CAMPANIA
Regione dell'Italia meridionale, i cui confini medievali, assai più estesi di quelli attuali, comprendevano, tra l'altro, centri artisticamente importanti come i monasteri di Montecassino e di S. Vincenzo al Volturno.Dopo che l'età paleocristiana contrassegnò la C. sul piano storico-artistico con i monumenti napoletani di S. Restituta, S. Giovanni in Fonte, S. Giovanni Maggiore e S. Giorgio Maggiore, le chiese di S. Felice a Cimitile presso Nola e S. Prisco presso Capua, la basilica costantiniana di Santa Maria Capua Vetere, i battisteri di Nocera Superiore e di S. Giovanni in Fonte presso Padula e numerose altre testimonianze, nel periodo altomedievale si sviluppò in C. una più complessa produzione artistica che, mentre denuncia la persistenza dell'antica tradizione classicistica, mostra di recepire tanto le inflessioni espressive della cultura longobarda quanto le suggestioni provenienti dall'ambito bizantino. Sulle manifestazioni architettoniche e figurative della regione agirono dunque il fascino di Roma e della civiltà latina in genere, la diffusione dell'Ordine benedettino, che ebbe come caposaldo l'abbazia di Montecassino, il formarsi del potente ducato longobardo di Benevento e la presenza costante in molte città della regione del governo bizantino.Una serie di edifici, come la pseudo-cripta del duomo di Benevento, l'Annunziata di Prata di Principato Ultra (Avellino), S. Anastasia a Ponte, S. Ilario a Port'Aurea, ancora a Benevento, S. Maria di Compulteria presso Alvignano, l'antica cattedrale di Frigento, di recente scoperta, e le chiese di Capua (S. Michele a Corte, S. Salvatore a Corte, Ss. Rufo e Carponio, S. Angelo in Audoaldis), documenta la storia architettonica tra il sec. 6° e il 10°, esprimendo preferenzialmente nella continuità dello schema basilicale a tre navate con pilastri e colonne quel gusto per l'ariosa e ritmica scansione dello spazio caratteristico dell'architettura regionale fin dai primi secoli del cristianesimo.Il monumento più rappresentativo del periodo altomedievale è forse la chiesa longobarda di Santa Sofia a Benevento, fondata dal duca Arechi II (758-760). La costruzione, a pianta centrale, non solo si collega tipologicamente a qualche edificio della Langobardia Maior, come la scomparsa chiesa di S. Maria delle Pertiche a Pavia, ma parallelamente sembra trarre spunto sia dall'architettura tardoantica di Roma sia da quella cristiana di Costantinopoli. Ne sortisce un risultato compositivo del tutto singolare, in virtù dell'inserzione di uno schema stellare e di tre piccole absidi lungo il perimetro esterno. La decorazione pittorica interna delle due absidi laterali, carica di espressività e di acceso realismo, si rivela cronologicamente connessa alla costruzione. I confronti con gli affreschi della cripta di S. Vincenzo al Volturno, datati all'epoca dell'abate Epifanio (826-843), suggeriscono infatti la priorità degli affreschi beneventani, i quali costituirebbero non solo un autentico polo di riferimento per la C. altomedievale ma anche una delle prime testimonianze della c.d. arte beneventana (v. Beneventano-cassinese, arte), che annovera tra i principali documenti gli affreschi della grotta di S. Biagio a Castellammare di Stabia, quelli della chiesa dei Ss. Rufo e Carponio a Capua, dell'Annunziata di Prata, tutti inseriti nell'arco del sec. 9°, nonché i cicli di poco posteriori della basilica dei Ss. Martiri di Cimitile, di Olevano sul Tusciano e di S. Maria de Olearia presso Maiori (sec. 10°).Nel settore della produzione plastica sono di particolare interesse opere come le lastre di Cimitile, quelle dell'oratorio di S. Aspreno a Napoli, la transenna con due leoni affrontati e i capitelli provenienti dalla distrutta città di Sicopoli (Capua, Mus. Prov. Campano), nonché altri capitelli a Benevento (Mus. del Sannio). I capitelli riproducono, semplificandole e spesso alterandole, le forme classiche o documentano variazioni di motivi ornamentali trasmessi dall'oreficeria di età longobarda. Le lastre invece denotano la desunzione di temi raffigurati in stoffe persiane dell'età sasanide, rivelando per lo più l'esistenza di un radicato filone bizantino, da cui non è assente una robusta e dimessa eleganza formale.Anche nei secc. 11° e 12°, nonostante le precedenti incursioni saracene avessero distrutto l'abbazia di Montecassino e quella di S. Vincenzo al Volturno, la C. appare tra le regioni più ricche di manifestazioni artistiche e di fermenti culturali dell'Italia centromeridionale. Ciò si deve in particolare al clima politico instaurato dai conquistatori normanni, la cui venuta segnò non solo per la regione ma per tutto il Mezzogiorno un profondo rinnovamento a vari livelli. Ristrutturate le vecchie impalcature statali bizantine, longobarde e musulmane, i Normanni intesero definire la loro politica economica e culturale affidando alle risorte abbazie benedettine alcuni importanti compiti, come il risanamento agricolo del territorio, insieme al controllo dell'economia locale, e soprattutto la diffusione della cultura latina rappresentata dalla Chiesa di Roma e contrapposta a quella bizantina.Rifiorirono così le città di antica e recente formazione e risorse l'edilizia monumentale rappresentata da chiese, torri campanarie, palazzi residenziali, castelli. Non v'è chiesa cattedrale che non sia stata ricostruita in forme grandiose con un adeguato arricchimento della suppellettile interna. L'incremento dato ai monasteri benedettini di Montecassino, S. Vincenzo al Volturno, Capua e Cava de' Tirreni alimentò in tutta la regione, fino all'estrema periferia, un tipo di arte che, pur nella varietà delle cadenze espressive prodotte dal sostrato culturale differenziato, denuncia caratteri tendenzialmente omogenei. Merito della nuova classe dominante fu peraltro quello di non aver imposto un tipo di cultura rigidamente uniforme, favorendo talora un eclettismo espressivo di grande suggestione, dove realtà, nozioni e sentimenti del passato affiorano come sotto una veste comune.L'esempio più clamoroso del sincretismo culturale veniva offerto dalla basilica di S. Benedetto a Montecassino, ricostruita fra il 1066 e il 1071 dall'abate Desiderio, grande alleato dei Normanni, divenuto poi papa Vittore III. La nuova chiesa, che utilizzava marmi fatti giungere espressamente da Roma e attingeva qualche motivo di ispirazione dalle chiese costantiniane romane, fu costruita da architetti amalfitani e lombardi, mentre le pitture, i mosaici e il litostrato lungo le navate vennero eseguiti da maestri chiamati da Costantinopoli e da artisti saraceni di Alessandria. Ciò indica appunto l'adozione da parte della cultura benedettina di schemi creativi diversi, nella prospettiva di ottenere attraverso il loro intreccio immagini nuove ed esemplari. Inoltre, se generalmente le chiese di Roma terminavano a E con una sola abside, la chiesa di Desiderio e quelle che a essa si ispirarono ne ebbero tre allineate sul transetto o collegate direttamente alle navate.Tra le numerose chiese campane dei secc. 11°-12° più vicine al modello cassinese vanno ricordate le cattedrali di Salerno, Amalfi, Scala, Ravello, Capua, Sessa Aurunca, Calvi Vecchia, Sant'Agata dei Goti, Carinola, tutte con transetto più o meno allineato o appena sporgente, mentre fra quelle con vano basilicale desinente in absidi si annoverano le abbaziali di Sant'Angelo in Formis, pure di committenza desideriana, San Pietro ad Montes e S. Benedetto a Salerno, le cattedrali di Casertavecchia e di Carinola nella fase iniziale, la chiesa di S. Menna a Sant'Agata dei Goti, l'Annunziata di Minuto e altre. Forse in relazione agli esiti cassinesi, in questi edifici, accanto alla componente romana (colonnati e riuso del materiale antico) e a quella lombarda (archetti pensili e lesene), si colgono talora, specie lungo la fascia costiera, riferimenti bizantini e orientali in genere (archi su alti piedritti, volte estradossate, pulvini, capitelli a stampella, decorazione interna, porte in bronzo), nonché soluzioni islamiche (archi acuti, colonne incassate sugli spigoli).Soprattutto nel campo della pittura e della decorazione musiva la C. scandisce gli accenti bizantini più palesi, poiché sulla scia delle maestranze costantinopolitane presenti a Montecassino furono decorate le basiliche di Sant'Angelo in Formis e San Pietro ad Montes, il duomo di Salerno e quello originario di Capua, la cripta dell'Annunziata di Minuto, quella di S. Maria del Piano ad Ausonia, la chiesa di S. Maria in Foroclaudio a Ventaroli, S. Angelo di Lauro e altri monumenti.Completamente in linea con la tradizione orientale è un dossale in avorio, un tempo sull'altare del duomo di Salerno (oggi nel Mus. Diocesano), verosimilmente della fine del sec. 11°, dove si fondono gli elementi di un classicismo scarno e disadorno con un più vivo interesse naturalistico e plastico, entrambi riconducibili al locale filone bizantino e in parte anche a quello islamico.Nel campo della scultura decorativa, dopo la produzione di età altomedievale, si rilevano aspetti complessi di varia estrazione collegabili con gli esiti dell'intero ambito meridionale, tra cui va colto ancora una volta il referente classicistico, che trova nell'architrave del quadriportico antistante la cattedrale di Salerno e nel candelabro pasquale di Capua le sue più alte espressioni. Di tono non inferiore sono i rilievi dei due pulpiti del duomo di Salerno, il lettorile del pulpito di Sessa Aurunca, toccato da rimandi siciliani, il bocciolo di un candelabro conservato a Napoli (Mus. e Gall. Naz. di Capodimonte), i plutei con le Storie di Giuseppe e dei ss. Gennaro e Sansone della basilica napoletana di S. Restituta (sec. 12°-13°). Se in queste opere esiste un recupero classico, sembra trattarsi piuttosto di una sorta di spontanea citazione archeologica, per certi versi lontana dal classicismo cosciente d'ispirazione gotica che caratterizzò l'opera dei maestri toscani della seconda metà del Duecento e di cui una dimostrazione locale è data dai leoni stilofori del portale del duomo di Napoli, attribuiti a Lapo, seguace appunto di Nicola Pisano.Va individuato inoltre un filone di sapore nordico che, connotato da libera violenza espressiva, costituisce un'alternativa al saldo ed equilibrato vigore plastico della tradizione. Tale nuovo filone pare ben rappresentato da un pannello conservato nella cattedrale di Aversa in cui è stato identificato Sigfrido che uccide il drago Fafnir: si tratta di un'opera dalla datazione controversa, che tuttavia si può agevolmente collegare con la cultura figurativa nordeuropea della fine dell'11° secolo. Una componente specificamente francese si riscontra nel gruppo dei suddiaconi sull'ambone dell'arcivescovo Nicola d'Aiello nel duomo di Salerno, che mostra, oltre l'indiscussa valenza classicistica a cui si è accennato, anche caratteri formali di ascendenza provenzale, mentre la dimensione renanotolosana è evidente più che altrove nel crocifisso della chiesa di S. Maria Maggiore a Mirabella Eclano (ca. 1150).Rimandano poi alla produzione plastica dell'ambito pugliese-canosino gli elefanti del seggio episcopale della cattedrale di Calvi Vecchia e anche le sculture sul portale del duomo di Carinola, a cui è giusto accostare i capitelli del deambulatorio del duomo di Aversa (fine sec. 11°). Infine, presentano legami con soluzioni analoghe di possibile influenza comasca, già diffuse in molte chiese di Puglia, i finestroni degli inizi del Duecento delle cattedrali di Sessa Aurunca e Casertavecchia, nonché il portale più o meno coevo dell'abbaziale di S. Lorenzo ad Aversa. Probabilmente di estrazione pugliese, ma proteso verso la temperie culturale federiciana, è anche quel maestro Pellegrino che scolpì per la cattedrale di Sessa Aurunca le lastre con le Storie di Giona e la colonna del candelabro pasquale.Naturalmente non sempre è possibile distinguere la genesi dei singoli elementi costitutivi di ogni manufatto artistico campano di età romanica, poiché gli artefici locali seppero proporne una salda e sapiente tessitura tale da rendere incerta ogni filologica individuazione dei caratteri stilistici. La difficoltà cresce quando si considera la componente espressiva normanna, a cui sembra spettare il compito di mascherare ogni sensibile divario o smagliatura sul piano della resa finale. Forniscono una dimostrazione in tal senso gli archi intrecciati applicati alle pareti e impreziositi dalle tarsie policrome, come appare dalla cella campanaria del duomo di Salerno (1137-1152) e dal tiburio della cattedrale di Casertavecchia (1207-1216), e più tardi il tipo di arco intrecciato che tende ad affrancarsi dal tessuto murario, come in alcuni chiostri dell'area costiera (S. Francesco e S. Domenico a Salerno, S. Francesco a Sorrento) e nel portico originario della cattedrale amalfitana. Si tratta di indicazioni di un gusto che, sebbene non sia estraneo ai paesi dell'Islam (dalla Spagna alle coste africane), si collega verosimilmente alla venuta dei Normanni. Tuttavia, il discorso su tali motivi si complica se si tiene conto delle interpolazioni operate dalle maestranze campane, laddove la decorazione non solo viene abbellita dalle tarsie geometriche ma assume talora, come nel palazzo Rufolo di Ravello, la forma di eleganti arabeschi, tali da far pensare a una più manifesta matrice arabo-sicula. Ma mentre è stata appurata la priorità e la continuità degli archi intrecciati campani rispetto a quelli dell'area siciliana, si conviene di fissare in C. non tanto l'origine, bensì il centro primario d'irradiazione (Bottari, 1955) di siffatti schemi ornamentali. Del resto è noto che esiste un nesso abbastanza significativo fra lo sviluppo di alcune forme artistiche che si registrano a Monreale e la presenza dei monaci benedettini che ivi erano sopraggiunti dalla fiorente abbazia di Cava de' Tirreni per espresso desiderio di Guglielmo II il Buono nel 1176. In ultima istanza, è pur probabile che lo sviluppo e la commistione di motivi decorativi analoghi in terre diverse abbiano trovato nell'unità della cultura benedettino-normanna il tramite storico più idoneo.L'incidenza benedettina e normanna sull'arte campana non si limita alla mediazione di particolari temi decorativi nordici (presenti anche nel settore della miniatura prodotta negli scriptoria abbaziali del sec. 11°), ma ripropone altresì alcuni schemi funzionali di indiscussa origine borgognona e anglonormanna. La comparsa del transetto alto e sporgente rispetto alle navate, l'uso dei costoloni nella costruzione delle volte e un tipo di coro a deambulatorio e cappelle radiali attestato per la prima volta ad Aversa (dove recenti indagini hanno messo in evidenza la presenza di cinque cappelle originarie) costituiscono i fatti più nuovi della produzione architettonica medievale di questa regione. Il transetto che sporge, sia pure timidamente, dal perimetro delle navate (nelle cattedrali di Salerno, Ravello, Capaccio Vecchia e Casertavecchia) tende a emergere rispetto alla copertura della navata centrale (ancora a Salerno, Scala, Sessa Aurunca, Calvi, Amalfi e forse già nella scomparsa Montecassino); inoltre, la tipologia del coro gradonato è eccezionalmente presente nella poco nota abbaziale di S. Salvatore a Telese (fine del sec. 11°). Tutto ciò rimanda a prototipi cluniacensi in parte rivisitati dall'architettura lombarda e diffusi parallelamente nell'architettura delle altre regioni meridionali. Secondo quest'ottica vanno inquadrate numerose altre questioni: per es. il problema dell'origine delle volte a crociera nervata, apparse precocemente ad Aversa (coro) e poi a Sessa Aurunca (crociera) e Casertavecchia (bracci del transetto); il problema dei sottarchi a sezione poligonale presenti nel portico rifatto della cattedrale di Carinola, in quello di San Pietro ad Montes e nelle arcate interne dell'abbaziale di S. Lorenzo ad Aversa; infine la comparsa di alcune celle campanarie contraddistinte dalla presenza di corpi mediani affiancati sulle diagonali del quadrato di base da torrette poligonali o cilindriche, come a Casertavecchia, Amalfi e Gaeta.In effetti, l'arte campana di età romanica si snoda all'interno di un processo creativo alimentato e sostenuto da una serie di fattori, alcuni dei quali legati alla persistenza e alla continuità delle tradizioni e altri introdotti dal rinnovamento formale sollecitato dalla committenza politico-religiosa dell'epoca. È un'arte composita che ancora nel primo ventennio del Duecento produce opere di grande suggestione, come la cattedrale di Casertavecchia, ingrandita e abbellita ancor prima che l'arte federiciana sviluppasse nella regione forme più austere e razionali, edificio dove convivono in perfetto equilibrio compositivo stilemi antichi e nuovi.Nel sec. 13° perdurarono e si intensificarono i rapporti con l'area nordeuropea. Ciò va messo in relazione soprattutto al regno di Federico II, un periodo peraltro di grande turbolenza politica. Tuttavia in C. arrivarono anche gli echi della grande fioritura artistico-culturale che si sviluppò in Sicilia e in Puglia. Ne rimangono testimonianze importanti, prima tra le quali la porta sul Volturno a Capua (1230-1240). Sorta al confine dello Stato Pontificio, tale struttura, di cui sopravvive solo parte delle torri laterali, simboleggiava la volontà di Federico II di affermare il principio dell'universalismo laico contro il primato spirituale e ierocratico della Chiesa. Vi era esposta una statua del sovrano come immagine di autorità e di legge. Ornavano la porta altre sculture a tutto tondo, alcune delle quali conservate (Capua, Mus. Prov. Campano): il busto in cui si è voluto riconoscere Pier delle Vigne e la testa allegorica di Capua, opere d'ispirazione classica con ascendenze pugliesi, dove la morbida e calcolata trattazione della forma non esclude una sottile animazione interiore dei personaggi. Lo stesso tratto raffinato e aulico si riscontra ancora nel busto di regina (Ravello, Mus. del Duomo) eseguito da Nicola di Bartolomeo da Foggia (1272), il quale tuttavia ama soffermarsi sullo splendore decorativo dell'abbigliamento femminile.Oltre al citato maestro Pellegrino di Sessa Aurunca va ricordato pure quel magister Melchiorre che nel 1279 a Teggiano eseguì l'architrave del portale maggiore e il pulpito della cattedrale, in cui si colgono gli echi un poco attardati dell'arte federiciana, insieme a tangenze con la plastica contemporanea dell'area abruzzese. Adesione al gusto d'Oltralpe si riscontra nella Deposizione del duomo di Scala, presso Amalfi, e nel crocifisso della chiesa napoletana di S. Maria a Piazza, che però è stata collegata per alcuni versi all'orbita della scultura spagnola a cavallo dei Pirenei.Nonostante l'apertura alla nuova temperie culturale, sul piano della produzione pittorica la situazione della regione risulta ancora tanto diversificata quanto ancorata al passato. Per es. nel corso del sec. 13°, lungo il tratto costiero salernitano, il bizantinismo resisteva ancora, sia pure con una cifra popolaresca di stampo locale. Ne sono prova le miniature dell'Exultet del duomo di Salerno (Mus. Diocesano), la pala di S. Maria de Flumine di Amalfi (Napoli, Mus. e Gall. Naz. di Capodimonte), la Crocifissione di S. Domenico Maggiore a Napoli, l'icona della Madonna con il Bambino nella parrocchiale di Positano, tutte opere che non escludono affinità con i prodotti bizantineggianti pugliesi e il cui prototipo comune dovette essere sul tipo della Madonna della cattedrale di Andria, la quale appunto cronologicamente si pone in testa alle opere campane di questo genere.Morto Federico II e sconfitto Manfredi da Carlo d'Angiò (1266), nel nuovo assetto storico il centro di gravitazione politica del regno, precedentemente diviso tra Puglia e Sicilia, si spostò in C., dove Napoli venne prescelta come residenza abituale della corte e poi eletta ufficialmente capitale del nuovo stato nel 1282. Da qui si diffuse nella regione l'arte angioina. Va tuttavia precisato che la città di Napoli, nonostante le forti innovazioni culturali, non sviluppò mai una propria e distinta scuola artistica regionale, bensì fu centro di ricezione, fusione, importazione di tendenze e prodotti, nonché di artisti per lo più provenienti dalla Francia o dall'Italia centrale. Altrove nella regione le manifestazioni artistiche, in parte emarginate dal rinnovamento della capitale, rischiano di apparire provinciali oppure, nel migliore dei casi, risultano sporadiche, in quanto legate a incidentali committenze di corte.Le ricche testimonianze superstiti dell'architettura angioina a Napoli sono i monumenti religiosi che riflettono la politica guelfa di infeudamento alla Chiesa dei sovrani e la loro religiosità sensibile alla predicazione dei nuovi Ordini mendicanti. Tra le fondazioni di Carlo I (1265-1285), caratterizzate dal marcato influsso del Gotico francese per la presenza di architetti d'Oltralpe, si ricordano S. Eligio al Mercato e soprattutto S. Lorenzo Maggiore, la cui costruzione fu iniziata verosimilmente dal coro intorno al 1270: si tratta di un esempio singolare di coro a cappelle radiali come in altre chiese francescane d'Italia, dove il sistema delle navate che si lega alla parte orientale sembra non accettare né sentire schemi architettonici ormai del tutto gotici.Più complessa fu la produzione architettonica legata a Carlo II (1285-1309), in cui elementi della tradizione monastica cistercense-borgognona si connettono con motivi franco-meridionali e iberici innestandosi nella tradizione locale: così gli impianti di S. Domenico Maggiore e del duomo, nonché la chiesa monastica di S. Maria Donnaregina, in cui la tipologia francescana ad aula con abside quadrangolare è animata dal coro sopraelevato su pilastri e volte a crociera.Con Roberto d'Angiò (1309-1343) il panorama delle realizzazioni artistico-culturali della capitale subì una svolta per il massiccio afflusso di grandi personalità dall'Italia centrale. Tra le architetture del periodo si ricorda S. Pietro a Maiella e in particolare S. Chiara (1310-1328), semplice aula rettangolare con cappelle e tribuna-coro superiore, fondata da Sancia, moglie di Roberto, come sede delle sepolture reali.Dopo la crisi politico-economica seguita alla morte di Roberto, una ripresa dell'attività edilizia si ebbe con Giovanna I (1343-1381; m. nel 1382), alla quale si deve la fondazione di S. Maria Incoronata, mentre a rappresentare il periodo degli ultimi Angioini resta solo la chiesa di S. Giovanni a Carbonara, di chiaro impianto architettonico e misurata proporzionalità degli spazi.Per quanto riguarda le arti visive, la produzione angioina si configura innanzi tutto come arte 'cortese' non solo per l'origine della committenza ma anche per il suo carattere spesso laico e profano, in linea diretta con le tendenze già avviate in età federiciana. Tale orientamento si ritrova in un gruppo di opere, tra cui le miniature del messale pontificale di Salerno (Mus. Diocesano), del 1283, la tavola con S. Domenico benedicente in S. Domenico Maggiore a Napoli (1290), l'affresco con Crocifissione nella cripta della chiesa del Crocifisso a Salerno, gli affreschi più antichi della cappella Minutolo a Napoli (1285-1290), attribuiti a Montano d'Arezzo, al quale si assegnano anche due affreschi nel transetto destro di S. Lorenzo Maggiore e la Madonna in maestà nel santuario di Montevergine.In relazione agli interventi dei grandi maestri chiamati a corte da Roberto, a Pietro Cavallini va attribuita con relativa certezza solo la decorazione della cappella Brancaccio in S. Domenico Maggiore (1308-1309), mentre gli affreschi che coprono le pareti di S. Maria Donnaregina mostrano ancora per circa un trentennio lo sviluppo della linea cavalliniana. Tale tendenza trovò il suo esito più significativo in Lello da Orvieto, nel mosaico di S. Restituta (1322) e nell'affresco del refettorio di S. Chiara (1340).Senza seguito sulla pittura locale per l'oggettiva inaccessibilità del linguaggio, teso a sublimare un ideale figurativo di santità, restò invece la pala di Simone Martini con S. Ludovico da Tolosa che cede la corona al fratello Roberto d'Angiò, del 1317 (Napoli, Mus. e Gall. Naz. di Capodimonte).Dell'opera di Giotto, ben più consona agli interessi protoumanisti di corte, restano solo i frammenti di un Compianto sul Cristo morto nel coro di S. Chiara (1329) e alcune teste campite in spazi quadrilobi, resti della decorazione della Cappella Palatina in Castel Nuovo (1330-1332). Nell'ambito della prima generazione di allievi locali di Giotto si formò Roberto d'Oderisio, la maggiore personalità della pittura trecentesca meridionale, del quale si ricordano la lunetta con Crocifissione (Napoli, Mus. Naz. di S. Martino), del 1332-1335, la tavola firmata con un'altra Crocifissione (Salerno, Mus. Diocesano), del 1335-1340, e le sei lunette con storie bibliche (Napoli, Mus. e Gall. Naz. di Capodimonte), del 1340-1343.Nella produzione plastica, a parte il pulpito del duomo di Ravello e i leoni del duomo di Napoli già ricordati, un più preciso influsso francese si trova nel busto d'argento di S. Gennaro (1304-1306), conservato nel duomo napoletano, e nelle sculture in legno policromo, assai diffuse in Campania. Forme gotico-francesizzanti rielaborate in una sintassi semplificata di matrice arnolfiana mostrano invece il sepolcro di Caterina Lagonissa nel santuario di Montevergine e le sculture restanti del distrutto pulpito del duomo di Benevento di Nicola da Monteforte, del 1311 (Benevento, Mus. del Sannio; Bibl. Capitolare).Sempre in questo contesto operò dal 1323 al 1337 lo scultore e architetto senese Tino di Camaino, che, a capo di una bottega, eseguì per la corte una serie di monumenti funebri tra cui quello per Caterina d'Austria, nel quale scolpì le Virtù, nella chiesa di S. Lorenzo Maggiore (1324), quello per Maria d'Ungheria, madre di Roberto d'Angiò, in S. Maria Donnaregina (1325), considerato il capolavoro dell'attività di Tino a Napoli, il sepolcro per Carlo di Calabria in S. Chiara (1333) e quello per Maria di Valois (m. nel 1331) nella stessa chiesa. Nei decenni successivi lo stile di Tino fu modello per la produzione plastica napoletana con risultati spesso ripetitivi o accademici. Degno di nota è solo il monumento funebre a Roberto d'Angiò in S. Chiara (1343-1344), opera dei fratelli fiorentini Pacio e Giovanni Bertini.In seguito, durante il regno di Ladislao di Durazzo (1386-1414), si produssero opere di linguaggio gotico internazionale, tra cui degne di menzione sono soprattutto quelle dello scultore Antonio Baboccio da Piperno, mentre con Giovanna II (1414-1435) si giunse alla crisi, cui solo le opere di grandi maestri toscani del Rinascimento (Michelozzo e Donatello con il monumento Brancaccio in S. Angelo a Nilo) riuscirono a creare schiarite momentanee.In sintesi, nella C. medievale l'attività artistica riflette la varietà delle componenti etno-culturali che nel corso delle diverse fasi storiche s'intrecciarono un po' in tutto il Meridione. Gli esiti espressivi che vi maturarono, più che porsi all'insegna di una generica linea evolutiva, che peraltro resta difficile da decifrare, sembrano imporsi come espressione di un lento processo sincretico che, pur fortemente radicato nella tradizione classicistica, seppe via via rinnovarsi al suo interno e aprirsi alle novità straniere, riuscendo talora, come nell'età normanna, a creare ideali modelli di riferimento (si pensi alla Montecassino desideriana) validi anche per le regioni limitrofe.
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