CLIMA (dal greco κλίμα "inclinazione", applicato all'inclinazione della superficie terrestre e del cielo dall'equatore al polo, inclinatio coeli, dalla quale dipende la diversa distribuzione del calore solare, e quindi della temperatura e degli altri elementi ambientali)
La definizione di clima si confonde nella concezione comune con quella di ambiente fisico, e, come tale, è inseparabile dall'entità a cui l'ambiente stesso si riferisce, l'uomo. I più autorevoli climatologi astraggono da questo riferimento, definendo il clima di una regione come "il complesso dei fenomeni meteorologici che definiscono la condizione media dell'atmosfera nella regione stessa" (Hann); "l'andamento abituale del tempo nella regione" (Köppen).
Queste definizioni strettamente obiettive si spiegano, non tanto con il fatto che la climatologia scientifica è trattata quasi esclusivamente da meteorologisti, ma con il fatto che gli elementi meteorologici sono i soli finora suscettibili di misura, e che sono veramente oggetto di misura da parecchi decennî, e anche da più di un secolo, in tutti i paesi dove è arrivato l'uomo civile. Essi quindi permettono effettivamente una visione sintetica e comparativa delle condizioni dominanti, al di sotto delle variazioni passeggere del tempo, nei varî paesi. È inoltre così evidente la dipendenza dei fenomeni della vita in generale, e in particolare della vita umana, dagli stati del tempo, che la concezione antropica si può considerare implicita nella definizione meteorologica.
Che però il concetto di clima si riferisca necessariamente all'uomo è dimostrato dal fatto che non tutti gli elementi che possono interessare il meteorologo hannoo riflesso evidente sul clima, mentre d'altra parte le condizioni ambientali di un paese, quali noi le sentiamo, non sono interamente definite dai valori medî o normali di quegli elementi meteorologici, che sono comunemente assunti come elementi di clima.
Così la pressione atmosferica, che si può dire il dato fondamentale della meteorologia, non si considera come un elemento climatico, salvo che per differenze molto notevoli, che influiscono sul ritmo respiratorio. Invece esorbitano, almeno finora, dai programmi di sistematiche misure meteorologiche, elementi, come la ionizzazione dell'aria e il campo elettrico, l'intensità e composizione della luce solare, specialmente nella zona dell'ultravioletto, la torbidità dell'aria (nuclei di condensazione), ecc., che hanno, certamente o probabilmente, un'influenza sul nostro stato fisico e psichico.
Non si potrebbe nemmeno prescindere da fattori biologici, che in alcune regioni permanentemente, e in altre temporaneamente, possono determinare in modo prevalente le condizioni ambientali, come cause di endemie o di epidemie. Ma tali fattori non sono generalmente suscettibili di misura, salvo che a posteriori con i dati di morbilità e di mortalità, e non sono in generale elementi costanti, necessarî, del clima della regione. Sappiamo infatti che i germi patogeni possono propagarsi da paese a paese, e che viceversa anche endemie molto diffuse, come la malaria, possono essere combattute e sradicate, in base ai progressi della microbiologia, con norme profilattiche e terapeutiche. Contro la siccità del deserto e contro le piogge monsoniche invece non esiste rimedio. Per questo, pur riconoscendo la necessità, allorché si descrive il clima di una regione, di aggiungere, quando sia il caso, l'accenno ai suoi caratteri patogeni, cioè alle malattie endemiche che vi hanno dominio, la climatologia deve restringere il suo campo ai caratteri fisici, possiamo anzi dire, meteorologici, della regione, lasciando alla medicina il campo della geografia patologica. La climatologia studia l'ambiente normale dell'uomo sano.
Ma l'uomo vive, direttamente o indirettamente, di vegetali prodotti dalla terra: la massima parte dell'umanità è vegetariana e anche gli animali, di cui si nutre parzialmente la minoranza, o dai quali l'uomo si fa aiutare, vivono di vegetali. Si può dire che all'uomo interessano soprattutto quei problemi meteorologici e climatologici che hanno relazione con l'agricoltura; perché, mentre egli in condizioni normali si sente fisiologicamente acclimatabile ad ambienti svariatissimi, sa che lo sviluppo vegetale, e in particolare la produzione agraria, dipendono essenzialmente dall'andamento delle stagioni e dai loro mutamenti. Tale dipendenza è così stretta che, come vedremo, si è tentata una classificazione dei climi fondata sui processi ecologici delle piante. Anche nei rapporti con la vegetazione la definizione di clima deve prescindere dai fattori biologici, particolarmente patogeni, e limitarsi a considerare i fattori meteorologici. Possiamo quindi definire: clima di un paese è il complesso di condizioni atmosferiche caratteristiche di quel paese, che lo rendono più o meno atto ad essere abitato dall'uomo e a fornirgli gli elementi necessarî per la sua esistenza e per quella delle piante e degli animali che gli servono.
Elementi del clima. - Come si disse, molti e varî, indeterminabili o non determinati finora, possono essere gli elementi che concorrono a definire il clima. Tra questi particolarmente evidenti appaiono i seguenti: a) l'intensità e composizione della radiazione solare; b) la temperatura dell'aria; c) l'umidità relativa, in quanto influisce sull'evaporazione e condensazione del vapor d'acqua presso terra (nebbie, rugiada, brina, ecc.); d) la nuvolosità; e) le precipitazioni (forma, quantità e frequenza); f) i venti (direzione e forza).
La radiazione solare. - Quanto alla radiazione solare, sorgente prima di tutti i fenomeni e regolatrice di tutte le energie della vita sulla superficie terrestre, la sua misura, sia integrale sia analitica (delle radiazioni elementari che la compongono, e che hanno effetti fisici e fisiologici così diversi), richiede strumenti e metodi così delicati che solo da pochi decennî e in poche stazioni furono fatte misure di precisione, assolute, cioè confrontabili fra loro.
In mancanza di misure si è tentato anzitutto il calcolo della distribuzione dell'energia solare sulla superficie terrestre, secondo le varie posizioni del sole, e attribuendo all'atmosfera poteri assorbenti diversi sul complesso delle radiazioni solari. Si è calcolato cioè anzitutto quale deve essere la quantità di radiazione solare ricevuta da un'unità di superficie (cmq.) in un dato intervallo di tempo (minuto primo, giorno, mese, stagione, anno), al limite superiore dell'atmosfera, a diverse latitudini; e poi come tale distribuzione venga modificata nel passaggio delle radiazioni stesse attraverso l'atmosfera, sotto diverse inclinazioni, fino al livello del mare, supponendo che in un tragitto verticale dei raggi l'atmosfera ne assorba una frazione determinata.
Indicando con I0 la costante solare, cioè la quantità di energia solare ricevuta normalmente in un minuto primo su un cmq. di superficie normale, alla distanza media della terra dal sole, e indicando con h l'altezza del sole sull'orizzonte, con ρ il raggio vettore terrestre misurato col raggio medio, l'energia solare ricevuta al limite dell'atmosfera da un elemento di superficie orizzontale, sotto l'inclinazione
è, in un minuto primo,
Indicando con δ la declinazione del sole, con t l'angolo orario in quel minuto, e con ϕ la latitudine, una nota formula d'astronomia sferica dà
Volendo calcolare la quantità ricevuta in un giorno, bisogna integrare l'espressione di I fra i valori di t corrispondenti al sorgere e al tramontare del sole, nel supposto che la ρ nel periodo di un giorno si possa considerare costante. Ma nel periodo annuo tanto la durata del giorno quanto la distanza dal sole variano, e si comprende quanta complessità di calcolo nasca per il computo del calore ricevuto in un intervallo qualsiasi di tempo.
Tale computo fu tentato da varî autori (Meech, Ferrel, Wiener, Milankovitch) per i varî paralleli, e per diversi valori della declinazione, o della longitudine del sole, cioè per le diverse epoche dell'anno.
Indicando p. es. con 1 la quantità di energia ricevuta all'equatore (fuori dell'atmosfera) in una giornata equinoziale, per la giornata solstiziale del 21 giugno si avrebbe la seguente distribuzione: Polo nord, 1,203; lat. N. 62°, 1,092; lat. N. 43°1/2, 1,109; Equatore, 0,881; lat. S. 66°1/2, 0. Nel solstizio del 21 dicembre le intensità dovrebbero essere aumentate nel rapporto inverso dei quadrati delle distanze dal sole, avendosi cosi al Polo sud l'intensità1,286. Nei solstizí estivi, e per un intervallo attorno ai solstizî stessi, l'unità di superficie ai due poli riceverebbe quindi in un giorno la massima somma di energia solare, mentre nei solstizî invernali la quantità di calore ricevuta direttamente dal sole vi sarebbe nulla. Soltanto nei giorni equinoziali il calore ricevuto diminuisce regolarmente con la latitudine secondo la legge del coseno. La fig. 1 rappresenta tale distribuzione in varie epoche dell'anno. Da essa appare che per parecchi mesi si manterrebbe un massimo attorno alle calotte polari. Si era perciò parlato della persistenza di mare libero attorno al polo artico, conclusione smentita dai fatti, perché non teneva conto né dell'assorbimento atmosferico, né dell'azione refrigerante e quindi autoconservatrice dei ghiacci.
Quanto all'effetto dell'assorbimento atmosferico, si comprende che, anche nel caso di cielo tersissimo, il suo computo sia assai difficile e complesso, essendo la radiazione solare un complesso di radiazioni di lunghezze d'onda diverse, su ciascuna delle quali l'atmosfera esercita un assorbimento specifico. Indicando con pλ il coefficiente di trasparenza (frazione di radiazione che è lasciata passare) per le onde di lunghezza λ e con iλ la loro intensità su superficie normale, al limite superiore dell'atmosfera, al limite inferiore arriverebbe per unità di superficie orizzontale una quantità dí energia I = Σpλsechiλ senh dove per senh si introduca la sua espressione in δ, ϕ, t. Una valutazione rigorosa è impossibile; se ne è tentata una approssimata, ponendo Σpλsechiλ = I0asech dove I0 è la costante solare e a è un convenzionale coefficiente di assorbinlento globale.
Furono così calcolate (Angot) le quantità di radiazione diurna ricevuta dall'unità di superficie terrestre a varie latitudini e per varie declinazioni del sole, nelle ipotesi di a = 0,9; 0,8; o,7; 0,6, ponendo come 1 la quantità ricevuta all'equatore in un giorno equinoziale. La fig. 2 mostra le modificazioni subite dalla curva della distribuzione solstiziale estiva: un massimo polare persiste anche per a = 0,9 e a = 0,8 essendo ivi la quantità diurna ancora maggiore che all'equatore; ma, per trasparenze minori, al polo si ha anche nei mesi estivi il minimo assoluto.
Per avere la misura assoluta della quantità di calore ricevuta, bisognerebbe conoscere la costante solare. Questa viene dedotta per estrapolazione da misure della radiazione solare, a cielo tersissimo, per diverse altezze del sole o per diverse altitudini dello strumento sul livello del mare: cioè per diverse masse d'aria attraversate, estendendo i dati fino al valore O della massa. Da 692 misure fatte fra il 1902 e il 1912 sotto la direzione di Abbot in diversi punti della superficie terrestre, la costante solare sarebbe risultata di 1.932 calorie grammi
Da altre misure del 1913 risultò di 1.960, o, secondo altro metodo di calcolo (Ånggström-Kimball), di 2.019. Possiamo ritenere che essa si scosta poco dal valore 2.
Recentemente Kimball tentò un calcolo della radiazione media diurna alle varie latitudini tenendo conto del diverso assorbimento esercitato da aria pura su 38 differenti lunghezze d'onda, secondo formule di Rayleigh e King; costruendo così la curva dell'energia nello spettro solare dopo tale assorbimento selettivo per varie altezze del sole, e comparandola a quella che secondo Abbot rappresenterebbe l'energia dello spettro fuori dell'atmosfera. Il rapporto fra le aree chiuse tra queste curve darebbe il coefficiente asech di trasparenza globale, per un'atmosfera di aria asciutta e senza pulviscolo. Da questo coefficiente deve sottrarsi l'assorbimento esercitato dal vapor d'acqua secondo il grado di umidità, e quello esercitato dal pulviscolo secondo una formola di Linke. Tali correzioni furono dedotte dai dati medî di temperatura e umidità di 140 stazioni, da Treurenberg nelle Svalbard (79°55′ lat. N.) all'isola Laurie delle Orcadi (60°44′ lat. S.). Il Kimball costruì così le carte della distribuzione dell'energia solare sulla superficie terrestre, per aria umida e con pulviscolo, ma senza nubi per i due solstizî. In altre quattro carte ha rappresentato la distribuzione per i due solstizî e per i due equinozî anche tenuto conto della nuvolosità media nelle quattro stagioni. L'effetto della nuvolosità sarebbe dedotto dalla formola Q = Q0 {0,29 + 0,71 (1 − c)}, dove c è la frazione di cielo coperto, Q0 la radiazione diurna a cielo sereno e Q quella a nuvolosità c. Tutti i dati sono aumentati di una frazione esprimente la radiazione diffusa di cui il Kimball aveva già studiato il rapporto con la radiazione diretta. Le carte esprimono la distribuzione della radiazione solare e diurna sulla superficie terrestre in condizioni meteorologiche medie delle quattro stagioni; l'energia solare è misurata in piccole calorie per centimetro quadrato e per giorno.
Riproduciamo soltanto quelle relative ai due solstizî con cielo sereno, che ci rappresentano la distribuzione meno perturbata da condizioni meteorologiche non ben precisate e mutevoli, come ci è dimostrato dall'andamento predominante delle linee di eguale intensità, andamento che appare dipendere quasi esclusivamente dalla latitudine. Fa eccezione l'estate boreale, in cui la distribuzione appare già perturbata. È a notarsi come da questi computi più analitici del Kimball risulti nel solstizio estivo un massimo assoluto (900) ai due cerchi polari e al polo artico 896, con un minimo intermedio appena accentuato (850). Da queste zone circumpolari di massima quantità di calore ricevuta in 24 ore si discenderebbe lentamente verso l'equatore (650) e poi rapidamente fino al cerchio polare opposto entro il quale la radiazione è nulla. La distribuzione sarebbe quindi molto diversa da quella che risulterebbe dai computi globali di Angot. La nuvolosità modificherebbe notevolmente tale distribuzione, attenuando le differenze, come dimostrano i seguenti dati relativi all'Atlantico, sempre per il solstizio boreale (21 giugno):
nei quali si accenna soltanto un massimo in corrispondenza alla zona subtropicale delle calme, dove predomina il cielo sereno. Si comprende l'importanza di queste ricerche, in quanto dimostrerebbero la grande influenza dell'assorbimento selettivo dell'atmosfera sulle diverse radiazioni nella distribuzione globale dell'energia, e la grande influenza della diffusione della luce e della nuvolosità nel ridurla e pareggiarla.
Si tratta però di ricerche teoriche in base a postulati sempre discutibili; mentre le misure pireliometriche sono ancora troppo scarse per poterci dare un quadro d'assieme soddisfacente. È doloroso che nelle convenzioni meteorologiche internazionali non si sia ancora riconosciuta la necessità di istituire una rete di stazioni nelle quali sia regolarmente misurato, appena il tempo lo permetta, questo elemento, la radiazione solare, diretta e diffusa, che è la fonte prima di ogni fenomeno meteorologico e di tutti gli elementi del clima. Esso interessa specialmente la vegetazione, il cui ciclo vitale dipende, più che dalla temperatura, dalla somma di calore, e anche di luce, ricevuta. A tale valutazione non supplisce abbastanza il dato delle ore di illuminazione fornito dall'Eliofanografo, nel quale la radiazione del sole e del cielo è concentrata attraverso una sfera di vetro che fa da lente convergente su una striscia di carta sulla quale lascia una striscia di bruciatura. Esso registra quindi la durata di quelle radiazioni che hanno intensità sufficiente per determinare tale effetto. Maggior significato hanno forse misure comparative fra la temperatura dell'aria e quella segnata da un termometro a bulbo coperto di nerofumo esposto al sole, o quelle basate sull'evaporazione e distillazione dell'acqua contenuta in un bulbo esposto al sole (Bellani).
La temperatura. - L'effetto più immediatamente sentito e più facilmente misurabile delle radiazioni solari ricevute presso terra è la temperatura dell'aria che ci circonda. Questa è considerata perciò come elemento fondamentale del clima, e fu il primo di cui si stabilirono fino dalla fine del sec. XVII regolari misure.
La temperatura dell'aria nelle sue variazioni è tuttavia un effetto assai indiretto e complesso della radiazione solare. La temperatura di un dato volume d'aria non risponde infatti se non in minima parte all'assorbimento diretto delle radiazioni solari, luminose e oscure, per la maggior parte delle quali l'aria è quasi assolutamente trasparente. Essa risponde all'equilibrio fra molti fattori: 1. la quantità di calore oscuro che viene irradiato verso quel volume dal suolo e dagli oggetti circostanti, e che viene assorbito, per ampie fasce di onde, specialmente dal vapor d'acqua e dall'anidride carbonica contenuti nel volume stesso; 2. la quantità di calore che questo irradia verso l'aria ambiente, e che in parte attraverso l'atmosfera andrà perduta nello spazio; 3. le quantità di calore che sono portate o sottratte dai ricambî d'aria attraverso la superficie del volume; 4. le quantità di calore che si sviluppano entro questo per compressione, o che sono assorbite per dilatazione; 5. le quantità di calore sviluppate per condensazione del vapore o assorbite per evaporazione di goccioline d'acqua.
Fattori costanti dell'equilibrio sono i due primi: le radiazioni assorbite e quelle emesse dal volume d'aria considerato, le quali dipendono dalla temperatura non solo dei corpi circostanti, ma dell'aria stessa contenuta nel volume, cioè dall'elemento stesso che è oggetto di misura. Gli altri fattori, che potremo chiamare fattori meteorologici, sono assai mutevoli, e possono anche mancare, come probabilmente si verifica nell'alta atmosfera (stratosfera) per assenza di vapore e di movimenti convettivi. Anche negli strati d'aria inferiori a contatto del suolo i movimenti convettivi verticali, e conseguenti effetti termici, si possono considerare nulli, riducendosi i fattori meteorologici agli scambî orizzontali d'aria di diversa temperatura (venti), all'eventuale formazione o dissipazione di nebbia, o a precipitazioni penetranti dall'alto. Anche in questo caso, che particolarmente interessa la climatologia, i fattori da cui dipende la temperatura sono assai complessi e di difficile espressione e misura. È a notarsi inoltre che la temperatura della superficie terrestre, se solida, dipende anche dalla conduttività del terreno sottostante; il riscaldamento superficiale è attenuato dalla propagazione del calore verso gli strati sottostanti, e il raffreddamento dal flusso inverso di calore verso la superficie. Se la superficie è d'acqua, vi è anche un flusso per trasparenza, un flusso per convezione e un assorbimento, o uno sviluppo di calore, per evaporazione o condensazione.
Non mancano tuttavia tentativi per formulare la dipendenza, attraverso tutti questi processi intermedî, della temperatura dell'aria dalla radiazione solare e dalle sue variazioni diurna e annua. Tali tentativi, il primo dei quali è dovuto a Ferrel, per quanto siano sempre soggetti a postulati semplificatori, hanno il vantaggio di mettere in maggiore evidenza la posizione e la portata dei singoli fattori (astronomici, topografici, meteorologici) nella determinazione del clima, di cui la temperatura è l'elemento fondamentale, e di dare con ciò una base più positiva alla ricerca delle cause che possono determinarne, o averne determinato, le variazioni.
Per dare un'idea di tale formulazione teorica del problema, limitiamoci a studiare le variazioni della temperatura del suolo nel periodo annuo. Ad esse si accostano notevolmente, salvo che in condizioni eccezionali, le variazioni della temperatura dell'aria negli strati inferiori, che sono quelli che più interessano il clima, in quanto in essi vivono l'uomo e le piante. In variazioni rapide, come la diurna, vi può essere in ogni istante un distacco anche di parecchi gradi fra le due temperature, riscaldandosi e raffreddandosi il suolo più, e più rapidamente, dell'aria: nella media diurna le differenze in gran parte si compensano.
Dobbiamo esprimere che la quantità di calore solare ricevuta dall'unità di superficie del suolo, più il flusso (positivo e negativo) di calore che si propaga nel terreno sottostante, più il calore che viene a essa comunicato (o sottratto) dai fattori meteorologici, fanno equilibrio alla quantità di calore emessa per irradiazione verso il cielo. Quando si dice verso il cielo s'intende verso l'atmosfera sovrastante, che ricambia una certa quantità di calore verso il basso, come se fosse una superficie nera a una determinata temperatura assoluta Te.
Indicando con Ts la temperatura assoluta del suolo, il calore irradiato nell'unità di tempo dall'unità di superficie sarebbe espresso da
dove σ è la costante di Stefan moltiplicata per il potere irradiante (e assorbente) del terreno. Esperienze di Maurer e Trabert sulla radiazione notturna avrebbero tuttavia dimostrato che si può ammettere per la radiazione verso il cielo la legge di Newton d Q = c (ts − tc), dove c è la quantità irradiata nell'unità di tempo quando la temperatura del suolo sia di un grado superiore a quella del cielo.
Indicando con k la conduttività del suolo, e con z la profondità di un punto generico del terreno sotto la superficie, il flusso di calore dal terreno è
Indicando con A la quantità di calore solare assorbita dal suolo e con V quella portata dai fattori meteorologici, avremo l'equazione:
che esprime la condizione d'equilibrio fra il calore ricevuto e il calore perduto in un giorno, considerando come trascurabile per quell'intervallo la somma di calore corrispondente al lento riscaldamento o raffreddamento del suolo da un giorno al giorno successivo.
Poniamo che A varî col tempo ϑ secondo una legge periodica di periodo Θ esprimibile da una formola Besseliana
e che, in corrispondenza, varino con formole analoghe anche
dove a ogni onda (annua, semestrale, trimestrale, ecc.) della radíazione solare si supponga corrispondere un'onda di fase diversa e ampiezza particolare (che può anche essere nulla) dei tre elementi. Potremmo anche considerare la A come una somma di termini a periodi non necessariamente sottomultipli del periodo principale, a ciascuno dei quali, o ad alcuno dei quali, oltre che al primo, corrisponda un termine negli sviluppi dipendenti, con metodo analogo a quello di analisi delle maree.
Data la ts superficiale espressa dalla (3), la t alla profondità z è espressa, secondo la teoria del calore, da
essendo c il calore specifico del materiale di cui è costituito il terreno. Donde si ricava per z = 0
Sstituendo nella (1) le (2 − 6), perché sia verificata per tutti i valori di t dovranno eguagliarsi tutti i coefficienti di sen e cos nei due membri. In particolare si avrà la relazione fra i termini costanti
dove B0 è la temperatura media del suolo nel periodo Θ, cioè nel caso speciale la media annua.
Per i termini successivi si ottengono fra i coefficienti relazioni piuttosto complesse; ma una semplificazione notevole si ottiene quando si ammetta il principio di Wilson, confermato dalle esperienze di Pouillet sul raffreddamento notturno e di Parry e Scoresby sul raffreddamento della neve nelle regioni polari, principio che fu da Melloni espresso nella forma seguente: un corpo esposto durante la notte all'azione di un cielo egualmente puro e sereno si raffredda sempre della stessa quantità qualunque sia la temperatura dell'aria. Si deve ammettere allora che la temperatura del cielo varia parallelamente con la temperatura del suolo, fatto che sarebbe stato confermato da un'osservazione di Pernter fatta in febbraio con la temperatura a − 8° confrontata con altra di Maurer con temperatura a 18°. Pernter trovò che le temperature del cielo nei due casi risultavano differenti press'a poco dello stesso numero di gradi. Queste conclusioni verrebbero espresse nelle nostre formule dall'egualianza delle ampiezze e delle fasi di tutti i termini di ts con quelli di tc.
Limitandoci al primo termine periodico, che è sempre di ampiezza molto predominante sugli altri, dovremo avere in particolare C1 = B1, ε″ = ε′. Allora si ricava facilmente (ponendo
dove ω1‴ = ε1‴ − ε1′ è il ritardo di fase dell'effetto V1, sulla temperatura del suolo; e
dove ω1 = ε1′ − ε1 è il ritardo della massima e minima temperatura del suolo sulla massima e minima radiazione solare. Se il fattore meteorologico mancasse (V1 = 0) sarebbe tang ω1 = 1, cioè ω1 = 45°. Il ritardo della massima e minima temperatura sui solstizî sarebbe cioè di oltre 45 giorni. L'osservazione dice invece che, se non intervengono cause eccezionali, il ritardo è molto minore; di rado supera i 25 giorni. Questa anticipazione di fase è certo l'effetto del fattore meteorologico, che tende ad attenuare le differenze di temperatura dalle quali è generato. Perciò dobbiamo ammettere nella (8) cos ω1‴ 〈 0 e nella (9) pure 0 > cos ω1‴ cioè ω2‴ > 135°. L'effetto deve variare in senso quasi inverso alla temperatura, diminuendo i massimi e aumentando i minimi.
Ammettendo per semplicità che il periodo meteorologico sia perfettamente opposto al periodo termico (ω1‴ = I80°) si avrebbe:
È facile vedere che per ω1, compreso fra 20° e 25°, l'escursione B1 risulta quasi la metà di quella
che si verificherebtbe se non esistesse l'azione moderatrice dei fattori atmosferici.
Conseguenze analoghe si ricaverebbero dal calcolo degli altri termim.
Fattori del clima termico. - Dalla discussio1ie precedente è messa in evidenza la grande efficacia moderatrice dei fattori meteorologici, e sono segnalati, nella funzione specifica di ciascuno, gli altri fattori da cui può dipendere la temperatura.
Essi si possono riassumere nei seguenti:
a) Fattori astronomici, contenuti nella A di (1). Secondo quanto si è detto essi sono: la costante solare, gli elementí dell'orbita terrestre da cui dipende ρ (eccentricità e posizione degli apsidi) e quelli da cui dipende la durata del giorno e della notte (posizione dell'asse terrestre nello spazio ed entro il corpo della terra). Lo studio delle variazioni di questi elementi e del loro effetto sulla quantità di energia solare che arriva ai limiti dell'atmosfera a varie latitudini è la base degli studî sulle variazioni dei climi.
b) Fattori atmosferici, in quanto influiscono sulla trasparenza dell'aria, globale e selettiva per le varie lunghezze d'onda, sia della radiazione solare, sia della radiazione oscura della superficie terrestre e dell'aria. È noto che la funzione conservatrice dell'atmosfera, funzione analoga a quella di una serra, che rende possibile la vita sulla terra, dipende principalmente dall'azione selettiva. L'energia solare, in massima parte luminosa e penetrante, viene trasformata in energia oscura nel riscaldamento del suolo e dell'aria, la cui radiazione è in gran parte assorbita dall'atmosfera. Dobbiamo quindi distinguere la trasparenza atmosferica per le radiazioni solari, del cui effetto si è trattato nel § precedente, e la trasparenza per le radiazioni oscure del suolo e dell'aria, che si riflette non solo nel valore del coefficiente c della (1), ma anche nel valore della temperatura fittizia del cielo tc. Queste trasparenze dipendono dalla composizione dell'aria, dalla sua maggiore o minore torbidità, dalla umidità assoluta, in quanto il vapor d'acqua è uno dei principali assorbenti del calore oscuro: elementi che noi possiamo determinare soltanto negli strati più bassi dell'atmosfera, mentre la composizione degli strati alti e altissimi noi la induciamo soltanto da generalizzazioni teoriche. La scoperta dell'inversione della temperatura nella stratosfera e i fenomeni luminosi delle stelle cadenti e delle aurore boreali hann0 portato recentemente a supporre la presenza di gas e vapori molto assorbenti, supposizione in parte confermata dalla scoperta di ozono a un'altezza di circa 40 km. Opacità assoluta può attribuirsi finalmente alle nubi e nebbie, che rappresentano uno degli elementi più variabili e di valutazione più incerta, tanto per estensione quanto per durata.
Infine fra i fattori atmosferici più efficaci ed evidenti della temperatura di un paese dobbiamo considerare i venti dominanti, in quanto provengono da regioni più calde o più fredde, umide o asciutte, e in particolare dal mare o dalla terra, e in quanto dalla struttura della regione possono essere costretti a innalzarsi e determinare, per raffreddamento adiabatico, la formazione di pioggia.
c) Fattori terrestri, dipendenti cioè dalla natura della superficie terrestre nella regione considerata. Essi sono: il potere assorbente e il potere irradiante della superficie; la conduttività e il calore specifico del terreno sottostante, se si tratta di terreno solido, mentre nel caso di superficie acquea si deve tener conto anche della varia trasparenza e, nei periodi di raffreddamento, anche dei movimenti convettivi, per i quali l'acqua fredda superficiale sprofonda. L'evaporazione e la condensazione di rugiada e brina rappresentano pure scambî di calore dipendenti in parte dalla natura del terreno, e in particolare dal suo rivestimento vegetale. La vegetazione significa anche una frazione di energia solare fissata nei processi chimici e una frazione dissipata nei processi d'irradiazione, evaporazione e traspirazione dalla vasta superficie fogliare. Fattore terrestre più evidente è la struttura topografica del terreno, nelle forme di piano, di pendio, di monte, di valle e di altipiano, che determina notevoli differenze di esposizione al sole e ai venti, e differenze di altitudine, che, specialmente in regioni d'alta montagna, significano maggior trasparenza d'aria, più intensa insolazione, ma minore temperatura.
Zone termiche. - In base al predominare dell'uno o dell'altro di questi fattori si distinguono zone o regioni della superficie terrestre, per caratteri termici differenziali ben definiti. Tali caratteri possono essere molteplici e varî; fra essi quelli che più comunemente sono assunti a definizione del clima termico sono la temperatura media annua e l'escursione media annua, cioè la differenza fra le temperature medie mensili del mese più caldo e quelle del mese più freddo.
Questi due elementi dipendono anzitutto dalla latitudine, e in base ad essi si era fin dall'antichità divisa la terra conosciuta in tre zone: la zona torrida, la zona temperata, la zona fredda. Nel periodo della civiltà mediterranea questa divisione appare molto rispondente alla realtà, essendo la zona del mite clima mediterraneo fiancheggiata a sud dalla zona dei deserti d'Africa e d'Arabia, e a nord dalle regioni transalpine della Germania e della Sarmazia e più oltre dalla Britannia e dall'ultima Tule.
Ma la divisione di ciascun emisfero in tre zone, tropicale, temperata e polare, risponde di fatto alla distribuzione del calore solare sulla superficie terrestre e delle sue variazioni durante l'anno. Nella zona tropicale, dove il sole si eleva alto sull'orizzonte e in due giorni dell'anno, salvo che ai tropici, è nel mezzogiorno di ogni punto, allo zenit, abbiamo la massima intensità di radiazione nelle ore pomeridiane, e quindi si possono raggiungere, se non intervengono azioni meteorologiche temperanti, le più alte temperature. Ma più caratteristico è il fatto che a quelle basse latitudini non vi possono essere forti oscillazioni stagionali di temperatura attribuibili a ragioni astronomiche. In molte zone tropicali le variazioni annue di temperatura sono determinate prevalentemente dal regime dei venti e delle piogge.
Nelle zone polari sono caratteristici i due periodi, che vanno crescendo da un giorno sul cerchio polare a sei mesi sul polo, in cui il sole rispettivamente non sorge o non tramonta, mantenendosi però anche in questo secondo caso a non grande altezza sull'orizzonte. Questa circostanza, aggravata dalla lunga notte, definisce le due calotte polari come zone fredde.
Le zone intermedie dei due emisferi comprese fra i tropici e i cerchi polari hanno una distribuzione e una variazione di radiazione solare intermedie a quelle due estreme, e hanno quindi in generale un clima pure intermedio, o, come si dice, temperato. Vedremo che, per speciali condizioni meteorologiche e di posizione, si trovano bensì in questa zona regioni a clima più caldo di alcune della zona tropicale, e altre a clima più freddo di quello di regioni della zona polare; ma è indubitato che il clima medio si riscontra prevalentemente in questa zona.
Se la superficie terrestre fosse tutta di mare, la distinzione in queste zone astronomiche di clima sarebbe perfettamente verificata, e si può dire che i climi reali non ne siano che una modificazione, prodotta dalla sovrapposizione degli effetti degli altri fattori.
Clima termico continentale e oceanico. - Il fattore predominante è il fattore terrestre della presenza dei continenti. Per ragioni fisiche note le parti solide della superficie terrestre, per eguale quantità di calore ricevuto o ceduto, si riscaldano di più e si raffreddano di più delle parti acquee. Nelle regioni tropicali, dove non è molto accentuata la differenza delle stagioni, tale effetto è meno sentito, e va sempre più accentuandosi alle maggiori latitudini, specialmente nell'emisfero boreale, dove i continenti hanno la massima espansione e si estendono fin oltre il cerchio polare. L'effetto si manifesta con una escursione annua di temperatura maggiore sui continenti che sui mari: estate più calda e inverno più freddo. Nelle latitudini medie e alte è specialmente accentuata la differenza delle temperature invernali, non solo per l'eventuale permanenza delle nevi entro terra, ma anche perché la superficie del mare, finché non si copre di ghiaccio, non può mai raffreddarsi senza che si determinino dei moti convettivi che portano in superficie acqua meno fredda.
Si è tentato da varî autori (Forbes, Zenker, Spitaler, De Marchi, Liznar), con postulati più o meno accettabili, di formulare la legge di distribuzione della temperatura su un emisfero, tenuto conto del cosiddetto grado di continentalità di ogni parallelo o di ogni punto entro terra o in mare. Per grado di continentalità di un parallelo s'intende la frazione x di parallelo che è occupata da terra emersa. Così per x = 0 le formule dànno la distribuzione quale si verificherebbe su un emisfero tutto coperto dal mare; per x = 1 quella che si verificherebbe su un emisfero tutto continentale. In base a calcoli del genere, Liznar costruì la tabella seguente delle temperature medie annue a varia latitudine:
Analoghe serie furono stabilite da Forbes. Rappresentazioni più suggestive, per quanto puramente teoriche, sono basate su una definizione più reale della continentalità, non per parallelo, ma per punto. La continentalità così intesa rappresenta quanta parte nel determinare la temperatura di un punto ha il continente a cui questo appartiene, e quanta i mari che lo circondano.
Ponendo infatti che la temperatura media annua di un punto a una data latitudine sia t, potremo sempre scrivere
dove tc, ta sono le temperature a quella latitudine in un emisfero rispettivamente tutto continentale o acqueo e y definisce la continentalità di quel punto. Se supponiamo che l'equazione sia verificata, non solo per la temperatura media, ma per la temperatura di ogni giorno dell'anno, e in particolare per le temperature estreme, estiva e invernale, e indichiamo con e l'effettiva escursione misurata in un punto e con ec, ea quelle che si verificherebbero in quel punto se l'emisfero fosse tutto continentale o tutto oceanico, si avrebbe
donde y =
In base a questa formula Zenker definì la continentalità di una stazione. Assunse come valori di ec, ea (continentalità e oceanità assolute) quelli di punti continentali od oceanici dove l'escursione era massima o minima sul parallelo corrispondente, interpolando valori intermedî per le latitudini intermedie. Assumendo come 100 la ec di ciascun parallelo, la ea corrispondente gli risultò in media di circa 16. Calcolando in centesimi l'escursione e osservata in ogni punto, lo Zenker ricavò il corrispondente valore di y, e costruì una carta delle continentalità (fig. 5).
In base a essa e ai valori di tc, ta si possono calcolare le temperature t delle varie stazioni. Queste temperature prescindono però da ogni influenza meteorologica; rappresenterebbero cioè l'effetto della distribuzione della radiazione solare in quanto dipende soltanto, oltre che dalla latitudine, dalla distribuzione di terre e di mari. Esse definiscono il cosiddetto clima solare, quale si verificherebbe se l'atmosfera si mantenesse ferma e a trasparenza costante, e senza condensazione di vapore. Il calcolo fatto (De Marchi) di tali temperature solari per i continenti euroasiatico e nord americano avrebbe dato valori in eccesso o in difetto (anomalie positive o negative) sui valori annui normali veramente osservati, e le differenze indicherebbero le influenze, refrigeranti o riscaldanti, dei fattori meteorologici e soprattutto dei venti. La distribuzione di tali differenze, positive o negative, risultò infatti corrispondente alla distribuzione dei venti dominanti.
In base al valore dell'escursione annua di temperatura si può quindi parlare di un clima termico continentale, a estate molto calda e inverno molto freddo, e di un clima termico oceanico, a stagioni molto temperate, con gradazioni intermedie suboceaniche e subcontinentali, secondo che si fa sentire più o meno l'azione temperante dei venti marini entro terra.
Clima termico di montagna. - Un altro carattere terrestre topografico, che ha grande influenza sulla distribuzione della temperatura, è l'altitudine. Sappiamo che di regola la temperatura diminuisce con l'altezza: il fatto si constata facilmente, sia salendo lungo il pendio dei monti, sia nelle ascensioni aerostatiche o aviatorie in libera atmosfera. Le misure, ormai decennali o secolari, di temperature in stazioni alpine a tutte le altitudini hanno dimostrato che in media la diminuzione di temperatura con l'altezza è di 0°,55 C. ogni 100 metri, con oscillazioni secondo la stagione (minima d'inverno e massima di primavera e principio d'estate) e secondo la conformazione del pendio, essendo tanto più rapida quanto più esso è ripido.
Nelle ascensioni aerostatiche e nei lanci di palloncini sonda di questi ultimi decennî si è riscontrato che al disopra dei 2-3 km. d'altezza la diminuzioue verticale di temperatura, il cosiddetto gradiente termico verticale, va crescendo in aria libera fino a un'altezza variabile con le condizioni di tempo (minima in tempo ciclonico, 7-9 km.; massima in tempo anticiclonico, 11-14 km. nelle medie latitudini) e con la latitudine; crescendo col diminuire di questa, fino a oltre 16-18 km. all'equatore. Oltre quest'altezza il gradiente diminuisce rapidamente, fino ad annullarsi e a cambiare di segno, riscontrandosi cioè un aumento di temperatura con l'altezza (inversione di temperatura). La climatologia non s'interessa di questi strati superiori a temperatura costante o a inversione (stratosfera), ai quali finora non è arrivato l'uomo, e ai quali non arrivano neanche le più alte montagne della terra.
Negli strati inferiorî la temperatura di regola diminuisce con l'altezza, perché, come abbiamo visto, il riscaldamento dell'aria è dovuto principalmente all'assorbimento di radiazioni oscure emananti dalla superficie terrestre e, quanto più c'innalziamo, tanto più ci allontaniamo dalla sorgente riscaldatrice, interponendosi, fra la terra e il punto d'osservazione, uno strato d'aria sempre maggiore, che assorbe una frazione sempre maggiore del calore irradiato. La causa prima della distribuzione verticale della temperatura è lo scambio di calore tra la superficie terrestre e l'aria. Ciò è dimostrato anche dal fatto che, quando la superficie terrestre nelle lunghe notti invernali si raffredda intensamente, gli strati più vicini a terra si raffreddano più degli strati superiori, e si ha inversione di temperatura, cioè negli strati inferiori fino a una certa altezza, che può raggiungere e superare il chilometro, la temperatura cresce con l'altezza. Nel bacino di Klagenfurt (Alpi Orientali) si sarebbero, per esempio, riscontrate nei mesi invernali a varie altezze le seguenti temperature medie:
dove vediamo che l'inversione si estende fin oltre 600 m. al di sopra del suolo, che solo a 2000 m. si ritrova la temperatura osservata presso terra, e che da quell'altezza incomincia la regolare diminuzione. L'inversione di temperatura negli strati inferiori si può dire uno dei caratteri del clima invernale nelle latitudini medie e alte, almeno per parecchie ore della notte e del giorno. Essa è particolarmente spiccata e si estende fino a maggiori altezze nelle regioni prealpine, determinando un clima invernale meno rigido a parecchie centinaia di metri di altitudine, che non in fondo valle o nella pianura contigua. A determinarla contribuiscono in questo caso anche movimenti dell'aria, perché l'aria, che si raffredda sui versanti, è costretta a scivolare lungo di essi fino in fondo valle, dove si mantiene, perché più densa, e continua a raffreddarsi, mentre in alto è sostituita dall'aria circostante o sovrastante più calda.
In alta montagna, oltre la bassa temperatura, è caratteristica la maggiore trasparenza del cielo nelle giornate serene, rimanendo al di sotto gli strati più torbidi e più ricchi di vapor d'acqua. Vi è quindi più intensa la radiazione solare, ma anche più intensa l'irradiazione notturna del suolo: quindi una forte variazione diurna di temperatura del suolo. Sono anche più intensi gli effetti delle radiazioni chimiche dell'ultravioletto. Minore è l'escursione annua, per effetto della maggiore nuvolosità e piovosità estiva.
Vediamo così che si può parlare di un clima solare alpino di cui si conoscono anche effetti profilattici e terapeutici. Si comprende però come in una regione a monti e valli le condizioni possano cambiare bruscamente da punto a punto, secondo l'esposizione dei versanti: i versanti esposti a S. sono in condizioni ben diverse da quelli esposti a N., e anche, benché in rapporto minore, quelli esposti a E. in confronto di quelli esposti a O. Si comprende che queste forti differenze e rapide variazioni di temperatura fra creste e valli, fra versante e versante, debbano determinare moti convettivi dell'aria, irregolari o periodici, che tendono a temperarle, e che sono un altro elemento caratteristico del clima alpino. Sui grandi altipiani questi contrasti e questa variabilità di elementi mancano quasi completamente: sono grandi pianure più fortemente irradiate dal sole che le pianure basse e a irradiazione notturna più libera. Vi saranno quindi più accentuate le escursioni diurna e annua di temperatura, anche perché l'aria vi è più stagnante; la temperatura media è corrispondente all'altitudine, cioè fredda relativamente alla regione bassa circostante.
Riassumendo, se la distribuzione della temperatura fosse determinata soltanto dall'equilibrio fra il calore solare assorbito e il calore oscuro irradiato dalla superficie terrestre, i climi si distinguerebbero: per la latitudine in tropicali, temperati e polari; per la posizione, in terra o in mare, in continentali e oceanici; per l'altitudine in climi di basso piano, di montagna e d'altipiano.
Fattori meteorologici: I movimenti verticali dell'aria. - Ma le stesse differenze e variazioni di temperatura determinano nelle masse fluide dell'atmosfera e dell'oceano movimenti convettivi, verticali od orizzontali, che contribuiscono notevolmente ad attenuarle e modificarle.
I movimenti verticali dell'aria modificano sostanzialmente quell'equilibrio termico che in aria ferma sarebbe determinato dagli scambî di calore radiante, solare e terrestre. Per noti principî di termodinamica, una massa d'aria che si solleva, e quindi si dilata per la diminuzione della pressione circostante, si raffredda, appunto perché dilatandosi compie un lavoro e quindi consuma dell'energia. In aria secca la diminuzione di temperatura sarebbe di 1° C. ogni 100 m. d'innalzamento; in aria satura in media di 1/2 grado, perché il raffreddamento è compensato in parte dal calore sviluppato dal vapore che si condensa in acqua. Così si spiega come presso terra, dove i movimenti verticali sono più impediti e dove l'aria fredda stagna, perché più densa, prevalga la condizione dell'equilibrio radiante e sia frequente l'inversione di temperatura, mentre, quanto più si va in alto, si constata un gradiente termico che in media è prima assai prossimo a quello dell'aria satura, e poi cresce per il diminuire dell'umidità, fino al limite della troposfera. Così fu chiamata la massa d'aria inferiore entro la quale si svolgono e alla quale sono limitati i movimenti convettivi, ascendenti e discendenti, dell'aria; nella stratosfera torna a prevalere l'equilibrio radiante, perché vi dominano con grande prevalenza moti orizzontali.
I movimenti verticali dell'aria sono particolarmente evidenti nelle regioni di montagna, lungo le valli e i pendii, e hanno spesso periodo diurno rispondente all'ora diversa in cui iniziano il loro riscaldamento e il loro raffreddamento le regioni alte in confronto delle basse. Il sole arriva infatti la mattina prima alle cime che in fondo valle e il riscaldamento delle alture vi determina un moto ascendente dell'aria dilatata e quindi un richiamo dell'aria dal basso che, dopo qualche ora, si risente come vento ascendente dal fondo valle o dalla pianura pedemontana (la Breva del Lago di Como, l'Ora del Lago di Garda). Nella notte l'aria sugli alti pendii si raffredda più intensamente che in basso e, fatta più densa, scivola lungo di essi e giù lungo le valli come un vento di montagna (il Tivano del Lago di Como e il Sovero del Lago di Garda). Nei venti ascendenti si condensa facilmente il vapor d'acqua, e perciò sugli alti pendii e sulle creste si formano nubi più facilmente nelle ore meridiane e pomeridiane, mentre la notte e il mattino sono più spesso sgombri. Ma la funzione condensatrice delle catene montuose si esplica segnatamente in confronto delle grandi correnti orizzontali, sulle quali esercitano un rigurgito, come dighe sommerse in grandi correnti fluide. Ma di ciò vedremo fra poco.
I venti. - Il diverso riscaldamento delle varie parti della superficie terrestre deve necessariamente determinare movimenti convettivi nell'atmosfera sovrastante. Se l'aria si riscalda, diventa più leggiera; se si raffredda, più pesante. In generale quindi al disopra delle aree riscaldate si deve determinare una pressione minore, e sulle aree più fredde una maggiore, e dovrebbero iniziarsi movimenti d'aria dalle pressioni maggiori alle minori. Un tale effetto è rivelato dalle brezze di terra e di mare, fattore non trascurabile del clima dei paesi costieri: di notte spira la brezza dalla terra più fredda al mare, di giorno dal mare alla terra più riscaldata.
Se consideriamo il fenomeno su più vasta scala, di movimenti convettivi che si estendono su centinaia e migliaia di chilometri, entra in gioco una deviazione prodotta dalla rotazione terrestre. I venti vengono (o meglio, appaiono a noi che non ci accorgiamo di essere trascinati nel moto di rotazione terrestre) deviati dalla loro direzione iniziale, verso destra nell'emisfero boreale, verso sinistra nell'emisfero australe. Destra e sinistra, s'intende, del vento stesso, considerato come un uomo che cammina.
Con questi pochi principî, per sé evidenti, noi possiamo dedurre dalla distribuzione della temperatura nelle varie stagioni la corrispondente distribuzione generale dei venti; la quale a sua volta influisce sulla distribuzione della temperatura.
Le carte delle figure 6 e 7 ci rappresentano, con linee isoterme, la distribuzione della temperatura nei mesi di gennaio (inverno boreale-estate australe) e di luglio (estate boreale-inverno australe).
Se esaminiamo le isoterme di gennaio sull'emisfero australe, vediamo che esse presentano sugli oceani un andamento abbastanza conforme a quello dei paralleli, segnando una discesa di temperatura dall'equatore al cerchio polare. Le irregolarità più accentuate si riscontrano attorno e sui continenti. Sull'America del Sud e sull'Africa l'isoterma di 25° forma un'ansa che si spinge da nord a sud e dice che la temperatura vi è notevolmente più alta che sui mari contigui. Sull'Australia poi l'isoterma di 30° (massima temperatura dell'emisfero) si chiude adattandosi al contorno dell'isola. È evidente il maggior ríscaldamento estivo delle terre rispetto al mare; ma è pure evidente che, se non ci fossero le terre, la temperatura diminuirebbe regolarmente dall'equatore al polo.
Ben più irregolare si presenta la contemporanea distribuzione (invernale) della temperatura sull'emisfero boreale, nel quale i continenti hanno un'estensione assai maggiore che nell'australe, specialmente nelle latitudini fra 40° e 70° dove è anche accentuata la differenza delle stagioni. Noi vediamo le isoterme delle minori temperature circumpolari incurvarsi profondamente verso sud sopra i continenti nord americano e asiatico; sulla Siberia orientale si afferma anzi un'area di minima temperatura (− 48° media di gennaio), che è un vero polo di freddo. Sugli oceani vediamo invece incurvarsi verso nord le isoterme delle alte temperature tropicali. I continenti sono cioè molto più freddi dei mari: la differenza, che al cerchio polare raggiunge i 50°, non è dovuta soltanto alla maggiore irradiazione delle terre, ma anche alle correnti aeree e oceaniche.
Se guardiamo la carta delle isoterme di luglio, vediamo come esse si presentino su ambedue gli emisferi assai più regolari. Si afferma tuttavia anche il maggior riscaldamento estivo dei continenti boreali nella deviazione verso nord delle curve di alta temperatura (con un massimo di 35° nel Messico) sul continente nord americano, e con la zona di alta temperatura che dal deserto di Sahara, attraverso i deserti d'Arabia e gli altipiani dell'Irān e del Tibet, si spinge fin sulla Cina orientale. Le maggiori irregolarità delle isoterme sugli oceani si debbono attribuire a correnti oceaniche calde e fredde.
Se guardiamo ora la carta di fig. 8, ove è rappresentata con linee isobariche (di eguale pressione) la distribuzione della pressione barometrica in gennaio, segnaliamo anzitutto la grande area di alta pressione che si distende sul continente euroasiatico, e che evidentemente è l'effetto del raffreddamento del continente stesso, alla cui forma si adatta. Pure evidenti sono le aree di bassa pressione sull'Atlantico e sul Pacifico settentrionali, rispondenti ai minori raffreddamenti degli oceani; fra esse si insinua un cuneo d'alta pressione sul continente americano, che più fortemente si raffredda. Contemporaneamente vediamo sui continenti australi (estate) stabilirsi aree di bassa pressione, mentre sugli oceani interposti si estendono aree di alta pressione, riflettenti le une e le altre il diverso riscaldamento delle terre e dei mari.
Se passiamo alla carta di fig. 9, dov'è rappresentata la distribuzione della pressione in luglio, vediamo costituirsi sull'Africa settentrionale, l'Arabia e l'Asia centrale un'area di bassa pressione in corrispondenza all'area di alta temperatura; e sugli oeeani Atlantico e Pacifico settentrionali due grandi aree di alta pressione.
Sull'emisfero australe l'azione refrigerante dei continenti è meno evidente perché essi sono limitati nella loro massima espansione alle latitudini tropicali. Ma ciò che sorprende è il fatto che sui mari, alle latitudini fra 20° e 40°, si mantiene una striscia di alta pressione, la quale si estende anche sui continenti. Si ha l'impressione che, se non ci fossero i continenti, un anello continuo di alta pressione abbraccerebbe tra quelle latitudini l'emisfero. La meteorologia teorica ha dimostrato che così deve essere, che cioè su un emisfero a superficie liscia, per effetto della rotazione terrestre, i movimenti convettivi determinati dal dislivello di temperatura tra l'equatore e i poli determinerebbero attorno a 30° lat. una zona di calma e di alta pressione.
Anche sull'emisfero boreale si osserva la permanenza sui mari, attorno alle stesse latitudini, tanto d'inverno quanto d'estate, di aree o strisce di alta pressione le quali si congiungono d'inverno alle alte pressioni dominanti sui continenti, mentre d'estate si espandono sui mari anche a latitudini più elevate.
Come la distribuzione della temperatura, così quella della pressione sui due emisferi si può quindi considerare la sovrapposizione di due distribuzioni: l'una dovuta alla circolazione generale dell'atmosfera per effetto del dislivello di temperatura fra l'equatore e i poli, l'altra dovuta al diverso riscaldamento della terra e dei mari; la prima permanente nelle sue linee generali (salvo lo spostamento dovuto all'oscillare del sole fra i tropici), l'altra stagionale.
A tale distribuzione di pressione corrisponde la distribuzione ordinaria o stagionale dei venti.
Come si disse, l'aria affluisce verso le aree di bassa pressione ed effluisce dalle aree di alta pressione non normalmente alle isobare, ma in direzione inclinata su di esse verso destra nell'emisfero boreale, verso sinistra nell'emisfero australe. Il moto di afflusso o di efflusso si combina perciò con un movimento di rotazione intorno alle aree stesse; rotazione che nell'emisfero boreale è da destra verso sinistra (opposta a quella dell'indice dell'orologio) attorno alle aree di depressione (ciclone), da sinistra a destra attorno alle aree di alta pressione (anticiclone). Nell'emisfero australe i sensi delle due rotazioni, ciclonica e anticiclonica, s'invertono. In base a questi principî ci spieghiamo la distribuzione dei venti quale è rappresentata nelle carte (v. figure 8 e 9). Vediamo infatti:
1. Attorno alle aree subtropicali d'alta pressione permanenti sugli oceani una deviazione di venti in senso anticiclonico: i venti alisei (da NE. nei mari boreali, da SE. negli australi) verso l'equatore; venti occidentali nelle latitudini medie fino ai cerchi polari presso i quali dominano basse pressioni. Questi sono venti costanti che variano solo di estensione col restringersi d'inverno e col dilatarsi d'estate dell'area oceanica d'alta pressione; e si trasportano con il sole alquanto verso N. durante l'estate boreale e verso S. durante l'estate australe.
2. Attorno agli anticicloni, che d'inverno si formano sui continenti, una circolazione anticiclonica, per effetto della quale sulle coste orientali dei continenti stessi scendono venti di N.-NO. dalle regioni più fredde; lungo il lato meridionale dell'anticiclone dominano venti di NE., cioè ancora venti freddi, sulle coste occidentali e sul lato settentrionale dell'anticiclone venti di S.-SO., cioè venti provenienti da regioni più calde. Dove la costa occidentale è aperta verso il mare, come la costa europea, sono i venti di SO., mantenuti dagli anticicloni subtropicali oceanici, che vengono rafforzati e continuano entro terra portando sulle regioni settentrionali una notevole mitigazione dei rigori invernali. Nell'America del Nord tale afflusso di venti oceanici è impedito dalla Catena delle Rocciose.
3. D'estate le basse pressioni dominanti sui continenti tendono a determinare una circolazione ciclonica. Sul lato occidentale e settentrionale del ciclone asiatico la circolazione non può svolgersi liberamente perché contrastata dall'opposta corrente di SO. permanente sull'Oceano Atlantico e sull'Europa occidentale. Sui lati meridionale e orientale essa si manifesta nel modo più impressionante: è un vero succhiamento d'aria dagli oceani Pacifico e Indiano verso l'interno del continente. In questa regione dall'inverno all'estate si verifica una netta inversione di venti. Sui mari del Giappone e della Cina, e sui paesi contigui, ai venti di NO. emananti dall'anticiclone invernale si sostituiscono venti di SE. chiamati dal ciclone estivo; sui golfi d'Arabia e del Bengala e sulle Indie ai venti di NE., che sono come gli alisei boreali dell'Oceano Indiano si sostituiscono venti di SO. Questi venti opposti, che si alternano così nettamente e in modo così costante tutti gli anni, sono i monsoni, e le regioni da essi battute sono dette regioni monsoniche. Ma un'alternativa analoga si verifica anche altrove, p. es. sulle coste della Guinea, che d'inverno sono battute da venti di NE., mentre d'estate l'aria è assorbita dalla bassa pressione sahariana come vento di SO.
4. Nell'emisfero australe l'influenza dei continenti è molto meno accentuata e si mantiene più evidente la distribuzione corrispondente alla circolazione generale: zona degli alisei e zona dei venti occidentali separate dalla zona subtropicale di alta pressione. Nell'Oceano Indiano l'aliseo di SE. viene d'estate rafforzato per lo stabilirsi a nord dell'equatore del monsone di SO. che lo richiama e ne costituisce la contiuuazione.
Possiamo considerare il vento come elemento essenziale del clima, dove esso è costante, o variabile con leggi determinate, e ha intensità abbastanza elevata da esercitare una funzione meccanica o fisiologica sensibile. Così noi possiamo parlare del clima della Polinesia come caratterizzato dagli alisei, che ne attenuano i caratteri tropicali; mentre nelle maggiori latitudini sono i venti occidentali che dànno l'impronta al clima delle isole. Così possiamo anche parlare di un clima monsonico, e potremo considerare il SO. (libeccio) dell'Atlantico come uno dei fattori principali del clima dell'Europa occidentale, e i venti di NE. (etesî) dominanti d'estate sul Mediterraneo un fattore essenziale del clima delle coste africane. E gli esempî si potrebbero moltiplicare.
Ma la funzione climatica dei venti si esplica anche indirettamente nella circolazione superficiale che essi determinano sugli oceani, e nella distribuzione dell'acqua nelle varie sue forme di vapore, di pioggia o di neve.
Le correnti marine. - La carta di fig. 10 rappresenta la distribuzione delle correnti marine. Rileviamo subito una corrispondenza evidente con la distribuzione delle correnti aeree sugli oceani: due grandi circolazioni anticicloniche tanto sui bacini boreali quanto sui bacini australi dell'Atlantico e del Pacifico. Tale corrispondenza è un rapporto di causa ad effetto: i venti alisei determinano a nord e a sud dell'equatore due correnti equatoriali, che l'ostacolo dei continenti devia in parte verso nord nell'emisfero boreale, verso sud nell'australe. Poi la corrente calda sente l'impulso dei venti di ovest della zona temperata e si diffonde sulla superficie di ciascun oceano in rami, uno dei quali chiude la circolazione anticiclonica ripiegando verso l'equatore. I venti d'occidente scorrono quindi su acque eccezionalmente tiepide; così si aumenta la loro azione temperatrice dei rigori invernali entro i continenti settentrionali. Quest'azione è particolarmente pronunciata nell'Atlantico settentrionale: la Corrente del Golfo ha una portata maggiore, perché assorbe anche una parte della corrente equatoriale australe, che urta e si divide contro la punta orientale dell'America Meridionale (Capo S. Rocco), e perché l'Oceano Atlantico settentrionale è molto più angusto degli altri bacini oceanici, e la corrente conserva quindi fino alle Svalbard una temperatura spiccatamente più elevata. L'andamento delle isoterme sull'Atlantico (fig. 6) dimostra, con la forte insenatura verso nord, tale effetto. Ma anche irregolarità minori delle isoterme sugli altri oceani e lungo le coste dei continenti sono un'evidente manifestazione delle correnti marine. Così l'inclinazione delle isoterme da NE. a SO. attraverso l'Atlantico meridionale è l'effetto della corrente calda (Corrente del Brasile) che da Capo S. Rocco scende lungo le coste orientali dell'America del Sud e della corrente fredda (Corrente del Benguela) che sale dai freddi mari australi lungo le coste occidentali dell'Africa. Una corrente fredda analoga risale lungo le coste del Chile e del Perù ed è segnalata dalla punta delle isoterme più fredde verso nord. Queste correnti calde e fredde hanno un'influenza essenziale sul clima delle zone costiere. Esse mantengono lungo le coste occidentali dei continenti (costa del Portogallo e dell'Africa, coste dal Messico al Chile meridionale) una temperatura eccezionalmente fresca anche nella zona tropicale. Qui inoltre, dove nascono sotto l'impulso degli alisei le correnti equatoriali, l'acqua spinta verso il largo è sostituita da acqua fredda degli strati profondi, la quale contribuisce a mantenere bassa la temperatura.
Si può quindi concludere che, per l'influenza dei venti e delle correnti marine da essi determinate, le coste occidentali dei continenti sono nella zona tropicale e subtropicale notevolmente più fredde, e nelle zone più elevate in latitudine notevolmente più calde delle coste orientali.
La seconda differenza viene accentuata anche dal fatto che le correnti fredde normalmente, o spesso, trasportano ghiacci galleggianti. Questo fattore è particolarmente importante negli oceani boreali dove i continenti si spingono ad alte latitudini. Lungo le coste orientali del Labrador, giù fin oltre il S. Lorenzo e Terranova lungo le coste del Camciatca e delle Curili, discendono correnti fredde, con abbondanti icebergs che mantengono acque fredde costiere. Anche gli enormi ghiacci tavolari, che si staccano dalle piattaforme ghiacciate dell'Antartide, sono trasportati fino alle punte dei continenti australi, e trascinati dalle correnti ascendenti lungo le coste dell'Africa occidentale e del Chile meridionale. Anch'essi contribuiscono a determinare una spiccata differenza di clima fra le due coste dello stesso continente: fra l'Africa del Sud-Ovest e il Natal, fra il Chile e la Patagonia, ma ancor più spiccate fra le coste dell'Europa settentrionale e quelle della Siberia e della Cina.
Oltre le correnti oceaniche superficiali dovute all'impulso dei venti, gli oceani presentano anche una vera circolazione convettiva dovuta a differenze di densità dell'acqua di mare provocate da differenze di temperatura e di salsedine. Il fatto predominante è la formazione di una massa d'acqua fredda in tutta l'estensione degli oceani al disotto dei 1000 m. circa di profondità. Essa è mantenuta dallo sprofondarsi dell'acqua che si raffredda (o che vi aumenta di salsedine per il formarsi di ghiacci che segregano i sali) alle latitudini medie e polari e che vi è sostituita da acqua proveniente dalle zone più calde. Anche questa circolazione, certamente lentissima, rappresenta un'azione temperante del dislivello di temperatura superficiale; ma è particolarmente segnalata la distinzione che crea fra gli oceani in libera comunicazione con i mari polari e i mari interni dove non può penetrare l'acqua fredda degli strati profondi.
Tale è il caso del Mediterraneo, che comunica con l'Oceano solo attraverso lo stretto di Gibilterra. Questo ha la profondità di poche centinaia di metri, essendo al disotto sbarrato da un rilievo roccioso che impedisce la comunicazione. Perciò gli strati profondi del Mediterraneo conservano una temperatura locale, rispondente alla latitudirie e alla posizione, di circa 12°. Anche nei più rigidi inverni la temperatura dello specchio d'acqua non può scendere sensibilmente al disotto di quella temperatura, perché l'acqua superficiale sprofonderebbe e sarebbe sostituita dall'acqua profonda. È questa la causa principale del mite inverno mediterraneo, che definisce un vero clima mediterraneo e determina una caratteristica flora mediterranea. Temperature profonde ancora più alte si mantengono nel Mar Rosso e nei mari delle Antille, e relativamente elevate anche nel Mar Baltico, dove però lo strato superficiale può raffreddarsi fino al congelamento, perché costituito da acque più dolci che si mantengono a galla anche a temperature notevolmente più basse delle profonde. Perciò il Baltico non esercita un'azione temperante dell'inverno, come il Mediterraneo; anzi lo prolunga, perché lo scioglimento dei ghiacci rappresenta un grande assorbimento di calore.
Umidità e pioggia. - L'altra funzione climatica dei venti è la distribuzione dell'acqua in forma gassosa, liquida e solida. Essa rappresenta anche una distribuzione di calore. Sorgente principale del vapor d'acqua è infatti l'evaporazione degli oceani, particolarmente intensa nella zona tropicale più calda. L'evaporazione importa un notevole assorbimento di calore: il calore sottratto all'acqua per trasformarla in vapore. Il vapore sollevato in alto e portato dai venti entro terra anche ad alte latitudini, quando si ricondensa in goccioline nelle nubi e nella pioggia restituisce le calorie di vaporizzazione. Vi è quindi un vero trasporto di calore dalla superficie del mare agli alti strati, tra i mari e le terre, tra le basse e le alte latitudini. Anch'esso contribuisce a diminuire i dislivelli verticali e orizzontali di temperatura.
Il vapor d'acqua diffuso nell'aria, in proporzioni maggiori o minori, costituisce quella che si chiama umidità atmosferica. Ma in un dato volume d'aria a una data temperatura non può mantenersi allo stato gassoso più di una certa quantità di vapore, oltre la quale il vapore si condensa in acqua. Quando un dato volume d'aria contiene la massima quantità di vapore che può contenere alla temperatura del momento, si dice saturo, e se la temperatura allora si abbassa si forma nebbia (o nube, se lontana da terra); se la temperatura si eleva l'aria diventa capace di assorbire altro vapore. Si distingue perciò l'umidità assoluta, che è la quantità di vapore (in gr.) contenuta in un metro cubo d'aria, e l'umidità relativa, che può dirsi la frazione di saturazione, cioè il rapporto centesimale tra il peso di vapore contenuto in un dato volume e il massimo peso che il volume stesso potrebbe contenerne alla temperatura del momento.
L'umidità assoluta ha, come abbiamo veduto, importanza perché il vapore d'acqua dell'aria è il principale assorbente del calore oscuro; è un fattore, ma non può dirsi un elemento del clima, in quanto non ha un riflesso fisiologico evidente e percettibile dagli organismi. Elemento fondamentale è invece l'umidità relativa, perché da essa dipende l'evaporazione dell'acqua e la traspirazione degli animali e delle piante, che influiscono sul ricambio e sulla sensazione fisiologica della temperatura. Quanto minore essa è, tanto più abbondante è l'evaporazione e la traspirazione; è dal suo valore che si distingue un clima umido o asciutto; è dal suo valore che dipende la probabilità della formazione di nebbia, di rugiada o di brina. Gli studî sulla distribuzione delle varie associazioni vegetali su un territorio hanno dimostrato che essa dipende in modo evidente dalla distribuzione dell'umidità relativa. Nella definizione del clima di una regione, sia nei riguardi dell'uomo sia in quelli della vegetazione, l'elemento umidità relativa dovrebbe quindi essere messo in particolare evidenza, ciò che normalmente non si fa.
Si dà invece importanza particolare alle precipitazioni intese tutte come pioggia, come alla principale sorgente dell'umidità dell'aria e del terreno, come a rifornitrici dell'acqua agli organismi vegetali e animali che ne fanno continuo consumo. Vi è evidentemente un rapporto reciproco di causa ed effetto fra umidità e piovosità, e si può fino a un certo punto intendere compenetrato il primo carattere nel secondo, benché non manchino esempî di regioni, come la bassa Lombardia, che per condizioni idrografiche sono molto umide, pur non presentando piovosità molto alte.
La distribuzione delle piogge. - La piovosità di una regione dipende principalmente dalla sua struttura e dai venti in essa dominanti. Causa principale della condensazione del vapor acqueo dell'aria sono i movimenti ascendenti. Si disse già che una massa d'aria non satura che si solleva si raffredda di quasi 1° ogni 100 m. di sollevamento, e quindi può raggiungere presto la temperatura dl saturazione per il vapore che essa contiene. Questo si condensa in goccioline che formano le nubi, e ingrossandosi cadono come pioggia. Questo principio spiega la distribuzione delle piogge, nelle sue linee generali, sulla superficie terrestre, quale è rappresentata dalla carta ricavata dall'opera di Köppen (fig. 11).
In essa vediamo una zona equatoriale umida (cioè a piogge abbondanti, attorno a oltre 800 mm.) che si estende anche a sud sul lato orientale dei continenti sudamericano e sudafricano, dove battono gli alisei australi. Le piogge equatoriali corrispondono alla zona più calda dove l'aria si solleva; le coste battute dagli alisei sono piovose, perché quei venti marini sono costretti a sollevarsi dal rilievo continentale. Anche le parti orientali dell'America Centrale e degli Stati Uniti meridionali sono piovose perché battute dagli alisei boreali. Invece le coste occidentali del Perù, del Messico, e dell'Africa meridionale, benché a contatto con il mare, sono molto asciutte, perché gli alisei australi del Pacifico e dell'Atlantico sono diretti verso il largo e allontanano quindi dalla terra i vapori oceanici. Alle latitudini temperate di ambedue gli emisferi troviamo invece piovose le coste a ovest delle Rocciose e delle Ande, mentre a est si estendono zone asciutte (steppe o deserti), perché si entra nel regno dei venti di ovest, che abbandonano le piogge sul lato occidentale, e arrivano asciutti sopra il lato orientale dei rilievi. Anche il continente australiano si presenta piovoso sul lato orientale battuto dagli alisei e sul lato meridionale battuto dai venti di ovest, mentre i lati orientale e settentrionale, dai quali gli alisei si allontanano, e tutto l'interno, protetto a oriente dalla catena delle Alpi Australiane contro l'accesso dei venti umidi, sono asciutti. Qui siamo inoltre, come nell'Africa meridionale, nel dominio della zona subtropicale di alta pressione, dove nascono gli alisei. Questi sono alimentati da aria discendente e quindi asciutta, perché nel moto di discesa si riscalda per compressione: siamo quindi in una condizione di grande secchezza d'aria, che spiega il deserto centrale d'Australia e il deserto di Kalahari nell'Africa. Le stesse condizioni, venti divergenti e anticiclone subtropicale, spiegano la permanenza dei deserti di Sahara e d'Arabia, nonostante che siano da quasi tutti i lati aperti sugli oceani. I deserti centrali d'Asia (Tibet, Turkestān e Mongolia) si spiegano invece con la muraglia di monti che li circondano.
I venti di sud-ovest dell'Atlantico determinano alta piovosità sulle coste occidentali dell'Inghilterra e della Norvegia, e piogge non molto basse in tutta la zona interna del continente.
Anche le grandi estensioni degli oceani alle latitudini medie e superiori mantengono piovosità elevate, determinate principalmente dall'incontro di correnti aeree, caldo-umide tropicali e fredde polari, che, secondo le moderne teorie, sono la causa principale dei vortici ciclonici e del sollevamento del vapor d'acqua.
Lo stesso principio, che i sollevamenti d'aria determinano pioggia, spiega anche in molti casi il regime stagionale. Così nella regione dei monsoni abbiamo le piogge estive corrispondenti ai monsoni oceanici; come nelle regioni continentali, che d'estate diventano sede di bassa pressione. Invece sui mari e lungo le coste dominano di regola, cioè se non prevalgono altre cause (p. es. i monsoni), le piogge invernali perché sul mare più caldo si mantiene d'inverno pressione minore.
Si comprende però che da questa molteplicità di condizioni, che possono determinare movimenti d'ascesa dell'aria e quindi formazione di pioggia, e alle quali possono aggiungersi altre cause, come l'incontro e la miscela di masse d'aria umida di temperatura diversa, deve derivare una grande complessità e variabilità, nel luogo e nel tempo, della quantità e del regime delle piogge.
Nuvolosità. - La distribuzione delle piogge e il loro regime stagionale sono tra i principali elementi del clima, non solo come caratteri fondamentali del tempo e per il loro effetto fisiologico sulla vegetazione, sulla fauna e sull'uomo, ma anche perché nella loro determinazione è all'ingrosso implicita anche quella della nuvolosità, che ha una portata così rilevante sul bilancio termico. Uno strato di nubi infatti arresta non solo la radiazione diretta del sole, ma anche l'irradiazione oscura del suolo: il primo effetto si esplica in generale di giormo e nei mesi estivi in una diminuzione delle temperature massime; il secondo si esplica di notte e nei mesi invernali in una attenuazione dei minimi di temperatura. Una notte, un inverno sereno sono assai più freddi di una notte o di un inverno in cui domini il cielo coperto. Raramente però fra i dati climatologici viene compresa la nuvolosità, la cui valutazione a occhio, in decimi di cielo, è sempre incerta e locale e generica, in quanto può avere diverso significato secondo la specie delle nubi osservate.
Neve e ghiaccio. - Caratteri affatto speciali ha il clima dei paesi nei quali le precipitazioni invernali sono, per periodi più o meno lunghi, nevose, e sui quali la neve permane abbastanza a lungo. Nella formazione della neve entro la nube si sviluppano, oltre le calorie di liquefazione del vapore (circa 600), quelle di solidificazione dell'acqua (80); ma tale sviluppo negli alti strati non ha che un effetto indiretto e molto attenuato sulla temperatura degli strati bassi dell'aria.
Lo sciogliersi della neve sul suolo rappresenta una causa di raffreddamento, dovuto all'assorbimento delle 80 calorie di liquefazione. Uno strato di neve è una condizione di permanenza e d'incrudimento del freddo, perche impedisce che anche in giorni sereni il sole riscaldi la superficie del terreno sopra 0° e perché la neve ha un fortissimo potere irradiante e quindi può raffreddarsi anche di molti gradi sotto 0° durante le lunghe serene notti invernali. Esso rende più rigido e prolunga l'inverno, perché il suolo non può risentire dei tepori primaverili finché tutta la neve non è sciolta. D'altra parte, nei paesi a inverno molto freddo, uno strato di neve protegge il terreno dal congelamento profondo; appena questo se ne spoglia può iniziarsi il riscaldamento, mentre il terreno nudo, congelandosi fino a grande profondità, può mantenersi gelato negli strati profondi. Queste funzioni degli strati nevosi hanno grande importanza, non solo per il clima, ma per la vegetazione e le colture.
La distribuzione e la durata della neve sulle terre emerse influisce e dipende a sua volta dagli altri fattori del clima, auzitutto dalla latitudine, in quanto da essa dipende l'intensità della radiazione solare. Sono eccezionali le precipitazioni nevose a latitudini inferiori a 40°, benché sulle coste orientali dell'Asia, dove abbiamo visto scendere i venti freddi di NO. dell'anticiclone continentale, esse possano discendere fin sotto 30° lat. Nelle regioni a clima più continentale le nevi sono scarse perché d'inverno vi dominano le alte preasioni: perciò la Siberia e il Canada hanno nevi non molto abbondanti, e la primavera relativamente precoce. Invece le terre australi, a clima prevalentemente oceanico, hanno nevi abbondantissime e perpetue anche a latitudini relativamente basse, concorrendo, con gli abbondanti ghiacci galleggianti che emanano dall'Antartide, a mantenervi temperature estive eccezionalmente basse (non oltre 6° a 50° lat.). Nella crociera del Challenger, nel colmo dell'estate (febbraio) si misurò una temperatura fra 2°,2 e 3°,9 all'isola Heard a 53° lat. S. La nevosità cresce anche con l'altitudine, in quantità e durata, potendosi nelle catene più alte superare il limite delle nevi perpetue, al disopra del quale la superficie della montagna si mantiene in parte perennemente coperta di ghiaccio. Questo limite delle nevi si abbassa con il crescere della latitudine, anche fino al livello del mare nell'Antartide; ma esso dipende anche dalla continentalità, elevandosi nelle regioni a inverno asciutto come nel Himālaya, e abbassandosi fin quasi al livello del mare, dove, come nella Terra del Fuoco, dominano i venti marini. Ma nella stessa catena versanti diversamente esposti hanno nevosità diverse e il limite delle nevi perpetue ad altitudini diverse.
Abbiamo già accennato alla grande influenza che possono esercitare sul clima i ghiacci galleggianti, che dai mari polari le correnti possono trasportare fino a latitudini subtropicali. Quest'azione è particolarmente manifesta nell'emisfero australe, dove l'immensa calotta glaciale dell'Antartide esercita un'estesa azione refrigerante per mezzo dei venti che da essa emanano, dei ghiacci galleggianti, e delle fredde acque dovute allo scioglimento di questi e che, per la minore salsedine, si mantengono superficiali fino alla linea di Meinardus, fra il 50° e il 40° parallelo.
Normali climatiche. - Secondo la definizione di clima, importa definire il carattere normale di ciascun elemento per ciascuna regione, il carattere cioè dominante, al disotto delle variazioni accessorie e passeggere. In questa distinzione vi è certamente qualche cosa di arbitrario, perché a costituire il carattere di un clima concorre anche la maggiore o minore variabilità dei suoi elementi, e perché non è sempre facile definire, in qualità e misura, la normalità di un elemento.
Quando l'elemento è misurabile, si assume di regola come valore normale la media aritmetica dei valori osservati in un lungo periodo di tempo. Con ciò si ammette implicitamente che l'elemento non sia stato soggetto in quel periodo a una variazione progressiva e che le differenze dei singoli valori dalla media si possano considerare, o come errori accidentali di osservazione, o come fasi di oscillazioni periodiche attorno alla media stessa, le quali naturalmente nella media si annullano.
Per alcuni elementi queste tacite ammissioni appaiono giustificate, per altri no. Così per la temperatura noi sappiamo che i fattori astronomici, che la determinano, hanno una variazione diurna e una variazione annua ben definite, alle quali dovrebbero corrispondere variazioni periodiche della temperatura, se si potesse ammettere che anche tutti i fattori meteorologici fossero soggetti a variazioni di eguali periodi. Abbiamo veduto che questo in parte si verifica per i venti (monsoni, brezze, venti di valle, circolazioni ciclonica e anticiclonica, alternantisi sui continenti e sui mari) e in alcuni casi per le piogge (piogge monsoniche, piogge estive continentali e piogge invernali oceaniche, e regimi intermedî). Appare quindi naturale considerare la temperatura come una funzione continua a varî periodi dipendenti dai periodi astronomici (come si è fatto nei calcoli relativi alla temperatura del suolo), sviluppabile cioè in serie di funzioni periodiche, e di assumere il termine costante dello sviluppo come pressione di una temperatura media dipendente dal luogo. Noi potremo anche distinguere gli sviluppi corrispondenti ai varî periodi: per ora dobbiamo limitarci al periodo diurno e al periodo annuo, non possedendosi materiale sufficiente per stabilire in modo sicuro l'esistenza di periodi più lunghi (undecennale delle macchie solari, trentacinquennale di Brückner, o periodi analoghi, quali sembrano rivelati da serie singole di osservazioni locali); benché la probabile esistenza di queste più lunghe oscillazioni attribuisca sempre un carattere di provvisorietà alle medie dei periodi più brevi.
Sui dati di una lunga serie d'anni si possono determinare, con il metodo dei minimi quadrati, le costanti delle formule periodiche, tanto del periodo diurno nelle varie epoche dell'anno, quanto nel periodo annuo, delle temperature medie diume.
Generalmente si esprimono le variazioni diurna e annua della temperatura, come di altri elementi climatologici, con la formula di Bessel, cioè con una serie di Fourier arrestata ai primi termini. In queste formule a un termine costante, che rappresenta la media (diurna o annua), segue un termine che rappresenta una variazione armonica (funzione trigonometrica) del periodo considerato, e poi altri termini armonici di periodi sottomultipli (di 1/2, 1/3, 1/4, ecc. giorno o anno). Generalmente la corrispondenza fra i dati della formula e i dati d'osservazione è tanto maggiore quanto maggiore è il numero dei termini, diminuendo progressivamente i coefficienti (ampiezza) dei termini successivi. È noto che qualunque funzione che non sia soggetta a singolarità eccezionali è sviluppabile in una serie di Fourier, la quale non è che un'espressione analitica del fenomeno.
Però dato un numero finito di termini, non è detto che essi vadano progressivamente diminuendo. Nella discussione della serie secolare delle temperature di Milano il prof. Celoria constatò che la formula di Bessel arrestata al quarto termine armonico presentava ancora divergenze notevoli dalla serie delle osservazioni (medie decadiche) e dovette aggiungere un quinto termine, la cui ampiezza risultò maggiore di quella di termini precedenti, e la corrispondenza non era ancora perfetta. Non bisogna quindi attribuire a queste rappresentazioni analitiche un significato fisico che esse in generale non hanno. Solo nel caso che nel fenomeno considerato, come nel suono, alla vibrazione (nota) principale si sommino armoniche di periodi sottomultipli, la formula rappresenta una vera analisi del suono, scomposto nella nota principale e in un gruppo d'armoniche, che ne definiscono il timbro. Così nel periodo diurno della pressione si osserva realmente, in condizioni non perturbate di tempo, la sovrapposizione di una onda semidiurna, che anzi prevale sulla diurna: e quindi la formula di Bessel, anche arrestata al secondo termine periodico, è in ogni suo termine rappresentazione della realtà. Ciò non si può dire né del periodo diurno né del periodo annuo della temperatura, e tanto meno di altri elementi come la piovosità, la nuvolosità, il vento. Una formula analitica non sostituisce mai esattamente la tabella dei dati d'osservazione.
Nella pratica si è adottata la media aritmetica come espressione della condizione normale di tutti gli elementi. Così si può assumere come temperatura normale di una data ora di un dato giorno dell'anno la media delle temperature osservate a quell'ora, in quel giorno, di un gran numero d'anni; come temperatura normale di un mese la media delle temperature mensili di molti anni, e come normale annua la media delle medie annuali di molti anni. Per fenomeni discontinui come la pioggia si usa dare soltanto le normali mensili e annue, espresse dalle medie aritmetiche delle quantità di pioggia o del numero dei giorni piovosi misurati per ciascun mese o per ciascun anno di un lungo periodo. Si comprende però che in queste rappresentazioni di uno stato normale, che effettivamente può anche non verificarsi mai, vi è sempre dell'arbitrario, sia di principio sia di metodo, potendo sembrare più conveniente l'applicazione di metodi statistici meno grossolani o più corrispondenti alla natura dell'elemento che si considera. I metodi finora usati trovano la loro giustificazione nell'irregolarità stessa dei fenomeni, che possono essere rappresentati soltanto nelle loro linee fondamentali. Si usa perciò a ogni media, che si assume come espressione della normalità, accompagnare la misura delle deviazioni da essa (escursioni), medie ed estreme, positive e negative, come pure la frequenza, cioè il numero delle volte che in un dato periodo si è presentato un elemento, in una data fase o intensità.
I dati più comunemente riassunti per la definizione del clima di una regione sono le medie mensili e annue: per la temperatura specialmente le medie di gennaio e di luglio, mentre il regime della pioggia non sarebbe sufficientemente espresso soltanto dai valori estremi di quantità e di frequenza. Per il vento la rappresentazione più espressiva è quella grafica di frequenza secondo le varie direzioni; anche questa per mesi o per anno, a seconda della diversa variabilità del regime. Però molto spesso di questi elementi più mutevoli, pioggia e vento, come di altri per i quali è più difficile dare una misura, e talvolta anche una definizione generale (come la nuvolosità e la nebbia, in quantità e qualità) è preferibile dare un'idea sintetica o descrittiva a parole.
Se si vuol dare una climatologia comparata, di parte o di tutta la superficie terrestre, fondata su medie numeriche, sarebbe assolutamente necessario che le medie fossero fra loro comparabili, avessero lo stesso peso, si riferissero cioè a un medesimo periodo completo di anni, e che per la temperatura le medie diurne, dalle quali si calcolano le medie mensili e annue, fossero vere medie, quali si dedurrebbero dall'integrazione della curva continua di termometri registratori. Quanto a questo secondo punto è noto che in base a molteplici studî si determinarono ore fisse di osservazione di temperatura, la cui media, combinata eventualmente con i valori massimo e minimo, risulta, in base a confronti continuati con termografi, o con osservazioni orarie, quasi esattamente coincidente con la media vera. Quanto al primo punto, se per alcune stazioni esistono lacune entro il periodo comune di confronto, si cerca di riempirle con interpolazioni suggerite dall'andamento del fenomeno in stazioni contigue, quando esso presenti conformità con queste nei tratti di osservazione contemporanea.
Classificazione dei climi. - In base ai principî svolti finora, si comprende quanto complessa sia la definizione di clima di un paese, anche tenendo conto soltanto dei due elementi più evidenti, temperatura e pioggia (o neve). Si può dire che ogni paese ha un suo clima, come ogni individuo ha un suo carattere. Si può anche affermare però, in base ai principî svolti, che, quando di un paese siano date la posizione geografica e topografica (latitudine e longitudine, altitudine, esposizione, grado di continentalità) e la posizione meteorologica, riferita cioè ai centri permanenti o stagionali di alta e bassa pressione, si possono assegnare a priori, almeno nelle linee generali, i caratteri del suo clima.
Non parrebbe quindi necessaria una classificazione sistematica dei climi, che ha sempre dell'arbitrario e del forzato, e che d'altra parte non può abbracciare tutte le possibilità e tutte le particolarità attuali. Tuttavia molti furono i tentativi di una tale classificazione, basati su criterî biologici, idrologici, meteorologici, economici.
De Candolle e Grisebach sono i creatori della climatologia botanica, in quanto diedero i primi tentativi di una classificazione dei climi fondata sull'ecologia di determinate specie vegetali. Tali tentativi furono meglio coordinati alla conoscenza dei fatti meteorologici da W. Köppen. Egli accetta la grande distinzione di De Candolle in cinque classi di piante basate sul diverso adattamento all'ambiente termico (Megathermae, Xerophilae, Mesothermae, Microthermae, Hekistothermae), classi che egli indica con i seguenti caratteri termici e pluviometrici più particolareggiati: a) climi di bassopiano tropicale: temperatura del mese più freddo sopra 18°; piogge abbondanti; b) clima delle xerofile: permanente povertà di pioggia; c) climi temperati: temperatura del mese più freddo sotto 18°, estate generalmente calda; piogge variabili in quantità e distribuzione annua; d) climi freddi: temperatura del mese più caldo non sopra 22°, non sotto 10°; del mese più freddo sotto 6°; nevi in inverno, piogge sufficienti in estate; e) clima glacìale (di gelo permanente): temperatura anche del mese più caldo sotto zero. Ogni classe è suddivisa in sottoclassi (in due la prima, in una sola l'ultima, in sette ciascuna delle tre intermedie) distinte da un luogo tipico, o da una pianta o associazione vegetale tipica. Si comprende l'indeterminatezza di una tale classificazione, fondata su criterî variabili e senza tener conto delle attitudini di acclimazione delle piante.
Più tardi O. Drude, botanico, volle tener conto, tra i fattori dell'ambiente vegetale, anche della luce: la sua classificazione in 4 classi e 18 tipi ha valore più botanico che climatologico.
Il meteorologo russo Voejkov (Woeikoff) suggerisce indirettamente una classificazione dei climi secondo il carattere dell'idrografia superficiale che essi determinano. I fiumi alimentati principalmente dallo sciogliersi delle nevi di pianura o di bassa montagna sono caratteristici di climi piovosi a inverno freddo, ma a estate abbastanza calda, mentre fiumi alimentati specialmente dai ghiacciai d'alta montagna significano inverno non molto nevoso. Fiumi a magre invernali e piene estive, se non sono alimentati da fusione di nevi alpine, sono indice di clima continentale, mentre se sono a piene invernali e magre estive sono indice di clima oceanico. Mancanza di acque superficiali (se non si tratta di ragioni carsiche) è caratteristica del clima arido.
L'indirizzo del Voejkov fu seguito ed elaborato meglio da Penck, il quale distingue:
1. Il clima umido: maggiore la pioggia dell'evaporazione: a) polare, non freatico, cioè senza acqua di falda profonda perché il terreno gela: lungo congelamento dei fiumi, rapide piene estive, per scioglimento di neve, lunghe magre invernali; b) freatico, con acque di falda e sorgive, che contribuiscono con le piogge all'alimentazione dei fiumi. Sottotipi dipendenti dal diverso regime delle piogge (tropicali, monsoniche, estive, invernali, ecc.).
2. Il clima arido: evaporazione maggiore della pioggia: c) semiarido: torrenti; l'acqua assorbita dal terreno in gran parte rievapora; formazione di una crosta superficiale; d) assolutamente arido.
3. Il clima nivale: e) seminivale: nevi alternate da piogge; f) assolutamente nivale. Si comprende l'eccessiva unilateralità del criterio che sta a base di tali classificazioni.
Sui caratteri meteorologici si basano altre classificazioni, come quelle di De Martonne, di Hettner, di Philippson, di Hermann Wagner e di W. Köppen. Quest'ultima appare la più fondata nei suoi principî generali, e la più analitica sulla base dei dati statistici, che le conferiscono tuttavia una rigidità, alla quale troppo spesso si sottrae la realtà climatologica. Essa ebbe in Germania la più larga accoglienza, anche perché permette una rappresentazione cartografica, e un'espressione simbolica dei tipi che ha però significato soltanto per i Tedeschi (fig. 12).
Il Köppen distingue anzitutto cinque classí fondamentali, divise ciascuna in due o tre tipi:
Particolari di dettaglio, e le suddivisioni segnalate per limiti di temperature, sono indicate con lettere.
Così p. es. il clima stepposo e il clima desertico sono definiti da una combinazione della temperatura e della pioggia annuale con le lettere S (da 5°1/2 + 161/2 cm a 11° + 33 cm.) e W (Wüste) (t0 + 161/2 cm.). Il clima polare con T se la temperatura del mese più caldo è fra 0° e 10°, con F se è sotto zero. Poi con a, b, c,... fino a n (alcune lettere ripetute con apici anche doppî e tripli) sono indicate speciali condizioni di temperatura: a temperatura del mese più caldo > 22°, b 〈 di 22°; c per non più di 4 mesi > 10°, minimo mensile > − 36°...; f costantemente umido; .....; n nebbia frequente, n′ nebbia meno frequente, ma umida e fredda, n″ nebbia, più caldo, n‴ molto caldo (estate t > 28°)...; s periodo asciutto in estate (Sommer); w periodo asciutto in inverno (Winter); s′w′ stagione delle piogge spostata verso l'autunno; s″w″ due stagioni di pioggia divise da un piccolo periodo asciutto.
Nonostante tutto questo dettaglio il Köppen si trova costretto a introdurre dei tipi strettamente locali, come g, tipo del Gange (massima temperatura prima dei mesi estivi, per effetto delle piogge monsoniche); t′ tipo del Sudan (stagione più fredda dopo il solstizio estivo); t″, tipo del Capo Verde (stagione più calda in autunno). E nuove correzioni e aggiunte furono recentemente introdotte dal Köppen (Meteor. Zeitschrift, 1929). Il clima di una regione viene così definito da un numero o da un gruppo di lettere. Per esempio è segnato 6 o Csa il clima temperato piovoso, a estate asciutta, calda, con temperatura del mese più caldo superiore a 22°.
Si comprende la comodità di una tale rappresentazione, che è anche suscettibile di una figurazione cartografica. Una carta in cui i varî climi sono rappresentati, oltre che dai simboli, da tratteggi differenti, è infatti inserita nel volume; ne fu costruita anche una carta murale. Hermann Wagner misurò planimetricamente su di esse l'area occupata da ciascuno degli undici tipi principali (Petermanns Mittheil., 1921). In percentuale esse sono:
Alberto Penck prese questa distribuzione a base di un computo della popolazione potenziale della terra, estendendo a tutta l'area di ciascuna sezione la massima densità che si verifica in essa, e che potrebbe verificarsi se tutta l'area fosse bonificata.
Si comprende che vi è sempre qualche cosa di arbitrario nella definizione e nella limitazione dei tipi, e che la valutazione di tutti gli elementi caratteristici del clima di una regione non può raggiungere che un grado relativo di completezza.
Una classificazione dei climi sulla base del loro valore economico, in quanto possono riflettersi sulla produzione e sul commercio, non può aver base, perché in queste attività entrano troppi elementi arbitrarî, dipendenti cioè dai bisogni e dai gusti variabili dei gruppi umani. Infatti le classificazioni climatologiche accettate da geografi economisti sono sempre sulla base dei principî generali, astronomici, terrestri e meteorologici considerati sopra. Così p. es. Sieger, sintetizzando le classificazioni precedenti, distingue i seguenti 14 tipi: 1. clima equatoriale e tropicale sempre umido; 2. clima tropicale continentale (savanna e steppa spinosa); 3. clima tropicale monsonico; 4. clima degli alisei (tropicale caldo, ventilato); 5. clima di regione elevata calda; 6. clima di steppa subtropicale e di prateria (semiarido); 7. clima dci venti etesî; 8. clima monsonico subtropicale ed extratropicale; 9. clima extratropicale oceanico; 10. clima extratropicale continentale; 11. clima di regione elevata fredda; 12. clima extratropicale arido; 13. clima della tundra (terreno gelato); 14. clima del gelo eterno.
Essi possono considerarsi un riassunto abbastanza adeguato, per quanto molto generico, dei fattori predominanti nella formazione dei climi.
Bibl.: J. Hann, Handbuch der Klimatologie, voll. 3, 2ª ed.; L. De Marchi, Climatologia, Milano 1890; H. Kimball, Amount of solar radiation that reaches the surface of the Earth on the land and on the sea and methods by wich is measured, in Monthly Weather Review, ottobre 1928; W. Ferrel, Temperature of the atmosphere and Earth's surface, in Professional Papers of the Signal Service, XIII, Washington 1884; L. De Marchi, Le cause dell'èra glaciale, II: La temperatura dell'aria, Pavia 1895; W. Zenker, Die Verteilung der Wärme auf der Erdoberfläche, Berlino 1888; Alph. De Candolle, Géographie botanique raisonnée, in Archives des sciences de la Bibliothèque universelle de Genève, Ginevra 1874; A. Grisebach, Die Vegetation der Erde nach ihrer klimatischen Anordnung, II, Lipsia 1872; W. Köppen, Versuch einer Klassifikation der Klimate vorzugsweise nach ihren Beziehungen zur Pflanzenwelt, in Geogr. Zeitsch., 1900; O. Drude, Die Ökologie der Pflanzen, Brunswick 1913; A. Woeikoff, Die Klimate der Erde, III: Flüsse und Landseen als Produkte des Klima, Jena 1887; E. De Martonne, Traité de géographie physique, 4ª ed., Parigi 1928; A. Hettner, Die Klimate der Erde, in Geogr. Zeitschrift, 1911; A. Philippson, Grundzüge der allg. Geographie, I, Lipsia 1927; H. Wagner, Lehrbuch der Geographie, 10ª ed., Hannover 1922; W. Köppen, Die Klimate der Erde, in Grundriss der Erdkunde, Berlino e Lipsia 1923; A. Penck, Die Hauptprobleme der physischen Anthropogeographie, in Zeitschrift für Geopolitik, II (1925); R. Sieger, Geographie des Welthandels, IV, Vienna 1921.
Variazione dei climi. - Le variazioni e le alterazioni che ognuno può osservare nel clima del proprio paese non sono soltanto mutazioni passeggere e incostanti: si constatano mutazioni permanenti per serie e gruppi d'anni consecutivi. Si ricordano nell'Italia settentrionale successioni d'invernate più costantemente rigide e nevose negli anni dal 1870 al 1890, e primavere più precoci, e gruppi d'estati più calde, che non negli ultimi decennî.
Quest'impressione soggettiva, e perciò suscettibile anche di un'interpretazione puramente fisiologica, in quanto potrebbe derivare da maggior potere di accomodamento all'ambiente, conseguente ai maggiori e più estesi mezzi di difesa contro il freddo e contro il caldo, è confermata invece da prove obiettive, meteorologiche. Recentemente A. Wagner avrebbe rilevato una diminuzione dell'escursione annua (inverni e estati più miti) che, affermatasi al principio del sec. XIX nell'Europa settentrionale, si sarebbe propagata verso sud, essendosi, tra la fine del secolo scorso e il principio dell'attuale, portata a nord delle Alpi, ma con ripercussione anche a sud di esse. Secondo il Wagner tale attenuazione del clima sarebbe l'effetto di un aumento, pure rilevato dai dati d'osservazione, del dislivello barometrico tra le alte pressioni subtropicali e le basse pressioni circumpolari, e quindi di un rafforzarsi della circolazione aerea, e in particolare dei venti meridionali, nelle latitudini medie.
I dati meteorologici, la cui raccolta sistematica, su estensioni abbastanza vaste delle terre emerse, rimonta a poco più di un secolo, hanno dato materia per la ricerca di variazioni periodiche o progressive dei singoli elementi del clima, in particolare della temperatura e della piovosità, nei varî paesi. L'opera più conclusiva è quella di E. Brückner (v. Bibl.). Egli si basò, prima che sulle misure degli elementi fondamentali del clima, piogge e temperatura, sui loro effetti idrologici: livello dei laghi chiusi e aperti, livelli e portate dei fiumi, avanzamento e ritiro dei ghiacci. Questi fenomeni possono infatti considerarsi come effetti integratori delle vicende di quegli elementi, in quanto ne esprimono le ampie variazioni e non ne ripercuotono le oscillazioni rapide e irregolari. Essi rivelarono una variazione periodica di una durata oscillante attorno ai 35 anni. Questo periodo è giustamente conosciuto con il nome del suo scopritore, che, con analisi e critica minuziose delle più lunghe serie di osservazioni meteorologiche, lo trovò confermato nei dati di pioggia e di temperatura. Si ripeterebbero cioè, con intervallo medio di 35 anni, periodi freddo-piovosi e periodi caldo-asciutti. Questa conclusione è finora la più documentata benché non sembri avere avuto conferma evidente negli ultimi due periodi, e benché la discussione di elementi locali di varî paesi abbia messo in luce altri periodi probabili. Così Dainelli troverebbe un periodo di 25 anni nella piovosità della Toscana, Barduzzi di 19 nella temperatura del Modenese, Marvin periodi oscillanti fra 50 e 100 anni nelle stagioni nordamericane, e i casi si potrebbero moltiplicare; per non parlare del periodo undecennale delle macchie solari che si è visto riflesso nella più grande varietà di fatti climatici, agrarî, economici, demografici, ecc.
Le conclusioni diventano tanto più incerte quanto più risaliamo nel tempo. In base agli spogli di cronache e storie locali francesi, inglesi, belghe, olandesi, tedesche, scandinave, austriache e dell'Italia settentrionale (oltre 350), e da monografie climatologiche di varî autori, recentemente C. Easton (v. Bibl.) pubblicò un registro di dati relativi agl'inverni dell'Europa occidentale dal 396 a. C. al 1916, con molte lacune nei periodi più antichi, ma quasi completo nei secoli più recenti. Egli si fonda anzitutto sullo studio degl'inverni 1852-1916 in 10 stazioni di Francia, Svizzera, Belgio, Olanda, oltre Greenwich in Inghilterra, che possiedono serie d'osservazioni abbastanza lunghe e omogenee; e classifica gl'inverni di questa zona in base a coefficienti numerici dedotti dalle medie termiche mensili, dal numero di giorni di gelo e di giorni senza gelo, dei giorni a temperatura 〈 10°, e delle medie dei tre minimi estremi in tre mesi differenti tra il novembre e il marzo. Dai caratteri segnalati per gl'inverni nei periodi anteriori, confrontati con quelli del periodo studiato, l'autore crede di poter assegnare a tutti gl'inverni della serie un coefficiente numerico che li definisce. Egli deve però, con questo, ammettere a priori la conclusione alla quale erano arrivati Arago (Øuvres, VIII, p. 395) e Angot (Ann. d. Bureau Centr. Mét. France, 1897): che il clima d'Europa è in "equilibrio stabile" (Arago), che cioè "gli scarti dalle medie normali obbediscono alla legge degli errori, si possono cioè considerare dovuti a cause fortuite" (Angot). Prescindendo dall'artificiosità di quella valutazione numerica, le tavole dell'Easton, dove gl'inverni sono classificati anche qualitativamente come tiepidi, dolci, normali, freddi, rigidi, molto rigidi e grandi inverni, non indicherebbero una variazione progressiva: la qualifica più frequente è normale.
A tale conclusione contraddirebbero quelle dedotte da altro ordine di prove: da prove biologiche, basate cioè sulla distribuzione e sulle variazioni della flora. Tra esse una delle più originali e, fino a prova contraria, delle più persuasive è quella dedotta dallo studio degli anelli annuali di crescenza di piante d'alto fusto. Tale studio fu iniziato anzitutto su esemplari di una conifera di clima semiarido, il pino giallo, Pinus ponderosa, delle Rocciose occidentali. Naturalmente in clima asciutto è più sensibile l'influenza di una variazione di piovosità sul processo annuo di crescenza, risultando gli anelli di crescenza degli anni umidi più grossi di quelli degli anni di siccità. Così si sarebbe constatato (A. E. Douglas) un periodo undecennale di umidità, corrispondente al periodo delle macchie solari, e in generale una corrispondenza attuale fra le annate umide e la grossezza degli anelli: corrispondenza che autorizza a estendere le stesse conclusioni anche agli anelli più antichi. Centinaia di tronchi di una gigantesca conifera californiana, la Sequoia, permisero di risalire fino a più di 1800 anni prima di Cristo. La corrispondenza fra le serie delle piante americane e quelle di piante europee, norvegesi, tedesche, inglesi e dell'Asia centrale, autorizzerebbe, secondo Huntington, a riconoscere un'alternanza di lunghi periodi piovosi e lunghi periodi asciutti nelle regioni temperate dell'emisfero boreale. Così prevalentemente piovoso sarebbe stato il periodo dal 1800 a. C. al 400-500 d. C., con un massimo attorno al 400 a. C. Altri massimi piovosi si sarebbero verificati attorno al 1000, al 1350, tra il 1600 e il 1645. Quest'ultimo periodo sarebbe confermato da una grande espansione dei ghiacciai alpini (Brückner). Secondo Huntington il fiorire e la decadenza della civiltà greco-romana concorderebbero con l'affermarsi e con l'estinguersi del lungo periodo piovoso tra il 1200 a. C. e il 400 d. C. La caduta dell'Impero romano sarebbe conseguenza soprattutto delle grandi trasmigrazioni dei popoli orientali, provocate dal progressivo inaridimento dell'Asia centrale. Tali trasmigrazioni sarebbero cessate verso il 700 d. C. con il riprendersi di un periodo piovoso. Con analoghe considerazioni si potrebbero spiegare lo sviluppo e la decadenza delle antiche civiltà dell'America Centrale. Si tratta evidentemente di costruzioni alquanto fantastiche, le quali provano tuttavia la fiducia nel metodo e nel significato climatico dei fatti da esso rivelati.
Il contrasto fra le conclusioni di questo metodo e quelle dedotte dalle notizie meteorologiche e storiche, impone un grande riserbo, e fa riconoscere la necessità di una nuova esplorazione sistematica di tutti i documenti storici e letterarî, meteorologici e idrologici, e biologici che possono contribuire a definire l'evoluzione del clima nei tempi storici. Tale necessità fu riconosciuta nei Congressi internazionali di geografia al Cairo nel 1925 e a Cambridge nel 1928.
Risalendo ancora nei millennî, vengono a mancare completamente le prove documentali di probabili evoluzioni del clima, e non rimangono che prove geologiche, ricavate cioè dallo studio dei terreni e dei fossili vegetali e animali.
Così, in base ai caratteri di depositi fluviali, lacustri, palustri ed eolici si sarebbe stabilita la seguente successione, a rovescio, di condizioni climatiche: 1. un periodo di carattere continentale, a forte escursione annua di temperatura e scarse piogge, con vegetazione a macchia e foresta (fase dellaforesta); essa risalirebbe dal 1600 circa (età del bronzo) al 3000 a. C.; 2. un periodo di carattere oceanico, dovuto a più facili comunicazioni dell'Atlantico col Mar Baltico e con il Mare Glaciale Artico, a inverno più mite dell'attuale, specialmente nell'Europa settentrionale (fase ottima, del postglaciale): secondo Brooks questa fase si inizierebbe verso il 4000 a. C., secondo altri assai prima, verso il 6000 a. C.; 3. un altro periodo di carattere continentale, a clima più asciutto, inverno freddo e estate calda: è una più antica fase della foresta, che risalirebbe a oltre il 6000 a. C., e in parte coinciderebbe con l'ultima fase di avanzata dei ghiacciai (fase Daun di Penck e Brückner) che è assegnata a circa 5000 anni a. C.; 4. un lungo periodo durante il quale gran parte dell'Europa e dell'America Settentrionale fu sotto l'alternativa di periodi più o meno freddi o temperati, dovuti ad altre fasi di avanzata e ritiro di ghiacciai dominanti sulla penisola Scandinava e sulla regione a nord dei grandi laghi americani. Queste fasi rappresentano le ultime manifestazioni di uno dei periodi più singolari della storia della Terra: l'era glaciale.
L'era glaciale rappresenta la crisi che separa la fase preistorica dalla fase geologica della Terra: perché è un fenomeno che si stacca nettamente da tutti i fenomeni climatologici dell'era posteriore, e perché durante essa è comparso l'uomo, o di questo si hanno almeno i primi documenti sicuri.
La storia climatologica della Terra, risalendo dall'era glaciale, non si può vedere che di scorcio, a grandi tratti, in quanto dai documenti geologici non si possono rilevare che le fasi più accentuate di oscillazione dei climi, con periodi che si debbono contare a centinaia di migliaia e a milioni d'anni. Terreni e fossili dei varî periodi ci possono rivelare anche condizioni locali di deserto o steppa, di foresta, di palude, ecc., che rispondono evidentemente a differenze tra regione e regione, e che non è sempre facile localizzare nello spazio e nel tempo. Ma al disopra di esse si affermano variazioni generali del clima, estese a tutta o a gran parte della superficie terrestre. Esse sono provate specialmente dai caratteri della flora e della fauna, e debbono attribuirsi a cause cosmiche.
A questa categoria di grandi periodi climatici della Terra appartiene l'era glaciale, durante la quale aree continentali dell'estensione di decine di milioni di chilometri quadrati furono coperte da uno strato di ghiaccio dello spessore medio di un chilometro, che nei punti di massima altezza superava i 3-4 chilometri, mentre tutti i ghiacciai del mondo, anche quelli della zona tropicale, presentarono notevoli espansioni.
Le successioni dei terreni e delle flore e faune fossili dimostrarono che l'espansione glaciale quaternaria si ripeté più volte, con lunghi periodi d'interruzione, durante i quali si ritirò completamente, o quasi. Lo studio sistematico del glaciale nelle Alpi condusse Penck e Brückner a riconoscere quattro periodi di grande espansione glaciale (da loro denominati Günz, Mindel, Riss, Wurm), separati da periodi interglaciali. Il ritiro dell'ultima espansione (Wurmiana) sarebbe stato interrotto da tre stadî di arresto e di espansione minore (Bühl, Gschnitz, Daun), e il numero delle cerchie moreniche nelle alte valli alpine dimostra che altre soste minori si successero nel periodo che si riattacca allo storico attuale.
Però lo studio dei terreno del glaciale germanico mette in evidenza solo tre grandi fasi d'espansione (denominate Elster, Saale, Vistola) separate da due periodi interglaciali, il primo (più antico) assai più lungo del secondo, e questo segnalato da faune di clima alternativamente caldo e freddo, cosicché secondo alcuni autori le due ultime fasi di espansione non sarebbero che accidenti di una sola. Questa alternanza di fasi glaciali e interglaciali, la cui durata dev'essere valutata a parecchie decine e persino a qualche centinaio di migliaia d'anni, è certamente effetto di lente oscillazioni di clima, poiché la grande espansione dei ghiacciai si deve attribuire soprattutto a una lunga successione di estati fredde, durante la quale il limite delle nevi perpetue doveva progressivamente abbassarsi, e lo scioglimento del ghiaccio al disotto di esso doveva essere anche notevolmente diminuito.
La più antica espansione glaciale quaternaria si presenta quindi come effetto di un raffreddamento di clima, accompagnato, e in parte dovuto, a un aumento di nubi e di piogge e nevi. Risalendo nel tempo s'incontrano infatti prove di un clima progressivamente più caldo, fino al principio dei Terziario (Eocene) quando, secondo i documenti della flora e la diffusione in tutte le latitudini di organismi di habitat caldo, come i coralli, doveva dominare su tutta la Terra un clima sensibilmente più caldo dell'attuale e, carattere ben più singolare, assai più uniforme tra l'equatore e i poli, qualunque fosse la posizione di questi sulla superficie terrestre: in nessun punto si riscontrerebbero tracce sicure di ghiacci circumpolari.
Risalendo ancora, nel Secondario, si avrebbero prove di una distinzione di zone climatiche e di clima in prevalenza meno caldo, ma senza traccia di glaciazione. Di una vera espansione glaciale, paragonabile alla quaternaria, si hanno invece documenti sicuri nelle ultime formazioni del Paleozoico, nel Permico e nel tardo Carbonico. Esse sarebbero però tutte nell'emisfero australe: Brasile orientale, Argentina, isole Falkland, Africa centrale e meridionale, India e Australia. Il raffreddamento si sarebbe riflesso anche in una modificazione della flora con la scomparsa delle essenze a carattere tropicale (lepidodendri, sigillarie, calamiti) e la comparsa, nei continenti australi, della caratteristica flora a Glossopteris e a Gangamopteris.
Tracce glaciali, ma in area ristretta dell'Africa meridionale, s'incontrano anche nel Devonico antico; altre sparse qua e là (Norvegia, Cina, Australia meridionale, India), e più o meno sicure, nel Cambrico, all'inizio del Paleozoico; più sicure nell'Algonchico del Canada.
Tutta la storia geologica è quindi una successione di periodi glaciali e interglaciali, questi ultimi di durata assai variabile e a clima più o meno caldo, più o meno uniforme nella sua distribuzione per zone di latitudine. La ricerca delle cause di queste oscillazioni è uno dei problemi cardinali della geologia, alla cui soluzione si concentrarono tentativi di geologi, di fisici, di meteorologi, di astronomi. La ricerca si rivolse soprattutto alla spiegazione del fenomeno glaciale quaternario, non solo perché è il più vicino a noi e si connette con il clima attuale e fu il clima dell'uomo primitivo, ma anche perché la sua spiegazione darebbe, secondo la precedente esposizione, la chiave anche delle evoluzioni climatiche delle ere geologiche precedenti. Gli studî recenti hanno dimostrato che per giustificare un'espansione dei ghiacciai attuali fino alle dimensioni dei ghiacciai quaternarî, basterebbe una diminuzione di pochi gradi, ma permanente per un lungo periodo d'anni, nella temperatura, e specialmente nella temperatura estiva. Un aumento di piovosità e nevosità sarebbe un fenomeno concomitante e subordinato. Si comprende infatti che basta un abbassamento non maggiore di 5° per arrestare lo scioglimento delle nevi e dei ghiacciai in montagna, per abbassare di oltre 1000 m. il limite delle nevi perpetue, e spiegare così un'espansione progressiva dei ghiacciai; mentre, a spiegare l'immensa espansione dei ghiacciai quaternarî come effetto di maggior precipitazione, bisognerebbe attribuire a questa altezze straordinarie. Del resto lo studio delle oscillazioni attuali dei climi (Brückner) ha dimostrato che i periodi d'anni freddi sono anche più umidi, e i caldi più asciutti.
La diminuzione di temperatura doveva essere soprattutto stagionale, cioè una diminuzione di escursione specialmente nelle latitudini medie e superiori, con abbassamento della temperatura estiva. I fattori che regolano la distribuzione e le variazioni della temperatura, possono essere (v. sopra) fattori astronomici o geografici o meteorologici, e le varie teorie che ne cercano le cause si raggruppano infatti in astronomiche, geografiche e meteorologiche.
Teorie astronomiche. - Gli elementi dell'orbita terrestre dai quali dipende l'andamento stagionale della temperatura sono: 1. l'inclinazione dell'asse terrestre; 2. l'eccentricità dell'eclittica; 3. la longitudine del perielio, che varia per effetto della precessione degli equinozî e dello spostamento della linea degli apsidi. L'effetto di una variazione dell'inclinazione dell'asse terrestre è quello di accrescere l'escursione termica annua nelle alte latitudini se l'inclinazione cresce, di diminuirla se diminuisce. Infatti nel primo caso crescono, nel secondo diminuiscono, le differenze stagionali fra la durata del giorno e la durata della notte e la variazione stagionale dell'inclinazione dei raggi solari.
L'effetto di una variazione dell'eccentricità combinata con quella della longitudine del perielio è quello di variare la differenza fra le durate delle stagioni estiva e invernale. Attualmente, con l'eccentricità
dove a e b sono i semiassi, maggiore e minore, dell'eclittica), la differenza è di giorni 71/2 circa.
Il tentativo di teoria astronomica che ebbe più vasta eco nel mondo scientifico del secolo scorso fu quello di Croll (Climate and time, Londra 1866), fondato sulla variazione dell'eccentricità. Con l'attuale eccentricità e quasi coincidenza dei solstizî con gli apsidi, l'estate boreale è di 7,68 gio1ni più lunga dell'inverno. Potendo l'eccentricità crescere fino al valore massimo di 0,0677, con la stessa posizione dei solstizî la differenza di durata delle due stagioni, che è data dalla formula
sarebbe 4 volte tanto, cioè di circa un mese. Ball ha dimostrato che, qualunque sia l'eccentricità e la posizione degli apsidi, le quantità di calore solare ricevute da ciascun emisfero nei due semestri invernale ed estivo stanno fra loro nel rapporto di 37 a 63. Ne segue che se l'emisfero (boreale o australe) ha l'inverno più lungo e l'estate più breve, ha maggior escursione di temperatura, perché i 37/100 sono distribuiti su un maggior numero e i 63/100 su un minor numero di giorni. L'emisfero opposto ha per la ragione opposta escursione minore, cioè inverno in media meno freddo ed estate meno calda. Croll ritenne che le ere glaciali si verificassero, in periodi di forte eccentricità dell'eclittica, per quell'emisfero che aveva inverno lungo, cioè il solstizio invernale in afelio. L'eccentricità terrestre varia con un periodo di 91.800 anni, mentre la posizione dei solstizî s'inverte con un periodo di 10.350 anni. Secondo Croll quindi le ere glaciali si formerebbero alternativamente sui due emisferi, più volte in un periodo di alta eccentricità. Noi sappiamo invece che le espansioni quaternarie furono generali, cioè contemporanee sui due emisferi, ed ebbero durate ben maggiori. Il Croll errò inoltre nel computare l'effetto dei due fattori astronomici sulla temperatura esagerandolo. Già fin dal 1868 lo Schiaparelli (Rend. Istit. Lombardo, 1868) dimostrò che esso non poteva corrispondere che a quello della differenza di pochi gradi nella latitudine. Quanto all'effetto della variazione nell'inclinazione dell'asse poiché questa si mantiene entro limiti assai ristretti (tra 21°58′ e 24°36′), pareva che non potesse essere molto sensibile. Essa fu tuttavia, in combinazione pure con la variazione di longitudine del perielio, oggetto di studio per Ekholm (1901) e Spitaler (1907-1921), ma il primo si limitò all'intervallo dell'ultimo massimo e ultimo minimo (da 10 a 30 mila anni indietro). Spitaler ricercò la combinazione dei valori di tutti tre gli elementi astronomici che potevano essere più favorevoli a un'espansione glaciale, ma basandosi su dati erronei.
Il calcolo fu recentemente ripreso da M. Milankovič (Théorie mathématique des phénomènes thermiques produits par la radiation solaire, Parigi 1920). Egli calcolò le durate della stagione estiva dell'emisfero boreale, le quantità totali di calore solare ricevute nelle stagioni stesse, e quindi le quantità medie diurne, in dipendenza dei valori di e (eccentricità), π (longitudine del perielio), ε (inclinazione dell'asse terrestre). L'effetto sul clima viene da lui rappresentato, con il metodo di Schiaparelli, come spostamento di latitudine. Nella fig. 14 sono rappresentati gli spostamenti di latitudine che dovrebbero attualmente subire punti della superficie terrestre posti a 55°, 60°, 65° lat. N., per ricevere le quantità di calore che erano ricevute alle stesse latitudini in epoche anteriori, fino a 650.000 anni prima del 1850, secondo le variazioni simultanee dei tre elementi. In essa appaiono quattro coppie di forti spostamenti verso nord, cioè di forti raffreddamenti, che il Milankovič farebbe corrispondere ai quattro periodi glaciali di Penck e Brückner. Tale risultato parve decisivo per gli assertori di quei quattro periodi (Köppen e Wegener), e tanto più importante, perché veniva a fissare una precisa cronologia del glaciale quaternario, al quale è connessa la preistoria dell'uomo. Sennonché lo stesso Brückner (in Zeitschrift der Gletscherkunde, 1925) presenta alcune difficoltà: 1. ogni periodo glaciale sarebbe costituito da due fasi di estati fredde succedentisi a più di 40.000 anni di distanza. È possibile ammettere la continuità dell'espansione con una così lunga interruzione della causa? È da meno di 20.000 anni che l'espansione wurmiana si è ritirata dalle coste della Germania. 2. Il calcolo di Milankovič ripetuto per l'emisfero australe non dà contemporaneità di estati fredde col boreale; ciò contraddice alla contemporaneità del fenomeno glaciale. 3. Dopo il minimo Wurmiano si segnalerebbe un accentuato massimo verso i 10.000 anni prima dell'era attuale. Lo si vorrebbe far corrispondere alla fase ottima del clima preistorico, che fu assai posteriore.
Alla prima obiezione risponderebbero secondo W. Köppen (Beiträge zur Geophysik, XXVI, iv, 1930) i rilievi del fluvio-glaciale dell'altipiano bavarese compiuti da Eberl e Knauer, e quelli della zona marginale del ghiacciaio settentrionale, sulla Germania, secondo Soergel, i quali confermerebbero non solo le quattro espansioni di Penck e Brückner (anzi, con una quinta, anteriore), ma la scissione di ciascuna di esse in due fasi (la Wurmiana in tre) secondo lo schema di Milankovič. Tali conclusioni, dedotte da osservazioni locali e superficiali, non si accorderebbero però con quelle accennate sopra, dedotte dagli scandagli più estesi del profondo strato fluvio-glaciale e morenico che costituisce la pianura tedesca, secondo le quali le espansioni glaciali non furono quattro, ma tre o due. Né è dimostrato che le fasi di ciascun periodo siano separate da periodi di tempo così lunghi come vorrebbero i calcoli di Milankovič. Il Köppen inoltre mette in dubbio la contemporaneità delle espansioni glaciali sui due emisferi, e tende ad anticipare la fase ottima.
La teoria astronomica Köppen-Milankovič presenta certamente dei caratteri a prima vista sorprendenti di attendibilità, e risponderebbe a una delle principali esigenze della storia della terra: una cronologia sicura; ma offre finora il fianco a troppi dubbî, perché si possa accettarla, allo stato attuale delle nostre cognizioni.
Teorie geografiche. - Lyell ammise per primo l'ipotesi che le variazioni geologiche del clima rispondessero a una variabile distribuzione di terre e mari. Questo è certo un fattore non trascurabile; in particolare può avere contribuito a determinare una maggiore uniformità di clima nel Terziario, e miti temperature circumpolari, una maggiore estensione dell'oceano nelle alte latitudini e un più libero scambio d'acque fra i tropici e i poli. Ma non possiamo ricorrere alla condizione opposta per spiegare il fenomeno glaciale quaternario, perché alla fine del Terziario era già fissata nelle linee generali l'attuale distribuzione di terre emerse.
Né, per spiegare l'era glaciale, si può ricorrere a un sensibile spostamento dei poli, perché l'espansione glaciale, constatata, oltre che nell'Europa e nell'America Settentrionale, anche nella Siberia orientale, imprigiona il polo artico press'a poco nella posizione attuale, benché non manchino indizî di uno spostamento, se pur non così vagabondo come quello ammesso da Köppen e Wegener.
I quali autori, com'è noto, spiegherebbero le variazioni geologiche dei climi come effetto della grandiosa trasmigrazione delle masse continentali, genialmente sostenuta da Wegener, combinata con una non meno grandiosa trasmigrazione dei poli. In particolare il periodo glaciale paleozoico corrisponderebbe al fatto che tutti i continenti erano riuniti in un blocco solo, e il polo australe si trovava nell'Africa del Sud, centro dell'espansione glaciale, e il polo boreale nell'alto oceano settentrionale. I paesi australi che conservano tracce glaciali, e che ora si trovano a grande distanza l'uno dall'altro, sarebbero stati così raccolti attorno al centro di ghiacciamento. Molte altre situazioni di clima e di vegetazione nelle ere geologiche verrebbero spiegate con queste teorie di Wegener. La loro discussione è materia più del geologo che del climatologo.
Tra le teorie geografiche si può classificare quella che attribuisce le espansioni glaciali a periodi di sollevamento delle terre che ne furono campo (Brooks, op. cit.), o a una maggiore altezza delle montagne (De Pretto); ma tali cause appaiono inadeguate all'effetto. Dall'equazione di condizione di un ghiacciaio in equilibrio Sp = sa (dove S, s sono rispettivamente le aree del bacino collettore e del bacino ablatore, p è la differenza fra la neve piecipitata e il ghiaccio sciolto in S, per unità di superficie, a l'analoga differenza fra la massa di ghiaccio sciolto e quella di ghiaccio - neve - precipitato su s) appare che, se il clima non cambia (p, a costanti), a un aumento di S deve corrispondere un aumento proporzionale di s. Ora nelle ere glaciali l'estensione di ghiaccio al disotto della linea delle nevi perpetue, anche abbassata di un migliaio di metri (la s), era immensamente più vasta di quella al disopra (la S).
Teorie meteorologiche. - A queste teorie si possono ascrivere quelle che si basano su un mutamento nella circolazione atmosferica, dovuto a spostamenti dei grandi centri di alta e bassa pressione, e quelle che si basano su una variazione della trasparenza dell'atmosfera per le radiazioni solari e per le radiazioni oscure del suolo.
Se è certo un mutamento nella situazione barica, come conseguenza della grande invasione glaciale, le cui aree dovevano, come ora sulla Groenlandia, diventar sede di alte pressioni, non pare ammissibile un tale mutamento come causa dell'invasione stessa, se la posizione del polo e la distribuzione di terre e mari non erano, al principio del Quaternario, sostanzialmente diverse dalle attuali.
Grande influenza sul clima può avere invece la trasparenza della atmosfera, e in essa fu specialmente da Arrhenius e da De Marchi riconosciuta la causa delle variazioni geologiche del clima terrestre.
La temperatura della superficie terrestre è la risultante fra la quantità di calore ricevuta e quella emessa. Trascurando per ora l'azione moderatrice dei fattori meteorologici e lo scambio del calore col sottosuolo (che nella media annua può ritenersi nulla), l'equilibrio termico è rappresentato (v. sopra) dall'equazione n k (ts, − tc) = psech sen h C, dove t è la temperatura del suolo, tc quella del cielo, k un coefficiente dipendente dalla natura della superficie, n il coefficiente di trasparenza dell'aimosfera per le radiazioni oscure del suolo, p il coefficiente di trasparenza per le radiazioni solari, C la costante solare, h la distanza zenitale del sole. Un mutamento nella costituzione dell'atmosfera può variare, in proporzione diversa, i coefficienti n, p e quindi, per eguale valore medio di h, la differenza (ts − tc).
Arrhenius sostiene che il raffreddamento quaternario si deve attribuire a una maggior trasparenza dell'atmosfera per le radiazioni oscure del suolo, dovuta a una diminuzione dell'anidride carbonica nell'atmosfera, diminuzione che non avrebbe avuto effetto sensibile sulla radiazione solare. Egli calcola, in base alle esperienze di Rubens e Ladenburg sull'assorbimento termico dell'anidride carbonica in colonne di vario spessore e varia densità, che si richiederebbe una riduzione a metà nella quantità attuale di anidride carbonica contenuta nell'atmosfera per produrre un raffreddamento di 5°. Il caldo e uniforme clima terziario risponderebbe a un aumento non meno notevole di CO2 dovuto a grandi eruzioni vulcaniche, corrispondendo invece il periodo glaciale a un'attività vulcanica molto minore dell'attuale. Difficilmente si può ammettere quest'ultima supposizione, e nemmeno così notevoli variazioni di CO2, la cui pressione nell'atmosfera è regolata dalla tensione del CO2 sciolto in grande quantità nell'oceano. L'Arrhenius nel calcolare l'effetto termico di tali variazioni non tiene poi conto del fatto che, oltre una certa concentrazione, le variazioni del CO2 non avrebbero alcun effetto, e trascura tutti i fenomeni di reazione (movimenti convettivi, trasformazioni dell'acqua, formazioni di nubi, ecc.) che tenderebbero ad attenuare l'effetto stesso e influirebbero anche sulla radiazione solare diretta e diffusa.
De Marchi tien conto della variazione di ambedue i coefficenti di trasparenza n e p, e poiché questo secondo è elevato alla potenza sech, sempre maggiore di 1, l'effetto di una sua variazione può prevalere notevolmente (dato che n e p variino proporzionalmente) su quello della corrispondente variazione di n. Quindi secondo De Marchi i periodi freddi corrisponderebbero a una minore trasparenza dell'atmosfera, e si spiegherebbero i periodi caldi (Terziario) con una maggiore trasparenza.
A quale elemento debbano attribuirsi queste variazioni di trasparenza dell'aria non è facile afferrare. L'elemento che parrebbe meglio rispondere a tale ufficio, anche perché intimamente legato alla temperatura, è il vapor d'acqua. Una maggiore umidità atmosferica esercita una diminuzione sensibile sulla radiazione solare, come hanno dimostrato misure undecennali della radiazione stessa sul monte Etna (Bartoli), e, com'è noto, anche sulle radiazioni oscure del suolo. Con essa aumenta anche la probabilità di formazione di nubi e piogge, che contribuiscono notevolmente al raffreddamento e all'alimentazione dei ghiacciai. Non è facile però vedere per quale causa abbia potuto variare l'umidità dell'aria per lunghi periodi geologici. Fu pensato quindi a periodi d'intorbidimento dell'aria per altre cause, p. es. per la diffusione di pulviscolo cosmico. Le misure di radiazione solare hanno infatti dimostrato che a ogni grande eruzione vulcanica (Pelée, Katumai, ecc.) ha corrisposto una diminuzione di calore solare in tutte le stazioni, anche lontanissime. Tale effetto perdura anche parecchi mesi. È difficile però ammettere che prima e durante l'era glaciale si sia mantenuta un'attività vulcanica tale da mantenere la maggiore opacità atmosferica per decine di millennî. Perciò fu accolta da geologi e fisici l'ipotesi (Nölke) che i periodi freddi rispondano al passaggio del sistema solare attraverso masse nebulari. L'era glaciale corrisponderebbe al passaggio attraverso la nebulosa di Orione, che si trova sul cammino del sole verso la costellazione d'Ercole: le ere interglaciali corrisponderebbero a vani della nebulosa stessa.
Il problema non si può dire completamente risolto.
Bibl.: E. Brückner, Klimaschwankungen seit 1700, Vienna 1900; Penck e Brückner, Die Alpen im Eiszeitalter, voll. 3, Lipsia 1901-1909; Arrhenius, in Les prix Nobel, 1906; L. De Marchi, Le cause dell'èra glaciale, Pavia 1895; id., in Atti Soc. per il progresso delle scienze, 1910, Roma 1911; A. E. Douglas, Climatic cycles and tree growth, Washington 1919; Huntington, World Power and Evolution, New Haven 1919; id., The Pulse of Asia, Boston e New York 1907; Köppen e Wegener, Die Klimate der geologischen Vorzeit, Berlino 1924; C. E. P. Brooks, The evolution of climate, Londra 1925; Y. Bayer, Der Mensch im Eiszeitalter, Lipsia e Vienna 1927; A. Wagner, in Gerlands Beiträge zur Geophysik, XX (1928); C. Easton, Les hivers dans l'Europe occidentale, Leida 1928.