bello e bellezza
Un dono inafferrabile
Sebbene molto usate nel linguaggio quotidiano, le parole bello e bellezza sfuggono a una definizione assoluta. Proprio questa indeterminatezza sembra essere il tratto che più le caratterizza e che si manifesta in modo particolare nelle opere d'arte. Non è un caso che, dall'antichità a oggi, il bello e la bellezza siano stati interpretati in modo sempre diverso. Di qui, tra l'altro, la loro inesauribile ricchezza, ossia la capacità che queste nozioni hanno di produrre, nel tempo, significati e valori sempre nuovi e diversi
Bello e bellezza sono parole che usiamo e ascoltiamo quasi quotidianamente. Tuttavia non siamo in grado di trovare né un significato preciso né una definizione valida una volta per tutte di queste parole, con le quali ci riferiamo alle cose più svariate. Bello è un aggettivo che usiamo spesso per indicare qualcosa che ci piace, non solo perché ha doti di armonia ed equilibrio tra le parti (un luogo, un oggetto, un essere vivente, un quadro, un libro), ma anche qualità morali (una 'bella azione', una 'bella persona'). Tuttavia, mentre in genere ciò che ci piace è qualcosa che vorremmo avere, quando invece definiamo bello qualcosa, non siamo spinti da alcun desiderio di possesso.
Si tratta dunque di qualcosa che ci attrae e che tuttavia contempliamo con distacco.
In definitiva il carattere fondamentale del bello e della bellezza sembra essere proprio la sua indeterminatezza, cioè l'impossibilità di determinarne il significato esatto. In ciò che definiamo bello si manifesta qualche cosa che sentiamo e che nello stesso tempo non riusciamo a definire. È quanto ci capita, in particolare, quando abbiamo a che fare con un'opera d'arte. Un quadro o una poesia li definiamo belli se sentiamo che le linee e i colori del quadro o le parole della poesia ci dicono più di quanto ci possa dire il significato letterale di quelle parole o il manifestarsi in una determinata forma di quelle linee e di quei colori.
Se leggiamo una poesia, per esempio L'infinito di Leopardi, ci accorgiamo che la sua bellezza è data non dal significato letterale delle singole parole, ossia dal loro significato che troviamo nel dizionario, ma dal fatto che quelle parole sono disposte in un modo tale che dicono molto di più di quello che il loro significato letterale ci dice. Prendiamo il verso finale: "E il naufragar m'è dolce in questo mare". Il 'naufragare' e il 'mare', citati nel testo, non hanno il loro significato comune, come quando li leggiamo nella cronaca di un giornale, dove si dice per esempio che una nave è naufragata al largo di una certa costa. In quest'ultimo caso il significato è chiaro e non abbiamo bisogno di rileggere quell'articolo perché lo abbiamo capito una volta per tutte. Nel caso invece del verso di Leopardi ci accorgiamo che può essere letto e riletto, anzi ci capiterà di rileggerlo più volte nella vita e ogni volta che lo leggiamo ci accorgiamo che ci dice qualcosa di sempre nuovo e diverso. Possiamo anche affermare che lo comprendiamo in modo sempre diverso. Il fatto è che per intendere quel verso dobbiamo legarlo ai versi precedenti, che gli danno significati diversi da quelli letterali e che nello stesso tempo ne ricevono significati ulteriori. Questa alternanza tra il primo e l'ultimo verso non ha mai fine: a ogni nostra lettura sempre più quelle parole, pur rimanendo le stesse, acquistano significati molteplici senza che si possa stabilire quale sia il significato ultimo e definitivo. Quelle parole, cioè, danno luogo a immagini e sensazioni sempre nuove e diverse. Per questo la bellezza è per noi fonte di infinito stupore e di inesauribile meraviglia.
Allo stesso modo, se guardiamo un quadro ‒ per esempio il ritratto di un personaggio storico realizzato da un grande pittore ‒ e lo definiamo bello, questo accade non perché quel ritratto sia somigliante al personaggio storico raffigurato. Quest'ultimo infatti non c'è più e noi abbiamo solo il ritratto. Il nostro giudicare bello quel ritratto non si riferisce dunque al soggetto rappresentato, che può anche essere brutto (per esempio, un volto deforme), ma al modo in cui l'artista ha organizzato le linee e i colori del quadro, cioè alla sua forma. È tale forma a dare al personaggio ritratto quell'intensità d'espressione che lo rende unico e insostituibile. Questo significa, come nel caso della poesia, che sono proprio le linee e i colori a far apparire qualcosa d'altro (per esempio, l'espressione di un volto) che non si riduce a quelle stesse linee e colori. In definitiva: il rivelarsi di questo 'altro' nelle linee e colori di un quadro o nelle parole di una poesia è ciò che costituisce la bellezza.
L'impossibilità di dare una definizione assoluta del bello emerge anche dal punto di vista storico, dal momento che ogni epoca ha espresso una sua idea di bellezza. Va anzitutto precisato che è solo a partire dal 18° secolo che si afferma la connessione di arte e bellezza. Prima di allora, infatti, il bello non era considerato un prodotto dell'attività umana come invece erano le opere artistiche.
Nell'antichità i filosofi più importanti hanno sviluppato una riflessione sul bello. Per Platone la bellezza è la manifestazione del bene e rivela, in questo modo, una verità che si sottrae al tempo, cioè qualcosa di eterno e di assoluto. Per Aristotele, poi, la bellezza è innanzitutto simmetria e proporzione delle parti e, come tale, è qualcosa che può essere abbracciato nel suo insieme con un solo colpo d'occhio. Nel Medioevo, e in particolare in Dante, la bellezza ‒ incarnata nella figura di Beatrice ‒ è mezzo di perfezionamento morale e di elevazione a Dio.
È nel Settecento che l'idea della bellezza appare strettamente connessa con la dimensione sensibile, quella cioè che si offre alla percezione dei nostri sensi. E a questa dimensione si lega un sentimento di piacere. Un piacere che il filosofo tedesco Kant definirà 'disinteressato' e che non è riconducibile a un concetto preciso. Per i Romantici, invece, la bellezza assume un valore 'conoscitivo': attraverso la contemplazione dell'opera d'arte, infatti, possiamo raggiungere la verità.
Tra la seconda metà dell'Ottocento e l'inizio del Novecento si afferma in filosofia, in arte e in letteratura l'idea della bellezza come rivelazione nel visibile di qualcosa che tuttavia resta invisibile. L'opera d'arte è il luogo di questa rivelazione, come in particolare dimostrano le opere dello scrittore irlandese James Joyce e di quello francese Marcel Proust. Non a caso, per questi autori la bellezza è data dal fatto che un oggetto apparentemente insignificante può manifestare all'improvviso significati imprevedibili o rendere presente qualcosa che appartiene al passato. In questo modo la bellezza ci fa sentire qualcosa che è al di là del tempo.
L'arte del Novecento è caratterizzata dalla rinuncia a raffigurare la realtà così com'è. È quanto ritroviamo nell'opera di quei pittori cosiddetti 'astrattisti', per i quali la bellezza è data non dal fatto che il quadro sia una copia di ciò che è visibile, ma dalla sua capacità di mostrare qualcosa che è al di là del visibile stesso. Inoltre, sempre nel Novecento si manifesta la consapevolezza che la bellezza ha ormai perduto quei tratti di unicità che facevano di un'opera un'opera d'arte perché fatta da un artista: la bellezza si risolve così nella produzione in serie di oggetti. Significativa è a questo proposito l'opera di Marcel Duchamp che, rinunciando a creare opere d'arte, ha preso oggetti di uso comune, come una ruota di bicicletta o uno scolabottiglie, e li ha esposti in gallerie d'arte. Ciò che Duchamp ha voluto mostrare in modo provocatorio è che qualunque oggetto, per il fatto stesso di essere scelto, perde il suo valore d'uso comune e manifesta una inattesa bellezza, come se fosse stato creato dalle mani di un artista. Negli ultimi decenni, poi, gli ideali di bellezza proposti dai mass media si sono caratterizzati per il fatto di non essere riconducibili a un'unica forma. Si è diffuso così il desiderio di cercare la bellezza ovunque e in qualunque oggetto, perdendo però in questo modo la connessione tra bellezza e opera d'arte.