30 segg.; id., Römisches Staatsrecht, II, i, 3ª ed., Lipsia 1887, p. 402 segg.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, II, pp. 226 segg., 506 segg.; A. G. Amautucci, in Riv. di filologia, XXII (1893), p. 227 segg.; A. Cima, L'eloquenza latina prima di Cicerone, p. 9; E. Pais, Storia critica di Roma, IV, Roma 1920, p. 177 segg.; Lejay, in Revue de philologie, XLIV (1920), p. 92 segg.; M. Schanz e C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, I, 4ª ed., § 20; F. Leo, Geschichte der römischen Literatur, Berlino 1913, p. 42 segg.; F. Münzer, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., III, col. 268 segg.; J. Beloch, Römische Geschichte, Berlino 1926, p. 481 segg.