Australia
L'arrivo e la diffusione del cinema in A. furono piuttosto precoci: il primo film (Passengers alighting from ferry 'Brighton' at Manly) venne proiettato nel 1896 a meno di un anno dalla nascita ufficiale del cinematografo e, sempre nel 1896, l'operatore Maurice Sestier realizzò, durante il più famoso concorso ippico nazionale, le riprese della prima 'veduta' Lumière (The Melbourne cup), mentre il primo lungometraggio (The story of the Kelly gang, di Charles Tait) risale al 1906 e viene considerato da alcuni storici il primo film la cui durata superi i 60 minuti. Si trattava tuttavia dei primi segnali d'avvio di una cinematografia che le condizioni produttive e storiche del Paese avrebbero costretto a brusche discontinuità. Il cinema attecchì velocemente in una cultura che non aveva avuto più di un secolo per insediarsi, attraverso processi di colonizzazione differenziati, in un continente sconosciuto; ma le strutture locali della distribuzione e dell'esercizio mantennero con l'industria inglese e statunitense legami di dipendenza destinati spesso a reprimere i tentativi di nascita e consolidamento di una cinematografia nazionale.
Le prime produzioni cinematografiche, come accadde spesso ai primordi del cinema, erano di carattere edificante e vennero realizzate dall'Esercito della Salvezza (The early Christian martyrs, 1899), la prima struttura ad approntare un apparato di produzione e diffusione che prevedeva l'uso del cinematografo integrato con quello tradizionale della lanterna magica. Già nel decennio successivo le case di produzione erano più di dieci e realizzarono quasi una cinquantina di film a soggetto, che però calarono bruscamente a meno di venti nel 1913 e non superarono la media annua di dieci fino alla Seconda guerra mondiale.
Fu necessario attendere gli anni Settanta del Novecento per assistere a un fenomeno comparabile a quella stagione di grande vitalità, che si esaurì tuttavia assai rapidamente tra il 1910 e il 1912, proprio quando fu costituito un cartello nazionale di integrazione della distribuzione e dell'esercizio con la fusione tra l'Australasian Films e la Union Theaters. Fu in questo periodo che iniziarono la loro attività pionieri come Arthur Higgins (direttore della fotografia, che insieme al padre Earnest e al fratello Tasman ebbe un ruolo non secondario nella nascita della cinematografia australiana, lavorando a più di trenta film sino al 1946) e registi e attori come Raymond Longford e Lottie Lyell, la più nota diva del cinema muto australiano, la cui provenienza teatrale rende testimonianza di quel passaggio dal palcoscenico al set che era un fenomeno diffuso all'inizio degli anni Dieci.
In questo cinema, di cui è rimasto pochissimo (più dell'80% dei film è andato perduto), prevalgono le storie ambientate nel bush, il corrispondente della prateria nella geografia fisica e immaginaria dell'A.; almeno fino all'avvento della censura, nel 1912, avevano spesso come protagonisti degli evasi o dei banditi, intorno ai quali la cultura popolare aveva costruito dei miti (The story of the Kelly gang). In tali ambientazioni, che ricordano quelle del nascente western hollywoodiano, emersero anche figure originali, come quella del cercatore d'oro o dell'agricoltore donna (figlia o moglie), alla quale più di un film, soprattutto fino agli anni Venti, attribuì capacità di organizzazione del lavoro affini a quelle del capofamiglia: è il caso di opere come The squatter's daughter (1910), scritto, diretto e interpretato da Bertie Bailey, del quale, nel 1933, Ken G. Hall realizzò un remake che ebbe anche maggiore fortuna, o The girl of the bush di Franklyn Barrett e Silks and saddles di John K. Wells, entrambi del 1921. In generale, fatta eccezione per occasionali escursioni di esotismo europeo o asiatico (come The midnight wedding, 1912, e Australia calls, 1913, entrambi di Longford), prevalevano temi e richiami legati alla cultura locale, alle caratteristiche del paesaggio e alla composizione etnica (gli aborigeni apparvero per la prima volta in un film del 1911, Moora Neya, or the message of the spear).
L'opposizione città/campagna ‒ drammatizzata dalle vaste distanze tra gli insediamenti urbani e da un senso di isolamento continentale che sarebbe rimasto una caratteristica dell'inconscio collettivo, non solo cinematografico, del Paese ‒ costituì un asse privilegiato per la scelta dei soggetti come di ambienti e personaggi. Nel 1917 Beaumont Smith, che realizzò una decina di film fino agli anni Trenta, avviò con Our friends, the Hayseeds una popolare saga che raccontava le peripezie di una famiglia di contadini nell'impatto con la vita di città; ma due anni dopo fu Longford, insieme alla sua compagna Lottie Lyell come attrice protagonista, a realizzare quello che viene considerato il più importante lungometraggio del cinema muto australiano, The sentimental bloke, tratto dal poema di C.J. Dennis: è la storia di un uomo dedito all'alcol e a una vita da piccolo criminale nei bassifondi urbani, che l'amore per una donna riuscirà a riportare sulla retta via.
Lo stile e le tematiche del naturalismo occidentale ricorrono anche nei successivi film di Longford come On our selection (1920) e Rudd's new selection (1921), basati sui racconti di S. Rudd e su due personaggi, Dad e Dave, le cui avventure descrivono il passaggio dal mondo rurale all'integrazione urbana. Gli stessi personaggi ricomparvero con successo negli anni Trenta nei film diretti da K.G. Hall e prodotti dalla Cinesound, una casa di produzione con studi a Sydney e a Melbourne e destinata a una longevità che appare inconsueta nella cinematografia australiana: un remake di On our selection del 1932, Dad and Dave come to town (1938), Dad Rudd, M.P. (1940). E l'attore e regista Pat Hanna impersonò con successo un altro carattere del mondo contadino alle prese con la modernità urbana, Chic Williams, in Diggers (1931), diretto con Frank W. Thring, Diggers in blighty e Waltzing Mathilda, entrambi del 1933. Dalla fine degli anni Venti, tuttavia, la produzione nazionale venne quasi completamente sopraffatta dall'egemonia statunitense sul mercato (la quasi totalità dei film distribuiti era americana) e dall'influenza dei modelli produttivi e narrativi hollywoodiani: la più grande produzione del cinema muto, For the term of his natural life (1927), remake di un dramma coloniale già realizzato nel 1908 da Charles MacMahon, fu affidata a un regista americano, Norman Dawn.
Sullo stesso terreno si affermò negli anni Quaranta la personalità di Charles E. Chauvel che, dopo aver lavorato negli Stati Uniti, tornò in patria per dirigere il film che lanciò Errol Flynn (In the wake of the Bounty, 1933) e raggiunse una grande popolarità con i film bellici 40.000 Horsemen (1941; Quarantamila cavalieri), che narrava le imprese dell'esercito australiano nel Sinai durante la Grande Guerra, e The rats of Tobruk (1944) sulla guerra in Libia nel 1942. Con la collaborazione della sua compagna, Elsie Sylvaney, Chauvel fu anche autore di una interessante produzione documentaristica e del primo lungometraggio a colori (Jedda, 1955) che affrontava il problema dell'integrazione degli aborigeni nella società australiana. I decenni immediatamente successivi furono contraddistinti dal tramonto definitivo dei tentativi di evoluzione e radicamento di una cinematografia nazionale e dall'arrivo di produzioni straniere, come lo statunitense Kangaroo (1952; Kangarù) di Lewis Milestone o gli angloaustraliani The sundowners (1960; I nomadi) di Fred Zinneman e They're a weird mob (1966; Sono strana gente) di Michael Powell.
Nel corso degli anni Sessanta si assistette soprattutto all'intenso sviluppo della produzione documentaristica: tra il 1961 e il 1962 vennero realizzati più di seicento cortometraggi a carattere documentario e solo un film di finzione. Un'opera come Desert people (1967) di Jan Dunlop, sugli aborigeni, attesta il felice influsso di un cinema di documentazione che aveva visto già al lavoro sul continente autori europei come Joris Ivens (Indonesia calling, 1946) e che sarà rinnovato da Werner Herzog (Wo die grünen Ameisen träumen, 1984, Dove sognano le formiche verdi).
Fu quindi con l'avvio di una politica di sostegno e finanziamento statale alla fine degli anni Sessanta che il cinema australiano assistette alla sua più importante affermazione sul mercato interno ed estero. Produttori come Phillip Adams, magnati come Barry Jones e politici di estrazione diversa, come il conservatore J. Gorton e il laburista E. Gough Whitman, guidarono un movimento d'opinione e un'azione legislativa che portò nel 1975 alla creazione di una scuola di cinema e all'istituzione di un organismo, l'Australian Film Commission, che gestiva cospicui finanziamenti per la produzione cinematografica, con i quali lo Stato si assumeva la quasi totalità dei rischi d'impresa.
Questa politica ha avuto come esito un ricco e multiforme germogliare di autori e opere: Bruce Beresford (The adventures of Barry McKenzie, 1972; Breaker Morant, 1980), Tim Burstall (Stork, 1971; Alvin Purple, 1973), Ken Hannam (Sunday too far away, 1975; Break of day, 1976), George Miller (Mad Max, 1979, Interceptor; Mad Max 2 ‒ The road warrior, 1981, Interceptor ‒ Il guerriero della strada), Phillip Noyce (Newsfront, 1978; Heatwave, 1982), Fred Schepisi (The devil's playground, 1976; The chant of Jimmie Blacksmith, 1978), Jim Sharman (Summer of secrets, 1976; The Rocky horror picture show, 1976), Peter Weir (Picnic at Hanging Rock, 1975, Picnic a Hanging Rock; The last wave, 1977, L'ultima onda). Questa nouvelle vague senza programmi e manifesti d'avanguardia, ma di grande ricchezza (dai film di genere a quelli d'autore, dalla ricostruzione in costume all'indagine di critica sociale), ha avvertito il bisogno di esplorare il passato e la propria identità con un'energia inedita. La sua originalità è attestata innanzitutto dalla crescente presenza di autori di sesso femminile: Gillian Armstrong (My brilliant career, 1979, La mia brillante carriera; Little women, 1994, Piccole donne), la neozelandese attiva anche in A. Jane Campion (Sweetie, 1989; The Piano, 1993, Lezioni di piano), Pauline Chan (The space between the door and the floor, 1989; Little white lies, 1996), Tracey Moffat (Nice coloured girls, 1987; Heaven, 1997), Jocelyne Moorhouse (Proof, 1991, Istantanee; A thousand acres, 1997), Nadia Tass (Malcolm, 1986; Mr. Reliable: A true story, 1995, Matrimonio sotto assedio), Ann Turner (Celia: Child of terror, 1989; Dallas Doll, 1994), Emma Kate Croghan (Love and other catastrophes, 1996, Amore e altre catastrofi).
Nonostante l'affermazione internazionale degli anni Settanta (nel 1978 ben tredici film australiani erano presenti a vario titolo al Festival di Cannes), il contributo innovativo di questa ondata non si è però rivelato tanto significativo quanto ci si poteva aspettare da un così alto numero di realizzazioni: fatta eccezione per alcuni registi (Weir, Campion e Rolf de Heer, di origine olandese ma attivo in A. con film personali come Bad boy Bubby, 1993, e Dance me to my song, 1998, Balla la mia canzone), le cui opere hanno spessori, sensibilità tematiche e intensità caratteristiche dei veri autori, la maggior parte degli altri è stata assorbita in modo anonimo dal cinema medio internazionale e soprattutto statunitense, lo stesso che ha integrato molti attori australiani nel proprio star system (Mel Gibson, Judy Davis, Sam Neill), insieme a eccellenti direttori della fotografia (Ian Baker, Dean Semler, John Seale) e produttori (Jane Scott). Ma il vigore di quella ondata è attestato dal perdurare dei suoi effetti. A partire dalla fine degli anni Ottanta, l'A. ha esportato folklore e cinema di consumo (Crocodile Dundee, 1986, di Peter Faiman), ma anche autori capaci di rivisitare con graffiante destrezza i generi classici (come nel caso delle commedie di P.J. Hogan Muriel's wedding, 1994, Le nozze di Muriel, e My best friend's wedding, 1997, Il matrimonio del mio migliore amico), registi di robusto e convenzionale intrattenimento come Scott Hicks (Shine, 1996, e Hearts in Atlantis, 2001, Cuori in Atlantide), Bill Bennett (Blacklash, 1986; Kiss or kill, 1997), John Duigan (Romero, 1989; Sirens, 1993, Sirene), Simon Wincer (Harley Davidson and the Marlboro man, 1991, Harley Davidson & Marlboro man; The phantom, 1996), e attori di fama internazionale (Nicole Kidman, Geoffrey Rush, Guy Pearce, Toni Collette, Hugh Jackman).
Nell'ultimo decennio del Novecento si sono fatti largo registi sensibili nei confronti delle devianze, del disagio psichico ma anche dello humour anticonformista del mondo giovanile, come Geoffrey Wright (Romper stomper, 1992, Skinheads), Stephan Elliott (The adventures of Priscilla, queen of the desert, 1994, Priscilla, la regina del deserto) e Richard Lowenstein (He died with a felafel in his hand, 2001, E morì con un felafel in mano), talvolta facendo ricorso a un gusto che ibrida grottesco e fantastico (come in Young Einstein, 1986, Einstein Junior, di Yahoo Serious o in Just desserts, 1993, di Monica Pellizzari), che costituisce una risorsa non accidentale della cultura australiana.
K.G. Hall, Australian film: the inside story, Sidney 1980.
S. Brand, The Australian film book: 1930-today, Sidney 1985.
F. D'Angelo, C. Marabello, L'ultima onda, Firenze 1987.
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