Vedi Brasile dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La grandezza è la caratteristica che contraddistingue da sempre il Brasile e sotto molteplici aspetti: territorio, popolazione, risorse naturali e, soprattutto, ambizioni e contraddizioni. Dopo la crescita decennale che ha rilanciato il paese – facendone la prima economia dell’America Latina e la settima al mondo – e gli ammirevoli piani di sviluppo che hanno salvato dalla povertà trenta milioni di persone, riaffiorano da qualche tempo in modo, se possibile, più evidente le molteplici criticità strutturali del sistema brasiliano. Il paese soffre ancora di un ampio gap nella distribuzione della ricchezza, di una corruzione radicata nel tessuto politico, di gravi problemi di sicurezza e di ordine pubblico, nonché di una cronica mancanza di infrastrutture e un welfare ancora troppo debole. L’entusiasmo che ha cavalcato gli anni del miracolo brasiliano è stato sostituito per questo da un diffuso malcontento sociale, covato soprattutto dalla nuova – accresciuta e più consapevole – classe media che, oltre a sviluppo e progresso, reclama più diritti, uguaglianza e riforme, in grado di migliorare la qualità della vita a molti, e che s’indigna pubblicamente per il malaffare e il degrado delle istituzioni pubbliche. Il Brasile di oggi è quindi un paese in transizione, in bilico tra una società in mutamento che cerca di convergere verso il modello di sviluppo di tipo occidentale, forgiato dal boom economico, e la necessità di mantenere alta la propria credibilità internazionale, soprattutto in un periodo in cui si ritrova sotto i riflettori di tutto il mondo poiché accoglie importantissimi eventi sportivi, come i Mondiali di calcio del 2014 e le Olimpiadi estive del 2016.
Il Brasile rappresenta d’altronde la maggiore potenza economica dell’America Latina. Da tempo cerca di affermarsi quale attore di caratura mondiale e di farsi portavoce delle istanze dei paesi in via di sviluppo presso le più importanti arene internazionali. Sebbene già durante le due amministrazioni di Fernando Henrique Cardoso (1995-2002) vi fosse stato un deciso sostegno alla partecipazione ai più rilevanti meccanismi di cooperazione internazionale, la presidenza di Luiz Inácio Lula da Silva (2003-2010) ha segnato un maggiore attivismo della politica estera brasiliana. Inoltre, il dinamismo brasiliano è andato di pari passo con la costruzione e il rafforzamento di solidi e diversificati rapporti commerciali con le diverse regioni geografiche del mondo. Nel quadro di questa strategia, il Brasile si è impegnato a rafforzare la cooperazione con le altre ‘potenze emergenti’, come l’India, il Sudafrica, e, in parte, la Cina. Tale sforzo è stato compiuto tanto all’interno delle organizzazioni internazionali esistenti – come le Nazioni Unite o l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) – quanto attraverso il lancio di iniziative diplomatiche come il Foro di dialogo India-Brasile-Sudafrica (Ibsa). Affermando strenuamente la necessità di rivedere radicalmente l’assetto della governance internazionale, il Brasile ha cercato di ottenere un ruolo di maggior rilievo in alcune organizzazioni internazionali e nel panorama politico mondiale in generale. Per questo ha per lungo tempo sostenuto la candidatura di un suo rappresentante come direttore generale del Wto - raggiungendo finalmente l’obiettivo nel settembre 2013 con l’elezione del brasiliano Roberto Azevêdo - e conduce tuttora una battaglia per ottenere lo status di membro permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Nell’ambito dello ‘scandalo datagate’, che ha incrinato i rapporti tra gli Stati Uniti e i suoi alleati, il Brasile, assieme alla Germania, ha presentato all’assemblea generale delle Nazioni Unite una bozza di risoluzione per una maggiore protezione del diritto alla privacy.
Un ulteriore obiettivo strategico è il rafforzamento della cooperazione con i paesi sudamericani. Nonostante le deludenti performance sudamericane in materia d’integrazione regionale, il sostegno brasiliano ai meccanismi di integrazione regionale e sub-regionale – dall’Unione delle nazioni sudamericane al Mercosur – rivela l’intento di porsi alla guida della cooperazione nel continente.
Il Brasile è una repubblica federale con tre livelli di governo: l’unione, gli stati e i municipi. Una delle caratteristiche che il paese condivide con i suoi vicini latinoamericani è la forma di governo presidenziale, che accentra nella figura del presidente la carica di capo del governo e di capo dello Stato. Il presidente è eletto direttamente, per un mandato quadriennale, con un sistema a doppio turno. Negli altri due livelli di governo, i principali incarichi esecutivi sono quelli di governatore e sindaco. Il modello presidenzialista adottato per la federazione è replicato anche a livello statale e municipale. Il Congresso nazionale, che detiene il potere legislativo, è composto dalla Camera dei deputati e dal Senato federale. La Camera, rappresentativa dei cittadini, è composta da 513 membri eletti con sistema proporzionale e con mandato quadriennale. Gli 81 membri del Senato rappresentano invece gli stati e sono eletti con il sistema maggioritario. Il mandato di senatore dura otto anni, ma le elezioni si tengono ogni quattro anni per assegnare, alternativamente, un terzo e due terzi dei seggi. A livello statale e municipale, il potere legislativo è prerogativa di un’unica camera, che rappresenta i cittadini. Anche il sistema giudiziario rispecchia l’architettura istituzionale dello stato e affianca ai tribunali federali (tribunale supremo federale e tribunale superiore di giustizia) corti statali e municipali. In Brasile vige un sistema multipartitico caratterizzato dalla presenza di due formazioni politiche principali, il Partido dos trabalhadores (Pt) e il Partido da social democrazia brasileira (Psdb).
Dal 1° gennaio 2011, Dilma Rousseff, esponente del Pt e braccio destro di Lula, è la prima donna nella storia del Brasile a ricoprire l’incarico più alto del paese. Al secondo turno elettorale, la candidata del Pt aveva ottenuto un’ampia vittoria (56,05% dei voti contro 43,95%) su José Serra sostenuto dal suo partito, il Psdb, e dal Partido verde (capeggiato dall’ex ministro per l’Ambiente di Lula, Marina Silva). Sebbene il consenso popolare alla Rousseff abbia subito un netto calo nel corso del 2013, la presidenta è comunque la favorita alle elezioni di ottobre 2014. In sostegno alla propria candidatura e per contener il malcontento, Dilma Rousseff ha promesso di realizzare un piano nazionale di viabilità urbana, di destinare maggiori risorse a istruzione e sanità, di lottare contro corruzione e sprechi.
Il Brasile è il quinto paese più grande al mondo, con una superficie totale di 8.511.076 km2 e una popolazione di 198,6 milioni di abitanti. In termini comparati, ciò significa che il Brasile copre metà del territorio sudamericano e rappresenta quasi un terzo della popolazione dell’America Latina, che ammonta a 593,6 milioni di abitanti. La popolazione brasiliana non è variata di molto nel corso degli anni del boom economico, dato che il tasso di incremento demografico tra il 2005 e il 2010 si è mantenuto sullo 0,98%, al di sotto dunque della media latinoamericana (1,15%). Il rallentamento demografico è legato soprattutto al rapido declino del tasso di fecondità cui si è assistito nel paese dal 1960, responsabile anche del generale invecchiamento della popolazione e della veloce transizione demografica in atto. La struttura demografica, che, per il gran numero di giovani, al momento volge a favore del mercato del lavoro, inizierà a spostarsi intorno al 2025, quando la forza lavoro si contrarrà e gli anziani comporranno una parte crescente della popolazione. Grazie a un sistema pensionistico ben remunerato, tra l’altro, molti anziani sono usciti dalla povertà. Al tempo stesso, però, sono stati limitati i finanziamenti destinati al miglioramento dell’istruzione, provocando un impoverimento del capitale umano di cui l’apparato economico del paese risente alquanto. Il deficit si riflette soprattutto nei servizi, in particolare quelli ospedalieri: per ovviare alla mancanza di personale qualificato, la Rousseff ha recentemente annunciato che favorirà l’immigrazione di medici dall’estero.
Il Brasile è il paese con il più alto numero di cattolici al mondo ma, negli ultimi anni, si è registrata una progressiva diminuzione dei fedeli legati alla Chiesa di Roma e una crescita dei gruppi protestanti.
Il Brasile è tradizionalmente un ricettore netto di migranti (che arrivano soprattutto nelle aree sudorientali del paese) e tale caratteristica ha influenzato fortemente la composizione etnica della popolazione brasiliana. Il principale gruppo è costituito dai Luso-brasiliani, discendenti dei coloni portoghesi. Vi sono poi rilevanti gruppi d’origine italiana, spagnola, tedesca e russa. Il commercio degli schiavi, in vigore fino alla fine del 19° secolo, ha lasciato in eredità una cospicua popolazione d’origine africana, concentrata principalmente nello stato di Bahia e pari a circa il 7% della popolazione. Vi sono altre minoranze etniche: le più numerose sono quelle d’origine libanese e giapponese. Gli immigrati più recenti, invece, provengono principalmente da Argentina, Cile e paesi andini. Molti sono cittadini brasiliani che erano emigrati durante la recessione degli anni Ottanta. La speranza di vita, che tra il 2000 e il 2005 era di 67,3 anni per gli uomini e di 74,9 anni per le donne, è prevista in crescita a 74 e 81 anni rispettivamente nel quinquennio 2030-2035.
Oggi il pil brasiliano non è soltanto il più grande dell’intera America Latina, ma rappresenta quasi la metà dell’intero pil degli stati sudamericani. Questo dato dimostra i progressi del Brasile dal punto di vista produttivo e giustifica le sue grandi ambizioni politiche. La rapida espansione economica e la relativa solidità dimostrata nei confronti della recente crisi finanziaria internazionale hanno però subito un brusco rallentamento nel corso dell’ultimo biennio. Il passaggio da un tasso di crescita medio mantenutosi attorno al 4% circa, tra il 2005 e il 2010, a un valore inferiore all’1% nel 2012, ha turbato molti osservatori e allontanato molti investitori internazionali. Lo rivela il generale peggioramento di diversi business index: sia nell’indice di competitività (56a posizione) sia nell’indice di innovazione (64° posizione) globali il Brasile ha perso dal 2011 diversi punti e ha consegnato il primato in America Latina al Cile. Il calo di performance è attribuibile, oltre che al clima di sfiducia nei confronti dell’attuale governo, anche a un più arduo accesso ai finanziamenti e a un’economia che si mostra ancora abbastanza chiusa alla concorrenza estera. Un ulteriore ostacolo proviene poi dai costi di produzione: troppo alti rispetto al resto del continente sudamericano e rispetto a moltissime altre economie in via di sviluppo. Il motivo non è tanto legato al costo del lavoro, quanto alle tasse sulle imprese (le più alte dell’America Latina), a gravissime carenze infrastrutturali che rendono i trasporti costosi e lenti, e a una burocrazia bizantina e inefficiente.
Nonostante la difficile congiuntura economica (aggravata dalla crisi nella domanda di beni proveniente dall’Europa), il Brasile può contare sui numerosi punti di forza: un mercato di grandi dimensioni, bassi livelli di disoccupazione (6%) e settori di attività ad alto valore aggiunto ben avviati. Ciò lascia prevedere un periodo di espansione ancora lungo. I successi economici riscossi dal Brasile nell’ultimo decennio sono merito di oculate scelte di politica economica che si sono protratte, seguendo lo stesso orientamento, per ben tre amministrazioni consecutive, quelle di Cardoso, Lula e Rousseff. Sin dall’inizio del suo mandato, Dilma Rousseff ha ripreso i principi di stabilità finanziaria e di controllo dell’inflazione inaugurati dal suo predecessore e ha consolidato un modello di sviluppo capace di combinare rigore e rispetto delle regole di mercato con politiche di contrasto alla povertà.
Il Brasile, famoso per la rilevanza del suo settore estrattivo, è diventato anche un importante fornitore mondiale di commodities e di generi alimentari. Il settore agricolo rappresenta il 5,6% del pil brasiliano, occupa il 17% della forza lavoro e contribuisce per il 55,4% delle esportazioni totali di tutti i beni. Il paese è ai primi posti del mondo nella produzione ed esportazione di etanolo, soia, zucchero, caffè, tabacco, mais, riso e cacao. A differenza di molti paesi sudamericani, che concentrano un’importante porzione del proprio commercio su pochi prodotti, il Brasile presenta una struttura di esportazione molto diversificata. A partire della presidenza di Getúlio Dornelles Vargas, nel 1930, il paese ha sviluppato l’industria, in cui oggi è occupato il 22% della popolazione e che contribuisce per oltre il 28% al pil nazionale. In un ambiente economico mondiale sempre più concorrenziale, il Brasile è riuscito a diventare un attore importante in alcuni settori, in particolare nella produzione di carta e cellulosa, nella siderurgia, nell’industria mineraria, nell’aeronautica, negli idrocarburi e nella petrolchimica. Dal punto di vista dei partner commerciali, l’Asia è recentemente divenuta la regione più importante per il commercio brasiliano: vi è diretto il 20% delle esportazioni e ne provengono buona parte delle importazioni. Se invece si considerano i singoli paesi, i principali partner commerciali brasiliani sono la Cina, gli Stati Uniti e l’Argentina. Oltre ad essere un importante investitore all’estero, principalmente per le operazioni di alcune sue aziende leader, il Brasile è il paese latinoamericano che riceve più investimenti diretti esteri (ide). Tale sviluppo si inserisce in un quadro più ampio, che negli ultimi anni vede consolidarsi la tendenza a una maggiore partecipazione delle aziende multinazionali di origine sudamericana in altri paesi della regione. Tra le prime 25 multinazionali create in America Latina ben dieci sono d’origine brasiliana, tra le quali Grupojbs (alimentari), la Companhia Vale do Rio Doce, nota fino al 2007 come Cvrd (settore minerario), e Petrobrás (petrolio). Il Grupojbs, che primeggia tra le ‘multilatinas’ brasiliane, è presente in 11 paesi e nel 2009 ha registrato un fatturato di 20.547,8 milioni di dollari.
Il presente e il futuro del Brasile ruotano attorno alla prospettiva di diventare – oltre che un gigante economico – anche un gigante energetico. Tanto la produzione quanto i consumi interni di energia sono fortemente diversificati, e la dipendenza energetica dall’estero è andata riducendosi nel corso degli anni, arrivando a costituire soltanto l’8% dei consumi totali. Ciò è accaduto benché, dalla metà degli anni Novanta, i consumi energetici siano cresciuti in misura costante, e oggi il Brasile sia il settimo consumatore di energia nel mondo (di gran lunga il primo in America Latina). Il governo brasiliano punta a raggiungere l’autosufficienza ma, dati i consumi, è assai improbabile che ciò accada. Nonostante il Brasile sia già tra i primi 15 paesi al mondo per produzione di petrolio, non dispone ancora di un numero sufficiente di impianti di raffinamento. Lo sviluppo di nuovi impianti di raffinazione diventa ancora più impellente se si considerano le importanti scoperte di riserve di petrolio e gas naturale realizzate negli ultimi anni, soprattutto al largo delle coste. L’estrazione da queste riserve non servirebbe solo a colmare il fabbisogno interno di idrocarburi, ma potrebbe trasformare il Brasile in un esportatore netto di petrolio. Per quanto riguarda il gas naturale, il Brasile produce circa metà di quanto consuma, ed è costretto a importare quasi tutto il resto dalla Bolivia.
Oltre all’importanza delle riserve di idrocarburi, il Brasile si contraddistingue per un ruolo di spicco nell’utilizzo delle energie rinnovabili. Il paese è oggi il secondo produttore mondiale di energia idroelettrica dopo la Cina. Grazie a questo primato, che gli deriva in buona misura dalla grande centrale di Itaipu (co-gestita con il Paraguay), ma grazie anche alla combustione del legname della foresta amazzonica e allo sviluppo dei biocarburanti, i consumi energetici brasiliani sono composti per oltre il 45% da energie rinnovabili. Tra queste, particolare importanza riveste la produzione del bioetanolo. Il Brasile è un’importante riserva per la biodiversità mondiale: si stima che sia il paese con la più grande diversità biologica al mondo, con il 13% delle specie riconosciute. Solo il 10% delle specie sono state però catalogate. Nel territorio nazionale si trova la selva amazzonica, che occupa una superficie di 3,3 milioni di km2, ovvero il 40% del territorio brasiliano (anche se l’intera zona amazzonica, denominata ‘Amazzonia legale’, ricopre circa 5 milioni di km2). Ciò fa sì che temi come la deforestazione, lo sfruttamento di alcuni tipi di piantagioni, gli allevamenti intensivi, l’inquinamento dell’acqua o della terra, l’inurbamento vengano seguiti con attenzione non solo all’interno del paese, ma anche dalla comunità internazionale. Nel 2012, grande scalpore ha provocato il nuovo codice forestale che prevedeva un allentamento dei controlli sulla quantità di territorio che gli agricoltori devono preservare come foresta; sulla promulgazione di taluni provvedimenti la Rousseff ha deciso, però, di porre il suo veto.
Il Brasile è un paese storicamente caratterizzato da grandi diseguaglianze economiche e sociali. Tra i principali problemi spiccano gli elevati livelli di povertà e di iniquità sociale, determinati in primo luogo dalle notevoli diseguaglianze nella distribuzione del reddito e della proprietà terriera. Tali diseguaglianze vengono ulteriormente aggravate da un profondo divario tra le regioni del Nord, mediamente più povere, e quelle ricche e industrializzate del Sud. Malgrado questo primato, si sono registrati importanti sviluppi nell’ultimo decennio: mentre nel 2001 il 10% più povero del paese rappresentava lo 0,6% del reddito nazionale e il 10% più ricco ne rappresentava il 46,8%, nel 2009 le percentuali sono passate rispettivamente allo 0,8% e al 41%. Inoltre, oltre 28 milioni di persone sono uscite dalla soglia di povertà e compongono oggi la classe C, il ceto medio, del Brasile che ha raggiunto il 50% della popolazione nel 2011. I risultati si devono alla sostenuta crescita economica e all’impegno profuso dalle ultime amministrazioni: sia dal governo Cardoso, con l’istituzione del Sistema unico di salute (Sus), sia da Lula. Durante le sue due legislature il presidente Lula ha attuato importanti politiche di contrasto alla povertà e, in particolare, il ‘Programa Bolsa Família’, attraverso il quale lo stato eroga sussidi a 12 milioni di famiglie a condizione che garantiscano la regolare scolarità dei figli e il rispetto delle procedure mediche di base, come la vaccinazioni.
Nel corso del suo mandato, Dilma Rousseff ha introdotto altri due programmi di welfare. Il primo, nominato ‘Brasil Sem Miseria’, è considerato un’integrazione del ‘Bolsa Familia’ e ha l’obiettivo di far uscire dalla povertà 16 milioni di brasiliani entro il 2014 (cioè entro la fine della prima legislatura Roussef), grazie ad aiuti economici e bonus in servizi alle famiglie che vivono con meno di 70 reais al mese (circa 42 dollari). Il secondo programma è del tutto nuovo e persegue l’obiettivo di favorire la salvaguardia dell’ambiente attraverso l’erogazione di finanziamenti (una ‘Bolsa Verde’) ai poveri che abitano in aree protette del paese e che si dedicano alla protezione e alla difesa delle terre.
La riforma del sistema sanitario brasiliano, avviata a seguito del varo della Costituzione del 1988 (che ha riconosciuto per la prima volta la salute come diritto sociale universale), ha istituito un sistema concorrente tra federazione, stati e municipalità. Nonostante lo stato provveda direttamente alla copertura sanitaria del 75% circa della popolazione, il sistema della sanità è molto orientato verso il privato (che gode anche di incentivi fiscali), e poco incline a investire nel pubblico. Ciò comporta la fuga dei medici verso cliniche e ospedali privati, presso cui possono contare su maggiori guadagni. L’insoddisfazione popolare per le prestazioni sanitarie offerte dallo stato, manifestata nel corso delle proteste di giugno 2013, ha spinto la Rousseff ad annunciare un piano per attrarre ben 6 milioni di specialisti dall’estero. La qualità delle università brasiliane è molto al di sotto del livello necessario a un paese che punta a diventare una potenza internazionale.
In sintonia con il convulso ambiente sociale e politico che regnava in America Latina, nel 1964 un colpo di stato mise fine in Brasile alla cosiddetta Repubblica popolare e portò al potere Humberto de Alencar Castelo Branco. Cominciarono così più di vent’anni di governi dittatoriali. A differenza di alcuni vicini sudamericani, come Argentina e Cile – tristemente noti per l’efferatezza dei regimi – la dittatura brasiliana è stata forse meno totalizzante, poiché ha consentito il mantenimento di facciata di alcune istituzioni democratiche, come il Parlamento. La tortura degli oppositori politici è stata però una realtà, così come la soppressione delle libertà individuali e dei diritti politici: gli oppositori politici non potevano né votare né candidarsi alle elezioni. Verso la fine degli anni Settanta, con Ernesto Geisel a capo del governo militare, cominciò un processo di transizione che portò, nel 1985, alla presidenza di José Sarney. Dopo più di vent’anni dall’inizio della transizione, con un’importante riforma costituzionale nel 1988 e considerevoli riforme economiche e istituzionali a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, le istituzioni democratiche brasiliane sembrano essersi consolidate. Tra i limiti di tale processo spiccano però l’alto tasso di corruzione politica (secondo l’Indice di corruzione percepita 2012 di Transparency International, il Brasile copre la 69° posizione mondiale con un punteggio di 4,3 punti su 176 paesi), male endemico dell’intera regione latinoamericana che si ripercuote fortemente sulla gestione dei servizi pubblici e sull’accesso alla giustizia. Pesa poi l’infiltrazione di gruppi criminali all’interno delle forze di sicurezza. Un tema di notevole rilevanza, legato alla povertà e all’esclusione sociale, riguarda la violenza e la criminalità. Negli ultimi 30 anni si è verificato un aumento del numero di morti violente del 375%, soprattutto tra i giovani in età compresa tra i 15 e i 29 anni. Secondo un rapporto del ministero dell’Interno, solo nel 2010 si è contato 1 milione di omicidi.
Il narcotraffico gioca un ruolo consistente anche a livello locale. A Rio de Janeiro, su sei milioni di abitanti, due vivono nelle ‘favelas’, controllate in gran parte da narcotrafficanti organizzati e da gruppi paramilitari. Nel 2008 il governo brasiliano ha dato il via a una vasta operazione per riprendere il controllo delle favelas: ha utilizzato le truppe di élite, denominate Batalhão de Operações Policiais Especiais (Bope), e le Unità di polizia pacificatrici. Lo sforzo è stato intensificato di recente, in vista degli eventi sportivi internazionali. Altrettanto grave è la situazione nelle aree rurali del paese. Si registrano ancora violenze contro i braccianti da parte di aziende private e di milizie illegali. Anche le popolazioni indigene, che lottano per il diritto alla terra, sono vittime di importanti violazioni dei diritti, aggravate dalla lentezza e dall’inefficienza del sistema giudiziario.
Se durante gli anni Novanta la maggioranza dei paesi latinoamericani aveva ridotto considerevolmente la propria spesa militare, negli ultimi anni si è assistito a un progressivo aumento della spesa, cresciuta di oltre il 90% in solo cinque anni (dal 2003 al 2008), principalmente in Colombia, Messico, Venezuela e Brasile. Gran parte di questa spesa è destinata al personale (pensioni e stipendi), mentre solo una quota minore va in armamenti. In termini di capacità militari, il Brasile è la potenza più importante dell’America Latina per numero di truppe (318.500unità, di cui 190.000 solo nell’esercito) e spesa militare complessiva (secondo lo Stockholm International Peace Research Institute – Sipri, sarebbero 35.400 milioni di dollari, circa l’1,5% del pil nel 2012); numeri rilevanti anche in termini assoluti, data l’assenza sia di conflitti inter-statali, sia di una seria minaccia nella regione. Il potere militare brasiliano riflette un atteggiamento difensivo e i suoi principali compiti hanno a che fare con la sorveglianza delle frontiere (incluso il territorio amazzonico) e la partecipazione alle missioni delle Nazioni Unite. In tal senso occorre ricordare il ruolo guida assunto dal Brasile nella missione di pace in Haiti (Minustah), che può essere letto anche come una mossa strategica per ottenere un posto nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in caso di riforma. Inoltre, il paese ha cercato di svolgere un ruolo di mediazione in diversi conflitti regionali, come durante la guerra tra Ecuador e Perù nel 1995, la crisi politica paraguaiana nel 1996. Ha offerto anche sostegno a Chávez nel suo tentativo di colpo di stato nel 2002. Per proteggere e controllare l’Amazzonia, ma anche per riaffermare la propria sovranità su tutto il suo territorio, il Brasile ha sviluppato due sistemi di vigilanza per raccogliere dati e identificare situazioni pericolose: il Sistema di protezione dell’Amazzonia (Sivap) e il Sistema di vigilanza dell’Amazzonia (Sivam). Al fine di preservare l’equilibrio ecologico nella regione amazzonica, il Brasile ha inoltre stretto nel 2013 un’alleanza bilaterale con la Guyana, per instaurare un rapporto di mutua difesa e di cooperazione militare sul confine. Il Brasile ha conseguito importanti progressi anche nello sviluppo dell’industria degli armamenti, in particolare per gli aerei da combattimento Tucano e Super Tucano. Inoltre, a metà dicembre 2010, il paese ha realizzato il lancio (nel suo territorio) del missile di medie dimensioni VSB-30 V07, sviluppato con tecnologia brasiliana. L’avvenimento riveste una notevole importanza in termini scientifici e tecnologici, dati gli esperimenti (legati alla microgravità) realizzati durante il lancio e il tempo di volo del missile, ma non vanno sottovalutati i potenziali sviluppi in ambito militare.
Da guerrigliera a presidente del Brasile. Poco empatica, rigida, non telegenica, Dilma Rousseff è approdata alla guida del Brasile il 1°gennaio 2011. Nessun esperto di marketing politico, pochi anni prima, avrebbe scommesso un real su di lei. Invece ha vinto. Figlia di un immigrato bulgaro e di una maestra elementare brasiliana, nasce nel 1947 a Belo Horizonte. Infanzia agiata e adolescenza serena, poi allevata nella serenità degli studi classici, Dilma frequenta la facoltà di Economia di Campinas. Fin dagli anni dell’università è la politica a tracciare un solco profondo nella sua personalità e nella carriera. Nel lungo ventennio brasiliano piegato dalle dittature (1964-1985), Rousseff trascorse quasi tre anni in prigione, tra il 1970 e il 1972, in quanto fiera oppositrice del regime. Membro di Colina (Comando di liberazione nazionale), organizzazione di matrice socialista, ne diventa un’esponente di spicco. Il suo percorso politico, tutto interno al Pt (Partito dei lavoratori), l’ha portata a ricoprire incarichi prestigiosi, tra cui quello di ministro dell’Energia e poi della Casa Civil, equiparabile a ministero dell’Interno. Una carriera culminata con l’elezione alla presidenza del Brasile, dopo due mandati di Lula da Silva. La sua formula elettorale pareva un po’ retrò, ‘Socialismo sem rupturas’, socialismo senza discontinuità. Una scelta criticata, coerente con i rituali dell’apparato del Pt, un partito ideologico, un po’ ingessato dalle procedure, ma che ha saputo condurre la candidata alla vittoria. Smentiti tutti coloro che ne sminuivano le capacità di attrazione del consenso: gli esperti di marketing brasiliani sostenevano che Rousseff «pareva una professoressa di matematica, rigida, poco socievole e piuttosto antipatica». E ne deducevano quanto difficile fosse vincere un’elezione presidenziale con una candidata così. Dilma incarnava l’esatto opposto dei paradigmi culturali dominanti in Brasile: il fisico prima di tutto, i glutei scolpiti, il seno modellato, il viso ritoccato. Eppure ha stravinto. Anche se, ironia della sorte, si è rivolta al chirurgo estetico dopo i sessant’anni. Costretta a rispondere alle leggi della tv, del marketing, di quell’apparenza da lei sempre snobbata. «Niente bisturi, solo bioplastia», ha cercato di minimizzare il medico di Dilma.
Intransigente e integerrima è l’erede politico di Lula, «in linea diretta». Non avrebbe dovuto toccare a lei la successione. L’erede designato era José Dirceu, braccio destro di Lula, travolto dagli scandali sui voti comperati. La profonda crisi scoppiata all’interno del Pt costringe i vertici del partito a ridisegnare equilibri e candidature. E’ qui che l’incorruttibile Dilma riesce a coaugulare consensi imprimendo un nuovo corso al complesso apparato amministrativo nazionale e provinciale del partito. Quello di Lula è stato un vero miracolo politico, a vantaggio di Dilma: convincere le agenzie di rating, conquistare la fiducia dei finanzieri e diventare icona delle due anime della sinistra latinoamericana, quella monetaria e quella radicale. Dai socialdemocratici di Michelle Bachelet ai socialisti-rivoluzionari di Hugo Chavez, dai peronisti progressisti di Cristina Fernandez de Kirchner ai cocaleros di Evo Morales, dai liberalsocialisti uruguayani ai comunisti cubani. Tutti pronti a supportare Dilma Rousseff. Ce l’ha fatta: donna, né bella, né giovane, né di charme, ha vinto e convinto. Brasiliani e comunità internazionale. Gli obiettivi del mandato erano chiari: consolidare la ripresa economica, dilatare la classe media, evitare il rinfocolarsi dell’inflazione, mantenere intatti gli equilibri macrofinanziari. E infine rispettare scadenze e impegni in vista di due appuntamenti importanti: i Campionati del mondo di calcio del 2014 e le Olimpiadi del 2016.
Raggiunti ? In parte. La congiuntura economica internazionale non ha giocato a favore di Rousseff : proprio nel 2010, anno della sua vittoria elettorale, la crisi economica internazionale si è inasprita e neppure il Brasile, che pure può contare su un grande mercato interno, ne è rimasto immune. Il tasso di crescita annuale del Pil, vicino al 7% fino al 2010, si è fortemente contratto dal 2011 al 2013. Gli equilibri macroeconomici sono stati mantenuti, in compenso nel giugno 2013, è sorto un movimento di protesta che ha portato in strada decine di migliaia di brasiliani. Un’ondata di violenza difficile da interpretare proprio perché scaturita dopo una crescita economica lunga un decennio e capace di trascinare fuori dalla povertà milioni di cittadini. Che ora, paradossalmente, chiedono una nuova catarsi: da consumatori a cittadini. Servizi migliori, sanità affidabile e capillare, scuole di qualità più elevata. Insomma un nuovo contratto sociale, con un welfare efficiente e magari meno spese per i lavori faraonici di stadi e villaggi olimpici. Rousseff ha proposto un’interpretazione originale di queste proteste: della classe media ci si deve occupare sempre, anche se i miserabili sono più facili da intercettare e magari aiutare. Con ironia, ha concluso così: «Il Brasile è un Paese strano, puoi esser arrestato per avere un cane, oppure per non averlo».
Gli eventi sportivi che si terranno in Brasile nel 2014 e 2016, rispettivamente ossia i Mondiali di calcio e le Olimpiadi, inizialmente accolti dai cittadini con entusiasmo, hanno poi scatenato un diffuso malumore. Migliaia di manifestanti hanno marciato in prossimità degli stadi più famosi in occasione della Confederation Cup 2013, denunciando ai media di tutto il mondo la precaria situazione socioeconomica brasiliana, considerata dalla maggior parte delle persone incompatibile con le ambizioni e le spese che solitamente ricadono su un paese che ospita i grandi avvenimenti sportivi. Dalla contestazione per l’aumento delle tariffe dei trasporti pubblici, l’indignazione popolare si è estesa agli sprechi di denaro pubblico, destinato alla costruzione di faraonici impianti sportivi anziché al miglioramento delle infrastrutture sanitarie, scolastiche e di trasporto, ancora troppo arretrate. Si stima che la spesa affrontata per ospitare Mondiali e Olimpiadi ammonti a 33 miliardi di dollari. Di contro, il ministero dello Sport brasiliano prevede la creazione di 120.000 posti di lavoro all’anno da qui al 2016. Ciononostante, i benefici sono troppo pochi o ancora troppo lontani per essere apprezzati, mentre i costi appaiono già visibili e stridono in un contesto di stagnazione e inflazione che, negli ultimi due anni, ha frenato, dopo tanto tempo, il miglioramento delle condizioni di vita della classe media.
Dai tempi della colonizzazione portoghese nel 16° secolo, per via delle conversioni forzate e dell’immigrazione europea, il Brasile si è sviluppato come un paese nettamente cattolico e in età contemporanea è arrivato a ospitare la più grande popolazione di cattolici al mondo. Il censimento del 2010 ha però messo in evidenza un fenomeno in crescita da quarant’anni a questa parte: la fuga dei fedeli verso le chiese protestanti, in particolare evangeliche e pentecostali. I cattolici brasiliani sono passati così dall’89% della popolazione (108 milioni) durante gli anni Ottanta, al 65% (123 milioni) del 2010, mentre il numero dei protestanti è cresciuto, passando dagli 8 milioni (7%) agli attuali 42 (22%). Le ragioni di tale processo di ‘commutazione religiosa’ sembrano risiedere nell’eccessivo conservatorismo che i brasiliani rimproverano alla chiesa cattolica. A differenza delle chiese protestanti, che si dimostrano aperte ai problemi e alle esigenze quotidiane della gente e offrono innovative occasioni di confronto su tutto il territorio (anche nelle favelas), i portavoce del cattolicesimo sono percepiti come disinteressati e distanti dalla realtà. La visita del Papa sudamericano Francesco I a Rio de Janeiro, in occasione della Giornata mondiale della gioventù del 2013, ha assunto quindi un significato rilevante: far sentire la chiesa di Roma vicina all’intero continente latino americano e diffondere l’idea che al suo interno sia in corso un processo di rinnovamento.
Nel 2001 la celebre banca d’affari Goldman Sachs ha coniato il termine Bric per indicare i quattro paesi che si consideravano le economie del futuro. Il gruppo – formato da Brasile, Russia, India e Cina (da cui l’acronimo BRIC) – che negli ultimi dieci anni ha rappresentato il 36,3% della crescita del pil mondiale,oggi registra una preoccupante battuta d’arresto. Nel quadro di un’economia mondiale che chiude il 2013 con risultati peggiori di quelli dell’ultimo triennio, anche nei Bric si profilano delle incrinature preoccupanti: la crescita cinese rallenta, quella della Russia si dimezza e quella dell’India passa dal 9 al 6%. A riportare la performance peggiore è però il Brasile che, lungi dal ricoprire quella posizione di leader fra gli emergenti a cui aspirava, è passato dall’8% di crescita del 2010 allo 0,9% del 2012. La sostanziale stagnazione si accompagna, tra l’altro, a un’alta inflazione (intorno al 6%) che vanifica l’aumento del reddito pro capite reale e riduce la capacità d’acquisto dei cittadini.
Si tratta di arretramenti preoccupanti per paesi con un’intensa dinamica demografica (Russia esclusa) e i cui leader costruiscono il proprio consenso sociale sulla garanzia di una crescita sostenuta. La preoccupazione principale è appunto di natura politica. Le prospettive economiche del Brasile (così come quelle degli altri Bric) rimangono comunque quelle di un paese in crescita ma, all’enorme disponibilità di beni di consumo, è necessario accompagnare un analogo miglioramento di servizi, infrastrutture e moralità della vita politica, così da evitare frizioni nel sistema economico e, soprattutto, malcontento sociale.
Il bioetanolo è un carburante liquido ottenuto dalla biomassa e il suo attuale sviluppo si deve, principalmente, alla necessità di trovare sostituti ai carburanti derivati da fonti fossili, come la benzina e il gasolio. Il suo utilizzo serve a coprire i bisogni nel settore dei trasporti, che è quello che contribuisce in maniera più significativa alle emissioni di gas. La produzione di biocarburanti (bioetanolo e biodiesel) non ha solo motivazioni economiche o geostrategiche – alti prezzi del petrolio e produzione concentrata in pochi paesi, non sempre affidabili – ma è anche guidata dalla volontà di contenere il cambiamento climatico. A livello mondiale, il Brasile è sia il maggior produttore, sia il primo consumatore di bioetanolo (a base di canna da zucchero). Dietro il Brasile, dotato di 430 impianti, i secondi produttori mondiali di bioetanolo sono gli Usa; insieme i due paesi rappresentano quasi i tre quarti della domanda mondiale di questo biocarburante. L’attuale posizione di leader mondiale non costuisce un caso: se da una parte le dotazioni di risorse naturali hanno giocato un ruolo fondamentale, dall’altra il Brasile ha maturato una lunga esperienza nel settore, sostenuta dall’entrata in vigore, già nel 1975, del Programma nazionale dell’alcol, ribattezzato ‘Programma Proalcol’.