Vedi Australia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Le mosse che l’Australia adotta sullo scacchiere internazionale sono intuibili anche solo considerando la sua peculiare posizione geografi ca. Collocata nel cuore dell’Oceano Pacifico, al centro tra Sud-Est asiatico e continente americano, l’Australia ha imparato a cogliere i vantaggi della sua vicinanza alle due super potenze mondiali e orienta in tal senso le sue scelte di politica estera nello scenario regionale e mondiale. Canberra quindi si impegna a mantenere saldo l’importante legame strategico-militare con gli Stati Uniti, principale alleato sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, mentre rafforza le sue relazioni economiche con la Cina. Quest’ultima, nel 2009, è diventata primo partner commerciale dell’Australia e le sue importazioni hanno permesso al paese di evitare la recessione. Un primo chiaro segnale di avvicinamento alla potenza cinese si era avuto già nel 2007, quando Kevin Rudd, allora primo ministro, stabilì il ritiro dell’Australia dall’Iniziativa quadrilaterale condivisa con Giappone, India e Stati Uniti, e fortemente avversata da Pechino. Tale iniziativa, avviata pochi mesi prima, mirava a rifondare il sistema di alleanze nella regione, incentrando sui legami bilaterali tra gli stati membri dell’Iniziativa una più ampia rete di alleanze implicitamente anticinese. L’ex primo ministro, Julia Gillard, ha firmato inoltre uno storico accordo con il governo di Pechino nel mese di aprile 2013, in virtù del quale i due paesi si impegnano a tenere una riunione annuale tra ministri di alto livello, garantendo così all’Australia un prezioso e raro accesso alla nuova leadership cinese. L’apertura alla Cina non si è però tradotta in un raffreddamento dei rapporti con gli Stati Uniti, maggiori investitori nel paese e principali fornitori militari, come evidenziato dalla circostanza che, dalla metà degli anni Duemila, questi hanno fornito circa la metà degli armamenti acquistati dal paese. Sul piano regionale, lo stato che riveste un’importanza cruciale per l’Australia è l’Indonesia. I due stati cooperano strettamente, nell’ambito del Trattato di Lombok del 2006, per quanto concerne difesa, intelligence e anti-terrorismo e la nomina di Greg Moriarty, la personalità di maggior spicco ed esperienza della diplomazia australiana, come ambasciatore a Giacarta conferma la volontà di intensificare le relazioni bilaterali. Tuttavia, in un’ottica prettamente geopolitica, l’Indonesia costituisce una barriera difensiva naturale per l’Australia, nello spazio aereo e, soprattutto, in quello marittimo, dove transitano molti migranti che cercano rifugio nel paese. Proprio l’austera politica australiana di respingimento dei richiedenti asilo verso le coste indonesiane ha recentemente provocato tensioni nelle relazioni tra i due paesi, già precedentemente destabilizzate dalle accuse di spionaggio ai danni di esponenti politici indonesiani rivolte all’Australia. L’intesa politico-strategica sarà comunque consolidata anche dai sempre più intensi rapporti commerciali, soprattutto in vista del prossimo avvio dell’Indonesia-Australia Closer Economic Partnership Agreement (Cepa). Sono diversi gli accordi di libero scambio formulati dall’Australia in questi anni: nel 2013 e nel 2014 ne sono stati firmati rispettivamente con Corea del Sud e Giappone, e sono in corso nuove trattative anche con Cina e India. L’Australia è inoltre impegnata in negoziati per l’espansione di un pan-Pacifico blocco di libero scambio, il Pacific Partnership Trans. La close relationship con la Nuova Zelanda appare stabile in ogni settore e anche i rapporti con il Giappone – in passato minati da diverse tensioni – si stanno espandendo ad ambiti diversi da quelli prettamente economici, riguardando anche la cultura, il turismo, la difesa e la cooperazione scientifica.
L’Australia è una monarchia costituzionale di tipo federale: accanto al governo centrale, le istituzioni australiane affiancano un elemento federale che trae origine dal patto stipulato tra le sei colonie britanniche al momento creazione del Commonwealth di Australia, nel 1901. Oggi le sei colonie sono diventate altrettanti stati federali, ognuno guidato da un governatore. Al vertice dell’esecutivo si trova la Corona d’Inghilterra: la regina Elisabetta II è anche regina d’Australia ed è formalmente il capo dello stato. La Costituzione prevede che la regina nomini un governatore generale il quale, agendo come rappresentante vicario della casa reale, è a capo delle forze armate, nomina ambasciatori, ministri, giudici ed esercita un potere di veto attenuato. Nello svolgimento della vita politica ordinaria, tuttavia, il governatore riveste un ruolo soltanto cerimoniale, simile a quello esercitato dalla Corona nella monarchia parlamentare inglese. Subordinati al governatore e detentori di fatto del potere esecutivo, il primo ministro e il governo si reggono sulla fiducia dal Parlamento. Quest’ultimo si divide in due rami: una camera composta da 150 deputati dalla durata triennale e un Senato di 76 membri, in carica per sei anni. Il sistema partitico si è evoluto, sin dal 1949, secondo un modello bipolare. A lungo la coalizione originata dall’alleanza tra il Liberal Party of Australia e il National Party of Australia è stata nettamente predominante e i governi laburisti hanno tradizionalmente dovuto lottare aspramente per vincere le elezioni.
Tuttavia, dalla fine del 2007, l’Australian Labor Party ha riguadagnato la maggioranza parlamentare ed è riuscito a mantenerla per due mandati, subendo però un serio ridimensionamento alle votazioni del 2010. Le ultime elezioni federali si sono tenute il 7 settembre 2013. Dopo due legislature in cui le forze di governo laburiste avevano dovuto ripetutamente fronteggiare crisi di premiership e mancanza di supporto da parte della stessa coalizione – comportando l’alternanza dei leader Kevin Rudd e Julia Gillard alle cariche di primo ministro –, la coalizione tra National e Liberal Party ha avuto di nuovo la meglio, aggiudicandosi una sicura maggioranza di 90 seggi alla Camera dei rappresentanti. Nonostante il vantaggioso risultato elettorale, il governo guidato da Tony Abbott fronteggia un calo d’approvazione popolare, dovuto soprattutto all’austera politica di spesa pubblica intrapresa.
L’Australia è tra i paesi con la più bassa densità di popolazione al mondo: ha solo tre abitanti per km2. La distribuzione sul territorio è fortemente concentrata nelle città, dove risiede l’89,5% degli australiani: nella regione, l’Australia è seconda solo a Singapore (stato totalmente urbanizzato) e al Giappone quanto a tasso di urbanizzazione. Negli ultimi anni la crescita demografica è stata intorno all’1,8%, un livello alto, trattandosi di un paese industrializzato. Le cause sono due: da un lato, l’assistenza pubblica alle famiglie ha favorito un incremento delle nascite; dall’altra, sono andati crescendo i flussi migratori. Secondo uno studio sociologico del 2014, l’Australia rappresenta insieme al Canada una delle nazioni occidentali più ricettive nei confronti degli immigrati. In quest’ambito il governo australiano adotta un approccio pragmatico, valutando di anno in anno quanti immigrati accettare in base ai trend economici. Negli anni precedenti, il boom nel settore delle risorse aveva spinto il governo a incrementare la quota dei visti concessi per soddisfare la crescente domanda di lavoratori qualificati, non reperibili all’interno del paese. Nell’autunno 2010 è stata varata una riforma per favorire la selezione degli immigrati più qualificati e con i più alti livelli di istruzione, in modo che potessero contribuire allo sviluppo economico australiano di lungo periodo. Questi erano giunti così a costituire il 68% dell’immigrazione totale verso l’Australia. Contestualmente alla crisi economica internazionale, nel triennio 2008- 10 il governo ha però ridotto i visti permanenti destinati ai lavoratori qualificati da 134.000 a 108.000, ma con la ripresa il dato è tornato a crescere: dai 113.850 del 2011 ai 129.250 visti per l’anno 2013. Un approccio altrettanto pragmatico, ma di contestata eticità, è quello adottato rispetto ai rifugiati. In particolare, quello del riconoscimento del diritto di asilo per gli immigrati irregolari è un tema alquanto controverso nella politica australiana, rispetto alla quale entrambi gli schieramenti politici rispondono con austerità riconducendo la questione ad un problema di sicurezza. Nonostante negli ultimi tempi si sia registrato un significativo aumento nel numero di individui in cerca di protezione in Australia (pari a 13.559 secondo l’Unhcr), la quota delle domande di asilo esaudita dal paese rappresenta ancora una frazione molto piccola del totale mondiale (circa il 2,2%).
Decenni di immigrazione hanno contribuito in modo significativo a modellare la diversità culturale e linguistica della popolazione residente in Australia. Stando alle stime ufficiali del primo semestre 2013, ben il 27,7% della popolazione residente in Australia è, infatti, nato all’estero (ovvero 6,4 milioni di persone). Gli inglesi, seppure in diminuzione rispetto al passato, continuano ad essere il più grande gruppo di residenti nati all’estero, pari al 5,3% della popolazione totale australiana, seguiti dai residenti nati in Nuova Zelanda (2,6%), Cina (1,8%), India (1,6%) e Vietnam (0,9%). Gli aborigeni e gli isolani dello Stretto di Torres costituiscono l’1,5% della popolazione: molti di essi vivono in condizioni di povertà, spesso nelle grandi metropoli.
L’Australia è il secondo paese al mondo nella graduatoria dell’indice di sviluppo umano, dietro alla Norvegia. Con un’aspettativa di vita tra le più alte al mondo, pari a 82,1 anni, un pil pro capite superiore a 44.000 dollari e uno dei sistemi scolastici più avanzati, il paese presenta caratteristiche di primissimo piano anche nel panorama degli stati sviluppati. L’Australia eccelle, per esempio, in relazione alla parità tra i generi: è la seconda nazione al mondo secondo il Gender Inequality Index (Gii), che prende in considerazione l’equilibrio tra i sessi in termini di aspettativa di vita, istruzione, standard economici e partecipazione politica. La spesa sanitaria è in linea con la media dei paesi appartenenti all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Oecd), sia per quanto concerne il valore in percentuale sul pil (6,1%) sia per spesa pro capite. Le politiche intraprese nell’ultimo decennio contro il fumo (riconosciuto in Australia come la principale causa prevenibile di morte) hanno contribuito a ridurre significativamente la percentuale di fumatori, scesa dal 27% del 2001 al 20% nel 2011-12 per gli uomini e dal 21% al 16% per le donne. Valori ben al di sotto della media mondiale, pari al 39%, così come di quella dei paesi Oecd, che si attestano al 33%. Un elemento di criticità è rappresentato invece dall’incremento dell’obesità, che attualmente riguarda 14 milioni di australiani.
L’Australia è tra i paesi al mondo preferiti per frequentare l’università: negli ultimi anni il numero delle iscrizioni totali è diminuito (scoraggiato dalle alte rette universitarie), ma tradizionalmente l’Australia ospita un altissimo numero di studenti universitari stranieri.
Nel 2014 l’Australia è stato il dodicesimo paese al mondo per dimensioni dell’economia; sulla base degli obiettivi del Libro bianco del 2012, aspira a entrare tra i primi dieci entro il 2025. In termini di pil, l’Australia è il primo paese in Oceania e nel Sud-Est asiatico mentre, se il confronto è esteso a tutta l’Asia, l’Australia slitta al quarto posto, dietro a Cina, Giappone e India. In misura analoga ad altri paesi a economia avanzata, più del 75% del pil australiano è generato dal settore terziario, in particolare dai servizi finanziari, dal settore immobiliare e dai servizi all’impresa.
Sebbene abbia risentito degli effetti della crisi economica e finanziaria mondiale, e nonostante gli ingenti danni provocati all’economia nazionale dalle disastrose alluvioni che si sono periodicamente registrate negli ultimi tre anni, il paese non è mai entrato in recessione. Dopo un parziale rallentamento della crescita annua nel 2011, il pil australiano è tornato sopra la soglia del 2% nel 2012.
L’aumento della disoccupazione, che anche in tempi di crisi non ha raggiunto livelli molto preoccupanti, ha però colpito soprattutto i giovani, molti dei quali sono costretti a vivere più a lungo del previsto con i genitori o rinunciano all’idea di comprare casa, scoraggiati dai prezzi elevati. Il Fondo monetario internazionale ha classificato l’Australia come uno dei paesi più cari al mondo per costo delle abitazioni: i prezzi nel primo trimestre del 2014 sono stati superiori all’11,5% anno su anno. In Australia resta tra l’altro elevato il timore dell’esplosione di una bolla immobiliare simile a quella che nel 2007 precedette e innescò la crisi statunitense. La politica economica dei governi australiani degli ultimi vent’anni si è articolata attorno all’obiettivo di liberalizzare e deregolamentare i mercati e l’attività d’impresa: questo principio è stato spesso sottoscritto dai governi che si sono susseguiti al potere, ma non tutte le promesse sono state realizzate. Le riforme economiche hanno comunque permesso al bilancio dello stato di registrare una serie di surplus fiscali tra il 1997 e il 2008. Anche il forte deficit originato dalla contrazione dell’economia dopo il 2009 (2,8% del pil nel 2012) è oggi in via di riassorbimento, ma è improbabile che si registri un nuovo surplus di bilancio prima del biennio 2017-18. L’Australia possiede significative riserve di minerali ed energetiche di alto valore commerciale. Dispone, per esempio, delle più vaste riserve di piombo, ferro e zinco al mondo, e riserve di bauxite seconde su scala mondiale alla sola Guinea. L’intenzione dell’attuale governo federale è rendere l’Australia una ‘superpotenza dell’energia’ e approntare un piano per incrementare gli scambi con le maggiori potenze industriali. L’Australia esporta oggi i tre quinti dell’energia che produce e, secondo recenti stime, la quota di esportazioni di minerali ed energia aumenterà del 60% nei prossimi cinque anni, generando circa 290 miliardi di dollari australiani all’anno. Nel 2013 il valore dell’export ha superato la ragguardevole cifra di 263 miliardi di dollari. Per quanto riguarda il commercio internazionale, dal 2009 la Cina ha sorpassato il Giappone anche come mercato di destinazione delle merci australiane e oggi la differenza tra i due stati è di più del 15%. Il paese destina comunque la maggior parte del suo commercio estero ai suoi vicini regionali della costa pacifica. Per questo motivo l’Australia punta a giocare un ruolo rilevante nelle principali organizzazioni regionali dell’area. Prima tra queste è la Conferenza economica Asia-Pacifico (Apec, l’organismo che raggruppa la maggior parte dei paesi rivieraschi e delle isole dell’Oceano Pacifico.
L’Australia ne è un membro fondatore e, in considerazione della crescente rilevanza assunta dall’Apec come foro di coordinamento e dialogo tra Stati Uniti e Cina, Canberra gli riserva particolari attenzioni. Pur non facendo parte dell’Asean (l’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico), l’Australia partecipa al forum regionale tenuto annualmente dall’organizzazione quale primo partner di dialogo e nel 2009 ha stipulato con essa e la Nuova Zelanda un accordo di libero scambio (AanZfta).
Infine, il paese è il principale attore del Forum delle Isole del Pacifico (Pif), organizzazione intergovernativa che, oltre all’Australia, include la maggior parte delle isole del Pacifico ed è finalizzata, per statuto, al miglioramento delle condizioni economiche e sociali delle popolazioni dei paesi aderenti.
Nel sottosuolo australiano si conserva circa l’8,8% delle riserve mondiali di carbone trovate alla fine del 2011 – livello inferiore solo a quello di Stati Uniti, Federazione Russa e Cina. Il limitato consumo interno della risorsa (49,8 Mtep nel 2011) rispetto alla produzione (230,8 Mtep) rende l’Australia il principale esportatore di carbone su scala mondiale. Il carbone non è tuttavia una risorsa energetica altamente strategica, poiché la maggior parte dei paesi del mondo soddisfa la domanda di questa materia prima con la produzione interna.
Lo stesso fa Canberra: potendo contare su una vasta disponibilità di giacimenti di carbone, produce energia utilizzandolo per il 42% del suo mix energetico. Dal momento che la combustione del carbone libera molta anidride carbonica per unità di energia prodotta, l’Australia è tra i paesi industrializzati con la più alta produzione pro capite di CO2. Scarsamente efficace – sebbene politicamente molto controversa – è stata l’introduzione, nel luglio 2012, di una tassa sulle emissioni di anidride carbonica che, secondo le stime, porterà le emissioni entro il 2020 al 95% del livello del 2000. Si prevede però una variazione del provvedimento con il nuovo governo.
Sebbene Indonesia e Malaysia esportino una maggiore quantità di gas, l’Australia è il primo fornitore di gas naturale liquefatto della Cina (e il secondo in senso assoluto dietro il Turkmenistan). In base ai pronostici di una crescita delle esportazioni pari al 360%, il paese si candida a diventare il primo esportatore al mondo di questo combustibile. Tali pronostici potrebbero essere ancor più realistici qualora cominciasse lo sfruttamento di altri giacimenti di gas trovati al largo delle coste australiane e per i quali è in corso una disputa con Timor Est.
Le floride potenzialità energetiche dell’Australia spingono alcuni analisti a ritenere persino che il paese si stia trasformando nel ‘Qatar del Pacifico’. L’Australia dispone anche delle più vaste riserve di uranio su scala globale – pari al 31% del totale. Nel 2011 era il terzo produttore mondiale di questa materia prima (quasi 6.000 tonnellate), dopo il Kazakistan (18.000) e il Canada (9.000). Non possedendo centrali nucleari, l’intera produzione australiana è destinata ai mercati internazionali. Poiché il commercio dell’uranio è una questione politicamente sensibile, le esportazioni sono legate a contratti ben definiti e il paese sceglie i propri partner commerciali sulla base di valutazioni di opportunità politica.
Il peso notevole del carbone nel mix energetico nazionale e i costi ambientali connessi al suo utilizzo hanno aperto nel paese un dibattito, ancora in corso, sull’utilizzo dell’energia nucleare – fermamente contrastato dall’opinione pubblica, soprattutto dopo l’incidente di Fukushima del marzo 2011.
La dottrina strategica dell’Australia è una conseguenza della sua collocazione geopolitica. Includendo il Territorio Antartico Australiano e il mare adiacente, l’Australia è il più esteso stato al mondo con una superficie di circa 27,2 milioni di chilometri quadrati: ciò rende evidente l’importanza dell’elemento geografico. L’organizzazione militare responsabile della difesa è l’Australian Defence Force (Adf), composta dalla Marina e dall’Aeronautica militari reali e dall’esercito, oltre che da un certo numero di unità tri-service. La Marina ha, naturalmente, primaria importanza, tanto che l’Australia sta considerando una cooperazione militare marittima con India e Indonesia. Le politiche di difesa del governo australiano sono guidate dal Libro bianco per la Difesa del 2009 (Defending Australia in the Asia Pacific Century: Force 2030), un documento programmatico orientato alle sfide con cui l’Australia è destinata a confrontarsi per il cambiamento del suo ambiente strategico e le mutevoli relazioni tra le nazioni della regione pacifico-asiatica. Il Libro, aggiornato anche nel 2013, stabilisce un aumento delle capacità dell’Adf fino al 2030, con una crescita significativa della Marina, il potenziamento delle unità dell’esercito e la modernizzazione dei settori dell’Aeronautica e dell’intelligence. Più in generale, l’interesse australiano coincide con la stabilità, la coesione e la sicurezza dell’intera regione limitrofa, che comprende stati come Papua Nuova Guinea, Timor Est, Isole Salomone e Vanuatu - ritenuti tra i più deboli al mondo -, e di tutto il Mar cinese meridionale, sul quale sono in corso diverse dispute la cui risoluzione richiede una più stretta collaborazione con l’Asean. Per finanziare un programma così ambizioso il governo stima di investire per la difesa il 3% del pil fino al 2017, per poi ridurre i costi al 2,2% nei tredici anni successivi.
L’alleato principale dell’Australia restano gli Stati Uniti che, non a caso, nel 1989 hanno inserito il paese nella lista dei maggiori alleati non-Nato. Oltre a rappresentare i principali fornitori di armamenti e assistenza militare all’Australia, gli Stati Uniti sono presenti fisicamente nel paese attraverso lo Us Pacific Command. Inoltre, in occasione della visita condotta in Australia dal presidente statunitense Barack Obama nel novembre 2011, i due partner hanno annunciato un accordo per l’approfondimento della cooperazione alla sicurezza, incentrato sulla collaborazione tra la Royal Australian Air Force e l’aviazione statunitense e sull’addestramento in territorio australiano di marines statunitensi, nella prospettiva di creare una Marine Air-Ground Task-Force entro il 2016. Il rafforzamento della partnership strategica con gli Stati Uniti – cementatasi sin dalla Seconda guerra mondiale attraverso la cooperazione nei conflitti in Corea, Vietnam e Iraq – si colloca oggi nel quadro della nuova dottrina di difesa annunciata da Obama nel gennaio 2012 ed espressamente rivolta all’espansione e intensificazione della presenza statunitense nell’area dell’Asia pacifica.
A dimostrazione dell’importanza rivestita per Canberra dalla cooperazione con l’Alleanza Atlantica, la missione all’estero nella quale l’Australia ha impegnato più energie e capitali è quella della Nato in Afghanistan, nella quale sono stati impiegati più di 25.000 militari australiani (40 dei quali sono rimasti uccisi) e spesi più di 7,5 miliardi dollari. In linea con il progressivo ritiro delle forze Nato dal teatro afghano, nel corso del 2013 si è proceduto con il rimpatrio dei contingenti australiani.
È inoltre imminente il ritiro dei 380 militari di stanza a Timor Est e degli 80 presenti nelle Isole Salomone – per l’operazione Regional Assistance Mission to Solomon Islands (Ramsi) – richiesti dagli stessi governi locali per garantire stabilità e sicurezza. Nel Sinai si trovano invece 250 soldati inseriti nella missione Multinational Force & Observers (Mfo).
Nell’anno accademico 2013-14 le università australiane hanno aperto le loro porte a più di 422.000 studenti stranieri e fino al 2020 il governo prospetta un tasso di crescita annuale delle iscrizioni del 5% (rispetto all’anno precedente si è registrato un aumento pari all’11,5%).
L’attrazione di studenti provenienti dall’estero – pari a circa un quarto dell’intera popolazione universitaria – offre all’Australia notevoli vantaggi economici e costituisce una vera fabbrica per l’esportazione nonché una notevole fonte di crescita interna. Le attività di formazione internazionale generano più di 15 miliardi di dollari di reddito annuo e alimentano almeno 100.000 posti di lavoro. Le tasse degli studenti internazionali, assai più elevate della cifra necessaria per coprire i costi di studio, rappresentano circa il 16% del fatturato totale dell’istruzione superiore e l’intero giro di affari a esse collegato contribuisce al pil nazionale per l’1%. La formazione a carattere internazionale non rappresenta tuttavia solo un’opportunità di business per l’Australia. Campus offshore, gemellaggi e collaborazioni di ricerca internazionali rientrano nel programma australiano di aiuti verso i paesi in via di sviluppo e, attraverso la formazione del capitale umano, puntano al miglioramento della governance, alla costruzione di istituzioni civiche stabili e alla realizzazione di uno sviluppo sostenibile. Sostenendo di fatto un’attività di cultural diplomacy, l’Australia ha messo a punto una strategia per garantirsi buoni rapporti, investimenti continui e intensi scambi commerciali con i suoi partner più importanti. Considerati i più recenti orientamenti politico-strategici dell’Australia, non è un caso quindi che più della metà degli studenti internazionali provenga dall’Asia.
L’Australia riconosce il diritto di asilo ed è firmataria della Convenzione sullo status dei rifugiati. L’attuale politica di governo rivela tuttavia un notevole divario tra gli obblighi cui il paese sarebbe chiamato a rispondere in materia di diritti umani e il trattamento riservato a richiedenti asilo e rifugiati. Canberra ha adottato infatti uno dei sistemi di detenzione per immigrati più restrittivi al mondo, esteso obbligatoriamente a chiunque entri nel paese senza un visto valido e dalla durata indefinita. A tale pratica si aggiunge quella del respingimento, quasi sempre verso le coste indonesiane, delle imbarcazioni che trasportano i rifugiati richiedenti protezione all’Australia. Attualmente più di 7.000 persone (di cui un sesto composto da bambini) sono trattenute nelle strutture di detenzione per immigrati situate nelle isole di Nauru, Manus e Christmas. Il caso di quest’ultima isola è particolarmente significativo in quanto, con i suoi soli 135 chilometri quadrati di estensione, è il lembo di terra sotto giurisdizione australiana più vicino all’Indonesia e quindi la prima meta di speranza per i migranti, provenienti soprattutto da Afghanistan, Iran, Sri Lanka, Indonesia e Pakistan. Christmas Island, rispetto ai suoi circa 2.000 abitanti, è arrivata ad ospitare nei suoi cinque centri oltre 3000 immigrati nei periodi di maggiore afflusso, superando di gran lunga la capacità di accoglienza delle strutture.
Facendo appello a ragioni di sicurezza e di protezione dei confini, l’amministrazione attuale si è impegnata fermamente a impedire l’approdo di barche di migranti sulle coste australiane, stringendo anche patti con i paesi circostanti. Nel 2013 Tony Abbott ha sottoscritto un accordo col premier della Papua Nuova Guinea, Peter O’Neill, per stabilire che i richiedenti asilo non vengano più accolti sul territorio australiano. L’intesa bilaterale – della quale è prevista una revisione annuale – prevede che il governo papuano accetti automaticamente qualsiasi immigrato sbarcato sulla Christmas Island; dal canto suo, Canberra si incarica di sostenere i costi di questa accoglienza forzata, che garantirà agli immigrati lo status di rifugiato, ma non l’asilo politico.
Attualmente in Australia si contano più di 34.500 rifugiati e in centinaia sono morti annegati in questi anni nel vano tentativo di raggiungere le coste australiane.
Nel 1974, un anno prima che l’Indonesia invadesse la parte orientale di Timor, nella striscia di mare compresa tra l’isola e l’Australia furono scoperti giacimenti di gas per l’attribuzione dei quali una controversia è tuttora in atto. Si chiamano Alba e Troubadour (la zona in cui si trovano ha il nome di Timor Gap); si stima che contengano 145 miliardi di metri cubi di gas: una risorsa unica per Timor Est, un’opportunità di esportazione in più e di ulteriore tutela della propria sovranità per l’Australia. La disputa tra i due paesi riguarda i metodi di determinazione delle acque territoriali: Timor sostiene il principio dei confini tracciati sulla base della linea dei punti equidistanti dalle coste, l’Australia afferma il diritto sulla sua piattaforma continentale. Nel tentativo di risolvere la controversia su Timor Gap, tra il 2003 e il 2007 sono stati stipulati tre diversi trattati, da considerare unitamente. Il Certain Maritime Arrangements in the Timor Sea (Cmats), in particolare, ha prodotto i suoi effetti anche nel 2013. In base al Cmats, i due stati si sarebbero imposti uno stop alla discussione sui confini marittimi e avrebbero accettato di dividere equamente gli introiti fiscali dovuti dalle compagnie petrolifere sugli idrocarburi eventualmente prodotti, a patto che i giacimenti venissero sfruttati entro il febbraio 2013. Tale termine è decorso senza che nessun passo avanti venisse compiuto. Ora Timor Est ha aperto una procedura di arbitrato, sostenendo che l’Australia, al momento delle trattive per Cmats, era impegnata in attività di spionaggio a danno della controparte, il che renderebbe il trattato non valido. Fino a oggi le accuse non sono state smentite dall’Australia e la partita è ancora tutta da giocare.
Il commercio dell’uranio è un’attività che trascende le questioni attinenti alla politica commerciale e di sicurezza energetica di un paese per trasformarsi in un problema di sicurezza nazionale. L’uranio può essere destinato, infatti, a un duplice utilizzo nelle centrali nucleari: l’uno civile e pacifico (produzione di energia elettrica), l’altro militare (fabbricazione di testate atomiche). L’Australia è membro del Gruppo dei paesi fornitori di materiale nucleare (Ngs) e tradizionalmente rifiuta di rifornire i paesi che non hanno aderito al Trattato di non proliferazione nucleare (Nnpt). I maggiori acquirenti del materiale fissile australiano sono, attualmente, gli Stati Uniti, l’Unione Europea, il Giappone, la Corea del Sud e il Canada ma, a seguito di un trattato siglato nel 2006, dal 2008 Canberra ha cominciato a esportare uranio anche verso la Cina. Per quanto riguarda l’India, stato non membro del Nnpt e possessore di testate nucleari, durante l’amministrazione Howard l’Australia si è dimostrata disponibile a discutere di una vendita di uranio, che però non si è concretizzata, tanto che il paese è tornato su una posizione più accorta con i successivi governi laburisti.