Vedi Australia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La peculiare posizione geopolitica dell’Australia, nel cuore dell’Oceano Pacifico e politicamente al centro tra sud-est asiatico e continente americano, influenza significativamente le scelte di politica estera di Canberra nello scenario regionale e internazionale.
La prima sfida che l’Australia fronteggia consiste nella necessità di bilanciare la solida relazione strategico-militare con gli Stati Uniti, principale alleato sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, con l’ascesa della Cina. Quest’ultima, nel 2009, ha raggiunto lo status di primo partner commerciale dell’Australia e le sue importazioni hanno permesso al paese di evitare la recessione. La nomina a ministro degli esteri dell’ex premier e ambasciatore a Pechino Kevin Rudd nel settembre 2010 ha consolidato l’avvicinamento alla Cina: una delle prime decisioni di Rudd in veste di primo ministro fu infatti, nel 2007, il ritiro dall’Iniziativa Quadrilaterale condivisa con Giappone, India e Stati Uniti, e fortemente avversata dalla Cina. Tale Iniziativa, avviata pochi mesi prima, mirava a rifondare il sistema di alleanze nella regione, incentrando sui legami bilaterali tra gli stati parte dell’Iniziativa una più ampia rete di alleanze implicitamente anti-cinese. L’avvicinamento alla Cina, tuttavia, non ha determinato un raffreddamento dei rapporti con gli Stati Uniti dai quali l’Australia dipende strategicamente, come evidenziato dalla circostanza che, negli ultimi sette anni, questi hanno fornito circa la metà degli armamenti acquistati dal paese. Al contrario, la convergenza con l’amministrazione Obama, tanto in relazione al ritiro dall’Iraq quanto alla riduzione delle emissioni da CO2, rappresenta una svolta positiva rispetto all’era di G.W. Bush, caratterizzata dalle tensioni provocate dalla firma australiana del Protocollo di Kyoto e dal parziale ritiro dall’Afghanistan.
Sul piano regionale, l’Indonesia riveste un’importanza cruciale per l’Australia: negli ultimi anni hanno avuto luogo più di settanta visite ministeriali tra i due stati e la nomina di Greg Moriarty, la personalità di maggior spicco ed esperienza della diplomazia australiana, come ambasciatore a Giacarta conferma la volontà di intensificare le relazioni bilaterali. In un’ottica prettamente geopolitica, l’Indonesia costituisce una barriera difensiva naturale per l’Australia sia nella dimensione marittima, che in quella aerea – la gran parte dei voli da e per l’Australia attraversa infatti lo spazio aereo indonesiano. A livello intergovernativo non stupisce dunque la forte collaborazione in atto per quanto concerne difesa, intelligence e antiterrorismo, sancita dal Trattato di Lombok del 2006. A stridere con la solida intesa politico-strategica è piuttosto il limitato interscambio commerciale, che colloca l’Indonesia solo al tredicesimo posto nella classifica dei partner commerciali australiani.
Mentre la close relationship con la Nuova Zelanda appare stabile in ogni settore, non si può dire altrettanto dei rapporti con il Giappone, secondo partner commerciale e terzo partner strategico dell’Australia dopo Stati Uniti e Regno Unito. Lo screzio diplomatico generato nel 2008 dalla mancata tappa di Rudd a Tokyo nel corso di un tour diplomatico mondiale che l’avrebbe portato a Pechino per quattro giorni e, successivamente, la ferma opposizione australiana al programma giapponese di caccia alle balene – sfociata nel ricorso di Canberra alla Corte internazionale di giustizia – sono segnali di una crescente tensione nei rapporti tra i due paesi.
L’Australia è una monarchia costituzionale di tipo federale: accanto al governo centrale, le istituzioni australiane affiancano un elemento federale che trae origine dal patto stipulato tra le sei colonie britanniche al momento della creazione del Commonwealth di Australia, nel 1901. Oggi le sei colonie sono diventate altrettanti stati federali, ognuno guidato da un governatore.
Al vertice dell’esecutivo si trova la Corona d’Inghilterra: la regina Elisabetta II è anche regina d’Australia, ed è formalmente il capo dello stato. La Costituzione prevede che la regina nomini un governatore generale il quale, agendo come rappresentante vicario della casa reale, è a capo delle forze armate, nomina ambasciatori, ministri, giudici ed esercita un potere di veto attenuato. Nello svolgimento della vita politica ordinaria, tuttavia, il governatore riveste un ruolo soltanto cerimoniale, simile a quello esercitato dalla Corona nella monarchia parlamentare inglese.
Subordinati al governatore e detentori di fatto del potere esecutivo, il primo ministro e il governo si reggono sulla fiducia dal parlamento. Quest’ultimo si divide in due rami: una camera composta da 150 deputati dalla durata triennale, e un senato di 76 membri, in carica per sei anni.
Il sistema partitico si è evoluto, sin dal 1949, secondo un modello bipolare. A lungo la coalizione originata dall’alleanza tra il Liberal Party of Australia e il National Party of Australia è stata nettamente predominante, e i governi laburisti hanno tradizionalmente dovuto lottare aspramente per vincere le elezioni. Tuttavia, dalla fine del 2007, l’Australian Labor Party ha riguadagnato la maggioranza parlamentare al termine di uno iato decennale in cui la coalizione liberal-nazionalista di John Howard era riuscita, tra alterne vicende, a mantenere il controllo dell’esecutivo. Tuttavia, alle elezioni federali del 21 agosto 2010 il Partito laburista ha subìto un ridimensionamento a vantaggio di altri partiti minori. Le conseguenze del voto hanno costretto Julia Gillard, primo ministro dal giugno 2010, a formare un governo di minoranza con l’appoggio esterno determinante dei Verdi e di alcuni parlamentari indipendenti.
L’Australia è, dopo la Mongolia, il paese con la più bassa densità di popolazione al mondo, avendo solo 2,8 abitanti per km2. La distribuzione sul territorio è però fortemente concentrata nelle città, dove risiede l’89,9% degli australiani: nella regione, infatti, l’Australia è seconda solo a Singapore (stato totalmente urbanizzato per definizione) quanto a tasso di urbanizzazione.
Negli ultimi anni la crescita demografica è stata dell’1,5%; un livello alto trattandosi di un paese industrializzato. Le cause sono di duplice natura: da un lato l’assistenza pubblica alle famiglie ha favorito un incremento delle nascite, dall’altra sono andati crescendo i flussi migratori. In merito a questi ultimi il governo australiano adotta una politica pragmatica, valutando di anno in anno quanti immigrati accettare in base ai trend economici. Negli ultimi anni il boom verificatosi nel settore delle risorse ha spinto il governo a incrementare la quota dei visti concessi per soddisfare la crescente domanda di lavoratori qualificati, non reperibili attingendo unicamente all’interno del paese. Inoltre hanno contribuito alla maggior crescita demografica anche i rifugiati, che oggi ammontano a 22.548 e che dalla fine degli anni Novanta riscontrano meno difficoltà nell’ottenimento di visti temporanei. Contestualmente alla crisi economica internazionale, nel triennio 2008-10 il governo ha ridotto i visti permanenti destinati ai lavoratori qualificati da 134.000 a 108.000, ma con la ripresa il dato è tornato a crescere (113.850 quelli concessi per il 2011). I lavoratori qualificati rappresentano il 67,5% dell’immigrazione totale verso l’Australia. La parte restante è costituita dai ricongiungimenti familiari, che nell’ultimo decennio sono raddoppiati. Nell’autunno 2010 è stata varata una riforma finalizzata a favorire la selezione degli immigrati maggiormente qualificati e con i più alti livelli di istruzione, in modo che possano contribuire allo sviluppo economico australiano di lungo periodo. Il 76% della popolazione è nato in Australia, l’11% proviene dall’Europa e dai territori dell’ex Unione Sovietica e la parte restante prevalentemente dagli stati del sud-est asiatico e dall’Oceania. Gli aborigeni e gli isolani dello Stretto di Torres costituiscono l’1,5% della popolazione: molti di essi vivono in condizioni di povertà, spesso nelle grandi metropoli.
L’Australia è il secondo paese al mondo nella graduatoria dell’indice di sviluppo umano, dietro alla Norvegia. Con un’aspettativa di vita pari a 81,5 anni (inferiore esclusivamente alle medie giapponese e svizzera ed uguale a quella italiana), un pil pro capite di quasi 40 mila dollari ed uno dei sistemi scolastici più avanzati al mondo, il paese presenta caratteristiche di primissimo piano anche nel panorama degli stati sviluppati.
L’Australia eccelle anche in relazione alla parità tra i generi: è la prima nazione al mondo secondo il Gender Related Development Index (Gdi), che rispecchia l’equilibrio in termini di aspettative di vita, istruzione e standard economici, e la settima per quanto riguarda il Gender Empowerment Measure (Gem), relativo soprattutto alla partecipazione politica ed economica.
La spesa sanitaria è in linea con la media dei paesi appartenenti all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Oecd), sia per quanto concerne il valore in percentuale sul pil (8,9%) sia per spesa pro capite. Negli ultimi decenni la percentuale di fumatori si è dimezzata ed oggi non supera il 16,6%: valore ben al di sotto della media mondiale, pari al 39%, così come di quella dei paesi Oecd, che si attestano al 33%. Si riscontra invece un elemento di criticità per quanto riguarda l’incremento dell’obesità, che attualmente coinvolge già il 24,8% degli australiani.
L’Australia è il secondo paese al mondo dietro alla Nuova Zelanda per numero di studenti universitari stranieri ospitati in rapporto alla popolazione locale: ogni mille cittadini autoctoni ci sono, infatti, 12 studenti stranieri. Tuttavia, le previsioni future non sono rosee: molti osservatori stimano che le iscrizioni dall’estero subiranno un calo nei prossimi anni. È con l’obiettivo di scongiurare questa inversione di tendenza che nel novembre 2010 il ministro dell’istruzione terziaria, Christopher Evans, ha guidato una delegazione in Cina, terra d’origine della maggioranza degli studenti stranieri.
Nel novembre 2010 per la prima volta dall’inizio del 21° secolo un ministro australiano ha guidato una delegazione composta da esponenti del mondo accademico a Pechino. In Australia, il giro d’affari collegato agli studenti stranieri è stato nell’ultimo anno di 11,4 miliardi di dollari australiani, ovvero l’1,2% del pil. Se a ciò si aggiunge il fatto che un terzo di essi provengono dalla Cina è presto spiegato il forte interesse nel non perdere una risorsa tanto rilevante. Per avere una misura di quanto le rette degli studenti esteri incidano sul bilancio delle università australiane basta guardare alla Monash University, la maggiore del paese. All’inizio dell’anno accademico 2010-11, prevedendo un calo del 10% delle iscrizioni per l’anno seguente, l’Università ha dovuto tagliare le spese per 44,5 milioni di dollari, oltre a 300 posti di lavoro. Le rette in oggetto costituiscono, infatti, il 20% delle entrate totali annue della Monash University ed ogni due studenti viene creato un posto di lavoro. La delegazione australiana è dunque volata a Pechino proponendo di intensificare la collaborazione nel campo della ricerca accademica e gli scambi culturali tra i due paesi, cercando di reagire all’effetto combinato dell’apprezzamento della valuta nazionale, dell’irrigidimento della normativa in materia d’immigrazione e dell’accresciuta concorrenza internazionale, soprattutto da parte degli Stati Uniti.
Nel 2010 l’Australia era il tredicesimo paese al mondo per dimensioni della sua economia (dati del Fondo monetario internazionale). In termini di pil l’Australia è il primo paese in Oceania e nel sud-est asiatico, mentre se il confronto è esteso a tutta l’Asia l’Australia slitta al quarto posto, dietro a Giappone, Cina e India. Se si considera il pil pro capite quella di Canberra è la decima economia al mondo, mentre in Asia e Oceania è superata soltanto da Singapore e Hong Kong.
In misura analoga ad altri paesi ad economia avanzata, quasi il 70% del pil australiano è generato dal settore terziario, in particolare dai servizi finanziari, dal settore immobiliare e dai servizi all’impresa.
Sebbene abbia risentito degli effetti della crisi economica e finanziaria mondiale del 2008-09, il paese appare in ripresa, e la sua crescita è tra le più alte per i paesi industrializzati (attorno al 3% del pil all’anno). A testimonianza della vitalità dell’economia australiana si trova il tasso di disoccupazione, che neppure in tempo di crisi ha superato il 5,5%. Gli stessi dati offrono tuttavia prospettive meno ottimistiche se si considera che, da una parte, il tasso di occupazione è basso anche per via di una politica immigratoria divenuta più restrittiva e selettiva dal 2009, e che dall’altra resta elevato il timore dell’esplosione di una bolla immobiliare simile a quella che nel 2007 precedette e innescò la crisi statunitense.
La politica economica dei governi australiani degli ultimi vent’anni si è articolata attorno all’obiettivo di liberalizzare e deregolamentare i mercati e l’attività d’impresa: questo mantra è stato spesso sottoscritto dai governi che si sono susseguiti al potere, ma non tutte le promesse sono state realizzate. Le riforme economiche hanno comunque permesso al bilancio dello stato di registrare una serie ininterrotta di surplus fiscali tra il 1997 e il 2008: anche il forte deficit originato dalla contrazione dell’economia nel 2009 e nel 2010 (rispettivamente −3,9% e −2,4% sul pil) è oggi in via di riassorbimento.
L’Australia possiede significative riserve di minerali dall’alto valore commerciale. Di;spone, ad esempio, di vaste riserve di piombo (il 13% del totale delle riserve mondiali), di ferro (12%), di bauxite (11%) e di zinco (10%).
Per quanto riguarda il commercio internazionale, dal 2009 la Cina ha sorpassato il Giappone anche come mercato di destinazione delle merci australiane. La stretta interdipendenza economica tra Canberra e Pechino è emersa di recente nella vertenza diplomatico-commerciale di Rio Tinto.
Il paese concentra la maggior parte del suo commercio estero verso i suoi vicini regionali della costa pacifica. Per questo motivo l’Australia punta a giocare un ruolo rilevante nelle principali organizzazioni regionali dell’area. Prima fra queste è la Conferenza economica Asia-Pacifico (Apec), organismo che raggruppa la maggior parte dei paesi rivieraschi e delle isole dell’Oceano Pacifico. L’Australia ne è un membro fondatore e, in considerazione della crescente rilevanza assunta dall’ Apec come foro di coordinamento e dialogo tra Stati Uniti e Cina, Canberra guarda con estremo interesse a tale organismo. In secondo luogo, nel 2009 l’Australia ha firmato assieme alla Nuova Zelanda un accordo di libero scambio con l’Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico (Asean) e, pur non essendone membro, partecipa al forum regionale tenuto annualmente dall'organizzazione. Infine, il Paese è il principale attore in seno al Forum delle Isole del Pacifico (pif), organizzazione intergovernativa che oltre all’Australia include la maggior parte delle isole del Pacifico e finalizzata, per statuto, al miglioramento delle condizioni economiche e sociali delle popolazioni dei paesi aderenti.
Il 29 marzo 2010, la Prima Corte Intermedia del Popolo di Shanghai ha condannato a dieci anni di carcere Stern Hu, dirigente del colosso minerario anglo-australiano Rio Tinto, arrestato assieme a tre dipendenti cinesi della compagnia nel luglio 2009 con l’accusa di corruzione e spionaggio. Secondo quanto reso pubblico dal sito www.baomi.org, vicino ai servizi segreti cinesi, i dati reperiti nel computer di Hu dimostrerebbero che il danno arrecato alla Cina ammonta a 14,6 miliardi di dollari americani. Hu, grazie alle informazioni ottenute illecitamente, avrebbe infatti potuto raggiungere un accordo con Baosteel, l’azienda leader dell’acciaio cinese, che prevedeva un incremento dell’80-90% dei prezzi delle materie prime rispetto al 2008.
Tutto ciò in uno scenario in cui la Cina, nel corso del 2009, aveva cercato di ridurre la propria dipendenza dalle forniture minerarie di Rio Tinto, investendo 19,5 miliardi di dollari americani per portare la propria quota nella compagnia, fortemente indebitata, dal 9,3% al 18%. Tuttavia la ripresa del mercato delle materie prime ha consentito a Rio Tinto di annullare l’accordo, provocando una dura reazione da parte cinese, probabilmente sfociata nell’arresto di Hu. Il verdetto ha quindi dato luogo ad un aspro confronto tra il ministro degli esteri australiano Stephen Smith e Qin Gang, il portavoce del ministero degli esteri cinese. Quest’ultimo ha replicato all’accusa di scarsa trasparenza ribadendo l’assoluta sovranità della Cina sui propri affari interni e la ferma opposizione a qualsivoglia interferenza da parte di paesi terzi.
L’Australia è il maggiore esportatore mondiale di carbone: nel 2009 ne ha prodotto per un valore equivalente a 228 ktep, consumandone solo 51. Nel suo sottosuolo si trova inoltre circa il 9% di tutte le riserve di carbone mondiali. Il carbone non è tuttavia una risorsa energetica altamente sensibile, dal momento che la maggior parte dei paesi del mondo soddisfa la domanda di questa materia prima attraverso la produzione interna. Lo stesso fa Canberra: potendo contare su una vasta disponibilità di giacimenti di carbone, produce energia utilizzandolo per il 45% del suo mix energetico. Dal momento che la combustione del carbone libera molta anidride carbonica per unità di energia prodotta, l’Australia è, tra i paesi industrializzati, seconda per produzione pro capite di CO2.
Un’altra importante fonte di energia esportata in grandi quantità è il gas naturale, che per ragioni geografiche deve essere liquefatto e trasportato via nave. Al consumo interno nel 2009 sono stati destinati 25,7 dei 42,3 miliardi di metri cubi prodotti annualmente. Il rimanente, assieme ad alcune scorte, è stato esportato quasi esclusivamente verso i vicini asiatici (Giappone, Cina, Corea del Sud e India). Sebbene Indonesia e Malaysia esportino una quantità di gas ancora più rilevante, gli australiani sono primi per esportazioni verso la Cina, e le esportazioni da Canberra sono quelle che hanno subito una maggiore crescita negli ultimi cinque anni. Proprio per questo, alcuni analisti ritengono che l’Australia si starebbe trasformando nel ‘Qatar del Pacifico’, ricalcando quanto avvenuto nel paese arabo a partire dalla metà degli anni Novanta.
L’Australia dispone infine di circa un terzo di tutte le riserve di uranio del mondo. Nel 2009 era il terzo produttore mondiale di questa materia prima (quasi 8000 tonnellate), dopo il Kazakistan (14.000) e il Canada (10.000).
2. Missili Cruise d’attacco terrestre per armare sottomarini, aerei da combattimento e la flotta di superficie.
3. 8 nuove fregate più grandi e meglio equipaggiate di quelle classe Anzac attualmente in dotazione.
4. Una nuova classe composta da 20 navi da guerra d’alto mare superiori alle 2000 tonnellate.
5. Una grande nave da 10-15.000 tonnellate per il trasporto di mezzi anfibi.
6. Un nuovo aereo per la ricognizione marittima a lungo raggio.
7. Velivoli senza equipaggio d’alta quota ad elevata autonomia.
8. Nuovi blindati da combattimento.
9. Elicotteri da trasporto CH-47F.
10. Migliorare nel settore dell’Isr (Intelligence Surveillance and Reconnaissance) e dotarsi di un satellite per l’intelligence.
11. Istituire un centro per la cyber-sicurezza.
Non possedendo centrali nucleari, l’intera produzione australiana è destinata ai mercati internazionali. Dal momento che il commercio dell’uranio è una questione politicamente sensibile, le sue esportazioni sono legate a contratti ben definiti e il paese sceglie i propri partner commerciali sulla base di valutazioni di opportunità politica.
Il commercio dell’uranio è un’attività che trascende le questioni attinenti alla politica commerciale e di sicurezza energetica di un paese per trasformarsi in un problema di sicurezza nazionale. Questo perché l’uranio può essere destinato a un duplice utilizzo nelle centrali nucleari: l’uno civile e pacifico (produzione di energia elettrica), l’altro militare (fabbricazione di testate atomiche). L’Australia è membro del Gruppo dei paesi fornitori di materiale nucleare (Nsg) e tradizionalmente rifiuta di rifornire i paesi che non hanno aderito al Trattato di non proliferazione nucleare (Nnpt).
I maggiori acquirenti del materiale fissile australiano sono, ad oggi, gli Stati Uniti, l’Unione Europea, il Giappone, la Corea del Sud e il Canada ma, a seguito di un trattato siglato nel 2006, dal 2008 Canberra ha cominciato ad esportare uranio anche verso la Cina. Per quanto riguarda l’India, stato non membro del Nnpt e possessore di testate nucleari, durante l’amministrazione Howard l’Australia si è dimostrata comunque disponibile a discutere di una possibile vendita di uranio, mai concretizzatasi, per poi tornare su una posizione più reticente con i successivi governi laburisti.
La dottrina strategica dell’Australia è una conseguenza diretta della sua collocazione geopolitica. Considerando che, includendo il Territorio Antartico Australiano e il mare adiacente, si tratta del più esteso stato al mondo con una superficie di circa 27,2 milioni di km2, risulta chiara l’importanza dell’elemento geografico. Il mare è una barriera difensiva rispetto a qualsiasi minaccia di incursione e la Marina militare ha primaria importanza. Il ‘Libro bianco per la Difesa’ del 2009, primo documento programmatico in materia dopo quello del 2000, prevede infatti un notevole sviluppo proprio della Marina.
L’assunto strategico del ‘Libro bianco’ (intitolato Defending Australia in the Asia Pacific Century: Force 2030) è la previsione che nel prossimo futuro la tensione tra le maggiori potenze dell’area aumenterà e che non si possa escludere a priori il rischio di un confronto diretto. Il riferimento è innanzitutto alla crescita militare cinese, ma anche al vicino indonesiano: in caso di frammentazione interna o di avvento di un regime autoritario, infatti, la minaccia per Canberra aumenterebbe drasticamente. Più in generale, l’interesse australiano coincide con la stabilità, la coesione e la sicurezza dell’intera regione limitrofa, che comprende stati come Papua Nuova Guinea, Timor Est, Isole Salomone e Vanuatu, ritenuti tra i più deboli del globo. Va letta in tal senso la proposta, caldeggiata soprattutto da Rudd e riportata all’ordine del giorno dopo la sua nomina a ministro degli esteri, di creare una comunità politica e di sicurezza della regione Asia-Pacifico.
Il ‘Libro bianco’ prevede uno sviluppo notevole della forza bellica nei prossimi due decenni non esclusivamente orientato in modo difensivo, ma con l’ulteriore scopo di acquisire i mezzi e le competenze per condurre operazioni ‘il più lontano possibile’ dalla madrepatria. Il rafforzamento dell’Australian Defence Force (Adf) include, di conseguenza, previsioni d’investimento in aerei da guerra, missili a lunga gittata e formazione di forze speciali. Oltre al già citato sviluppo della Marina anche i settori dell’intelligence e dell’Aviazione beneficeranno dunque di un miglioramento qualitativo (a livello tecnologico) e quantitativo. Per finanziare un programma così ambizioso il governo stima di investire per la difesa il 3% del pil fino al 2017, per poi ridurre i costi al 2,2% per i tredici anni successivi. Gli effetti sono già visibili, dal momento che tra il 2009 ed il 2010 le spese in materia sono cresciute del 16%.
L’alleato principale dell’Australia restano gli Usa, che oltre alla fornitura e all’assistenza sono presenti fisicamente nel paese attraverso lo US Pacific Command. La missione all’estero in cui la presenza australiana è più consistente, inoltre, è quella della Nato in Afghanistan, dove 1550 uomini sono impegnati nell’operazione Slipper. Altri 400 militari sono invece di stanza nel Timor Est al fine di garantirne stabilità e sicurezza, su diretta richiesta del governo locale al governo australiano.