ARNOLFO di Cambio.
Architetto, scultore e con ogni probabilità anche pittore, nacque a Colle Val d'Elsa (Siena) da Cambio (Guasti, 1887, doc. 24) e Perfetta (ivi, doc. 25), in una data grosso modo situabile intorno al 1240-1245. È ragionevole infatti supporre che fosse sui vent'anni nel 1265-1267, quando i documenti relativi al pulpito del duomo di Siena lo attestano ancora discipulus di Nicola Pisano e tuttavia già contraddistinto da una notorietà personale impensabile senza una relativa maturità anche cronologica (Siena, Arch. di Stato, Pergamene del duomo, doc. dell'11 maggio 1265). La sua morte avvenne l'8 marzo di un anno imprecisato tra il 1302 e il 1310 (Guasti, 1887, doc. 25).Oltre che nella bottega di Nicola, A. sembra essersi formato all'arte in un non meglio noto cantiere/scuola cistercense. Le indicazioni fornite in questo senso dai caratteri stilistici della sua produzione architettonica (Enlart, 1894; Frey, 1908; Paatz, 1937) e scultorea (Carli, 1936; Romanini, 1984) coincidono con dati offerti dalla documentazione relativa al pulpito che Nicola Pisano costruì nel duomo di Siena tra il 1265 e il 1267 con la collaborazione del figlio Giovanni e dei discipuli A., Donato e Lapo. L'operarius del duomo, il converso cistercense fra' Melano di S. Galgano, firmatario nel 1265 del contratto di commissione insieme a Nicola, l'11 maggio 1276 minacciò Nicola di sanzioni pecuniarie onde ottenere l'immediata presenza sui lavori di A.: il che, al di là della volontà di far rispettare le clausole contrattuali, sembra suggerire un interesse specifico per la persona di A. e di conseguenza la probabilità di suoi precedenti rapporti con l'Ordine cui fra' Melano apparteneva.Una ulteriore esperienza formativa è attestata dalla prima opera documentata di A., la fontana 'minore' da lui costruita per il Comune di Perugia tra il 1277 e il 1281 ca. ai piedi della piazza ornata, alla sommità, dalla fontana 'maggiore' costruita in quegli anni (1278 ca.) da Nicola e Giovanni Pisano sempre per commissione dello stesso Comune (Perugia, Arch. di Stato, Consigli e riformanze, 5, 3, c. 24r/v; Diplomatico, cass. 2, nr. 52; Massari, 15, c. 13r; Nicco-Fasola, 1951; Martinelli, 1971). Per procurarsi l'opera di A., "subtilissimus et ingeniosus magister", i perugini dovettero farne formale richiesta a Carlo d'Angiò, alla cui corte - in Italia meridionale e a Roma - A. si trovava a evidenza legato, in quel momento, da rapporti di lavoro stabili e ufficiali (Perugia, Arch. di Stato, Consigli e riformanze, cit.). Il 10 settembre 1277 una lettera autografa di Carlo d'Angiò autorizza A. a recarsi a lavorare per il Comune di Perugia lasciando Roma ("omisso eo cui de nostro insistebat mandato") e tuttavia continuando a procurarsi in quest'ultima città i marmi che gli servivano per la fontana perugina (Perugia, Arch. di Stato, Diplomatico, cit.). Smembrata e tolta dalla sua sede già nel 1308 (Perugia, Arch. di Stato, Annali decemvirali, c. 24r), quest'ultima è ricordata oggi solo da cinque marmi, frammentari ed erratici, conservati nella Gall. Naz. dell'Umbria di Perugia (ove sono giunti in tempi e modalità diverse; Garibaldi, Brillarelli, 1990) e tradizionalmente noti, dal loro soggetto, due come 'scribi' (di essi solo uno, acefalo, in atto di scrivere su un libro posato aperto sulle ginocchia, appare di sicura autografia arnolfiana) e tre come 'assetati' (una vecchia inginocchiata e protesa verso il fondale a mani giunte; una giovane a seno nudo, sdraiata accanto a una brocca rovesciata; un paralitico in atto di scoprire questuando l'arto malato). Interpretate vuoi come celebrazione del 'buon governo' del Comune perugino nei confronti degli strati più umili della popolazione (Nicco-Fasola, 1951; Martinelli, 1971; Cuccini, 1989), vuoi alla luce di diverse e variamente complesse tematiche bibliche (Reinle, 1980; Simi-Varanelli, 1989), le cinque sculture attestano in ogni caso una diretta conoscenza della plastica parigina grosso modo contemporanea (Romanini, 1987). Questo vale a confermare l'importanza formativa dell'esperienza compiuta da A. alla corte francese di Carlo d'Angiò, mentre la rigorosa volumetria rimanda alle lezioni cistercensi e l'uso massiccio della trascrizione da modelli antichi (Romanini, 1987; Di Fronzo, 1989) all'alunnato presso Nicola Pisano (Gnudi, 1948; Seidel, 1975). L'opera peraltro non solo è robustamente autonoma ma inoltre rivoluziona il quadro dell'arte europea sotto almeno tre aspetti: l'attenzione concreta al 'vero' (si veda il paralitico, un Fiume classico trascritto in forme gotiche e rielaborato sull'osservazione diretta di un malato in condizioni di mendicità, ivi compreso il suo specifico strumento di deambulazione, uno dei più antichi esempi di 'attrezzo Bawmann' di cui si abbia memoria nella storia dell'arte occidentale); calcoli ottici esatti al millimetro e finalizzati a una veduta unitaria da punti di osservazione obbligati; la riconquista - di conseguenza - di una resa tridimensionale dello spazio in esatta prospettiva 'naturale' scomparsa da secoli nell'arte occidentale. In A. essa appare frutto non solo e non tanto di un ritorno all'antico quanto di un inedito umanesimo di natura a un tempo 'figurale' (Auerbach, 1949) ed emotiva. È esemplare in questo senso la 'vecchia assetata'. Nell'atto in cui essa, protendendosi verso il fondale, illusivamente lo trasfigura agli occhi dell'osservatore in un muro da cui fuoriescono stille preziose, nasce una nuova misura dello spazio centrata sull'azione umana (Romanini, 1983c; 1987; 1989).Durante recenti interventi di restauro si è riscontrato che il retro dei tre altorilievi e dello scriba acefalo è incavato a punta di scalpello così da seguire, per così dire in negativo, l'andamento dello sbalzo del verso dell'immagine (Garibaldi, Brillarelli, 1990). Questa lavorazione 'cava' del marmo ritorna più volte nel corpus autografo di A. e nella sua bottega e discendenza stilistica mentre, per quanto almeno sinora noto, non si conosce altrove nella scultura europea coeva (Romanini, 1990a); la sua mancanza nel secondo scriba di Perugia può avallare dubbi, suggeriti anche da differenze di carattere tecnico stilistico e qualitativo, sulla autografia di esso scriba.In anni immediatamente successivi (come documenta una epigrafe conclusa dalla 'firma' dell'artista: "Hoc opus fecit Arnolfus") A. eseguì il monumento funebre del cardinale francese Guglielmo De Braye (m. nel 1282), già situato nel corpo longitudinale della chiesa di S. Domenico a Orvieto e ora in parte malamente ricomposto nel transetto di quest'ultima (più volte trasfigurata e ridimensionata nei secoli), in parte conservato, erratico e frammentario, nel Mus. dell'Opera del Duomo di quella città. Recenti analisi, confermando l'ampia ripresa 'dall'antico' nelle architetture e nelle immagini, hanno individuato l'uso del criterio di visibilità e della lavorazione 'cava' nonché tracce della pittura che ricopriva in origine, sul verso, l'intera opera, ivi compresi corpi e volti dei personaggi, in modo che i due media, pittura e scultura, assumevano nel contesto pari risalto e importanza (Romanini, 1990a). Sulla base di questi ritrovamenti è stato possibile ulteriormente precisare le ipotesi ricostruttive più volte variamente tentate in passato (Paniconi, 1906; Fiocca, 1911; Romanini, 1969) per quanto riguarda sia il gruppo della Vergine in trono con il Bambino (destinato a emergere libero quasi a tutto tondo, alla sommità del complesso, tra i due gruppi, impostati su piano ribassato, di S. Domenico e di S. Marco con il defunto risorto celi in arce), sia il sottostante sarcofago (in forma di 'camera' funebre con la figura del vecchio 'giacente' assistito da accoliti giovinetti in atto di chiudere le cortine sulla scena della morte terrena), sia infine la modellazione dell'alto basamento, sbalzata da una finta galleria in origine staccata 'a giorno' dal fondale (Romanini, 1983c; 1990b). Ne deriva una figurazione insolitamente corposa e vivacemente ritrattistica del dogma della resurrezione della carne, bene aggiornata sui dibattiti di natura teologica e scientifica fiorenti in quegli anni in ambito romano (Paravicini-Bagliani, 1989). Appaiono in questo momento, nell'opera di A., formule e tecniche operative 'cosmatesche' (denuncianti con ogni probabilità collaboratori romani), a partire dallo spoglio utilizzato come materiale 'di cava' e dai caratteristici fondali policromi musivi a disegni geometrizzanti, finalizzati da A. al risalto di linee di contorno "compenetranti le immagini in un segno" (Schmarsow, 1900). Ne risulta una traduzione pittorica della Diaphanie gotica destinata a restare alla base del linguaggio figurativo tosco-romano e per questa via a segnare di sé i futuri sviluppi dell'arte europea.Un gusto analogo ritorna nel ciborio della basilica di S. Paolo f.l.m. a Roma - singolare ripresa sui generis del relativamente recente baldacchino della Sainte-Chapelle di Parigi - realizzato da A. nel 1284 "cum suo socio Petro" (come risulta da tre epigrafi collocate sulla fronte ovest), al termine di un complessivo 'restauro' dell'intera basilica che aveva comportato anche il rifacimento degli affreschi della navata a opera di Pietro Cavallini. Di conseguenza nel socio Petro si è voluto vedere ora il 'cosmatesco' Pietro di Oderisio, problematico e discusso autore del monumento di Clemente IV a Viterbo (D'Achille, 1990), ora appunto Cavallini che di fatto doveva in seguito più volte lavorare fianco a fianco con A., in rapporti di dare e avere tuttora da precisare. Oltre alla decorazione musiva (di insolita purezza ritmica e vigoria, soprattutto nel rivestimento della volta interna, adorna di una elegante Bauplastik gotica), ritorna qui un uso dello spoglio quale semplice materiale 'di cava' (l'intero ciborio è intessuto di epigrafi e sculture antiche spezzate e rilavorate sull'originario retro; Moreschi, 1840), singolarmente coesistente con l'accentuato gusto antiquario che ha il suo acme negli angeli volanti sbalzati a mo' di vittorie alate reggiclipeo sui ricamatissimi frontoncini di esplicito gusto rayonnant e nelle quattro statue angolari entro nicchia archiacuta. Si tratta in realtà di altorilievi (pezzi di spoglio lavorati su tre lati in forma di tradizionali 'statue-colonna') cui la lavorazione secondo 'veduta' conferisce illusivo aspetto di vere e proprie statue a tutto tondo, fuoriuscenti dall'ombra in gesti rotanti e paludamenti 'all'antica' (abbondante peraltro la presenza della bottega, talora di notevole livello qualitativo).All'aprirsi degli anni novanta il rayonnant appare esperienza scontata nei frammenti tuttora visibili della cappella del Presepe di S. Maria Maggiore a Roma, rielaborata da A. - secondo una tradizione risalente almeno a Vasari e a Panvinio - nel 1290-1292 nell'ambito del complessivo restauro della basilica promosso da Niccolò IV, primo papa francescano, come tale legato anche in via personale al culto del presepe (Romanini, 1987; Pomarici, 1988). Della cappella del Presepe di A., trasferita di peso da Domenico Fontana, nel 1590, nella cripta della cappella del Sacramento da lui costruita ex novo per volontà di Sisto V, sussistono oggi solo pochi resti, connessi a parti risalenti a diverse epoche. Appartengono certamente alla rielaborazione arnolfiana due pennacchi d'arco frammentari con figure di profeti su fondale mosaicato e quattro pezzi scultorei - un re Mago inginocchiato, una lastra sbalzata ad altorilievo con due figure di re Magi in piedi tra loro colloquianti, un blocco di proporzioni ridotte con le teste appaiate dell'asino e del bue, una figura di Giuseppe lavorata in forma di statua-colonna angolare - oggi raccolti in una incassatura di muro e già facenti parte di un complesso architettonico/plastico/pittorico che fondeva Natività e Adorazione dei Magi. La Vergine originaria - ancora ricordata da Fontana - appare oggi sostituita da una statua cinquecentesca attribuita di recente a Pietro Olivieri. Le ipotesi ricostruttive altra volta tentate (Berliner, 1951; Messerer, 1975) sono state precisate di recente (Pomarici, 1988) mediante anzitutto l'individuazione del punto esatto, all'interno della cappella, in cui si trovava il gruppo arnolfiano, articolato parte entro e parte subito accanto e fuori di una nicchia rettangolare fronteggiante l'arcone di accesso dalla basilica e visibile di scorcio anche da una minore apertura sul lato est. Ne risultava una sorta di 'sacra rappresentazione' figurata che coinvolgeva l'intero spazio della cappella, a partire dallo spigolo sinistro della nicchia ove il S. Giuseppe fuoriusciva in diagonale verso lo spettatore, la testa protesa e le mani appoggiate sul bastone in un brano di toccante verismo intimista. Al lato opposto della nicchia, l'altorilievo con i Magi colloquianti, in atto di varcare la soglia di una porta sollecitandosi reciprocamente al cammino (probabile opera di un aiuto su cartone di A.), riproponeva rovesciato il gesto di Giuseppe, riportando l'attenzione sulla nicchia, in un crescendo di intensità emotiva che ha il suo acme nel re Mago inginocchiato, collocato in origine subito accanto allo spigolo, con la schiena e le piante dei piedi girate in proscenio verso l'osservatore. Lavorata solo su tre lati, la sua figura disegna un arco, 'compenetrata' in un'unica gittata lineare, quasi un gesto rivolto - corpo, mani, sguardo, barba puntata come un interrogativo - verso il luogo ove dovevano trovarsi il Bambino e la Vergine (con ogni probabilità sdraiati) accanto alle teste del bue e dell'asino (Pomarici, 1988). Subito al di là, dopo la pausa dello spigolo, la fuoriuscita di Giuseppe riavviava una vicenda nello stesso tempo colta in atto e bloccata nel bilanciato equilibrio ad quadratum con cui i singoli blocchi - ciascuno a sua volta ad quadratum - si corrispondono e susseguono omogenei ed equivalenti (Messerer, 1970; 1975). Ogni blocco è un 'ritratto' ben individuato e specifico e nello stesso tempo un segmento di un unico tracciato lineare, interrotto a mezz'aria, ripreso e rilanciato, di blocco in blocco, in una trama ritmica in sé conchiusa. Di conseguenza i tagli che sospendono nel vuoto le singole immagini, quasi gesti incompiuti, risultano coinvolgenti come pause musicali, determinando l'illusiva presenza di uno 'spazio abitato', colto in azione come la vibrazione di una corda tesa, appena sfiorata.La stessa idea - nuovissima nel quadro dell'arte europea - ritorna negli stessi anni, in forme puntualmente analoghe, nei due celebri affreschi con le Storie di Isacco nella basilica superiore di S. Francesco ad Assisi. Si è di recente avanzata l'ipotesi che essi, punto di partenza di una svolta nella conduzione del cantiere pittorico assisiate e unanimemente riconosciuti modellati sulla scultura di A. (Gnudi, 1959; Belting, 1977; Pesenti, 1977), siano dovuti in persona prima ad A., secondo Vasari formato alla pittura "appresso Cimabue" e più volte alla guida di cantieri anche pittorici oltre che architettonici e scultorei (Romanini, 1987; 1989). L'attribuzione bene si accorda - oltre che con la presenza di una singolare tecnica pittorica secondo criterio di visibilità (Romanini, 1989) - con l'interesse dimostrato per la fabbrica assisiate dal francescano Niccolò IV, proprio in quel momento, intorno al 1290, quando A., da tempo dominatore della scena artistica romana, lavorava in S. Maria Maggiore nell'ambito di un'impresa dovuta appunto a Niccolò IV. La venuta ad Assisi di A. in veste di nuovo capudmagister bene potrebbe spiegare la suaccennata 'svolta' stilistica successiva alle Storie di Isacco. Attribuite insistentemente a Giotto, oltre ad altre numerose attribuzioni meno convincenti, a partire da Thode (1885; si vedano Belting, 1977; Romanini, 1989), esse vanno considerate in ogni caso il testo formativo della pittura giottesca, il che vale a confermare il peso che la lezione di A. ebbe sul giovane Giotto.L'attribuzione ad A. dei due affreschi di Assisi trova conferma anche nelle forme del fregio con processione funebre e del 'giacente' Annibaldi della basilica di S. Giovanni in Laterano a Roma. Si tratta dei due soli pezzi superstiti di un monumento tradizionalmente ritenuto del cardinale Riccardo - e di conseguenza datato al 1276 - di recente spostato all'aprirsi degli anni novanta e riconnesso all'omonimo nipote, morto nel 1289 (Romanini, 1983c; 1990b; Herklotz, 1985). Attestate opera autografa di A. intorno a questa data da una stringente evidenza stilistica, le due sculture Annibaldi sono l'opera arnolfiana più vicina tanto al Presepe (Messerer, 1975) quanto alle Storie di Isacco della basilica assisiate.Un incontro in questi anni tra A. e Giotto - lo si voglia avvenuto nel cantiere di Assisi o a Roma - è attestato anche da precise varianti riscontrabili nell'arte arnolfiana, caratterizzata, a partire appunto da questo momento, da una nuova saldezza corposa. Ne è prova il ciborio di S. Cecilia a Roma che A. realizza nel 1293, come attesta una epigrafe firmata e datata (Romanini, 1983a), sveltendo il disegno del ciborio di S. Paolo e irrobustendolo con l'impianto ottagono del coronamento: nel punto di innesto le quattro finte-statue angolari, liberate dalla nicchia, fuoriescono rotanti in assi diagonali all'impianto di base. Di particolare nobiltà sono le parti autografe della decorazione scultorea, a partire dai bassorilievi con i profeti e gli evangelisti e dalle figure angolari di S. Urbano (un ritratto di caustico verismo) e di S. Tiburzio a cavallo, libera trasformazione in forme gotiche del gruppo del Marc'Aurelio (Wickhoff, 1890; Romanini, 1969; 1983a; Gramaccini, 1985; 1987).A pochi anni di distanza A. sviluppa ulteriormente l'idea nel sacello che Bonifacio VIII volle, sibi vivens (1295-1296), quale proprio monumento funebre - dedicandolo peraltro al suo predecessore s. Bonifacio IV - nella navata centrale della basilica vaticana, contro la parete di controfacciata. Eretto da A. (come attestava una epigrafe a noi nota in una trascrizione cinquecentesca: "Hoc opus fecit Arnolphus architectus"; De Rossi, 1891), il sacello venne demolito nel 1605 ed è oggi in qualche modo ricostruibile nelle sue linee essenziali quasi unicamente mediante fonti letterarie e figurative, tra cui di particolare importanza la descrizione stesa dall'archivista e notaio vaticano Grimaldi nell'atto della demolizione e da lui corredata da acquarelli eseguiti da Domenico Tasselli da Lugo (Strnad, 1966; Maccarrone, 1983). Si trattava di una cappella quadrangolare su colonne, coronata da una cupola ottagona estradossata, a sua volta conclusa da una edicoletta gugliata e cinta alla base, all'esterno, da una finta galleria cuspidata e gugliata. All'interno - oltre alla tomba terragna del nipote di Bonifacio VIII, il cardinale Benedetto Caetani, premortogli nel gennaio 1296 - si trovava un altare, addossato alla parete di fondo, subito sotto la nicchia contenente a mo' di 'camera' funebre il sarcofago con la figura giacente del pontefice. Sopra la nicchia un mosaico dovuto a Jacopo Torriti (Tomei, 1990) raffigurava Bonifacio VIII in arce coeli. Sussistono oggi solo pochi pezzi di sicura provenienza dal complesso, frammentari e variamente dispersi nelle Grotte Vaticane: il sarcofago (un pezzo di spoglio tagliato e rilavorato), la figura di Bonifacio VIII giacente (un nobile ritratto di sicura autografia arnolfiana), due angeli reggicortina (opera di bottega su disegno di A.) già inseriti ai due capi del sarcofago, due lapidi (una relativa alla sopra citata sepoltura di Benedetto Caetani, l'altra consistente in una più antica iscrizione in onore di s. Bonifacio IV arricchita da un apposito distico nel momento del suo trasferimento nel nuovo sacello; Maccarrone, 1983) e un pilastrino con lo stemma Caetani. Anche in questo caso, come nel presepe di S. Maria Maggiore, la lavorazione dei pezzi superstiti vale a dimostrare che l'intero spazio della cappella risultava coinvolto dall'ornato plastico/architettonico/pittorico in una sorta di 'azione' scenica illusiva, centrata sull'altare e più esattamente sull'atto in cui il celebrante, come precisa Grimaldi, "dum Missae sacrum perageret, tumulum Bonifacii conspiciebat" (Romanini, 1990b).A fianco del sacello varie fonti attestano inserito a muro un busto di Bonifacio VIII benedicente che, tuttora sussistente nei palazzi Vaticani (frammentario e privo dell'originaria cornice in forma di edicola), è da ritenersi uno dei più vigorosi ritratti autografi di A., eseguito con ogni probabilità in occasione della proclamazione del giubileo del 1300 (Romanini, 1983a; Rash, 1987).Tutta una serie di analogie stilistiche, fisionomiche e formali (a partire dalla mano che stringe le due chiavi) apparentano questo busto alla statua bronzea di S. Pietro in trono nella basilica vaticana, già più volte proposta come opera vuoi di A. vuoi tardoantica o altomedievale, tra 5° e 6° secolo. Recenti analisi (Romanini, 1990a; Angelucci, 1990; Refice, 1990; Caglianone, Iazeolla, 1990), escludendo "categoricamente l'ipotesi tardoantica" (Angelucci, 1990) e attestando la datazione al valico tra Due e Trecento, confermano il bronzo (lavorato secondo il criterio di visibilità, cavo sul retro e completamente dipinto, compresi volto e corpo) probabile autografo di Arnolfo. In questo caso, negli stessi anni in cui un artista ignoto eseguiva per la basilica di S. Paolo f.l.m. una statua lignea di S. Paolo puntualmente ripresa dal S. Paolo affrescato nella catacomba romana della via Latina, A. trascriveva in forme gotiche, per la basilica vaticana, un modello tardoantico bene assimilabile - nella ricchissima casistica possibile nell'ambito di una tipologia che salvo varianti relative agli attributi e abbigliamento appare già fissata in gemme e sigilli del sec. 5° o 6° (Testini, 1969, p. 280, figg. 29, 30) e perdura costante oltre i limiti del Medioevo - alle immagini figuranti in una pisside eburnea di Berlino e nel discusso 'Calice di Antiochia', per lo più datato oggi al sec. 6° (Frazer, 1979; Mundell Mango, 1986).La tematica prospettica e il poderoso impianto spaziale delle ultime opere romane preludono a quanto conosciamo dell'ultima impresa documentata di A., la fabbrica di S. Maria del Fiore a Firenze.La ricostruzione dell'antica cattedrale fiorentina, dedicata in origine a s. Reparata, venne decisa intorno al 1293-1294 e intrapresa di fatto l'8 settembre 1296, alla presenza del legato papale Pietro Valeriano da Piperno. L'attribuzione del progetto e della prima fase dei lavori ad A. trova sostegno nell'atto del 1 aprile 1300 in cui il Consiglio dei Cento esonerò dal pagamento delle tasse "magistrum Arnulphum de Colle filium olim Cambii" in vista del fatto "quod idem magister [...] est capudmagister laborerii et operis ecclesie Beate Reparate maioris ecclesie Florentine, et quod [...] per ipsius industriam, experientiam et ingenium comune et populus Florentie ex magnifico et visibili principio dicti operis ecclesie iamdicte inchoacti per ipsum magistrum Arnulphum habere sperat venustius et honorabilius templum aliquo alio quod sit in partibus Tuscie" (Guasti, 1887, doc. 24). Prima dell'inizio dei lavori, tutt'attorno all'antica cattedrale - che rimase in piedi funzionante ancora per secoli - venne compiuto un poderoso lavoro di demolizione e livellamento del terreno in previsione delle proporzioni notevolmente dilatate che avrebbe dovuto avere il nuovo edificio (Guasti, 1887, docc. 24-30; Piattoli, 1938; Grote, 1959). Basterebbe questo a provare l'esistenza - variamente discussa (sintesi del dibattito in Saalman, 1964; Kreytenberg, 1974; Toker, 1983a; 1983b; Romanini, 1983b) - di un ben preciso progetto elaborato da A. già prima del 1294. Quali fossero peraltro le sue forme resta tuttora problematico. Stando alla scarsa documentazione superstite il magnificum principium della nuova fabbrica, che nel 1300 il Consiglio dei Cento afferma dovuto ad A. e già arrivato a essere visibile, consisterebbe in poco più della zona inferiore della facciata, distrutta nel 1587 (Firenze, Arch. di Stato, Diario del Settimanni, IV, pp. 424-426; Cavallucci, 1881; Poggi, 1909) e oggi nota solo in pochi e discussi lacerti, oltre che tramite fonti letterarie e trascrizioni pittoriche e grafiche (Romanini, 1983b; Pomarici, 1987). Va tenuto presente che alla morte di A. gli subentrò nella carica di capudmagister Giotto (cui si deve l'inizio della costruzione dell'adiacente campanile che da lui prese nome; Gioseffi, 1963; Kreytenberg, 1974), seguito da Andrea Pisano e quindi, sino al 1366 ca., da Francesco Talenti, affiancato da un gruppo di magistri. Tutti costoro sembrano essersi sostanzialmente attenuti al progetto arnolfiano. Nei documenti della Fabbrica la prima notizia di un preciso mutamento apportatovi risale infatti - dopo quattro anni di apposite riunioni di 'esperti' - al 1366-1367, quando venne approvato e immediatamente messo in atto un nuovo progetto rimasto poi inalterato, per espressa decisione dell'Opera, almeno sino a Brunelleschi (Guasti, 1887, docc. 189-193, 214). Una serie di documenti archivistici, letterari e figurativi, confermati da recenti campagne di scavo (Morozzi, 1978; Toker, 1978; 1983a; 1983b), sembra attestare peraltro che anche le varianti apportate nel 1367 (limitate all'ampliamento e alla modulazione strutturale e decorativa del capocroce) rispettarono, nelle linee essenziali, il progetto originario, almeno per quanto riguarda il corpo della chiesa, diviso in tre navi - in origine forse a tetto a vista - concluse a E da un capocroce triconco sormontato al centro da una cupola ottagona estradossata in salita archiacuta. Di quest'ultima esistono vari ricordi pittorici, il più antico dei quali - l'affresco con la Chiesa militante eseguito intorno al 1363-1367 da Andrea di Bonaiuto nel Cappellone degli Spagnoli di S. Maria Novella a Firenze - bene sembra accordarsi alle ultime opere romane di A. e in particolare al sacello vaticano, che i disegni Grimaldi mostrano ornato, alla base della cupola, da una galleria cuspidata collegabile non solo al capocroce della chiesa raffigurata nel Cappellone degli Spagnoli ma anche al disegno della facciata di S. Maria del Fiore (oggi nel Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore) eseguito subito prima che essa venisse demolita (Romanini, 1983b). Completamente rivestita da mosaici e aperta da tre portali, ornati da slanciati protiri archiacuti terminanti in gables fioriti e gugliati, la facciata era attraversata da cornicioni che la scandivano trasversalmente in due scomparti, aperto quello superiore da una galleria a giorno 'abitata' da statue e con ogni probabilità destinata a concludersi, come i tre protiri, in una svettante fila di gables. Complessi statuari si trovavano inseriti anche nelle lunette dei portali (nei due laterali, la Natività a sinistra e a destra la Dormitio Virginis; in quello centrale la Vergine con il Bambino in trono tra angeli e santi, in una sorta di gloriosa Maiestas). Dell'originaria decorazione musiva, come delle figurazioni plastiche dei tre portali e delle statue che popolavano la galleria trasversale, sussistono oggi solo frammenti, in linea di massima vicini alle ultime opere romane e in particolare ai ritratti vaticani, di cui appare ulteriormente intensificata la rotante possanza volumetrica entro la gabbia di gettiti lineari di immediata evidenza riassuntiva. Tra le molte opere la cui provenienza dalla facciata appare variamente attendibile, la mano di A. sembra meglio riconoscibile nelle parti superstiti della Dormitio conservate a Berlino (Staatl. Mus., Bode-Mus.), in alcune di quelle che della Natività e della Maiestas sussistono nel Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore a Firenze, nonché in varie statue, come un angelo oggi a Boston (Mus. of Fine Arts; Weinberger, 1940-1941; Bettini, 1950; Faison, 1958) e altre di diversa collocazione, la cui provenienza dalla facciata di S. Maria del Fiore è peraltro variamente attendibile (Becherucci, Brunetti, 1970; Becherucci, 1971; Seidel, 1973; Pomarici, 1987).La probabile attività di A. nel cantiere assisiate potrebbe essere stata la via per cui l'Ordine francescano lo scelse per la grandiosa ricostruzione della chiesa di Santa Croce a Firenze, decisa intorno agli anni novanta, anche se i lavori non iniziarono che nel 1294 (Paatz, Paatz, 1940-1954). L'attribuzione ad A. di questo edificio - in cui è stato bene individuato l'avvio di una svolta decisiva nella storia dell'architettura gotica europea (Gross, 1948) - poggia su una tradizione critica risalente a Vasari, suffragata da prove stilistiche di notevole peso. Al momento della morte di A. i lavori, iniziati dal coro, erano arrivati al compimento del transetto (Paatz, Paatz, 1940-1954; Gardner, 1971; Romanini, 1985), così che ad A. spetterebbe (oltre al progetto iniziale) solo la costruzione del capocroce, ivi compresa la sottostante cripta. Sembrano confermarlo sia le consonanze di queste parti dell'edificio con la formazione nicolesca (Paatz, Paatz, 1940-1954), cistercense (Enlart, 1894) e angioina (Salmi, 1957) di A., sia l'analogia formale con le sue opere documentate, sia soprattutto la presenza della stessa rivoluzionante spazialità che è propria e caratteristica di tutta la sua opera, da una parte classicamente equilibrata entro gettiti lineari ad quadratum, dall'altra irregolarmente (rispetto ai modelli classici) accelerata e mossa da pause e spezzature miranti a effetti ottici finalizzati all'evidenza di 'gesti' scenici di valore riassuntivo. In Santa Croce sono significative, in questo senso, le discordanze esistenti all'esterno tra le finestre della cripta e quelle del coro, il cui slancio verticale ne risulta illusivamente intensificato, e soprattutto il caratteristico spezzarsi ad angolo del cornicione, all'attacco tra corpo longitudinale e capocroce (Romanini, 1985).Tra le altre numerose opere variamente attribuite ad A., su base vuoi letteraria (per lo più risalente a Vasari) vuoi stilistica, va ricordato in particolare il transetto della chiesa di S. Maria in Aracoeli a Roma (ove resti della decorazione ad affresco e il monumento di Vanna Savelli bene parlano della presenza di A. come capudmagister dell'impresa, commissionata dalla famiglia romana dei Savelli; Romanini, 1969; 1990b; Malmstrom, 1973; Righetti, 1978a; Herklotz, 1983) e, a Firenze, le ricostruzioni della chiesa della Badia, attribuzione che sembrerebbe confermata così dai discussi resti della decorazione plastica del campanile come dalle analogie che sussistono tra l'impianto architettonico, quale idealmente ricostruibile, e la fronte absidale della chiesa e le corrispondenti parti di Santa Croce (Paatz, 1937; Paatz, Paatz, 1940-1954; Romanini, 1969; 1985). Sembra inoltre quanto mai probabile - per ragioni storiche e stilistiche - che, quale architetto del Comune di Firenze, A. abbia effettivamente dato mano, come vuole Vasari, alla ricostruzione di Palazzo Vecchio e di tutta una serie di altre opere difensive e di rielaborazione delle strutture urbane, a Firenze e nel contado (Braunfels, 1953; Romanini, 1969, 1983b; Guidoni, 1978; Trachtenberg, 1988), opere peraltro oggi tutte troppo segnate da successivi interventi trasfiguranti perché siano possibili - allo stato attuale degli studi - più precise prese di posizione.
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