Abstract
A quali concetti ed istituti giuridici ci riferiamo quando parliamo di “circolazione delle persone” e di “politiche di immigrazione” in relazione al diritto dell’Unione europea? La voce prende in considerazione il (crescente) intervento delle istituzioni europee tanto sul fronte dello spostamento dei cittadini europei ed extraeuropei all’interno dei confini degli Stati membri, quanto su quello delle regole che presiedono all’ingresso, al soggiorno ed al trattamento dei soggetti che entrano nel territorio europeo a partire da Paesi terzi. Nell’approcciarsi a questa articolata materia, una delle principali difficoltà da affrontare è rappresentata dalla individuazione del “livello” normativo (nazionale, europeo, internazionale) in cui localizzare la competenza alla regolamentazione delle varie ipotesi di spostamenti transfrontalieri, leciti o illeciti, delle persone.
Malgrado la locuzione «libera circolazione delle persone» compaia già all’interno del Trattato di Roma del 1957 (Trattato che istituisce la Comunità economica europea – e precisamente nella rubrica della parte II, titolo III), occorre da subito chiarire che la nozione di persona utilizzata dal legislatore del Trattato istitutivo della CEE può essere compresa soltanto esaminando più da vicino il contenuto delle norme in questione: è agevole infatti rilevare come tale nozione non sia affatto utilizzata nel suo significato atecnico e d’uso comune, bensì per riferirsi ai soli cittadini degli Stati membri economicamente attivi, ossia inseriti nel tessuto produttivo del mercato interno, a prescindere dalla tipologia (subordinata o autonoma) dell’attività lavorativa esercitata. Tale impostazione – si badi – non è stata intaccata dai numerosi e successivi interventi che hanno condotto, attraverso mezzo secolo di trattati modificativi talora connessi agli allargamenti della Comunità prima e dell’Unione poi, all’odierna formulazione del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), scaturito dalla riforma di Lisbona del 2007 ed in vigore dal dicembre 2009: ancor oggi si può rinvenire una disciplina ad hoc in tema di libera circolazione e stabilimento dei lavoratori subordinati (artt. 45 ss. TFUE) e dei lavoratori autonomi (artt. 49 ss. TFUE), la quale costituisce un corpus normativo a sé stante ed autonomo rispetto alle norme che più di recente hanno introdotto il principio della libera circolazione a beneficio di tutti i cittadini dell’UE (v. infra, § 3).
Allo stato attuale di sviluppo del processo di integrazione europea, è dunque possibile affermare che il concetto di “libera circolazione delle persone” sia giunto alla sua più compiuta affermazione ed abbracci tanto l’originario nucleo di norme relative al solo diritto di spostarsi da un Paese ad un altro – nonché di soggiornare a tempo indeterminato in tale secondo Paese – spettante ad un cittadino dell’Unione che svolga un’attività lavorativa (libera circolazione delle persone stricto sensu), quanto, in un’accezione sopravvenuta e più ampia, il “nuovo” diritto di circolazione e soggiorno riconosciuto (a talune condizioni, su cui v. § 3.1) a tutti i cittadini dell’UE in quanto tali ed ai loro familiari di qualsiasi nazionalità.
Senza dimenticare che, oggi, il diritto dell’Unione europea interviene altresì a conferire, agli stessi cittadini dei Paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri, taluni diritti in tema di circolazione e soggiorno, quale ad esempio il diritto di ricongiungersi con i propri familiari più stretti o di spostarsi liberamente da un Paese all’altro all’interno dell’UE. A ciò si aggiunga che sono ascrivibili all’ordinamento europeo alcune importanti prescrizioni sull’immigrazione in generale, le quali devono essere attentamente coordinate con le norme riconducibili alla discrezionalità dei singoli ordinamenti nazionali (oltre che con il diritto internazionale consuetudinario e pattizio): si pensi alla materia dei visti o del diritto d’asilo e di accesso alle altre forme di protezione internazionale.
Per quanto attiene all’ordinamento italiano, viene anzitutto in rilievo, quale primo riferimento normativo in materia di immigrazione, il t.u. approvato con d.lgs. 25.7.1998, n. 286, e più volte successivamente modificato: le sue previsioni rappresentano in parte il frutto di scelte compiute autonomamente dal legislatore nazionale in base ai propri orientamenti di politica legislativa, ed in parte l’adeguamento del sistema interno agli obblighi discendenti dalla partecipazione all’ordinamento dell’Unione (vale infatti la pena di ricordare che, a fronte dell’approvazione di una direttiva, occorre necessariamente un provvedimento nazionale idoneo a recepirne i contenuti essenziali).
Rimandando, per quanto attiene alla circolazione delle persone nella sua (più ristretta) accezione di libertà fondamentale su cui poggia il mercato interno, a quanto più ampiamente osservato nel contesto della voce dedicata alla libera circolazione dei lavoratori è appena il caso di ricordare che l’attuale art. 45 TFUE garantisce ai lavoratori subordinati, in linea generale, il diritto di spostarsi da un Paese ad un altro al fine di i) rispondere ad offerte di lavoro e/o ii) svolgere la propria attività lavorativa dipendente, nonché iii) permanere all’interno di tale Paese dopo aver cessato il proprio impiego, ponendo altresì il divieto di dar luogo a qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità (v. Lavoro subordinato. Diritto dell'Unione europea). Infine, per quanto attiene agli operatori indipendenti, il TFUE assicura a professionisti e prestatori di servizi un analogo diritto di spostarsi tra gli Stati membri per esercitare la propria attività in modo stabile e continuativo (libertà di stabilimento) o anche solo occasionalmente (v. Libera prestazione di servizi), secondo quanto rispettivamente previsto dagli artt. 49 (e ss.) e 56 (e ss.). Peraltro la distinzione tra diritto di mera circolazione, da un lato, e di vero e proprio stabilimento all’interno di un Paese diverso da quello d’origine, dall’altro lato, introdotta con riguardo ai soli lavoratori autonomi (posto che i due profili sono affrontati congiuntamente a proposito dei lavoratori salariati, per i quali è normalmente automatica la permanenza nello Stato di prestazione dell’attività), è dovuta a ragioni di ordine pratico e non inficia in alcun modo il carattere tendenzialmente unitario della disciplina relativa alla libera circolazione lato sensu dei soggetti economicamente attivi.
La libertà di circolazione dei lavoratori salariati ed autonomi, così sommariamente delineata, può essere (eccezionalmente) limitata sulla base di considerazioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, le quali devono trovare un’applicazione restrittiva in ragione del loro carattere eccezionale e derogatorio; si tratta peraltro, degli stessi motivi sulla scorta dei quali può essere limitata in via generale la libera circolazione delle persone nell’UE (v. infra, § 3). Specificamente riferibili alla libertà di circolazione qui considerata sono, invece, le deroghe ad hoc in relazione al rapporto di lavoro nel pubblico impego (v. Lavoro pubblico) per quanto riguarda i dipendenti (art. 45, par. 4) ed alle attività che «partecipino, sia pure occasionalmente, all’esercizio di pubblici poteri» per quanto attiene al lavoro autonomo (artt. 51 e 62), fermo restando anche in tal caso il divieto di interpretazione estensiva di tali deroghe, secondo quanto precisato dalla stessa Corte di giustizia (C. giust., 2.7.1996, C-473/93, Commissione c. Lussemburgo; C. giust., 17.11.1991, C-4/91, Bleis c. Ministère de l’Éducation nationale; C. giust., 26.5.1982, 149/79, Commissione c. Belgio).
In via generale ed a prescindere dalle differenti basi giuridiche su cui si fonda l’azione europea a seconda dei vari aspetti in cui si articolano il tema della libera circolazione delle persone e le politiche migratorie nel loro senso più ampio, può affermarsi che tali aspetti rientrano tra le materie rispetto alle quali l’Unione europea detiene una competenza concorrente con quella degli Stati membri, circostanza che in alcuni casi viene chiarita espressamente dai Trattati (ad esempio dall’art. 4, par. 2, lett. j, TFUE per quanto riguarda le politiche relative ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione) ma che, anche laddove non esplicitata, può agevolmente dedursi dal carattere residuale che deve essere riconosciuto a tale categoria di competenze (art. 4, par. 1, TFUE). Ne discendono, quantomeno, due principali corollari.
Da un lato, infatti, occorre tenere presente che, in forza del principio di attribuzione delle competenze (art. 2 TFUE), laddove l’Unione venga dotata dai Trattati di una competenza concorrente con quella degli Stati, sia l’una che gli altri possono intervenire nella regolamentazione del settore considerato ma, una volta che il legislatore europeo abbia esercitato la propria competenza, ai singoli ordinamenti è automaticamente precluso qualsiasi residuo margine d’azione (v. Competenze dell’Unione Europea). Dunque il margine residuo di discrezionalità che gli Stati membri possono esercitare in tema di politiche migratorie deve essere determinato verificando quali siano gli spazi lasciati privi di regolamentazione uniforme (o, comunque, armonizzata, dunque in ogni caso limitativa del margine di autonomia statale) da parte del legislatore dell’UE. Senza dimenticare, peraltro, che alcune norme poste dai Trattati in materia di libera circolazione delle persone (si pensi a quelle relative ai lavoratori subordinati ed autonomi, cui già si è fatto cenno nel precedente paragrafo) sono dotate di effetto diretto, sicché risultano idonee a conferire ai singoli diritti immediatamente azionabili e tutelabili in sede giurisdizionale, pur in assenza di ulteriori atti normativi tesi a darvi attuazione (cfr., da ultimo, C. giust., 6.6.2000, C-281/98, Angonese c. Cassa di Risparmio di Bolzano SpA).
Dall’altro lato, poi, occorre prestare particolare attenzione alla conseguenziale regolamentazione “multilivello” del settore: le norme di fonte UE e di fonte nazionale tendono a completarsi nel senso di regolare congiuntamente la materia considerata, sicché non risulta possibile né fare riferimento ad un unico “livello” normativo (europeo o interno) né, ovviamente e conseguentemente, ad un unico strumento normativo, o comunque ad un insieme di strumenti normativi riconducibili alla medesima categoria, essendo invece necessario riferirsi contestualmente a fonti dell’Unione (quali i regolamenti e le direttive, ma anche le decisioni della Corte di giustizia) e ad atti approvati a livello nazionale, come nel caso delle leggi e degli atti aventi pari rango (e già si è ricordato che, ad esempio, il principale testo normativo di riferimento sull’immigrazione è stato approvato in Italia tramite lo strumento del decreto legislativo).
Come già si è anticipato, il diritto di circolare (e dunque di entrare in, ed uscire da, un Paese membro senza subire limitazioni di sorta) e soggiornare liberamente all’interno del territorio dell’Unione è oggi connesso allo stesso possesso della cittadinanza europea, la quale viene automaticamente riconosciuta a tutti i cittadini di uno Stato dell’UE: in questo senso va letto, infatti, il combinato disposto degli artt. 18 e 21 del TFUE, nonché 3, par. 2, del TUE.
L’affermazione di un simile, ampio, diritto, a partire dall’originaria libertà riconosciuta ai soli cittadini lavorativamente attivi, ha condotto, a partire dalla fine degli anni Ottanta, ad una cospicua stratificazione di norme tese a disciplinare il contenuto, i contorni ed i limiti di tale diritto. Sotto questo profilo viene anzitutto in rilievo la direttiva 2004/38/CE (recepita in Italia con d.lgs. 6.2.2007, n 30), la quale ha sostituito gli strumenti precedentemente adottati dalla Comunità, prima, e dall’Unione, poi, sul fronte della circolazione e del soggiorno dei cittadini degli Stati membri e dei loro familiari, nel dichiarato intento di collocarsi nel contesto del diritto dell’Unione quale testo unico delle norme in materia.
Sul fronte della libertà di circolazione riconosciuta ai cittadini in quanto tali, tale disciplina opera una distinzione a seconda della durata del soggiorno nello Stato ospitante.
In particolare, in ogni caso di permanenza per un periodo non superiore ai tre mesi non è previsto alcun requisito ulteriore rispetto al mero possesso della cittadinanza dell’Unione, sicché l’unica prescrizione da soddisfare al fine di poter godere della corrispondente libertà è rappresentata dal possesso di un documento di identità idoneo a dimostrare, per l’appunto, lo status di cittadino UE.
Un discorso in parte differente vale, invece, per i soggiorni di durata superiore. Posto che le prescrizioni contenute nella direttiva non pregiudicano in alcun modo l’applicazione delle norme interne eventualmente tese a riconoscere un diritto di circolazione e soggiorno più ampio di quello derivante dall’operazione di armonizzazione (la quale pone, dunque, un limite minimo uniforme al di sotto del quale non è in alcun caso possibile frapporre ostacoli alla fruizione di tale diritto), a fronte di soggiorni più estesi nel tempo il legislatore dell’Unione permette ancor oggi di valorizzare il possesso di un requisito di natura economica, in particolare ammettendo che, laddove il mancato esercizio di un’attività lavorativa subordinata o autonoma non consenta di godere della libertà autonomamente e direttamente riconducibile al disposto degli artt. 45 ss. TFUE (v. supra, § 1), venga richiesto al cittadino di disporre di risorse economiche sufficienti a non divenire un onere per l’assistenza sociale dello Stato ospitante, nonché di un’assicurazione malattia idonea a coprire tutti i rischi cui si può essere esposti nel corso del soggiorno. Il possesso delle risorse economiche sufficienti, il cui ammontare è autonomamente determinato da ciascun Paese entro il limite rappresentato dall’importo della «pensione minima sociale erogata dallo Stato membro ospitante» e, dunque, è da fissarsi per l’Italia nei 5.954 euro cui corrisponde l’assegno sociale, può essere assicurato con dichiarazione dell’interessato nel caso in cui tale soggetto sia iscritto ad un corso di studi o di formazione professionale presso un istituto pubblico o privato del Paese ospitante. Peraltro sono espressamente previsti i casi in cui, nonostante la cessazione dell’attività lavorativa subordinata o autonoma, il cittadino conserva comunque il diritto derivante dal precedente status di lavoratore (art. 7, par. 3), a prescindere da qualsiasi verifica inerente alle sue condizioni economiche ed assicurative.
Terza ed ultima ipotesi è quella relativa ai cittadini dell’Unione che abbiano soggiornato legalmente e continuativamente per almeno cinque anni nello Stato membro ospitante, cui viene riconosciuto un «diritto di soggiorno permanente» in forza del quale tali soggetti possono ottenere un documento teso ad attestare tale status e godono, dal punto di vista sostanziale, non soltanto della parità di trattamento rispetto ai cittadini del Paese ospitante nel campo di applicazione dei Trattati – già previsto per il diritto di soggiorno superiore a tre mesi – ma anche di qualsiasi prestazione di assistenza sociale in condizioni di perfetta parità con i cittadini stessi, ivi inclusi i sostegni e le borse finalizzati al mantenimento agli studi o alla formazione professionale, nonché una particolare protezione rispetto ai provvedimenti di allontanamento.
Al ricorrere di simili ipotesi di legittimità del soggiorno in uno Stato dell’UE diverso da quello di origine, il cittadino ha altresì la possibilità di condurre con sé i propri familiari: gode cioè del cd. diritto al ricongiungimento familiare, che può esercitare nei riguardi di un novero di congiunti la cui esatta estensione può sì variare a seconda delle scelte compiute dai legislatori nazionali in sede di trasposizione della direttiva 2004/38 ma che, a norma della stessa direttiva, non può comunque evitare di ricomprendere, quanto meno, i) il coniuge; ii) il partner di un’unione civile nel caso in cui tale istituto sia equiparato negli effetti al matrimonio (per quanto riguarda l’Italia, è questo il caso delle unioni civili tra persone dello stesso sesso dopo l’entrata in vigore della l. 20.5.2016, n. 76, cd. Cirinnà; v. Balestra, L., Unioni civili, in Libro dell’anno del diritto 2017, Roma, 2017); iii) i discendenti diretti minori di 21 anni o a carico del richiedente o del coniuge/partner dell’unione civile; iv) gli ascendenti diretti a carico del richiedente o del coniuge/partner dell’unione civile.
In sede di recepimento della direttiva, avvenuto in Italia con il d.lgs. n. 30/2007, il legislatore delegato non ha ritenuto di dover ampliare tale individuazione tramite l’inclusione di ulteriori soggetti, malgrado ciò abbia determinato non poche incertezze applicative, posto che è la direttiva stessa a stabilire come lo Stato richiesto debba “agevolare” (art. 3, par. 2) l’ingresso di i) ogni ulteriore familiare che nel Paese di origine risulti a carico del, o convivente con il, richiedente, o le cui gravi condizioni di salute determino una necessità di assistenza, nonché del ii) partner «con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata». Non solo. Lo Stato ospitante è pure tenuto ad effettuare un «esame approfondito della situazione personale» ed a giustificare l’eventuale rifiuto, sicché deve ritenersi che, anche laddove le autorità pubbliche intendano orientarsi per una risposta di diniego, simile provvedimento non possa essere fondato su considerazioni di ordine generale ed astratto, dovendo invece far riferimento alla situazione specifica e personale dell’interessato, e dunque motivare la ragione per la quale il rigetto dell’istanza possa corrispondere ad un interesse pubblico dell’ordinamento.
Considerato l’assoluto silenzio del d.lgs. n. 30/2007 in relazione al trattamento da riservare ad unioni civili (tra persone di sesso uguale o differente) e matrimoni same-sex contratti all’estero, all’“invito” ad agevolare l’ingresso di soggetti ulteriori rispetto a quelli aventi diritto al ricongiungimento, nonché all’obbligo di adeguata motivazione in caso di diniego del permesso, la giurisprudenza nazionale di merito e di legittimità è stata chiamata nel corso degli anni ad assolvere ad un compito di integrazione della normativa che non le sarebbe proprio ed a fronte del quale ha – inevitabilmente – manifestato posizioni spesso non allineate, con grave pregiudizio del principio di certezza del diritto e di prevedibilità delle soluzioni: si veda ad esempio Cass., 15.3.2012, n. 4184, secondo cui un matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero doveva ritenersi «inidone[o] a produrre (…) qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano»; e Trib. Reggio Emilia, 13.2.2012 (www.articolo29.it ), in senso invece positivo circa la possibilità di far valere un matrimonio estero fra persone dello stesso sesso ai fini del ricongiungimento familiare. Sulla portata della nozione di “coniuge” nella direttiva n. 2004/38 è altresì intervenuta di recente, in senso estensivo, C. giust., Grande Sez., 5.6.2018, Coman c. Inspectoratul General pentru Imigrări. Vero è che, con specifico riguardo all’ordinamento italiano, l’entrata in vigore della legge cd. Cirinnà e dei relativi decreti attuativi (in particolare il d.lgs. 19.1.2017, n. 7) ha consentito un parziale superamento dei prospettati problemi interpretativi; ma è altrettanto vero che risulta tuttora privo di riscontro, da parte del legislatore italiano, l’invito a consentire il ricongiungimento del partner avente una relazione stabile e debitamente attestata con il cittadino dell’UE, o di ogni altro suo familiare a carico o convivente nel Paese di origine.
Resta peraltro inteso che le risorse economiche richieste per il soggiorno superiore ai tre mesi al cittadino dell’UE non lavoratore sono proporzionalmente innalzate nel caso in cui egli intenda condurre con sé uno o più familiari, così come è previsto che l’assicurazione malattia debba coprire tanto il cittadino quanto i congiunti che intendano fruire del ricongiungimento. Questi ultimi possono, altresì, dover esibire un visto di ingresso, a seconda del fatto che il Paese di provenienza ricada, o meno, nell’elenco di quelli a partire dai quali il visto è richiesto ai sensi del regolamento (CE) n. 539/2001, fermo restando che chi già sia in possesso di una carta di soggiorno in corso di validità (e dunque precedentemente ottenuta) è in ogni caso esentato dall’onere di dotarsene.
La libertà di circolazione e soggiorno dei cittadini e dei loro familiari, così sinteticamente tratteggiata, è infine soggetta ad una serie di limitazioni di ordine generale contemplate dalla stessa direttiva: gli Stati membri possono limitarla per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza o sanità pubblica, a prescindere dal fatto che simile restrizione vada ad interessare il cittadino o un suo familiare, a sua volta cittadino o non cittadino dell’Unione (artt. 27 ss.).
Tralasciando la residuale ipotesi di verificazione di un problema sanitario a potenziale epidemico (fino ad oggi mai verificatasi), rispetto alla quale non sarebbe possibile operare temperamenti nella deroga alla fondamentale libertà di circolazione intraeuropea, occorre invece tener presente che l’eccezionalità dei provvedimenti dovuti a motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza fa sì che essi possano essere adottati solo a seguito di un rigoroso scrutinio circa la loro proporzionalità rispetto al pregiudizio paventato, e solo qualora rispondano ad un esigenza concreta valutata in relazione al comportamento personale dei soggetti che ne siano destinatari, con l’esclusione di qualsiasi automatismo (ad esempio in ragione della mera esistenza di condanne penali, a scopo preventivo/dissuasivo rispetto ad una successiva realizzazione di analoghe condotte da parte di soggetti terzi).
La direttiva evidenzia inoltre come il provvedimento di allontanamento possa essere adottato solo all’esito di un esame fondato su di una molteplicità di elementi (cd. parametri di valutazione obbligata) tesi a restituire un quadro quanto più possibile completo del tipo di legame che il soggetto ha instaurato con lo Stato membro ospitante, da un lato, e che ancora intrattiene con il Paese di origine, dall’altro.
Gli obiettivi della libera circolazione delle persone e della realizzazione di uno spazio europeo integrato di «libertà, sicurezza e giustizia» (questi i termini utilizzati dal titolo V della parte III del TFUE, all’interno del quale sono inseriti i principi ispiratori della politica comune in materia di controlli alle frontiere, asilo ed immigrazione) possono essere oggi perseguiti grazie all’incorporazione nel diritto dell’Unione del cd. acquis di Schengen, ossia il risultato di accordi internazionali conclusi tra gli Stati membri tra il 1985 ed il 1990 a latere rispetto al processo di progressiva integrazione comunitaria, pienamente applicati soltanto a partire dal 1995 ed entrati poi a far parte del diritto dell’Unione tramite le modifiche ai Trattati istitutivi successivamente intervenute. Dell’originaria collocazione del sistema di Schengen al di fuori del diritto dell’UE si trova ancor oggi traccia nel protocollo annesso ai Trattati n. 19 sull’acquis di Schengen integrato nell’ambito dell’Unione europea, il quale infatti ribadisce l’esclusione di due Stati membri, sin dall’origine, dalla partecipazione agli accordi (Irlanda e Regno Unito, quantomeno fino all’uscita di quest’ultimo Stato dall’UE), ed autorizza gli altri Paesi ad attuare una cooperazione cd. “rafforzata” (v. Cooperazioni rafforzate) nei settori rientranti nel medesimo acquis di Schengen. Occorre peraltro considerare che lo “spazio Schengen” non può considerarsi interamente incluso nei confini dell’Unione, poiché nel tempo alcuni Paesi non UE come l’Islanda, la Norvegia e la Svizzera hanno aderito agli accordi; così come vi sono alcuni, tra gli Stati di più recente ingresso, che devono ancora completare il procedimento di adesione agli accordi, pur essendo formalmente tenuti, ai sensi dell’art. 7 del summenzionato protocollo n. 19, ad accettare integralmente e senza riserve l’acquis al pari di ogni nuovo Paese che venga ammesso nell’Unione: è il caso di Croazia, Bulgaria, Romania e Cipro.
Per quanto riguarda i contenuti essenziali della disciplina in esame, già si è detto che le regole di Schengen – prevalentemente incentrate sul tema dell’abolizione dei controlli alle frontiere interne tra gli Stati partecipanti e su di un correlativo rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne dell’Unione – hanno rappresentato le fondamenta a partire dalle quali è stato edificato il quadro normativo del cd. spazio di libertà. Disciplinato dagli artt. 77 ss. TFUE, esso poggia, nel suo complesso, sui tre assi rappresentati da i) controlli alle frontiere, ii) asilo e protezione internazionale, nonché iii) politiche di immigrazione.
Sul primo fronte, il Consiglio ed il Parlamento sono delegati all’adozione, tramite procedura legislativa ordinaria, di misure volte anzitutto a garantire l’assenza di controlli sulle persone all’atto dell’attraversamento delle frontiere interne, a prescindere dalla nazionalità. Al termine di un percorso che ha visto negli accordi di Schengen la prima spinta significativa, tale risultato è stato fatto oggetto del regolamento (CE) n. 562/2006 (cd. codice frontiere Schengen), di recente sostituito dal regolamento (UE) n. 2016/399: esso vieta i controlli sistematici non soltanto alle frontiere ma anche in prossimità di esse e per un raggio di 20 km., ad eccezione di quelli di polizia che non abbiano effetto equivalente, ossia non vengano posti in essere a prescindere da specifici comportamenti individuali tali da poter sostanziare una minaccia attuale per l’ordine pubblico.
Con riguardo alle frontiere esterne, poi, le due istituzioni dell’Unione sono sollecitate ad approvare norme tese a garantirne una sorveglianza efficace, anche tramite l’instaurazione di un sistema integrato volto alla loro gestione ed al controllo dei documenti di ingresso e di soggiorno richiesti agli stranieri, nonché delle condizioni per la circolazione intraeuropea di questi ultimi. È lo stesso regolamento n. 2016/399 a prevedere, inoltre, che la “gestione integrata” possa essere realizzata grazie al coordinamento di quell’ufficio dell’Unione che, con la successiva entrata in vigore del regolamento (UE) n. 2016/1624, è oggi divenuto l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex); posto che è in prima battuta ciascuno Stato a mantenere la responsabilità principale nel controllo delle proprie frontiere esterne, tramite le guardie di frontiera nazionali.
Non va peraltro omesso che sono da ascriversi al tema del controllo delle frontiere anche le regole relative ai documenti richiesti ai cittadini extraeuropei che intendano fare ingresso nell’Unione per soggiorni di breve durata, ossia entro i tre mesi. Si è già accennato, ad esempio, alla circostanza per cui l’UE è dotata di regole uniformi sui documenti da esibire in sede di ingresso nel territorio europeo a partire da Paesi terzi, sia attraverso l’individuazione delle provenienze per le quali sussiste l’obbligo di visto, sia mediante la fissazione, all’interno del cd. codice dei visti (regolamento CE n. 810/2009), delle procedure e delle condizioni per il rilascio di tali documenti. I dati relativi ai visti sono poi conservati in un archivio elettronico istituito a livello centrale, il sistema di informazione visti (VIS), al quale hanno accesso le autorità nazionali competenti per la loro emissione nonché, all’occorrenza, le autorità di polizia.
Ciò, fermo restando che i richiedenti titoli di soggiorno di più lunga durata ricadono nella disciplina approvata in attuazione delle politiche di immigrazione (su cui si rinvia al successivo par. 4.3).
A norma dell’art. 78 TFUE, la politica comune europea in tema di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea è volta ad «offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento», conformemente alla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 sullo status dei rifugiati, come modificata dal successivo protocollo del 31 gennaio 1967 sullo status dei rifugiati.
Dunque, in tale ottica di raccordo tra il margine di discrezionale determinazione degli Stati membri, da un lato, e gli obblighi internazionali codificati nel diritto pattizio (qual è il fondamentale principio del non refoulement di cui all’art. 33 della convenzione di Ginevra, a tenor del quale nessun rifugiato può essere respinto verso un Paese in cui la propria vita o libertà potrebbero essere seriamente minacciate), d’altro, l’Unione è intervenuta su più fronti, al fine di dar vita a quel sistema europeo comune di asilo (SECA) cui fa riferimento il par. 2 dell’art. 78 TFUE e che ad oggi comprende i) norme tese a delineare uno status uniforme per i rifugiati e le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché il contenuto della protezione riconosciuta (cd. direttiva qualifiche, n. 2011/95/UE; ii) norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri a fronte di simili eventi (direttiva n. 2001/55/CE); iii) la fissazione di procedure comuni per l’ottenimento e la perdita dello status uniforme in materia di asilo e di protezione internazionale (cd. direttiva procedure, n. 2013/32/UE); iv) norme minime relative alle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo (cd. direttiva accoglienza, n. 2013/33/UE); v) i criteri ed i meccanismi per la determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di asilo o di protezione sussidiaria. Quest’ultimo profilo è stato posto ad oggetto di quelle previsioni note come regole di Dublino, oggi confluite, da ultimo, nel regolamento (UE) n. 604/2013 (cd. Dublino III): tale disciplina è costruita intorno al principio secondo cui è il Paese di primo ingresso nell’UE a dover esaminare la domanda di protezione, fatte salve alcune ipotesi derogatorie eccezionali (ad esempio nel caso in cui il soggetto presenti legami familiare con un parente già soggiornante sul territorio dell’Unione, o qualora uno Stato diverso da quello di primo ingresso decida di volersi comunque assumere l’onere del vaglio). Attraverso la banca dati Eurodac (la cui più recente base giuridica è il regolamento (UE) n. 603/2013), peraltro, è stato realizzato un efficace sistema per l’applicazione del regolamento Dublino III: essa consente, infatti, mediante la schedatura delle impronte digitali a livello europeo centralizzato, di verificare se un richiedente asilo, o un cittadino straniero che si trovi illegalmente sul territorio di uno Stato membro, abbia già presentato una domanda in un altro Paese dell’UE, o se il suo soggiorno sul territorio dell’Unione sia già stato precedentemente qualificato come illegale.
È noto come il sistema di Dublino sia stato oggetto di svariate critiche nel corso degli ultimi anni, in particolar modo ad opera dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo e che, dunque, rappresentano geograficamente la prima e necessaria “porta d’ingresso” per la gran parte di coloro che tentano di entrare illegalmente nel territorio dell’Unione. A fronte di un cospicuo aumento della pressione migratoria, nel 2015 il Consiglio ha fatto ricorso all’art. 78, par. 3, per adottare la decisione (UE) n. 2015/1601 del 22 settembre, che istituisce una misura temporanea a beneficio dell’Italia e della Grecia nel senso della ricollocazione di 120.000 richiedenti asilo tra i vari Paesi membri, sulla base di un sistema di quote predeterminate; impugnata dall’Ungheria e dalla Slovacchia, la decisione (che nel frattempo ha esaurito i propri effetti) è stata salvata dalla Corte di giustizia nel 2017 (C. giust., Grande Sez., 6.9.2017, C‑643/15 e C‑647/15, Repubblica slovacca e Ungheria c. Consiglio). Ciò non toglie che appaia sempre più in salita la strada di una revisione del regolamento Dublino III tesa ad introdurre istituzionalmente al suo interno il sistema delle quote, al fine di una più equa suddivisione tra gli ordinamenti dello sforzo conseguente ad una pressione migratoria di proporzioni a tratti molto rilevanti. Lo stesso fatto che siano pressoché inesistenti, ad oggi, canali “legali” di accesso all’Unione per i richiedenti protezione internazionale non fa altro che acuire una generale e diffusa percezione di inadeguatezza del sistema attualmente in vigore, le cui prospettive di modifica, nondimeno, non sembrano raccogliere la prescritta maggioranza qualificata in senso al Consiglio.
Vale la pena di ricordare, a tal riguardo, che il principio di “mutualizzazione” di cui all’art. 80 TFUE – ugualmente operante con riguardo alle norme, già richiamate, sulla gestione delle frontiere, nonché con riguardo a quelle sulle politiche di immigrazione stricto sensu su cui si tornerà nel par. successivo – prevede che l’attuazione delle politiche in esame debba essere governata da un principio di solidarietà e dal criterio di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario.
Nell’affrontare e sviluppare una politica comune in materia di immigrazione, l’UE ha adottato norme dedicate non soltanto ad assicurare l’«equo trattamento dei cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri», ma anche un «contrasto rafforzato dell’immigrazione illegale e della tratta di esseri umani» (art. 79, par. 1, TFUE). In altre parole, rientrano nelle politiche migratorie dell’Unione non soltanto le disposizioni dedicate agli spostamenti di cittadini extraeuropei aventi titolo per l’ingresso ed il soggiorno nel territorio dell’Unione, ma anche le regole sulla lotta all’immigrazione clandestina, ivi incluse le previsioni sul contrasto al fenomeno della tratta di persone. Occorre peraltro ribadire che, laddove le istituzioni europee abbiano legiferato su alcuni di tali profili, la disciplina uniforme va ad integrarsi con le norme di fonte interna relative a quegli aspetti rispetto ai quali i singoli ordinamenti nazionali ancora mantengono un margine di determinazione discrezionale, avuto riguardo anche ai vincoli riconducibili al diritto internazionale.
Sul primo fronte, va ad esempio ricordata la direttiva n. 2011/98/UE, che definisce una procedura europea uniforme per il rilascio di permesso unico che consenta ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro, individuando altresì un insieme comune di diritti che devono necessariamente essere riconosciuti a tali soggetti ed una serie di profili rispetto ai quali è garantita la parità di trattamento con i cittadini dello Stato ospitante (ad es. in tema di condizioni di lavoro ed agevolazioni fiscali). Fermo restando che resta invece in capo agli Stati il potere di definire le condizioni di ammissione di tali lavoratori (art. 1, par. 2) ed il volume complessivo degli ingressi nel proprio territorio di soggetti in cerca di un’attività lavorativa (art. 78, par. 5, TFUE).
È invece rivolta ai soli cd. soggiornanti di lungo periodo (oltre cinque anni di soggiorno legittimo) la direttiva n. 2003/109/CE, tesa a definire le condizioni ed i contenuti minimi del relativo status, nell’ottica di una sensibile estensione dei diritti rispetto a quelli riconosciuti in generale agli stranieri lavoratori, ivi inclusa la possibilità di soggiornare per più di tre mesi in ogni altro Paese dell’UE, diverso da quello in cui si sia ottenuto il riconoscimento dello status.
Ai sensi della direttiva n. 2003/86/CE anche i cittadini extraeuropei regolarmente soggiornanti godono poi, dopo almeno un anno ed a condizione di avere prospettive di stabile permanenza, del diritto al ricongiungimento familiare. Rispetto a quanto previsto per i cittadini dell’UE (v. supra, § 3.1), il novero dei congiunti per i quali si ha diritto ad ottenere l’ingresso a titolo di ricongiungimento è più ristretto (si tratta essenzialmente del coniuge – unico e maggiorenne – e del figlio infradiciottenne), malgrado i singoli Stati abbiano la possibilità di estendere il diritto ad ulteriori categorie di familiari. Va da sé che, a fronte di richieste di questo tipo, i consueti requisiti di reddito e di assicurazione malattia gravanti sullo straniero già residente vengono proporzionalmente elevati, dovendo essere parametrati all’intero nucleo.
Le modalità attraverso le quali i cittadini di Paesi terzi vengono messi in condizione di godere dei diritti loro riconosciuti dalla normativa dell’Unione non devono essere discriminatorie o, in ogni caso, essere tali da rendere sostanzialmente più difficoltosa la fruizione di tali benefici: in una sua pronuncia relativa allo Stato italiano, la Corte di giustizia ha ad esempio chiarito che le spese di natura amministrativa previste per il rilascio dei permessi di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo non possono essere sproporzionate (C. giust., 2.9.2015, C-309/14, CGIL c. Presidenza del Consiglio dei Ministri).
Passando, infine, alla regolamentazione dell’immigrazione e dei soggiorni irregolari, il più rilevante strumento normativo adottato dall’Unione è forse la cd. direttiva rimpatri n. 2008/115/CE, la quale stabilisce norme e procedure comuni da applicarsi negli Stati membri al rimpatrio di cittadini extraeuropei che si trovino sul territorio dell’Unione in condizioni di clandestinità, nel rispetto dei diritti umani fondamentali desumibili tanto dall’ordinamento internazionale, quanto dallo stesso diritto dell’UE. Vengono, altresì, affrontati il tema delle garanzie procedurali e quello del trattamento da riservare allo straniero che venga trattenuto al fine di decidere sul rimpatrio o effettuare l’allontanamento, cercando in ogni caso di privilegiare, laddove possibile, un percorso di rimpatrio volontario e tenendo presente che il trattenimento deve avere la più breve durata possibile, comunque non superiore a sei mesi. Posto che anche in questo caso vale il principio di stretta proporzionalità nella reazione dell’ordinamento rispetto al pregiudizio patito, si è ad esempio chiarito che la direttiva non è compatibile con una normativa interna che preveda – al pari di quanto faceva il t.u. immigrazione italiano, nella sua precedente formulazione – l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo (C. giust., 28.4.2011, C-61/11 PPU, El Dridi).
Fonti normative
Internazionali: Convenzione di Ginevra del 28.7.1951 sullo status dei rifugiati; Protocollo di New York del 31.1.1967 sullo status dei rifugiati; Accordo di Schengen del 14.6.1985; Convenzione di Schengen del 19.6.1990.
Unione europea: TFUE artt. 18, 21, 45-62, 77-80; TUE: art. 3; regolamento (UE) n. 2016/1624; regolamento (UE) n. 2016/399; regolamento (UE) n. 604/2013; regolamento (UE) n. 603/2013; direttiva n. 2013/33/UE; direttiva n. 2013/32/UE; direttiva n. 2011/98/UE; direttiva n. 2011/95/UE; regolamento (CE) n. 810/2009; direttiva n. 2008/115/CE; direttiva n. 2004/38/CE; direttiva n. 2003/109/CE; direttiva n. 2003/86/CE; regolamento (CE) n. 539/2001; direttiva 2001/55/CE.
Interne: d.lgs. 6.2.2007, n. 30; d.lgs. 25.7.1998, n. 286.
Bibliografia essenziale
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