Croce, Benedetto
Nacque a Pescasseroli (L’Aquila) il 25 febbraio 1866. Compiuti gli studi medio-superiori a Napoli, scampò al terremoto di Casamicciola (luglio 1883), in cui perse i genitori e la sorella, e fu accolto a Roma in casa dello zio, il filosofo Silvio Spaventa. Qui si dedicò a ricerche erudite e conobbe il filosofo Antonio Labriola. Stabilitosi definitivamente a Napoli nel 1886, pubblicò ricerche sulla storia e la cultura napoletane ma venne orientandosi sempre più decisamente verso la filosofia. Elaborò così un sistema neoidealistico (la cosiddetta filosofia dello spirito) basato su una forma di storicismo ‘assoluto’ (Estetica, 1902; Filosofia della pratica, 1908; Logica, 1909; Teoria e storia della storiografia, 1917), da lui stesso in seguito sottoposto a cospicue integrazioni (La poesia, 1936; La storia come pensiero e come azione, 1938).
Nel 1902, fondò, insieme a Giovanni Gentile, la rivista «La Critica», che diresse per quasi un cinquantennio, esercitando un’influenza profonda sulla cultura italiana del tempo. Inflessibile oppositore del fascismo, fu ministro senza portafoglio nel secondo governo Badoglio e nel primo governo Bonomi (aprile-luglio 1944) e membro dell’Assemblea Costituente. Morì a Napoli il 20 novembre 1952.
Sin dalla pubblicazione della Logica (recepita come il libro più caratteristico nella definizione del suo metodo filosofico, se non proprio come il suo «vero capolavoro»; Contini 1972: 47), si susseguirono interventi di scrittori e critici italiani e stranieri sulla sua prosa e sulle sue qualità di scrittore. Premessa condivisa era che «per intendere il Croce scrittore» fosse necessario «il riferimento perenne al sistema del suo pensiero» (Flora 1952: 58).
Di fatto, però, si trattava di caratterizzazioni parziali, impostate su formule generalizzanti quale quella, fortunata (e già crociana), di «poeta della filosofia» (Prezzolini 1909; Debenedetti 1922; Flora 1952), oppure di profili o bozzetti impostati su motivi e atteggiamenti ritenuti centrali e/o caratterizzanti, quali la «serena alacrità» e, conseguentemente, la conduzione non aspra della polemica (Emery 1920; Vossler 1942), la ‘classicità’ dello stile (Günther 1927; Cilento 1953) e la capacità di evocare e descrivere ambienti, fatti e persone (Pancrazi 1937; Cecchi 1951; Bacchelli 1953). Ostacoli a una considerazione complessiva e organica erano, a parte obiecti, il continuo svilupparsi dell’opera di Croce, la sua estensione su campi disciplinari differenti e soprattutto la difficoltà a mettere in rapporto e spiegare i caratteri linguistico-stilistici della sua prosa con le posizioni fondamentali del suo pensiero (soprattutto estetico e linguistico).
Una caratterizzazione complessiva del Croce scrittore basata su rilievi linguistico-stilistici e impostata su una scansione cronologica delle opere è fornita da Puppo (1964), che valorizza anche la riflessione crociana sulla prosa concettuale nel saggio Teoria della distinzione e delle quattro categorie spirituali (1946) e, soprattutto, da Contini (1972): le «qualità» di Croce scrittore, dichiarato uno dei vertici della prosa saggistica novecentesca per la sua capacità di «maneggia[re] la cosa letteraria e adotta[re] la tecnica pubblicistica dei letterati» (p. 66), sono messe in costante rapporto con la «mutabilità organica» (p. 33) del suo pensiero e considerate come uno dei fattori decisivi della sua «azione così rapida e diretta sulla cultura generale» italiana (p. 66). Dopo la lunga stagione di oblio toccata all’opera di Croce nel secondo dopoguerra, l’ampia monografia di Colussi (2007), in cui sono messi a frutto anche i rilievi di Mengaldo (1994), ricostruisce nei suoi tratti essenziali l’itinerario linguistico-stilistico del filosofo, tenendo anche conto degli influssi degli autori da lui prediletti (Giambattista Vico, G.W.F. Hegel, K.W.F. Schlegel, Giosuè Carducci, Francesco De Sanctis) e soprattutto dell’assiduo lavoro di correzione a cui sottoponeva i suoi lavori in occasione delle loro ristampe.
Il tratto che risulta costante e caratteristico nella lunga parabola della prosa crociana è uno stile raffinatamente antiquato, caratterizzato da grafie ed espressioni della tradizione letteraria e più in sintonia con il gusto di ➔ Graziadio Isaia Ascoli che con gli orientamenti di ➔ Alessandro Manzoni (e dei manzoniani fino a Edmondo De Amicis, con cui Croce ebbe una polemica nel 1905-06; Tosto 1967). Tale «arcaicizzare o non modernizzare» (Mengaldo 1994: 360), da inquadrare in una più generale tendenza alla «sintesi fra aulico e colloquiale» (ivi: 184), si esplica caratteristicamente in una serie di tratti grafico-fonetici, che tendono ad accentuarsi nell’ultimo trentennio di attività di Croce (Colussi 2007: 283-286). Tra questi spiccano: l’uso di i prostetico (per iscritto, per ispiegare, non isfuggiva); la presenza costante di grafie univerbate (➔ univerbazione) di stampo letterario quali sibbene e dipoi; l’assenza di dittongo in forme quali tepido (e derivati), petrificare (e derivati, secondo l’esempio di De Sanctis, che attingeva al ted. petrifizieren, usato da Hegel e Schlegel) e soprattutto nei derivati di queto (quetamente, quetato, ecc.); forme quali gittare, quistione, formola (d’uso corrente in De Sanctis), coltura (invece di cultura), eguale ed eguaglianza, rettorica (per falsa etimologia, già presente in Vico).
Nel lessico, «rilevato e personalissimo» (Mengaldo 1994: 185), spiccano gli aggettivi con i suffissi -istico (arbitraristico, astrattistico, marxistico, matematicistico / matematistico, praticistico) e -oso (perlopiù di stampo vichiano: attuoso, dilettoso, fervoroso, sensuoso, ecc.), la ricca serie di nomi in -mento (colorimento, inveramento, oscillamento, logicizzamento, razionalizzamento, schematizzamento, ecc.) e la forte produttività del prefisso pseudo, a partire da pseudoconcetto (pseudoespressione, pseudostoria).
Si segnalano infine latinismi (aliato, amplitudine, desidia, non estranei a Gabriele D’Annunzio) e veri e propri ‘crocianismi’ (banausico, interpetre, medesimezza, scissura). Tra le formazioni verbali, d’uso caratteristico risultano i suffissati, tipici del lessico filosofico, in -izzare (dialettizzare, empiricizzare, estetizzare, logicizzare) e -ficare (corporificare, entificare).
Più articolato il panorama della morfosintassi, in cui tratti di «distanziamento dalla modernità» (Colussi 2007: 285) convivono, entro un «periodare unificante e riposato» (Mengaldo 1994: 184), con forme e costrutti orientati verso la semplificazione e l’oralità. Tra i primi si possono indicare i seguenti: l’uso, crescente nelle opere più tarde, delle forme preposizionali sur + vocale (già eliminata da Manzoni) e di mercé (anche seguita da di); la serie pel, pei e collo, colla, cogli, colle; diverse peculiarità nella scelta degli avverbi (oltre al cultismo insiememente tipico di Vico e ricorrente in Antonio Labriola, i modali altrimente, parimente e del pari); e l’uso costante dei costrutti verbali vi ha e ci è.
Di maggior profondità e rivolti verso l’accettazione di un uso medio della lingua risultano i tratti di aggiornamento e semplificazione: a cominciare, a livello verbale, dal mantenimento della labiodentale nell’imperfetto indicativo (facevano e non faceano) e contestualmente dall’adozione generalizzata del tipo analogico in -o nella 1a persona sing. (io scrivevo invece di io scrive[v]a) e della forma siano (in luogo di sieno) nella 3a persona pl. del congiuntivo presente. E non mancano altri tratti essenziali dell’italiano medio quali l’uso (a partire dalle opere della maturità) di lui, lei e loro in funzione di soggetto e il ricorso a costruzioni con dislocazione e ripresa pronominale.
Comunque, il livello in cui con maggiore decisione e costanza si rivela la tendenza di Croce verso un registro colloquiale e un andamento che mima il parlato della pagina scritta è quello della connessione testuale. Sin dalle sue prime opere, infatti, ricorrono i principali segnali testuali caratteristici della pubblicistica e della saggistica più disinvolta e vivace: congiunzioni o locuzioni congiunzionali testuali quali comunque e per cui assoluti, se(n)nonché, semmai / casomai, sicché, solo (che); avverbi ‘frasali’ (effettivamente, teoricamente, precisamente, probabilmente, ecc.) ed elementi affini (quali i gerundi di transizione discorsiva: concludendo, riassumendo, ecc.); e segnali discorsivi quali allora o dunque.
Di questi caratteri di fondo della sua prosa, del resto, appare ben consapevole lo stesso Croce, quando (Contributo alla critica di me stesso: § II) dichiara il suo debito stilistico sin dagli anni giovanili verso «lo stile disinvolto» di Ferdinando Martini e dei giornali letterari di fine Ottocento o quando (Intorno alla mia teoria del diritto, «La Critica», XII, 1914, p. 448) così caratterizza sé stesso come scrittore: «Nella mia forma espositiva e letteraria ho […] preferito adottare […] un modo disinvolto, descrittivo e popolare quale usarono i filosofi inglesi nel Settecento; e, nel tutto insieme, posso dire di aver tenuto una forma di esposizione che è ben mia e bene italiana». Va osservato, infine, che l’attenzione agli aspetti stilistici che si riscontra qui e in tante altre pagine dedicate ad autori minori e minimi compare meno spesso nei saggi dedicati a scrittori e poeti di prima grandezza, nei quali la critica letteraria è concepita ed esercitata, per esplicita dichiarazione dello stesso Croce (La letteratura della Nuova Italia, 1938, vol. V, pp. V-VII, 267), come applicazione ed esemplificazione delle sue teorie estetiche.
Proprio il livello della conoscenza estetica, nucleo e insieme punto di partenza dell’intero sistema filosofico crociano mosso dal criterio della circolarità-distinzione, è il terreno in cui non solo coesistono, ma anzi vengono da Croce identificate (sin nel titolo dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale) l’estetica e la linguistica. Tale identificazione è basata sul fatto che la conoscenza estetica (la prima delle quattro categorie del conoscere in cui si articola il sistema filosofico crociano) è insieme intuizione (semplice o pura), fantasia, arte e soprattutto espressione.
L’intuizione, primo, aurorale grado della conoscenza umana, infatti, è nella sua essenza arte e quindi espressione, non essendo concepibile un’intuizione priva di espressione (lo spirito umano nell’attività intuitiva «tanto intuisce quanto esprime»: Estetica I, 1). In quanto espressione, però, l’attività intuitiva è anche lingua, ma va precisato che con questi tre sinonimi (intuizione, espressione e lingua) si deve intendere un fatto puramente interno, un’immagine, una creazione spirituale, indipendentemente dalla sua traduzione in fenomeni fisici (suoni, movimenti, combinazioni di linee e colori, ecc.). La lingua, dunque, è una forma di conoscenza e insieme attività creativa, arte.
Da questa primaria identificazione di lingua / intuizione, arte ed espressione discendono alcune conseguenze. In primo luogo, dato il carattere intuitivo, fantastico e metaforico della lingua risultano infondate le concezioni logiche / logistiche del linguaggio (dominanti nel Settecento, riproposte dal positivismo e operanti nella redazione delle grammatiche) e le stesse categorie e classificazioni grammaticali nulla hanno a che vedere con le categorie della logica (una frase logicamente contraddittoria come questa tavola rotonda è quadrata è grammaticalmente corretta: cfr. Problemi di estetica, 1909, III, 5) e risultano astrazioni a scopo pratico (didattico). E astrazione è la stessa nozione di parola (come quella di vocabolario, «raccolta di astrazioni»), che ha esistenza individuale e concreta solo nell’«organismo estetico» in cui è inserita.
Inoltre, dato che il linguaggio è realtà vivente in perenne fluire, le norme grammaticali, le leggi fonetiche (centro metodologico e operativo del modello storico-comparativo dominante nella linguistica positivistica), le stesse lingue storico-naturali e i loro vocaboli e in ogni caso la scienza linguistica altro non sono se non costruzioni secondarie, prive di fondamento logico e in larga misura trasposizioni in indicazioni precettistiche delle abitudini e degli ideali linguistici di un dato periodo (in particolare, viene criticata come infondata l’idea della lingua-modello, che in Italia era stata alla base dell’intera questione della lingua e al centro della proposta fiorentinistica di Manzoni). Alla linguistica, che si risolve nell’estetica, pertiene quindi lo stesso campo d’indagine della critica letteraria, cioè la descrizione e lo studio estetico degli autori, da esercitare rifiutando (secondo i suggerimenti di Vossler 1942) ogni forma di critica stilistica «estrinseca» (cioè tecnicistica).
In questa concezione della lingua e della linguistica, fortemente condizionata dalle sue premesse antinaturalistiche e antipositivistiche (Cavaciuti 1959; Deneckere 1984), finiva, però, per non trovare posto la varietà dei linguaggi non artistici, ininfluente forse per gli studi estetici ma assolutamente centrale in qualunque indagine linguistica. Un tentativo (speculare a quello già esperito con l’esame della letteratura in rapporto all’estetica) di integrare questo aspetto della lingua nella sua filosofia del linguaggio fu fatto da Croce solo nel 1941, discutendo alcune opere di Giulio Bertoni (Discorsi di varia filosofia, I, pp. 235-250). Riconosciuta, al di fuori della sfera dell’«esteticità», la nozione, empirica e pedagogica, della «lingua dei linguisti», questa viene qualificata come «istituto» (cioè costume, convenzione, istituzione sociale). In quanto entità dello spirito pratico, la lingua-istituto eccede la sfera dell’individuale e, essendo la concretizzazione di convenzioni vigenti in una comunità o epoca storica, è suscettibile di normalizzazione e correzione secondo norme sancite da codificazioni grammaticali e/o accettate per uso e consuetudine; la storia linguistica è la storia di tali fenomeni e processi.
Peraltro (come rilevato da Nencioni 1946) in tale revisione della linguistica crociana non veniva superata la sua principale difficoltà: le convenzioni di cui si compone la lingua come istituto sono indispensabili per intendere i valori estetici dei testi artistici, e dunque anteriori a essi. Inoltre, la distinzione tra la lingua come espressione poetica e la lingua come istituto (pur accostabile alla dicotomia saussuriana langue / parole e al concetto di sistema elaborato da Charles Bally) risultava inutilizzabile anche in una prospettiva di pragmatica linguistica, in quanto non graduabile secondo i diversi usi o funzioni della lingua. Per tali difficoltà, nonostante le correzioni e le integrazioni proposte da Devoto (1951), la dottrina linguistica crociana perse rapidamente seguito ed influenza.
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