ATTORE E ATTRICE
L’interazione delle fatiche performative. Il sistema americano. Gli attori e le grandi signore dello spettacolo inglese. L’Italia
L’interazione delle fatiche performative. – Nella dinamica e nella pratica attoriale contemporanea è abitudine diffusa – presso varie aree geografiche e culturali – affrontare sistematicamente l’insieme delle forme verso le quali si indirizza l’attività degli attori, ossia cinema, teatro e televisione. Ragioni di ordine produttivo sono senza dubbio uno dei motivi che portano molti attori – a cominciare dai più affermati e spesso anche significativi – a rompere i cosiddetti steccati, che peraltro non in tutte le culture hanno avuto in passato le stesse caratteristiche e le stesse logiche.
In sintesi le dinamiche produttive – soprattutto nell’ambito dei rapporti tra cinema e televisione – sono da riferire principalmente ai seguenti fattori: a) la sempre maggiore articolazione della serialità televisiva, con una conseguente maggiore politica di investimenti rispetto al cinema; b) la diversa destinazione e strategia delle produzioni rispetto alla ricezione degli spettatori, fra i quali un riferimento imprescindibile è costituito dalla cosiddetta generazione 2.0 e dalle diverse dinamiche di ricezione del cinema e di frequentazione delle sale rivelate da questa generazione; c) il peso e la funzione via via mutate del cinema e del teatro nel cosiddetto immaginario collettivo e il ruolo quanto mai dirompente dei molti e differenziati network televisivi.
Naturalmente questi fattori non sono gli unici che si potrebbero individuare, né le interazioni tra cinema, teatro e televisione sono le stesse nei vari Paesi, soprattutto per quanto concerne i rapporti di scala produttiva di una forma rispetto alle altre. Tuttavia quelli elencati sono i macro-fattori principali di tendenze contemporanee. Inoltre per un attore – anche relativamente giovane – l’occasione della qualità ormai diffusamente riconosciuta a talune serie televisive – in particolare americane – rispetto a non poca produzione cinematografica, nonché l’occasione della continuità performativa, dovuta alla dinamica seriale, possono costituire un indubbio paradigma di applicazione delle proprie qualità e delle proprie caratteristiche.
Per quanto concerne invece la questione dell’atteggiamento attoriale nei confronti dei cosiddetti steccati (questo è cinema, questo è teatro, questa è televisione e un attore dovrebbe/non dovrebbe valicare una forma con le altre) si direbbe che in alcune culture – in particolare quelle angloamericane – non ci sia stata una significativa modificazione di atteggiamento, poiché da molto tempo gli attori sono adusi a passare con disinvoltura da una forma all’altra, senza avere un particolare senso di perdita dell’aura attoriale, storicamente attribuita al solo teatro. A ben guardare anche in Italia e già con la prima diffusione della televisione e con l’età d’oro della produzione cinematografica (ossia tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta del Novecento) attori – di diverse generazioni – impegnati esclusivamente o quasi nel teatro fecero varie incursioni nel cinema e nella televisione, acquisendone, soprattutto con la seconda, ampia popolarità. Ma diverso è stato l’atteggiamento rispetto alla pratica attoriale, tanto che ancora oggi in Italia non è tramontata l’idea – più da parte delle produzioni e dei cineasti o dei teatranti che del pubblico – che un attore debba essere incasellabile e catalogabile soprattutto sulla base della frequenza con la quale pratica il teatro piuttosto che il cinema o la televisione.
È indubbio che la prevalente frequenza (o ancor più l’esclusiva applicazione) nella pratica di una forma piuttosto che di un’altra porti un attore al rischio di vedere ossidare le proprie caratteristiche performative, dal momento che le tre forme di riferimento continuano inevitabilmente ad avere anche caratteri propri, in ambito di dinamiche sia produttive sia, in senso stretto, ‘tecniche’. Tanto che un ideale ‘equilibrio’ nella variazione delle pratiche porta abitualmente un attore a sapere meglio declinare volta per volta (e forma per forma) il proprio stile. D’altra parte è necessario considerare che anche l’approccio al mestiere ha avuto significative modificazioni rispetto al passato (anche relativamente recente), soprattutto in virtù sia del diverso ruolo e della diversa funzione assunta dalle scuole o dalle accademie storiche (di ambito sostanzialmente teatrale) sia della moltiplicazione delle tipologie ‘scolastiche’ di formazione. Per fare almeno alcuni esempi di riferimento, tutti i principali luoghi di formazione storica – l’Actor’s Studio a New York, l’Accademia nazionale d’arte drammatica a Roma, la Comédie française a Parigi, la Royal Academy of dramatic art a Londra – hanno sempre meno (o, comunque, un po’ meno) costituito il riferimento pressoché obbligato per la formazione di base di un attore, nello stesso momento in cui si sono create altre – e anche decentrate – occasioni formative. Oppure si sono incentivate, rispetto al passato – l’esempio italiano può essere perfino paradigmatico – strade e strategie di avvio di una pratica attoriale attraverso concorsi di bellezza (vedi la nostrana e pluridecennale Miss Italia) o varie tipologie di format (dai talent show ai ‘Grandi fratelli’).
In sostanza i passaggi generazionali fra gli attori hanno sempre più differenziato – rispetto a un passato di più lunga durata – i caratteri e le dinamiche della loro formazione e talora bastano dieci anni di scarto anagrafico per produrre differenze anche molto marcate nel nuovo millennio rispetto anche alla fine del Novecento.
Il sistema americano. – Cominciando a passare in rassegna alcuni esempi di rilievo, si dovrà registrare che il sistema americano – ancorché composto da attori non di origine americana – ha ancora una volta il primato, già storicamente consolidato, nell’assegnazione all’attore dello status di divo. La diffusione capillare dei film con attori americani o attivi nel cinema americano è ancora oggi il fattore determinante per l’acquisizione di una popolarità globale, ma a questo si deve aggiungere anche l’ulteriore incremento dei sistemi della comunicazione (in primis la rete e i social network), nonché di quello pubblicitario, allorché figure quali, per es., Cate Blanchett e Scarlett Johansson, Jude Law e Matthew McConaughey, Clive Owen, George Clooney, Nicole Kidman e Julia Roberts rivestono i ruoli di testimonial per spot e campagne fotografico/pubblicitarie di grandi marchi della moda o, tout court, del lusso.
Il cosiddetto glamour attoriale è in tal modo ulteriormente amplificato, come, in modo particolare, nella tradizione storica dell’industria hollywoodiana. Tuttavia, rispetto al nostro assunto di partenza – l’interazione delle forme performative nelle pratiche attoriali contemporanee – un caso rilevante è, per es., costituito da Cate Blanchett. Formatasi in teatro a Sydney, ha recitato per il teatro e per la televisione, infine è approdata al cinema, dove soprattutto dal 2000 in poi – e in particolare grazie al successo in Elizabeth (1998) di Shekhar Kapur, non a caso, si direbbe, un ruolo in costume – ha inanellato una serie composita di personaggi attraversando vari generi e perfino – alla maniera shakespeariana o come Asta Nielsen nel suo Hamlet (1921) muto – interpretando un ruolo maschile (quale uno dei Bob Dylan in I’m not there, 2007, Io non sono qui, di Todd Haynes). Tuttavia il costante impegno nel cinema non ha impedito a Blanchett di tornare periodicamente a fare teatro, sia in qualità di direttore artistico della Sydney Theatre Company (dal 2008 al 2013) sia in qualità di interprete (fra l’altro come Blanche Dubois per A streetcar named desire diretto da Liv Ullman, per Hedda Gabler di Henrik Ibsen e per Les bonnes di Jean Genet al fianco di Isabelle Huppert).
Quasi da pendant maschile di Cate Blanchett, ma con ancora più frequenti passaggi da una forma all’altra e il ruolo di direttore artistico del celeberrimo Old Vic londinese, Kevin Spacey ha interpretato – negli ultimi dieci e più anni – ruoli intensi e di estremo rilievo in teatro, misurandosi con personaggi di Eugene O’Neill e David Mamet, nonché con importanti Riccardo II e Riccardo III di William Shakespeare, quest’ultimo – con la regia di Sam Mendes – allestito anche in Italia. Per poi ritagliarsi il ruolo (non teatrale) più significativo dopo quelli cinematografici degli anni Novanta del Novecento, interpretando l’intrigante politico Frank Underwood in una delle più apprezzate fra le recenti serie televisive, House of cards (House of cards - Gli intrighi del potere) del la quale è prevista la quarta stagione per il 2015.
Nel caso di Spacey teatro e televisione stanno offrendogli da alcuni anni le migliori occasioni rispetto a film generalmente non memorabili, che pure con regolarità annuale ha girato. Non è un caso infatti che i principali attori di area cinematografica americana – superata un’età ancora relativamente giovane e, dunque, anche soggetti ai rapidi ricambi generazionali – ripieghino sulla televisione o tornino al primo amore, il teatro, perché non hanno ruoli da protagonisti o, comunque, di valore nel cinema. Laddove questo assunto non si direbbe potersi riferire a Ethan Hawke – peraltro già fondatore di una compagnia teatrale a New York – il quale negli ultimi anni ha partecipato a un paio di serie televisive – per es., Moby Dick del 2011, il cui cast annovera William Hurt e Donald Sutherland –, recitato testi di Sam Shepard e Tom Stoppard (il celeberrimo The Coast of Utopia, 2006-07, dove interpreta Bakunin), un Enrico IV shakespeariano (2003, dove è Hotspur, mentre Kevin Kline interpreta Falstaff) e un Macbeth (2013-14) dove riveste il ruolo principale. Tutto questo mentre si dipanava per anni il complesso progetto cinematografico diretto da Richard Linklater, Boyhood, uscito nel 2014, peraltro non l’unico film interpretato da Hawke negli ultimi anni.
Anche il più notevole attore espresso dal cinema americano contemporaneo, Philip Seymour Hoffman, il più teatralmente trasformista, sebbene sempre più richiesto in ruoli da protagonista ha trovato il tempo – prima della prematura scomparsa – di tornare al teatro, anche in veste di regista.
Gli attori e le grandi signore dello spettacolo inglese. – In area inglese, ma, per quanto riguarda il cinema, spesso all’interno di produzioni americane, sono da citare due attori fra i più interessanti e significativi di questi anni, Ralph Fiennes e Clive Owen (compagni di studi alla Royal Academy). E se Owen, prima di avere le maggiori occasioni di affermazione con i film realizzati dal 2000 in poi, ancora verso la fine degli anni Novanta svolgeva un’intensa stagione teatrale nel repertorio del Royal national Theatre di Londra, spaziando da Shakespeare a Beckett, da Marivaux a Ibsen e a Wesker e recitando con Judi Dench e Ian McKellan, addirittura ragguardevole è stata, anche dal 2000 in poi, l’attività teatrale di Fiennes, con una particolare e costante attenzione a testi shakespeariani, recitati spesso nei ruoli principali.
Tre grandi signore dello spettacolo inglese, Maggie Smith, Judi Dench e Vanessa Redgrave, hanno, con impressionante disinvoltura, continuato a trascorrere da un film a una pièce a una serie televisiva: la Smith, accresciuta ulteriormente la propria popolarità nella serie filmica di Harry Potter, ha ottenuto un altro planetario successo con la serie televisiva Downton Abbey (trasmessa anche in Italia), ma non ha tralasciato di interpretare, a teatro, testi di un drammaturgo che le si addice, Alan Bennett, e di David Hare. La Dench a sua volta deve al ruolo cinematografico di M – interpretato negli ultimi tre film della serie 007 – una popolarità forse per lei inusuale su scala mondiale, ma ha costantemente preso parte a serie televisive e recitato testi teatrali di Hare, ovviamente Shakespeare (anche in versione musical) e Noël Coward, rivestendo anche – proprio sul declinare del Novecento – il ruolo eduardiano di Filumena Marturano in un fortunato allestimento londinese, con cinque mesi di repliche. Infine la Redgrave: ancora molto cinema, molta televisione mentre, a teatro, è stata Ecuba (da Euripide, nel 2005 a Londra, New York e Washington), Prospero (The tempest, 2000, per citare solo una delle sue ulteriori performance shakespeariane di questi anni) e nel 2003 ha vinto un Tony Award come miglior attrice drammatica per il Long day’s journey into the night di O’Neill, allestito nello stesso anno a New York. Considerando il magistero di queste tre grandi interpreti – non a caso fra le più importanti dalla seconda metà del Novecento a oggi – la loro anche recente attività appare quale il paradigma ideale e più convincente della moltiplicazione ‘a tutto tondo’ di un attore. A loro confronto perfino due attrici fra le maggiori dell’era contemporanea, Meryl Streep e Julianne Moore, cedono ampiamente il passo quanto a ruoli teatrali, benché della prima – a lungo attiva in teatro – si debbano ricordare le interpretazioni nel Gabbiano di Anton Čechov (2001) e nel brechtiano (adattato da Tony Kushner) Madre Coraggio (2006) e, della Moore – in gioventù interprete in produzioni off-Broadway –, il ruolo nella pièce di David Hare The vertical hour, diretta nel 2006 a Broadway da Sam Mendes.
L’Italia. – Anche il contesto italiano riserva esempi degni di menzione: e sebbene l’ideologia ancora diffusa comporti, come già accennato, una certa resistenza all’idea che un attore possa declinare le proprie qualità a tutto tondo, gli esempi che citeremo contraddicono questo punto di vista. Si assiste, semmai, a un certo sperpero di talenti, che spesso sarebbe ancora il teatro – in molteplici forme – a segnalare, come fucina che una ricorrente ottusità – dovuta anche alla scarsa frequentazione, da parte di cineasti e di ‘produttori’ televisivi, dei luoghi teatrali – dimentica di notare. Alcuni dei più apprezzati attori italiani delle ultime generazioni mostrano di saper declinare sapientemente le proprie caratteristiche in almeno due (più spesso cinema e teatro) o tutte e tre le forme di performatività. È il caso di Fabrizio Gifuni, che passa dalla interpretazione – sempre pressoché impeccabile – di figure storiche per miniserie televisive, al cinema d’autore al teatro, sia con grandi e complessi monologhi sia con grandi registi (da Massimo Castri a Theodoros Terzopoulos a Luca Ronconi). Non pratica per ora la televisione – ma non esclude di farlo sulla base di progetti di qualità – un attore e regista teatrale quale Toni Servillo, sempre più spesso nel corso degli ultimi anni dedito anche a ruoli cinematografici. E così potremmo dire per giovani fra i più interessanti quali Michele Riondino e Claudio Gioè, partiti da differenti percorsi formativi a teatro e che hanno trovato ruoli di un certo rilievo sia al cinema sia in televisione. O, ancora, Paolo Pierobon, attore frequentemente ronconiano, ma attivo anche nel cinema e che, per la televisione, ha trovato un ruolo tanto adeguato quanto popolare nella fortunata serie Squadra antimafia Palermo oggi. Un’attrice che sulla base della sua assai personale e complessa ricerca e attività teatrale è riuscita a declinare con profonda sensibilità ruoli di differente articolazione per il cinema e per la televisione è Sonia Bergamasco. Ma l’elenco sarebbe ben più lungo – da Luigi Lo Cascio ad Alessandro Gassmann a Massimo Popolizio, da Michela Cescon a Donatella Finocchiaro. Fino a ricordare almeno due signore fra le maggiori della scena italiana, Adriana Asti e Giulia Lazzarini, che hanno ancora l’opportunità di far valere il loro magistero anche nel cinema (si pensi per la Lazzarini alla vibrante interpretazione in Mia madre, 2015, di Nanni Moretti). Questioni di ordine produttivo e/o anagrafico non bastano a spiegare l’emersione, nella declinazione attoriale, di una piuttosto che di un’altra forma. E, in ogni caso, il fattore determinante è, in ultima istanza, la possibilità di dimostrare, anche in Italia, la valenza, senza confini, di un’interpretazione.