Poeta greco (n. circa 315 - m. dopo il 240 a. C.); nato forse a Tarso in Cilicia, fu però cittadino di Soli, nella stessa regione, dove ebbe un monumento e l'effige riprodotta sulle monete. Frequentò ad Atene la scuola stoica di Zenone e fu amico di Callimaco; dal 276 a. C. fu a Pella poeta ufficiale della corte di Macedonia, tranne una lunga dimora in Antiochia di Siria presso Antioco I Sotere, dove pubblicò un'edizione dell'Odissea, dopo quella di Zenodoto. Della sua opera poetica (inni, epicedî, elegie, epigrammi e una raccolta di poesie varie intitolata Κατὰ λεπτόν) ci resta il poema astronomico Fenomeni (Φαινόμενα) in 1154 esametri, che può dividersi in due parti: la prima (vv. 1-732) intorno alle apparizioni celesti e alle leggende che vi si riferiscono; la seconda (vv. 733-1154), sui segni del tempo, intitolata in manoscritti recenti Διοσημεῖαι o Προγνώσεις (Prognostici, lat. Prognostica, secondo la traduzione di Cicerone) e analoga a uno scritto in prosa conservatoci come di Teofrasto. L'opera di A. è una versificazione, non senza malintesi, dell'opera in prosa dell'astronomo Eudosso di Cnido, senza fantasia e vita poetica, ma con notevole eleganza formale. Ebbe appunto per ciò singolare fortuna: testo scolastico di astronomia già nell'antichità, fu l'unica opera di poesia greca rimasta viva in Occidente per tutto il Medioevo. Fra i latini fu tradotta da Varrone Atacino, Cicerone, Germanico, Rufo Festo Avieno.