Abstract
La voce esamina la nozione di lavoro subordinato nel diritto dell’Unione europea mettendone in evidenza le significative differenze rispetto a quella storicamente elaborata nell’ambito degli ordinamenti nazionali degli Stati membri.
Il diritto dell’Unione europea è ancora oggi privo di una definizione generale di lavoro – o di lavoratore – subordinato, e conseguentemente non ne definisce il relativo statuto protettivo se non in modo parziale e settoriale. Ciò si spiega in ragione del fatto che, storicamente, nell’ambito dell’ordinamento euro-unitario, lo status di lavoratore subordinato, e la corrispondente nozione di riferimento, sono stati definiti a partire dalla esigenza di assicurare ai prestatori di lavoro (ed ai loro familiari) la libertà di circolazione all’interno del mercato comune prima e di quello interno poi. Una nozione suscettiva di una qualche generalizzazione è stata così gradualmente elaborata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ai fini della individuazione del soggetto titolare della libertà di circolazione oggi protetta dall’art. 45 del TFUE e dalla relativa normativa secondaria.
Lo status di lavoratore subordinato è stato perciò definito, almeno in una prima fase, in funzione della creazione del mercato comune del lavoro e della garanzia di una delle quattro libertà fondamentali di circolazione all’interno dell’Unione. Solo a partire dalla metà degli anni settanta del Novecento, con lo sviluppo della prima stagione delle politiche sociali comunitarie, lo statuto protettivo dei lavoratori è stato gradualmente arricchito anche in direzioni non direttamente funzionali alla integrazione del mercato, con la fissazione di taluni standard minimi di tutela comuni agli ordinamenti nazionali. Tuttavia, anche in quella fase sono prevalse le istanze della armonizzazione che Massimo D’Antona ebbe a definire «funzionalista», per segnalarne una persistente funzionalizzazione ad una logica di costruzione del mercato comune e, in particolare, di regolazione delle condizioni di concorrenza in vista della prevenzione di dinamiche distorsive basate sul cosiddetto dumping sociale (M. D’Antona, Sistema giuridico comunitario, ora in Caruso, B.- Sciarra, S., a cura di, Opere, I, Scritti sul metodo e sulla evoluzione del diritto del lavoro. Scritti sul diritto del lavoro comparato e comunitario, Milano, 2000, 377 ss.). Ciò si è riflesso in una scomposizione della nozione di lavoro subordinato nell’ambito delle politiche di armonizzazione, giacché soltanto nelle direttive che D’Antona ha chiamato «coesive» – per contrapporle a quelle funzionaliste in quanto dirette a perseguire autonomi valori sociali dell’Unione, non direttamente funzionali alla regolazione del mercato – è emersa, sempre grazie alla giurisprudenza della Corte di giustizia, una nozione europea di subordinazione.
La speciale connotazione funzionale della nozione di subordinazione originariamente elaborata nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione segna, pertanto, ancora oggi, un momento di indubbia differenza rispetto ai percorsi che – pur nelle loro notevoli diversità storiche – hanno seguito gli ordinamenti giuridici degli Stati membri. La differenza sostanziale va infatti individuata proprio nella ratio e nella funzione della definizione comunitaria ed euro-unitaria di subordinazione e dello status di lavoratore subordinato. E la differenza sta in ciò, che mentre i diritti del lavoro nazionali – vuoi in termini tendenzialmente generali e unitari, vuoi in modi prevalentemente casistici e settoriali – sono centrati su nozioni di subordinazione, o di lavoratore subordinato, rispondenti all’esigenza di immettere nella relazione contrattuale un certo statuto protettivo, l’ordinamento euro-unitario elabora una tale nozione principalmente ai fini dell’accesso dei lavoratori alla garanzia della libera circolazione nel mercato comune. Non, dunque, ai fini della disciplina protettiva del lavoratore nel rapporto di lavoro, ma ai fini della sua partecipazione – non diversamente da quanto vale per gli altri attori economici – al mercato interno; ciò che spiega perché una nozione propriamente euro-unitaria di lavoratore subordinato è elaborata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia essenzialmente ai fini dell’applicazione dell’art. 45 del TFUE, ovvero ai fini della libera circolazione della «forza-lavoro» nel mercato interno.
Si tratta di una connotazione distintiva e – in qualche modo – di una peculiarità genetica del diritto del lavoro dell’Unione europea. Giacché in una nozione pensata per garantire e promuovere l’accesso del lavoratore al mercato comune del lavoro (come tale virtualmente inclusiva di chiunque aspiri a trovare in esso collocazione, oltre di chi già vi operi), manca, come ebbe famosamente a scrivere Federico Mancini, quella «critica di un rapporto diseguale», che viceversa connota – in tutti gli ordinamenti nazionali – l’essenza stessa di una definizione di subordinazione che è pensata per immettere nel contratto di lavoro uno statuto protettivo capace di correggere quella costitutiva asimmetria di potere fra le sue parti (Mancini, G.F., Principi fondamentali di diritto del lavoro nell’ordinamento delle Comunità europee, ne Il lavoro nel diritto comunitario e nell’ordinamento italiano, Atti del convegno di Parma, 30-31 ottobre 1985, Padova, 1988, 23 ss., qui 33). Pertanto, se negli ordinamenti nazionali la nozione di subordinazione si configura come «la porta che dà accesso all’area del lavoro normativamente protetto» (D’Antona, M., La subordinazione e oltre. Una teoria giuridica per il lavoro che cambia, in Pedrazzoli, M., Lavoro subordinato e dintorni. Comparazioni e prospettive, Bologna, 1989, 43 ss., qui 44), individuando così il fondamento stesso dell’autonomia del diritto del lavoro, nell’ordinamento euro-unitario essa è chiamata in primo luogo a spianare la strada, nella logica dell’art. 45 TFUE, alla libera circolazione/competizione dei lavoratori europei nel mercato comune, mirando alla garanzia dell’eguaglianza tra gli stessi nel mercato e non alla correzione delle disparità di potere nascenti dal contratto di lavoro.
Peraltro, come accennato, l’ordinamento dell’Unione – caratterizzandosi per un approccio definitorio di tipo casistico – non contiene una definizione unitaria di lavoratore subordinato. Per contro, tale nozione varia a seconda del settore di applicazione considerato e, segnatamente, del tipo di fonte o campo normativo, il che spiega – come vedremo più avanti – anche la variabilità degli statuti protettivi imputati al lavoratore a seconda dei differenti contesti in rilievo. In dottrina, nel tentativo di razionalizzare e ricondurre a sistema questa variabile geometria di riferimenti applicativi, si è proposto di distinguere essenzialmente fra due nozioni: una prima (la sola propriamente euro-unitaria), rilevante ai fini della libera circolazione dei lavoratori e perciò «strumentale alla creazione di uno strato minimo di diritto uniforme negli Stati membri»; una seconda, lasciata invece alla «sussidiarietà», e cioè ai legislatori nazionali, in quanto «funzionale all’applicazione di alcuni statuti garantistici del diritto comunitario del lavoro», quali definiti negli ordinamenti degli Stati membri in sede di trasposizione delle direttive di armonizzazione dell’Unione (Tosi, P.-Lunardon, F., Introduzione al diritto del lavoro. 2. L’ordinamento europeo, Roma-Bari, 2005, 93-94).
Si tratta di un’impostazione sostanzialmente condivisibile, che richiede – come abbiamo argomentato più diffusamente altrove – solo un modesto aggiustamento analitico. Occorre in particolare introdurre due precisazioni, che ci paiono utili ai fini di una più puntuale articolazione della distinzione proposta. Da un lato, l’ampia nozione stricto sensu euro-unitaria di subordinazione – elaborata dalla Corte di giustizia ex art. 45 TFUE con intendimenti di uniformazione delle condizioni applicative della libertà di circolazione dei lavoratori nel mercato interno – tende a proiettare la sua influenza anche in campi diversi da quello d’origine, ed in particolare nelle due sfere elettive dell’armonizzazione che Massimo D’Antona ha definito «coesiva», costituite dalla normativa in materia di parità di trattamento e pari opportunità tra uomini e donne (e poi dai nuovi principi antidiscriminatori) e dalla disciplina della tutela della salute e della sicurezza negli ambienti di lavoro. Dall’altro lato, la nozione di lavoratore migrante valevole ai fini dell’applicazione del coordinamento dei regimi nazionali di sicurezza sociale – che in origine si presentava effettivamente indistinta rispetto a quella ricavabile dall’art. 45 TFUE – ha ben presto cominciato ad assumere spiccati tratti di autonomia, tanto che si può parlare di una progressiva – ed ormai interamente consumata – divaricazione tra le due nozioni (rispettivamente lavoristica e previdenziale) di lavoratore subordinato. Quella che vale ai fini dell’art. 48 del TFUE e del reg. CE n. 883/2004 è, del resto, una nozione solo parzialmente e imperfettamente euro-unitaria, giacché spetta ai legislatori nazionali fissare i confini – anche soggettivi – dei rispettivi sistemi di sicurezza sociale.
Alla luce di tali precisazioni, è parso già in altra sede opportuno distinguere tra tre diverse nozioni di lavoratore subordinato rilevanti nell’ordinamento dell’Unione: la prima (la sola stricto sensu euro-unitaria), funzionale all’applicazione uniforme delle garanzie in materia di libera circolazione ex art. 45 TFUE, ma tendenzialmente proiettantesi anche al di fuori del suo terreno d’origine; la seconda, a quella storicamente connessa (ma oramai dalla stessa sostanzialmente autonoma), rilevante ai fini del coordinamento dei regimi legali nazionali di sicurezza sociale; la terza, la cui individuazione è in realtà esplicitamente demandata ai diritti nazionali, seppure con una serie di limiti posti dallo stesso legislatore sovranazionale, pensata per ritagliare l’ambito applicativo di una parte significativa delle direttive in materia di lavoro, in particolare di quelle che si pongono obiettivi di armonizzazione «funzionalista» (cfr. S. Giubboni, Subordinazione e diritto del lavoro europeo, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2007, III, 1433 ss.). Rispetto a tale ultima nozione «sussidiaria» di lavoratore subordinato, lasciata alla competenza del legislatore nazionale in una logica di armonizzazione solo parziale, il diritto euro-unitario tende, peraltro, a circoscrivere in modo talvolta significativo l’ampiezza della libertà implicata dal rinvio agli ordinamenti degli Stati membri, ponendo limiti esterni, che sebbene non riescano a riportare la definizione sotto il pieno controllo dell’ordinamento sovranazionale, circoscrivono tuttavia i margini di discrezionalità lasciati allo Stato membro in sede di trasposizione delle direttive. Inoltre, anche nel campo della armonizzazione funzionalista, la Corte di giustizia tende talvolta a richiamare la nozione euro-unitaria di subordinazione, che così conferma, ed anzi rafforza, la sua tendenza espansiva.
Ci troviamo perciò di fronte a definizioni funzionalmente diversificate, in quanto intese a perseguire obiettivi regolativi diversi (e conseguentemente a definire segmenti diversi dello status protettivo del lavoratore subordinato nell’Unione europea), che possono essere descritti in termini – rispettivamente – di uniformazione, coordinamento ed armonizzazione parziale delle discipline di volta in volta in rilievo.
Secondo una giurisprudenza costante, definitivamente consolidatasi nel corso degli anni ottanta dello scorso secolo, ai fini della determinazione della sfera di applicazione dell’art. 45 TFUE, «la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca prestazioni di indiscusso valore economico ad un’altra persona e sotto la direzione della stessa, ricevendo come contropartita una retribuzione. Il campo in cui le prestazioni sono fornite e la natura del rapporto giuridico fra lavoratore e datore di lavoro sono irrilevanti ai fini dell’art. 48 [poi 39 TCE e infine 45 TFUE] del trattato» (C. giust., 3.7.1986, C-66/85, Lawrie-Blum).
L’ampia definizione funzionale dei criteri oggettivi nei quali si articola la nozione di subordinazione è garanzia della più estesa ed uniforme applicazione dell’art. 45 TFUE. La necessità che la nozione sia inderogabilmente fissata a livello europeo – fatto comunque salvo il necessario accertamento del giudice nazionale in ordine alla ricorrenza in concreto dei requisiti di riconduzione tipologica alla fattispecie – è affermata sin dalla prima giurisprudenza in materia. È già nel celebre caso Unger che la Corte afferma che il termine «lavoratore», di cui agli ex artt. 48-51 del Trattato CEE, come anche l’espressione «lavoratore subordinato o assimilato», originariamente usata dal reg. CEE n. 3/1958 per definire il raggio applicativo del coordinamento dei regimi di sicurezza sociale, «ha un significato comunitario» (c. giust., 19.3.1964, C-75/63, Unger in Hoekstra c. Bedrijfsvereniging voor Detailhandel en Ambachten): «l’instaurazione della libertà di circolazione dei lavoratori la più ampia possibile», rientra, infatti, tra i «fondamenti della Comunità», e la necessaria uniformità applicativa di tali principi sarebbe messa in pericolo ove la determinazione della portata delle norme sulle quali essi poggiano fosse lasciata ai legislatori nazionali. Se il loro significato dovesse ricavarsi dal diritto interno, «ciascuno Stato potrebbe modificare la portata della nozione di “lavoratore migrante” ed escludere a suo piacimento determinate categorie di persone dalle garanzie offerte dal Trattato».
Nella sua giurisprudenza (v. ad es. i procedimenti C. giust., 31.5.1989, C-344/87, Bettray; C. giust., 14.12.1989, C-3/87, Regina; C. giust., 8.6.1999, C-337/97, Meeusen; C. giust., 23.3.2004, C-138/02, Collins), la Corte si richiama costantemente a tre criteri oggettivi (rilevanti, quindi, sul piano dell’effettivo svolgimento del rapporto e a prescindere dalla qualificazione allo stesso eventualmente attribuita dalle parti), ai fini della individuazione della sfera applicativa dell’art. 45 TFUE. Si tratta: a) del carattere «reale ed effettivo» della prestazione (personalmente) resa; b) della soggezione al potere di direzione del destinatario della stessa (in cui si esprime il vincolo di subordinazione in senso stretto); c) della natura onerosa della prestazione (e quindi del pagamento, in qualsiasi forma, di una retribuzione come corrispettivo di essa). Di tali criteri, a ben vedere solo il secondo serve a identificare e a qualificare il rapporto come di natura subordinata, per distinguerlo propriamente dalle prestazioni rese in regime di autonomia, mentre il primo ed il terzo – sia pure in relazione a profili distinti – valgono essenzialmente a individuare l’effettiva natura economica della prestazione resa dal lavoratore.
Non è del resto un caso che la Corte di giustizia abbia dimostrato una certa riluttanza a definire in che cosa precisamente consista prestare la propria attività lavorativa «sotto la direzione» di un altro soggetto. Dalla casistica emerge un concetto assai ampio ed elastico, «debole» come talvolta si è detto, o forse meglio evolutivo di etero-direzione. E se è probabilmente inesatto imputare alla Corte un sostanziale allontanamento dal criterio della subordinazione giuridica verso un’idea di qualificazione fondata sulla dipendenza economica del prestatore (come fa P. Ichino, Il contratto di lavoro, I, in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni, Milano, 2000, 52 ss.), non sembra invece improprio sostenere che quello impiegato nella giurisprudenza europea – per usare una terminologia corrente nell’ordinamento italiano, ora codificata dall’art. 2 del d.lgs. 15.6.2015, n. 81 per ridefinire in senso estensivo i confini applicativi della disciplina del lavoro subordinato – sia, sovente, un criterio di «etero-organizzazione», piuttosto che di «etero-direzione» in senso stretto.
Non deve sorprendere che, nell’economia dell’art. 45 TFUE, definendo la nozione di lavoratore subordinato, la Corte finisca per attribuire il peso specifico maggiore – più che al vincolo di subordinazione (in senso largo o evolutivo) – ai criteri del carattere oneroso del rapporto (anche qui alla stregua d’un concetto molto elastico di retribuzione) e, soprattutto, della reale ed effettiva natura economica delle prestazioni svolte dal soggetto. È principalmente in forza dell’interpretazione estensiva di questi criteri, prima ancora che dell’ampia nozione di subordinazione, che la Corte di giustizia ha infatti potuto ricomprendere senza fatica la congerie di lavori flessibili, atipici, non-standard, progressivamente fioriti negli ordinamenti nazionali a partire dalla fine degli anni settanta del Novecento sino a divenire la forma prevalente di accesso all’impiego in molti paesi europei nel corso dell’ultimo decennio. La Corte, pur a fronte delle crescenti incertezze qualificatorie registratesi negli ordinamenti nazionali, non ha faticato ad includere nel raggio applicativo dell’art. 45 TFUE i lavoratori a tempo parziale, a chiamata, occasionali e intermittenti, temporanei o stagionali, impegnati in attività formative o di stage (v. ad esempio le sentenze: C. giust., 23.3.1982, C-53/81, Levin; C. giust., 3.6.1986, C-139/85, Kempf; C. giust., 26.2.1992, C-357/89, Raulin; C. giust., 21.6.1988, C-197/86, Brown).
Le difficoltà principali si sono registrate non tanto in ordine al fatto che le attività di lavoro in questione fossero di natura subordinata (questione per lo più, ma non sempre, risolta in senso affermativo), quanto piuttosto in ordine alla circostanza – di difficile accertamento in concreto (e per questo rimessa alla valutazione del giudice nazionale) – se tali attività potessero avere un reale ed effettivo contenuto economico o non dovessero invece considerarsi così marginali da scolorare nella inattività (ovvero, in pratica, nella inoccupazione). Il focus della giurisprudenza è perciò concentrato non sulla linea di confine tra lavoratore subordinato e autonomo, ma su quella che separa le attività di natura economica da prestazioni che – essendo talmente ridotte da potersi definire puramente marginali ed accessorie – sono irrilevanti (o meglio non sono utili) ai fini dell’accesso al mercato comune del lavoro. Questa è la ragione per la quale la Corte di giustizia, una volta verificata l’esistenza di un’attività economica che sia reale ed effettiva, può – sia pure entro certi limiti – disinteressarsi della qualificazione della stessa in termini di autonomia o subordinazione, potendo appunto affermare che «non è così importante accertare nei particolari lo status del lavoratore» (C. giust., 20.11.2001, C-268/99, Jany).
Centrata sullo status di assicurato sociale, e ormai svincolata dal contratto o dal rapporto di lavoro, risulta invece la nozione di lavoratore subordinato valevole ai fini dell’accesso al sistema di coordinamento dei regimi nazionali di sicurezza sociale ex art. 48 TFUE. La nozione previdenziale di lavoratore subordinato – rilevante ai fini della disciplina europea di coordinamento (ora del reg. CE n. 883/2004) – si è, in effetti, affrancata da quella lavoristica, con la quale si è sovrapposta solo in una prima fase, per divaricarsene piuttosto precocemente, sospinta da esigenze e funzioni diverse, per quanto complementari, rispetto quelle proprie dell’art. 45 TFUE.
La divaricazione tra le due nozioni è avvenuta con il passaggio – che era stato pressoché compiutamente delineato già con la citata sentenza Unger – dal concetto di «lavoratore» a quello di «assicurato sociale». È invero già in Unger che si chiarisce che la nozione di «lavoratore migrante» (ai sensi del reg. CEE n. 3/1958) «comprende tutti coloro i quali, in quanto tali e senza riguardo al modo in cui vengono denominati, sono tutelati dai vari sistemi nazionali di previdenza sociale». Già in quella sentenza, quindi, «il lavoratore dipendente è caratterizzato dalla Corte di giustizia non in ragione del contratto, ma della professione; non per la sola attività subordinata, ma per la copertura sociale» (Lyon-Caen, G., Le droit du travail non salarié, Parigi, 1990, 80). E quando ha per la prima volta organicamente riformato la disciplina del coordinamento – sostituendo al regolamento del 1958 (sul quale si era pronunciata Unger) il reg. CEE n. 1408/71 – il legislatore comunitario ha preso fondamentalmente atto di tale acquis giurisprudenziale, codificandolo nel testo dell’art. 1 di quel regolamento, a norma del quale, con il termine «lavoratore subordinato» si designava «qualsiasi persona coperta da assicurazione obbligatoria o facoltativa continuata contro uno o più eventi corrispondenti ai settori di un regime di sicurezza sociale applicabile ai lavoratori subordinati». Questa linea evolutiva è infine transitata nel reg. CE n. 883/2004, che l’ha peraltro assorbita in una logica di tendenziale universalizzazione del campo di applicazione ratione personae del sistema di coordinamento dei regimi di sicurezza sociale.
Tale «traslazione dalla nozione di lavoratore a quella di persona coperta da assicurazione» (Andreoni, A., Sicurezza sociale. Sistemi nazionali e armonizzazione, in Baylos Grau, A.-Caruso, B.- D’Antona, M.- Sciarra, S., Dizionario di diritto del lavoro comunitario, Bologna, 1996, 527 ss., qui 533) ha determinato una progressiva divaricazione delle nozioni – rispettivamente lavoristica e previdenziale – in due principali direzioni, entrambe coerenti con le funzioni della normativa di coordinamento dei sistemi nazionali di sicurezza sociale. Da un lato, essa ha condotto ad una parziale ri-nazionalizzazione della nozione previdenziale di lavoratore subordinato, che è conformata dal diritto dell’Unione in modo assai più circoscritto e limitato di quanto valga per la nozione ex art. 45 TFUE. Dall’altro lato, tale divaricazione delle due nozioni, nell’affrancare quella previdenziale dal riferimento al contratto o al rapporto di lavoro, ha dato a quest’ultima una decisiva spinta alla progressiva generalizzazione dei confini soggettivi del sistema di coordinamento dei regimi di sicurezza sociale.
La logica di sviluppo del sistema ha seguito un percorso non sempre lineare, ma il senso complessivo è quello di un processo di adeguamento dei confini soggettivi della normativa di coordinamento nel quale il legislatore europeo ha recepito, con maggiori o minori resistenze, le indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia. Le tappe principali di questo processo estensivo sono consistite nella immissione nel sistema dei dipendenti pubblici iscritti a regimi speciali di previdenza (C. giust., 22.11.1995, C-443/93, Vougioukas, cui ha fatto seguito il reg. CE n. 1606/1998), nella inclusione degli studenti (reg. CE n. 307/1999) e più tardi nell’allargamento della sfera applicativa ai cittadini di paesi terzi e ai loro familiari (reg. n. 859/2003 e reg. n. 1231/2010). Tutti allargamenti che – sia pure per ragioni diverse – dimostrano la pressoché completa autonomia guadagnata dalla disciplina euro-unitaria di sicurezza sociale rispetto alle disposizioni più strettamente riguardanti la libera circolazione dei lavoratori ai sensi dell’art. 45 TFUE. L’ultimo atto di tale processo estensivo – ormai completamente sganciato da qualsivoglia riferimento alla condizione professionale della persona – si è avuto con il reg. CE n. 883/2004, il cui art. 2 estende la disciplina di coordinamento della sicurezza sociale «ai cittadini di uno Stato membro, agli apolidi e ai rifugiati residenti in uno Stato membro che sono o sono stati soggetti alla legislazione di uno o più Stati membri, nonché ai loro familiari e superstiti».
La universalizzazione (almeno apparente) dell’ambito soggettivo della normativa euro-unitaria di coordinamento dei regimi di sicurezza sociale – che supera definitivamente la condizione di lavoratore (subordinato o autonomo) per radicarsi nel rapporto di cittadinanza (sociale) – viene peraltro controbilanciata dai limiti che ancora circoscrivono l’ambito applicativo ratione materiae del reg. CE n. 883/2004. Né va trascurato che, essendo contenuti e requisiti di accesso alla protezione sociale rimessi alla determinazione delle legislazioni nazionali, quanto più restrittive sono le condizioni cui l’ordinamento previdenziale nazionale subordina l’acquisizione dello status di persona assicurata, tanto minore sarà il raggio applicativo soggettivo del sistema europeo di coordinamento. È questa la inevitabile conseguenza di un sistema di mero coordinamento – e non di armonizzazione – dei regimi nazionali, che rimette alla definizione dei singoli ordinamenti degli Stati membri la determinazione dei requisiti di accesso alla protezione sociale. L’impatto maggiore di tale limite strutturale della normativa europea di coordinamento ricade, come è intuibile, sulle numerose forme di lavoro atipico o non-standard, debolmente tutelate anche sotto il profilo previdenziale in molti ordinamenti nazionali.
Si è detto che la nozione di lavoratore subordinato elaborata nell’ambito della libertà di circolazione ex art. 45 TFUE proietta la sua sfera di influenza anche verso altre aree, in particolare nelle due zone elettive dell’armonizzazione che D’Antona ha definito «coesiva», nelle quali può essere individuato il nucleo duro di un «principio comunitario di tutela del lavoro, in grado di collocarsi di fronte alle tradizionali libertà economiche» (Carabelli, U.-Leccese, V., Libertà di concorrenza e protezione sociale a confronto. Le clausole di favor e di non regresso nelle direttive sociali, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT –64/2005, 10). La giurisprudenza della Corte ha invero già fatto uso di tale ampia nozione di lavoratore subordinato in materia di parità di trattamento e pari opportunità tra uomini e donne, in relazione tanto all’art. 157 TFUE quanto alla disciplina secondaria. Considerazioni analoghe valgono per la vasta normativa in tema di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
La Corte di giustizia ha da tempo affermato che i criteri interpretativi elaborati con riguardo all’art. 45 TFUE servono a definire anche la nozione di lavoratore ai fini del principio della parità di trattamento, in particolare tra lavoratori e lavoratrici. Assai nette in questo senso sono, ad esempio, le conclusioni rassegante dall’Avvocato generale Kokott nella causa Wippel (C. giust., 12.10.2014, C-313/02), secondo cui, a questi fini, per lavoratore deve intendersi «ogni persona che esegue a favore di un’altra e sotto la direzione di questa prestazioni in contropartita delle quali percepisce una remunerazione, ad esclusione del caso in cui tali prestazioni non costituiscano un’attività reale ed effettiva ovvero siano talmente ridotte da potersi definire puramente marginali ed accessorie». La Corte di giustizia ha ancora di recente confermato la portata euro-unitaria della nozione di lavoratore di cui all’art. 157 TFUE nella causa Allomby, (C. giust., 13.1.2004, C-256/01),ove ha chiarito che «la qualificazione formale di lavoratore autonomo ai sensi del diritto nazionale non esclude che una persona debba essere qualificata come lavoratore ai sensi del citato articolo se la sua indipendenza è solamente fittizia».
Tale orientamento – improntato alla «volontà di evitare che le regole comunitarie possano essere eluse dai legislatori nazionali attraverso la manipolazione della nozione di subordinazione» – conferma più in generale «la tendenza della Corte a disegnare, nel campo delle discriminazioni di sesso e di cittadinanza, un modello di tutela antidiscriminatoria sostanzialmente unitario» (Roccella, M., La Corte di giustizia e il diritto del lavoro, Torino, 1997, 134). Esiste invero una sostanziale identità di ratio tra gli artt. 45 e 157 TFUE, che giustifica il ricorso alla stessa ampia definizione euro-unitaria e funzionale di lavoratore. Entrambe le norme sono infatti espressive, in due aree di prioritaria rilevanza (la cittadinanza e il genere), di un principio fondamentale del diritto dell’Unione, anzi di un vero e proprio meta-principio dell’ordinamento sovranazionale, qual è quello di parità di trattamento e non discriminazione, ora consacrato dagli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Il diritto antidiscriminatorio – di vecchia e nuova generazione – si è rivelato il terreno elettivo dello sviluppo di una tutela universalistica del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, per riecheggiare la formula che si legge nell’art. 35 della Costituzione italiana. Esso è infatti stato caratterizzato non solo dall’utilizzo di nozioni assai ampie e rigorosamente euro-unitarie di subordinazione, ma anche dalla tendenza a trascendere i confini del lavoro subordinato, per abbracciare un concetto virtualmente onnicomprensivo di lavoro o forse meglio di attività economica, nel quale la distinzione tra lavoro subordinato ed autonomo resta, in prospettiva, totalmente assorbita.
Se il diritto antidiscriminatorio, specialmente di nuova generazione, tende a superare i confini del lavoro dipendente, per «disegnare una rilevante sfera di protezione attorno all’individuo in quanto tale» (Chieco, P., Lavoratore comparabile e modello sociale nella legislazione sulla flessibilità del contratto e dell’impresa, in Id., a cura di, Eguaglianza e libertà nel diritto del lavoro. Scritti in memoria di Luciano Ventura, Bari, 2002, 47 ss., qui 58), la normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza dell’ambiente di lavoro vede ancora nel lavoratore subordinato il principale referente soggettivo della protezione garantita dall’ordinamento sovranazionale. E tuttavia, anche in quest’ambito (nel quale pure si applica l’ampia nozione euro-unitaria di lavoratore subordinato elaborata ai sensi dell’art. 45 TFUE), si registrano consistenti conati verso l’estensione della tutela oltre i confini della subordinazione. L’uso di una nozione euro-unitaria di lavoratore subordinato si giustifica, anche in questo caso, alla stregua delle più rilevanti previsioni della vasta legislazione sovranazionale, in ragione dell’esigenza di scongiurare applicazioni disomogenee, all’interno degli Stati membri, di principi di tutela che costituiscono parte centrale dell’ordre public social europeo.
Le stesse osservazioni devono essere ripetute per la disciplina in tema di orario di lavoro, visto che la dir. 93/104/CE (ora la dir. 2003/88/CE), che pure contiene una disciplina alquanto articolata (anche) sul piano dell’applicazione soggettiva, si richiama, in linea di principio, alla medesima tecnica definitoria della dir. 89/391/CEE. La giurisprudenza della Corte di giustizia ha chiarito come la definizione di lavoratore che emerge dall’art. 45 TFUE debba essere utilizzata anche ai fini dell’applicazione della direttiva sull’orario di lavoro. In relazione a tale direttiva, infatti, sin dalla sentenza Union Syndicale Solidaires Isère (C. giust., 14.10.2010, C-428/09), la Corte ha affermato che «la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione».
Analogamente, nel contesto della direttiva sulla maternità, la Corte ha definito il concetto di lavoratrice sulla base dei criteri oggettivi che caratterizzano il rapporto, individuandone la caratteristica essenziale nelle circostanza che «una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceve una retribuzione» (così nella C. giust., 20.9.2007, C-116/06, Kiiski, al punto 25). Sulla stessa linea, e più in generale, la Corte ha recentemente ribadito che «la nozione di “lavoratore” ai sensi del diritto dell’Unione, dev’essere essa stessa definita in base a criteri oggettivi che caratterizzano il rapporto di lavoro sotto il profilo dei diritti e degli obblighi degli interessati», sicché «la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è a circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione» (C. giust., 4.12.2014, C-413/13, FNV Kunsten Informatie en Media, punti 34-36; C. giust., 21.2.2013, C-46/12, L.N. c. Styrelsen for Videregående Uddannelser og Uddannelsesstøtte; C. giust., 10.9.2014, C-270/13, Iraklis Haralambidis).
Anche l’intervento normativo dell’Unione europea in tema di tutela della salute e della sicurezza tende, peraltro, a superare i confini del lavoro subordinato. Basti pensare alla rac. 2003/134/CE, relativa al miglioramento della protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori autonomi. Nel medesimo solco si situa la dir. 2002/15/CE, relativa alla organizzazione dell’orario di lavoro delle persone che effettuano operazioni mobili di autotrasporto, la quale regola espressamente anche l’orario di lavoro degli autotrasportatori autonomi, quali definiti ai sensi dell’art. 3, lett. e). Anche in tal caso, come per la disciplina antidiscriminatoria, la tendenza a varcare i confini del lavoro subordinato si giustifica in considerazione della natura dei beni protetti, essendosi pure qui di fronte a diritti fondamentali della persona del lavoratore riconosciuti con particolare ampiezza dalla stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Il panorama offerto dalle misure di armonizzazione parziale adottate in campi diversi da quelli sin qui esaminati offre, per contro, indicazioni significativamente diverse. Al di fuori degli ambiti normativi passati in rassegna, risulta infatti prevalente l’uso di quella nozione «sussidiaria» di subordinazione, determinata per rinvio al diritto nazionale del lavoro, di cui si è già avuto modo di segnalare i forti limiti.
Il prototipo di tale situazione è costituito dalla dir. 77/187/CEE (poi sostituita dalla dir. 2001/23/CE), concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, stabilimenti o loro parti. In mancanza di indicazioni espresse da parte (del testo originario) della direttiva, la Corte di giustizia ha chiarito che essa «tutela solo coloro che sono, in un modo o nell’altro, protetti in quanto lavoratori dalle norme dello Stato membro di cui trattasi» (C. giust., 11.7.1985, C-105/84, Foreningen af Arbejdsledere i Danmark). La nozione ha così una valenza del tutto sussidiaria, limitandosi a comprendere chiunque risulti tutelato, in quanto lavoratore, dall’ordinamento interno dello Stato membro interessato.
Le ragioni di un rinvio all’apparenza incondizionato al diritto nazionale devono essere ricercate nella tradizionale interpretazione secondo cui la direttiva sul trasferimento d’azienda mira solo ad un’armonizzazione parziale, estendendo essenzialmente la tutela garantita ai lavoratori in modo autonomo dal diritto dei vari Stati membri anche all’ipotesi del trasferimento dell’impresa. Lo scopo della direttiva – in questa tradizionale ottica interpretativa – è quindi quello di garantire, nei limiti del possibile, la continuazione del contratto o del rapporto di lavoro senza modifiche, con il cessionario, onde impedire che i lavoratori coinvolti nel trasferimento dell’impresa vengano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento. Essa non mira, tuttavia, ad instaurare un livello di tutela uniforme nell’intera Unione europea secondo criteri comuni.
Per quanto insoddisfacente, la medesima ratio – di armonizzazione solo parziale e prevalentemente procedurale – si riviene anche nella dir. 80/987/CEE (poi dir. 2002/74/CE e ora dir. 2008/94/CE), concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro. Per espressa previsione del suo art. 2, par. 2, la direttiva non pregiudica, infatti, il diritto nazionale per quanto riguarda «la definizione dei termini “lavoratore subordinato”, “datore di lavoro”, “retribuzione”, “diritto maturato” e “diritto in corso di maturazione”». E sempre a proposito della dir. 2008/94/CE in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, la Corte ha affermato che «gli Stati membri non possono (…) definire, a loro discrezione, il termine “lavoratore subordinato” in modo tale da compromettere il fine sociale di detta direttiva» (C. giust., 5.11.2014, C-311/13, O. Tümer).
Seppure in termini più problematici lo stesso discorso sembra dover essere ripetuto anche per la terza (in realtà, la prima in ordine di tempo) delle «grandi direttive» sulla crisi di impresa, ovvero per la dir. 75/129/CEE (quale poi sostituita dalla dir. 98/59/CE), relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi. Neppure questa direttiva contiene, invero, una definizione euro-unitaria di lavoratore subordinato, limitandosi piuttosto ad escludere dal suo campo d’applicazione talune categorie (o settori) di rapporti di lavoro. Tuttavia, in questo campo – stante la rilevanza degli interessi (collettivi) protetti dalla direttiva – va segnalata quella tendenza, cui si è già fatto cenno, ad un uso espansivo della nozione euro-unitaria di lavoratore subordinato (si rinvia a Maretti, S., L’incorporazione del diritto comunitario del lavoro. Le nozioni di datore di lavoro, lavoratore e rappresentanze dei lavoratori, Torino, 2003, 201 ss.).
Il rischio più forte del rinvio al diritto nazionale risiede all’evidenza nella possibilità che gli Stati membri ritaglino ad usum la nozione di lavoratore subordinato, per escludere più o meno ampie categorie di prestatori dalle garanzie apprestate dalle direttive. Il rischio di un’applicazione fortemente differenziata all’interno dei diversi Stati membri è stato segnalato soprattutto per le categorie di lavoratori atipici o non-standard, più facilmente oggetto di esclusioni, soprattutto alla luce dell’esperienza di alcuni Stati membri.
La stessa Corte di giustizia si è invero dimostrata almeno in parte consapevole della rilevanza del problema, e nei limiti consentiti dal dato normativo ha dimostrato una decisa propensione a restringere la discrezionalità concessa agli Stati membri. La Corte ha così interpretato in termini restrittivi la portata delle deroghe ammesse dalle direttive sull’insolvenza del datore di lavoro e sul licenziamento collettivo, che, sia pure con diverse formulazioni, autorizzano gli Stati membri ad escludere determinate categorie di lavoratori in sede di trasposizione (ne sono un esempio la sentenza, C. giust., 16.12.1993, C-334/92, Wagner Miret, e quelle rese nelle procedure di infrazione avviate dalla Commissione contro l’Italia, C. giust., 16.10.2003, C-32/02 e C. giust., 13.2.2014, C-596/12).
Del problema si è tuttavia fatto carico lo stesso legislatore sovranazionale, che, in sede di revisione delle direttive sulla crisi di impresa, ha introdotto importanti correttivi, soprattutto a garanzia dei rapporti di lavoro subordinato non-standard, per tal via stabilendo dei precisi limiti esterni al potere definitorio pur in linea di principio rimesso agli Stati membri. Tali correttivi, comuni alla revisione delle direttive sulla tutela del lavoratore in caso di trasferimento d’azienda e di insolvenza del datore di lavoro, sono appunto nel senso di ricomprendere espressamente nel campo di applicazione della normativa euro-unitaria i prestatori di lavoro part-time, a tempo determinato ed interinali, con corrispondente limitazione del potere dei legislatori nazionali (v. rispettivamente, l’art. 2, par. 2, dir. 98/50/CE, ed ora della dir. 2001/03/CE, e l’art. 2, par. 2, della dir. 2002/74/CE). Le nuove direttive non hanno quindi superato la tecnica del rinvio alla legislazione nazionale; esse hanno tuttavia espressamente limitato il potere di quest’ultima.
Anche nel caso delle direttive sul lavoro cosiddetto non-standard la definizione di lavoratore subordinato è di tipo sussidiario, cioè sostanzialmente rimessa al legislatore nazionale. La dir. 97/81/CE «si applica ai lavoratori a tempo parziale che hanno un contratto o un rapporto di lavoro definito per legge, contratto collettivo o in base alle prassi in vigore in ogni Stato membro» (clausola 2 dell’accordo quadro allegato alla direttiva). La dir. 1999/70/CE, alla clausola 2, impiega una formula del tutto corrispondente per delimitare l’ambito d’applicazione della disciplina sul contratto di lavoro a tempo determinato. Ed anche nella dir. 2008/104/CE, relativa al lavoro tramite agenzia interinale, per «lavoratore» si intende «qualsiasi persona che, nello Stato membro interessato, è protetta in qualità di lavoratore nel diritto nazionale del lavoro» (art. 3).
Nel già evocato caso Wippel, in cui si chiedeva tra l’altro se la fattispecie del lavoro «secondo il fabbisogno» regolata dalla legge austriaca rientrasse o no nel campo di applicazione (anche) della dir. 97/81/CE, l’Avvocato generale Kokott ha concluso nel senso che la nozione di lavoro part-time non ha natura comunitaria, dovendo essere definita in relazione al diritto nazionale di volta in volta applicabile. La Corte ha affermato che una fattispecie di lavoro come quella in esame rientra sicuramente nel campo di applicazione della dir. 76/207/CE, rientrando in quello della direttiva sul part-time solo a precise condizioni, rimesse all’accertamento del giudice nazionale (e tra queste, in primis, alla condizione che il prestatore abbia «un contratto o un rapporto definiti dalla legge, dagli accordi collettivi o dalle prassi in vigore nello Stato membro»).
Nel caso delle direttive sul lavoro atipico potrebbe dirsi che il correttivo alla discrezionalità del legislatore nazionale venga implementato con una tecnica diversa, anche se di efficacia discutibile, qual è quella costruita sulla nozione di «lavoratore comparabile» (a tempo pieno o indeterminato o direttamente assunto dall’utilizzatore della prestazione lavorativa). Tale nozione serve infatti a determinare la portata del principio di non discriminazione stabilito in favore dei lavoratori a tempo parziale, determinato o interinale, circoscrivendo, allo stesso tempo, almeno indirettamente, la discrezionalità lasciata agli Stati membri nella fissazione della relativa nozione.
L’analisi sin qui condotta sul filo dell’articolazione interna delle diverse nozioni di subordinazione emergenti dal diritto dell’Unione europea dischiude un quadro complesso, che si riflette nella stessa definizione dello status di lavoratore subordinato nell’ordinamento euro-unitario. Non esiste, a ben vedere, uno status unitariamente definibile, e lo stesso statuto protettivo del lavoratore subordinato si declina in direzioni diverse a seconda della diversa proiezione funzionale della regolazione sovranazionale.
Ciò dà conferma della correttezza di quanto messo di recente in evidenza da acuti osservatori su di un piano più generale, ovvero che la tendenziale frammentazione dello status della persona nel diritto dell’Unione dipende essenzialmente dal fatto che tale ordinamento rifugge da una visione costituzionale unitaria del soggetto e piuttosto scompone identità e ruoli degli individui definendoli in funzione della grande varietà delle attività economiche da esso regolate: «EU law places the (many) Union’s activities at the hearth of the construction of the individual» (Azoulai L.-Barbou des Places, S.-Pataut, E., Being a Person in the European Union, in Idd. (eds.), Constructing the Person in EU Law. Rights, Roles, Identities, Oxford, 2016, 3 ss., qui 6). Il che a sua volta spiega perché il lavoratore subordinato sia essenzialmente riguardato, nell’ottica della libertà di circolazione garantita dell’art. 45 del TFUE, come un partecipante alla costruzione dell’ordine del mercato interno.
In effetti, gli elementi più significativi dello statuto protettivo del lavoratore subordinato sono costruiti dal diritto dell’Unione europea sulla figura del migrante o meglio ancora del prestatore mobile di lavoro, che si sposta, anche solo temporaneamente, all’interno del mercato unico. L’accento cade, quindi, nella stessa configurazione dei diritti sociali di prestazione, sugli entitlements funzionali alla piena partecipazione del lavoratore al mercato, senza ostacoli o restrizioni di natura anche indirettamente discriminatoria. Come è stato ben sottolineato, «In supranational law workers’ rights are not about redistribution and social justice but about transnational mobility. They are not meant to protect the individual from the risks of markets, but they offer to individuals opportunities to express themselves through markets» (Dani, M., The Subjectification of the Citizen in European Public Law, in Azoulai, L. et al., op. cit., 63).
Una parziale ricomposizione dello statuto protettivo del lavoratore subordinato lungo le linee tradizionalmente tracciate dai sistemi nazionali di diritto del lavoro è stata sì perseguita, come rammentato, anche dall’ordinamento dell’Unione – in particolare con le politiche sociali di armonizzazione attuate fra la seconda metà degli anni settanta e la fine degli anni novanta –, ma ciò è avvenuto in modo estremamente selettivo e settoriale, oltre che disorganico. Onde è impossibile individuare – nella trama dell’ordinamento dell’Unione europea – uno status organico e unitario di lavoratore subordinato, che risulti effettivamente comparabile, non solo per estensione, con quelli definiti negli ordinamenti nazionali. E non è un caso che a mancare pressoché completamente (art. 153, par. 5, TFUE), nei frammenti di status definiti dal diritto dell’Unione europea, sia proprio la dimensione collettiva e redistributiva (di potere e risorse economiche), che, per quanto ridimensionata, resta viceversa ancora centrale nell’impianto dello statuto protettivo dei diritti del lavoro nazionali.
Come è stato autorevolmente osservato – e come possiamo conclusivamente rilevare –, «the short rise of “the EU Social” did not really concern the working class and worker rights, contrary to the political and legal debate in the EU Member States in the early twentieth century. The “Social” in the EU takes a very peculiar form, embracing not so much the “Social”, but different policy fields with a social dimension, such as anti-discrimination law, environment law and consumer law (…). The EU is generating its own pattern of justice, a pattern which is much closer to the third globalisation than to distributive justice which reflects early twentieth century thinking in labour law and, later on, in consumer law» (così Micklitz, H., Legal Subject, Social Class and Identity-based Rights, in Azoulai, L. et al., op. cit., 285 ss., qui 307, che evidentemente si rifà, a sua volta, alla seminale ricostruzione di Duncan Kennedy, Three Globalizations of Law and Legal Thought: 1850-2000, in Trubek, D.M.-Santos, A. (eds.), The New Law and Economic Development. A Critical Appraisal, Cambridge, 2006, 19 ss.).
Fonti normative
Artt. 20 e 21 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; artt. 45, 48 e 157 TFUE; reg. CE n. 883/2004; dir. 89/391/CEE ; dir. 97/81/CE; dir. 1999/70/CE; dir. 2001/03/CE; dir. 2003/88/CE; dir. 2008/94/CE; dir. 2008/104/CE.
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