complessi
Comportamenti e fantasie di origine inconscia
Il termine complesso è stato introdotto dagli psicoanalisti Sigmund Freud e Carl Gustav Jung. Al giorno d'oggi la parola è diventata di uso comune, e viene adoperata per indicare caratteri o comportamenti problematici, un'idea fissa o un motivo persistente di preoccupazione. Chi invece è senza complessi si comporta con naturalezza e senza incertezze
Il termine complesso deriva dal latino complexus, participio passato del verbo complecti che vuol dire "abbracciare, comprendere". Sta quindi a indicare un insieme composto da più parti, cioè il contrario di semplice. In psicologia e in psicoanalisi il termine designa un insieme di comportamenti determinati da fantasie in parte o completamente inconsce, che possono causare conflitti o disturbi. In questo significato la parola è stata usata per la prima volta dallo psicoanalista Sigmund Freud nei suoi Studi sull'isteria, pubblicati nel 1895, per descrivere determinate situazioni fondamentali che hanno origine nell'infanzia e agiscono nell'inconscio di tutti gli uomini, come il cosiddetto complesso di Edipo.
Lo psicoanalista Carl Gustav Jung riprese il termine, usandolo in senso più ampio e generico di Freud. Secondo Jung, i complessi influenzano in maniera inconscia, cioè non consapevole, il nostro modo di parlare e agire, affiorano e scompaiono, disturbando l'attività della coscienza. Fu infine lo psicoanalista Alfred Adler a introdurre l'espressione complesso di inferiorità nel suo studio del 1920 intitolato Prassi e teoria della psicologia individuale.
Nella tragedia greca Edipo re di Sofocle (5° secolo a.C.), Edipo, figlio di Laio re di Tebe e di Giocasta, viene allontanato dalla famiglia perché un oracolo ha predetto che avrebbe ucciso suo padre. Ma il destino deve compiersi. Così un giorno Edipo incontra sulla sua strada un uomo sconosciuto e, nel corso di una lite, lo uccide: quell'uomo era suo padre. Poi giunge a Tebe dove risolve gli enigmi della Sfinge e viene eletto re. Sposa dunque proprio Giocasta, sua madre. Dopo un periodo prospero e felice, scoppia una pestilenza: l'oracolo dice che avrà fine quando l'uccisore di Laio sarà espulso dal paese. La tragedia rivelerà gradualmente che è Edipo l'assassino di Laio, ma anche suo figlio. Alla fine Edipo, sopraffatto dalla colpa, si acceca e abbandona la patria.
Questa vicenda così lontana nel tempo riesce a scuotere l'uomo moderno proprio perché tocca il suo intimo e fa riemergere un desiderio dell'infanzia, come ha scoperto Freud che riprende il mito di Edipo per spiegare il singolare sentimento che compare nei maschi tra i tre e i cinque anni, e cioè l'ostilità verso il padre, nei confronti del quale mostrano un'intensa rivalità fino a desiderarne la morte, e un attaccamento appassionato alla madre, che vorrebbero sposare. Tuttavia, poiché il padre è anche amato e temuto, questo groviglio di sentimenti viene sepolto nell'inconscio per scongiurare la paura della sua vendetta, ma soprattutto per placare il proprio senso di colpa. Dalla risoluzione del complesso di Edipo, secondo Freud, dipende la scelta della persona da amare e la strutturazione della personalità. La tendenza moderna della psicoanalisi, soprattutto con la psicoanalista Melanie Klein, dà invece fondamentale importanza agli stadi ancora più precoci dell'infanzia, cosiddetti pre-edipici.
Fu Jung a utilizzare l'espressione complesso di Elettra nel 1914, nello scritto Questioni di psicoterapia, affermando che esiste un'analogia tra la posizione della bambina e quella del bambino nei confronti dei genitori: il complesso di Elettra è quindi l'equivalente femminile del complesso di Edipo. Elettra infatti, secondo il mito greco narrato da Eschilo nelle Coefore e da Sofocle nell'Elettra, uccide la madre Clitennestra con l'aiuto del fratello Oreste per vendicare l'assassinio del padre Agamennone.
Nella bambina, dunque, si sviluppa un'inclinazione per il padre del tutto simmetrica all'amore del bambino per la madre, e un corrispondente atteggiamento di gelosia nei confronti di quest'ultima.
Nel linguaggio comune per complesso di inferiorità si intende un atteggiamento di scarsa stima di sé stessi, a volte accompagnata da reazioni come aggressività o spavalderia. È quindi un sentimento di insufficienza fisica o psichica che emerge nel confronto con gli altri.
Lo psicoanalista Alfred Adler studiò in particolare questo complesso, affermando che all'origine ci sarebbe un difetto fisico nei bambini. Adler attribuisce importanza anche a fattori ambientali e comportamentali come l'educazione, la famiglia, i conflitti economici e la sessualità. Questa inferiorità verrebbe a incidere su tutto lo sviluppo psichico del soggetto che, per esaltare la propria personalità e per assicurarsi una certa superiorità sugli altri, si costruirebbe delle compensazioni. Chi soffre di questo complesso è incapace di un buon adattamento alla realtà e al mondo sociale e sviluppa dei tratti caratteriali quali la vanità, la diffidenza, l'aggressività, l'invidia.
Il complesso di abbandono è una paura ossessiva, l'idea fissa di essere abbandonati. Tale paura si sviluppa in un rapporto affettivo in cui uno dei due si sente inferiore e insicuro, e l'altro sembra in grado di rassicurarlo e proteggerlo. A volte, per scongiurare l'abbandono da parte dell'oggetto amato si ricorre alla tecnica difensiva di 'agganciare e sganciare' continuamente: insomma, per paura di essere lasciati si lascia per primi. All'origine di questo processo di attaccamento morboso vi sono sentimenti di insicurezza, inferiorità, impotenza.
Fuori da un ambito psicoanalitico e nel linguaggio comune si parla frequentemente di complessi, spesso con riferimento a personaggi della letteratura.
Cenerentola. Nella fiaba di Charles Perrault una bella fanciulla è trattata da matrigna e sorellastre come una serva: le fanno lavare i piatti, strofinare le scale. La poverina, finiti i servizi, si riposa vicino alle ceneri del focolare, da cui il nome Cenerentola. Dunque, mentre le sorelle hanno tutto, lei subisce una profonda ingiustizia. Così, ai nostri giorni, avere il complesso di Cenerentola significa sentirsi una perenne vittima, essere convinti di avere ricevuto meno, soprattutto nei confronti degli altri figli.
Peter Pan. Per James Matthew Barrie ‒ l'autore di Peter Pan nei giardini di Kensington e di Peter Pan e Wendy ‒ esistono due categorie di bambini: quelli che vogliono crescere e quelli che desiderano rimanere piccoli. Questi ultimi capiscono che l'infanzia è preziosa, insostituibile, magica e a volte rimangono infantili per sempre. Peter Pan ha sempre la stessa età perché a sette giorni dalla sua nascita si rifiuta di continuare a essere una creatura umana e scappa dalla finestra di camera sua per tornare nei giardini di Kensington.
È sempre più comune ai giorni nostri trovare uomini già maturi che si sentono eterni fanciulli, si credono giovani e assumono atteggiamenti che a volte sfiorano il ridicolo.
Biancaneve. Nella fiaba dei fratelli Grimm, la matrigna di Biancaneve era bella, la più bella di tutto il regno, secondo il suo fido specchio. Ma compare un giorno una fanciulla più bella di lei. Da quel momento la matrigna comincia a soffrire di terribili dubbi. Così, spesso una bella signora si sente continuamente minacciata: da un'altra forse più bella, dall'età che avanza, e da altro ancora. Che sia meglio non essere proprio perfetti?