Comunità Europea
Il termine 'Comunità Europea' (CE) viene oggi correntemente usato sia in senso generale che come termine collettivo per indicare la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA), istituita nel 1951, assieme alla Comunità Economica Europea (CEE) e alla Comunità Europea per l'Energia Atomica (EURATOM), entrambe istituite nel 1957; in realtà, in quest'ultima accezione, la corretta denominazione sarebbe quella di Comunità Europee. La Comunità comprende oggi dodici Stati membri: i sei originari, cioè Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi; Gran Bretagna, Danimarca e Irlanda, che si associarono nel 1973, Grecia (dal 1981), Spagna e Portogallo (dal 1986).
La popolazione totale della Comunità comprende circa 340 milioni di abitanti (dopo l'unificazione tedesca nel 1990) che vivono in un'area di 2.362.700 kmq. La Comunità è la più grande unione commerciale del mondo.
La Comunità Europea è il risultato di un movimento verso l'integrazione europea che ebbe inizio in seguito alle distruzioni delle due guerre mondiali, e anche del processo di cooperazione intrapreso dagli Stati europei con lo scopo di formare un'unica entità con un sistema organizzativo ben definito. L'organizzazione istituzionale e le politiche sostanziali della Comunità hanno subito nel corso del tempo modificazioni che hanno trasformato profondamente la Comunità rispetto ai programmi originari quali risultano dai Trattati istitutivi. Questo processo di trasformazione è ancora in corso; un'analisi della Comunità deve quindi basarsi non tanto su una descrizione statica dei suoi profili istituzionali e delle sue regole sostanziali, quanto sulla comprensione dei principali processi dinamici che ne hanno fino ad ora modellato l'evoluzione.
L'idea di un'Europa unita o unificata non è nuova. Le radici di tale concetto sono state spesso individuate nell'idea della Respublica Christiana; esso è stato anche concepito come parte di una strategia contro le minacce straniere, come quella dei Turchi. In seguito ha assunto connotati ideali autonomi. La combinazione di utilitarismo e altruismo è comunque una caratteristica permanente dell'ethos dell'integrazione europea.Pietre miliari nella storia dell'idea sono state il programma proposto dall'abate di Saint-Pierre (Mémoires pour rendre la paix perpétuelle en Europe) durante i negoziati della pace di Utrecht nel 1713, e l'opera di Kant Per la pace perpetua, in cui egli presentava il progetto di una confederazione di Stati europei come mezzo per ottenere una pace duratura. La pubblicazione nel 1814 dell'opera di Saint-Simon e Thierry De la réorganisation de la société européenne ou de la necessité de rassembler les peuples d'Europe en un seul corps politique en conservant à chacun son indépendance nationale influenzò durevolmente quelle teorie che avrebbero infine condotto all'istituzione delle Comunità Europee nel XX secolo.
Tra le iniziative per l'unità europea dopo il 1914 vi fu un Memorandum sottoposto dal ministro degli Esteri francese Briand all'Assemblea della Società delle Nazioni nel 1929 sull'istituzione di un "sistema federale europeo". Un altro piano fu elaborato dal conte Coudenhove-Kalergi e dal movimento paneuropeo da lui fondato per istituire gli 'Stati Uniti d'Europa'. Nel suo libro del 1923, intitolato Paneuropa, egli delineò questo 'campo di forze' europeo, il quale - con l'esclusione dell'Unione Sovietica e dell'Impero britannico, che nella sua visione già rappresentavano campi di forze - si sarebbe dovuto fondare su principî costituzionali simili a quelli degli Stati Uniti d'America. Il movimento paneuropeo sopravvisse agli avvenimenti seguiti all'ascesa al potere di Hitler e alla seconda guerra mondiale, sfociando nei movimenti di unità europea postbellici.Il caos politico ed economico determinato in Europa dalle due guerre mondiali e gli eventi verificatisi tra l'una e l'altra dettero un notevole impulso all'idea di una unità politica per l'Europa. Nel discorso pronunciato a Zurigo il 19 settembre 1946, Winston Churchill esortò i popoli europei a una "ricostituzione della famiglia europea", che sarebbe stata possibile attraverso l'alleanza tra Francia e Germania.
Il concetto di 'Stati Uniti d'Europa' fu in seguito adottato da un numero crescente di organizzazioni, tra cui l'Union Européenne des Fédéralistes (un'associazione dei movimenti per l'unione europea di dodici paesi) e il Mouvement Socialiste pour les États Unis de l'Europe. Nell'ottobre del 1948 tutte queste associazioni riunirono le loro forze confluendo nel Movimento Europeo. Al congresso che si riunì dal 7 al 10 maggio del 1948 all'Aia, il Comitato direttivo di questa organizzazione espresse in tre risoluzioni i principî fondamentali dell'unità europea in ambito politico, economico e sociale, risoluzioni che ebbero un ruolo significativo nell'elaborazione e nella costituzione del Consiglio d'Europa, al momento della sua nascita nel 1949.Nel 1950 Jean Monnet, Segretario generale della Società delle Nazioni negli anni tra il 1919 e il 1923, presentò un progetto di trattato per la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio sulla base di un piano sottoposto dal ministro degli Esteri francese Schumann nello stesso anno. Questa iniziativa di Jean Monnet nasceva dalla preoccupazione per le conseguenze politiche che un inasprimento della 'guerra fredda' fra le superpotenze USA e URSS poteva avere sullo sviluppo politico della Germania divisa, e anche dal desiderio di rafforzare i rapporti tra la Germania Ovest e i suoi vicini dell'Europa occidentale, ponendo fine una volta per tutte alla loro ostilità. Questo obiettivo sembrava possibile sulla base di un accordo che avrebbe precluso alla Germania ogni accesso alle sue industrie strategiche di carbone e di acciaio, ma che non avrebbe implicato controlli discriminatori e inevitabili spinte alla ritorsione. Mediante un accordo di questo tipo Francia e Germania avrebbero dovuto subordinare i propri interessi legati alle risorse delle complementari zone industriali della Renania-Westfalia e della Lorena - separate arbitrariamente da una frontiera ormai superata - agli interessi di un'Europa unita sotto una più alta autorità sovranazionale. L'aver messo in comune le industrie chiave dei paesi in questione avrebbe aperto la strada a una successiva integrazione europea in forma federativa. Questo piano fu accolto entusiasticamente dai politici del tempo e in particolare da Konrad Adenauer e da Alcide De Gasperi, come pure dai governanti di Belgio, Olanda e Lussemburgo. Il piano prese forma concreta con l'istituzione della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio nel 1951. Il Trattato di Parigi, firmato il 18 aprile del 1951, pose in essere quattro principali istituzioni della Comunità: l'Alta Autorità, il Consiglio dei rappresentanti degli Stati membri, l'Assemblea parlamentare e la Corte di giustizia.
Alla metà degli anni cinquanta si assistette al fallimento di due iniziative ulteriori: la Comunità Europea per la Difesa e la Comunità Politica Europea. In seguito a questo fallimento si svilupparono i programmi per la Comunità Economica Europea e per l'EURATOM.
Verso la metà degli anni cinquanta vennero sviluppati i programmi per la Comunità Economica Europea e per l'EURATOM. I due Trattati istitutivi furono firmati a Roma il 25 marzo 1957 ed entrarono in vigore il 1° gennaio 1958 dopo esser stati ratificati dai sei Stati membri. Gli obiettivi della CEE vengono sinteticamente delineati nell'art. 2 del Trattato: "La Comunità avrà come suoi obiettivi, mediante l'istituzione di un mercato comune e il progressivo avvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri, di promuovere in tutta la Comunità uno sviluppo armonioso delle attività economiche, un'espansione continua ed equilibrata, un aumento di stabilità, un miglioramento sempre più rapido del tenore di vita e relazioni più strette tra gli Stati membri". I fondamenti del mercato comune sarebbero stati l'Unione doganale (libera circolazione interna di beni accompagnata da una comune tariffa nei confronti dell'estero), la libera circolazione di altri fattori di produzione (lavoro, servizi e capitali) e l'adozione di una serie di politiche nei settori dell'agricoltura, dei trasporti, della concorrenza e simili. La Comunità non avrebbe avuto una diretta competenza fiscale o monetaria.Per l'istituzione del Mercato Comune fu proposto un periodo di transizione di dodici anni, durante i quali gli obiettivi prestabiliti avrebbero dovuto essere raggiunti in stadi successivi (art. 8 del Trattato CEE). Questo periodo di transizione, durante il quale il futuro della Comunità sembrò seriamente compromesso da una serie di crisi, ebbe termine il 31 dicembre 1969.
Come nel caso della CECA, la struttura istituzionale doveva comprendere quattro organi, anche se all'esecutivo non erano attribuiti gli stessi ampi poteri dell'Alta Autorità della CECA. La Commissione della CEE, in particolare, fu strettamente integrata con il Consiglio, venendo a costituire così un'unica forma istituzionale di collaborazione, come era del resto già avvenuto nel contesto della CECA.Dal tempo della loro istituzione le strutture finanziarie e istituzionali delle tre Comunità hanno gradualmente continuato a svilupparsi. Anche la loro importanza commerciale e politico-economica si è consolidata. Dal 1958 le tre Comunità hanno avuto una assemblea parlamentare comune (il Parlamento europeo) e una comune Corte di giustizia. Nel 1967 furono unificati la Commissione e il Consiglio. Dal 1977 fu anche istituita una Corte dei conti. Con effetto dall'anno finanziario 1980, esse non sono più finanziate dai contributi degli Stati membri, secondo quanto era stato originariamente convenuto per la CEE e la CECA, ma si sostengono con fondi propri.
Dopo l'istituzione dell'Unione doganale e delle Comunità Europee, queste ultime hanno assunto ulteriori funzioni politico-economiche a livello mondiale rispetto a una economia che, a partire dagli anni settanta, ha mostrato in tutto il mondo una crescente instabilità.
Durante gli anni sessanta, malgrado le serie limitazioni poste dalla Francia di de Gaulle per quanto riguardava lo sviluppo istituzionale, la Comunità sembrava essere sulla buona strada nel raggiungimento degli obiettivi che si era posta nei Trattati. Questo processo raggiunse il suo culmine con l'adesione dell'Inghilterra, dell'Irlanda e della Danimarca negli anni settanta. Ma la Comunità, di fronte alla prima crisi petrolifera e a un periodo di difficoltà nell'economia caratterizzato da stagflazione nella maggior parte degli Stati membri, sembrò giungere a un punto morto nel processo tendente a creare una unione, economica e non, sempre più stretta. L'adesione di Grecia, Spagna e Portogallo negli anni ottanta, sebbene creasse nuove difficoltà, contribuì tuttavia a conferire nuovo impulso a tale processo.
La spinta al cambiamento portò a nuove iniziative nella prima metà degli anni ottanta. La più ambiziosa di queste, promossa da Altiero Spinelli e dal Parlamento europeo ed espressa in un Progetto di trattato per l'Unione Europea, invocava cambiamenti radicali nell'assetto istituzionale e nei processi politici della Comunità. Essa mirava essenzialmente a trasformare il processo decisionale in senso realmente federalista, e pur lasciando uno spazio considerevole alle voci dei singoli Stati avrebbe permesso al Parlamento di assumere realmente il ruolo di legislatore a livello europeo. Essa intendeva anche trasformare il sistema che attribuiva alla Comunità competenze predeterminate in un funzionale sistema federalista che le avrebbe permesso di operare in ogni campo nel quale un'azione europea era da preferire a un'azione del singolo Stato. Il Progetto di trattato fu adottato dal Parlamento europeo il 14 febbraio del 1984, e sebbene non abbia ricevuto il sostegno attivo dei governi o dei parlamenti degli Stati membri, ha agito da catalizzatore per altre due iniziative correlate. La prima fu la presentazione nel 1985 di un Libro Bianco, da parte della Commissione, per il completamento del mercato interno. Il Libro Bianco riconosceva l'evidente inutilità di iniziative che cercassero di affrontare direttamente la questione della struttura istituzionale della Comunità, e metteva invece in rilievo le carenze del sistema che impedivano di raggiungere l'obiettivo economico di un mercato unico incentrato sulla nozione di una Europa priva di frontiere. La Commissione individuò una enorme quantità di ostacoli al libero movimento dei fattori di produzione che avrebbero dovuto essere eliminati, e suggerì come scadenza per raggiungere tale obiettivo la fine del 1992. In questa moltitudine di ostacoli è possibile identificare tre aree particolarmente significative, e precisamente quelle di per sé non incompatibili con le disposizioni del Trattato di Roma. La prima di queste riguardava la miriade di differenti standard nazionali ancora vigenti, che provocava una grave frammentazione nel mercato dei beni, costringendo le aziende a produrre beni diversi per i vari mercati degli Stati membri. Le disposizioni del Trattato di Roma che vietavano la discriminazione in base alla nazionalità riguardavano solo gli standard protezionistici, ma non potevano affrontare le legittime diversità nazionali sorte dall'approvazione di provvedimenti a garanzia della sicurezza, della salute e simili. Queste potevano essere affrontate dalla Comunità solo attraverso misure di armonizzazione che stabilissero un comune standard europeo, ma l'efficacia dell'azione comunitaria risultò limitata poiché l'art. 100 del Trattato di Roma imponeva l'unanimità su ogni singolo provvedimento. Le conseguenze economiche di questo insuccesso furono assai serie. Altri ostacoli di rilievo alla realizzazione di un vero e proprio mercato unico derivavano dalle differenti aliquote di tassazione indiretta (specialmente IVA) in vigore negli Stati membri. Anche in questo caso il Trattato stabiliva essenzialmente l'eliminazione della tassazione discriminatoria, ma poiché gli Stati membri mantenevano piena autonomia fiscale, ne risultarono grandi differenze nei tassi di tali imposte. Questo provocò una doppia frammentazione, in quanto rendeva necessari controlli di frontiera per ottenere che nel movimento intracomunitario di beni vi fosse un adeguamento delle tasse, i cui diversi livelli determinavano in ultima analisi forti flessioni dello scambio.Un ulteriore ostacolo scaturì dalle difficoltà incontrate dalla Comunità nel procedimento decisionale tendente a concordare le norme per regolare la libera circolazione di servizi e capitali, in particolare in relazione al sistema bancario e ai servizi finanziari e assicurativi.
Pur evitando sensazionali proposte istituzionali, il Libro Bianco aveva delineato un programma per l'eliminazione di questi e altri ostacoli, inclusi i controlli alle frontiere relativi alla circolazione dei cittadini europei. Il Libro Bianco conteneva anche proposte più ambiziose - non contenute nei Trattati originari - per la creazione di una Banca Centrale Europea e di una moneta comune, intervenendo così in campo monetario; il Libro Bianco con il suo dettagliato programma fu accettato dagli Stati membri e, insieme all'iniziativa del Progetto di trattato parlamentare, favorì un fondamentale emendamento al Trattato: l'Atto unico europeo del febbraio del 1986.L'Atto unico europeo ratificò l'obiettivo del mercato unico del 1992 e introdusse limitati cambiamenti istituzionali. Tra questi è di particolare importanza il rafforzamento dei poteri consultivi del Parlamento europeo - al quale sono attribuiti in qualche caso poteri codecisionali - e, soprattutto, l'accettazione di procedure di voto a maggioranza nei più importanti settori relativi al raggiungimento del mercato unico.Una ulteriore tappa di approfondimento dell'integrazione europea potrebbe scaturire dall'eventuale seguito della Conferenza intergovernativa di Maastricht del 9 e 10 dicembre 1991. In tale sede si è decisa la nascita della nuova Unione Europea e se ne è delineata la struttura, che si fonda su tre colonne portanti. La prima sarà costituita dalle attuali Comunità Europee, modificate e integrate fra loro in una Comunità Europea unica; la seconda sarà costituita da una politica estera e di sicurezza comune; la terza sarà una nuova forma di cooperazione in materia di giustizia e affari interni.
La struttura e le funzioni della nuova Comunità Europea risulteranno dai Trattati attualmente in vigore, integrati e modificati dal nuovo progetto di Trattato dell'Unione. Le innovazioni più significative riguardano l'Unione economica e monetaria e l'Unione politica.
A proposito dell'Unione economica e monetaria vi è da segnalare innanzitutto la decisione irreversibile di avviare un processo, a scadenze rigorose, volto all'introduzione di una moneta unica nella Comunità, al più tardi entro il 1999. L'introduzione della moneta unica non riguarderà però necessariamente e automaticamente tutti gli Stati membri, ma solo quelli che risponderanno ad alcuni requisiti di convergenza, riguardanti ad esempio il tasso di inflazione, il debito pubblico, ecc. Inoltre questo primo progetto dovrebbe istituire il 'sistema europeo delle banche centrali', nel quale le banche centrali degli Stati membri, svincolate dai loro rispettivi governi, saranno chiamate ad agire alle dipendenze di una Banca Centrale Europea.Tra le molteplici novità che l'Unione politica dovrebbe introdurre si possono segnalare: quanto ai diritti dei cittadini, la creazione di uno status di cittadinanza europea che conferisca, ad esempio, il diritto all'elettorato attivo e passivo a ogni cittadino dell'Unione, nello Stato di residenza, tanto per le elezioni nazionali che per quelle del Parlamento europeo; quanto alle competenze della Comunità, l'importante affermazione del principio di sussidiarietà, per cui un intervento comunitario si giustifica solo quando può ottenere risultati migliori rispetto a quelli raggiungibili dai singoli Stati membri separatamente. Inoltre, riguardo ai singoli ambiti di competenza della Comunità si dovrebbe realizzare un notevole incremento dei poteri comunitari in alcuni settori, quali l'ambiente, la ricerca, lo sviluppo tecnologico, ecc., e in particolare in materia di politica sociale (quest'ultimo settore interesserà però solo 11 degli Stati membri, non avendo il Regno Unito sottoscritto questo punto dell'accordo). Infine si prevedono nuove materie soggette agli interventi comunitari, quali la salute, la cultura, l'educazione, la protezione dei consumatori, anche se la Comunità si riserva in questi ambiti un intervento solo marginale a supporto delle azioni statali che restano predominanti. Quanto alla struttura istituzionale, i mutamenti più significativi riguardano il Parlamento europeo: il suo ruolo nel processo decisionale dovrebbe risultare più significativo, soprattutto in quei settori per i quali i nuovi Trattati prevedono l'utilizzo della procedura di 'codecisione'.
La seconda colonna portante dell'Unione Europea sarà una comune politica estera e di sicurezza. Il centro d'azione principale sarà un organo di carattere intergovernativo: il Consiglio. In seno al Consiglio, infatti, si svilupperà la cooperazione tra gli Stati membri in materie di interesse generale, tesa a coordinare le azioni dei diversi Stati al fine di giungere a una posizione comune. Accanto alla cooperazione si prevede uno strumento più forte, l'adozione di un'azione comune - joint action - decisa all'unanimità e sviluppata dal Consiglio, che stabilirà anche in quali materie sarà sufficiente la maggioranza qualificata.Le decisioni del Consiglio costituiscono atti giuridici vincolanti per gli Stati membri ma, essendo stata esplicitamente esclusa la competenza della Corte di giustizia, gli obblighi giuridici che derivano da tali decisioni non sono giustiziabili.Si prevede anche l'avvio di una comune politica di difesa, che nel futuro potrà anche condurre alla costituzione di reparti operativi comuni. In questo ambito l'Unione dell'Europa Occidentale (UEO) si configura come la struttura di difesa dell'Unione Europea. Sono stati previsti anche gli opportuni mezzi che permetteranno di disciplinare le indispensabili relazioni e il coordinamento con l'Alleanza atlantica.
Da ultimo, il terzo elemento portante dell'Unione Europea sarà costituito dalla cooperazione in materia di giustizia e affari interni. Per quanto riguarda gli affari interni, le materie su cui si dovrà sviluppare la cooperazione concernono principalmente l'asilo politico, la circolazione di cittadini extracomunitari, la politica dell'immigrazione. La cooperazione giudiziaria, che si svilupperà tanto in ambito civilistico che penalistico, avrà tra i suoi obiettivi principali la lotta contro il terrorismo, il traffico di droga e altri crimini internazionali. È da sottolineare che queste materie sono state affidate a una struttura intergovernativa, qual è il Consiglio, anziché essere inserite, come sarebbe stato possibile, tra le attribuzioni della più forte struttura della Comunità Europea.
Gli organi principali della Comunità sono la Commissione, il Consiglio dei ministri, con il suo sottoorgano COREPER (Comitato dei rappresentanti permanenti), il Parlamento e la Corte europea di giustizia. Un quinto organo, che ha giocato un ruolo decisivo, ma che solo nell'Atto unico europeo è stato formalmente integrato nella struttura del Trattato, è il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo.
La Commissione stricto sensu è costituita da un collegio di 17 commissari - due per i cinque grandi Stati membri e uno per ciascuno di quelli piccoli - coadiuvati da uno staff esecutivo, organizzato in 22 direttorati generali. I commissari sono proposti dai governi e nominati dal Consiglio, e tra di essi viene nominato un presidente.In base a quanto stabilito dal Trattato i commissari "nell'adempimento dei [loro] doveri [non] sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo né da alcun organismo". Ciascuno Stato membro si impegna a rispettare tale principio e a non cercare di influenzare i membri della Commissione nell'esercizio del loro compito. La Commissione come organo è pertanto autonoma rispetto agli Stati membri e specificatamente libera di perseguire l'interesse della Comunità.
Le funzioni della Commissione sono varie. Essa ha il potere esclusivo di iniziativa legislativa (nel senso formale); secondo questo schema è anche l'organo amministrativo centrale della Comunità, e ha il potere di porre in atto una legislazione in via delegata; ha un ruolo 'diplomatico' potenzialmente importante nell'agire come mediatore tra gli Stati membri; funge da 'agenzia federale' in quelle sfere nelle quali la Comunità le ha riconosciuto poteri federali pienamente sviluppati (ad esempio, nelle politiche relative alla concorrenza); vigila sull'applicazione dei Trattati e del diritto comunitario da parte degli Stati membri e si comporta come un 'pubblico ministero' sovranazionale in caso di violazione. Secondo una delle prime teorie sulla Comunità, la Commissione avrebbe dovuto essere il nucleo tecnocratico 'funzionale' della progettazione e della realizzazione di quel famoso spill-over che doveva portare la Comunità all'unione politica.
Il Consiglio dei ministri è costituito da rappresentanti dei governi degli Stati membri. La composizione del Consiglio cambia a seconda dell'area in discussione: agricoltura, finanza, ecc. Il principale organo formale è il Consiglio dei ministri degli Esteri.Il Consiglio dei ministri è il principale legislatore in senso formale - il che indica chiaramente il ruolo centrale degli Stati membri. Esso deve agire, virtualmente, in tutti i casi su proposta della Commissione, e il Trattato stabilisce regole formali circa le sue procedure di voto. In settori di particolare delicatezza il Trattato richiede l'unanimità, ma in numerosi ambiti programmatici è prevista una forma di voto a maggioranza. Sarebbe erroneo caratterizzare il Consiglio come istituzione intergovernativa. Le norme relative alle sue procedure di voto, il ruolo del Presidente e il dover far assegnamento sui progetti legislativi della Commissione lo distinguono dai classici organi intergovernativi e caratterizzano anch'esso come sovranazionale - sebbene in modo limitato. C'è inoltre una caratteristica importante che deve essere sottolineata, se si vuole comprendere appieno il carattere sovranazionale di questo organismo. Il Consiglio può rifiutarsi di approvare qualsiasi legislazione proposta dalla Commissione anche se una determinata politica è chiaramente nell'interesse della Comunità; nel respingere tale legislazione, o nell'emendarla, il Consiglio può essere - come spesso avviene - motivato da interessi che sono contrari allo 'spirito della Comunità'. Tuttavia gli Stati membri sono obbligati ad agire congiuntamente, anche se non necessariamente in modo unanime, nell'ambito del Consiglio dei ministri. Questa è una delle sorprendenti interazioni tra 'sovranazionalità' normativa e decisionale. In ogni settore regolato dal diritto comunitario, e per il quale la competenza sia stata trasferita agli organi della Comunità, i singoli Stati non possono agire in modo unilaterale nel mettere in atto e/o modificare una determinata politica; essi devono agire congiuntamente come Consiglio dei ministri nell'ambito delle normali procedure decisionali della Comunità. Ciascuno Stato membro presiede il Consiglio e, implicitamente, la Comunità, per un periodo di sei mesi.Sul piano teorico, quindi, l'insieme costituito dalla Commissione - incaricata dell'iniziativa politica, di una funzione legislativa secondaria e di compiti esecutivi e di sorveglianza - e dal Consiglio - incaricato delle decisioni politiche e della legislazione 'primaria' effettiva, e perciò rappresentante diretto degli interessi degli Stati membri - era stato creato perché si potesse raggiungere l'equilibrio tra Comunità e Stati membri nel processo decisionale.
Il COREPER, invece, è un organo subordinato al Consiglio, composto dai rappresentanti permanenti degli Stati membri e assistito dalle burocrazie nazionali competenti nei vari settori. È il COREPER che di fatto passa al vaglio tutte le proposte della Commissione e negozia il loro contenuto. Quando si raggiunge un accordo, le proposte sono sottoposte al Consiglio per una semplice approvazione. In realtà i ministri negoziano soltanto quei temi sui quali non è stato raggiunto un tale accordo all'interno del COREPER.
Il Parlamento è composto da deputati eletti direttamente a suffragio universale nei dodici Stati della Comunità. I membri del Parlamento sono organizzati in gruppi politici (partiti) trasversali rispetto alle nazionalità. Nel processo legislativo il Parlamento ha un ruolo consultivo: il Trattato specifica le aree nelle quali esso deve essere consultato prima che il Consiglio possa agire su proposta della Commissione. L'Atto unico ha dato al Parlamento maggiore autorità - sul piano della cooperazione - per quanto concerne alcune aree, e ciò rende più difficile per il Consiglio allontanarsi dall'opinione del Parlamento, soprattutto se adottata anche dalla Commissione. La legislazione comunitaria è esaminata da una serie di commissioni parlamentari che riferiscono all'assemblea plenaria, la quale adotta risoluzioni che esprimono il punto di vista formale del Parlamento, che non è tuttavia vincolante. In base all'Atto unico il consenso del Parlamento è necessario per certi tipi di trattati internazionali e per l'adesione di nuovi Stati.Il Parlamento ha una funzione di controllo sulla vita della Comunità: esso può presentare interrogazioni alla Commissione e al Consiglio e riceve annualmente il programma e la relazione generale della Commissione. Può anche esprimere una mozione di censura che comporta lo scioglimento della Commissione: ciò non è tuttavia mai accaduto. In materia di bilancio, il Parlamento deve dare atto (o, come si dice, 'dare discarico') alla Commissione per l'esecuzione del bilancio. Esso può anche controllare le uscite relative ad alcune voci (meno 'critiche') e può congelare l'intero bilancio comunitario. Infine, il Parlamento agisce come tribuna pubblica per la vita della Comunità, promuovendo dibattiti e adottando risoluzioni al di fuori del processo legislativo su ogni aspetto della vita pubblica.
La Corte europea è composta da tredici giudici - uno per ogni Stato membro, più un giudice aggiunto di uno dei cinque Stati maggiori. Essa è assistita da sei avvocati generali, il cui compito è quello di presentare conclusioni motivate sugli affari sottoposti alla Corte onde assisterla nello svolgimento dei compiti assegnatile. Il mandato di giudici e avvocati generali dura sei anni ma è rinnovabile. I giudici eleggono il loro presidente.Il Trattato prevede un complesso sistema di controllo giudiziale che consente l'accertamento di illeciti commessi sia dagli Stati membri sia dalla Comunità stessa. Il ruolo della Corte nell'evoluzione della Comunità è discusso più avanti.
Il Consiglio europeo è composto dai capi di Stato e di governo. Esso non svolge un ruolo formale nel processo legislativo della Comunità, mentre possiede una decisiva ed essenziale funzione politica. Si riunisce due volte l'anno per dirigere la vita comunitaria: è il Consiglio infatti che approva, o promuove esso stesso, nuove politiche per la Comunità, cui poi gli organi preposti conferiscono una forma più definita. Il Consiglio decide anche in via definitiva intorno alle questioni irrisolte in sede di Consiglio dei ministri.
La vera natura della Comunità Europea non emerge né da un'analisi dettagliata delle disposizioni normative del Trattato, né da una descrizione delle istituzioni e dei loro poteri. La questione più importante in una prospettiva storica è stabilire in che misura essa sia divenuta qualcosa di più di un'organizzazione internazionale debolmente strutturata per il perseguimento di mutui benefici economici, e sia riuscita invece a essere una vera organizzazione politica per l'integrazione transnazionale o sovranazionale. La questione potrà trovare una risposta attraverso l'analisi di tre processi e della loro integrazione.Il primo processo, che può essere chiamato la costituzionalizzazione della Comunità, ha reso possibile la sua trasformazione - almeno da un punto di vista giuridico - in un'entità costituzionale quasi federale.
Nel delineare questo processo sarà necessario concentrarsi su alcune dottrine giuridiche che hanno avuto un profondo impatto politico: la dottrina dell'efficacia diretta, la dottrina del primato e il principio della competenza esclusiva.
Il primo tratto distintivo della costituzionalizzazione nel periodo iniziale della CECA fu il potere attribuito alla principale istituzione autonoma della Comunità, l'Alta Autorità, di adottare misure direttamente applicabili (self-executing) e immediatamente vincolanti per i singoli - soprattutto le imprese nel settore del carbone e dell'acciaio. Fino ad allora, le organizzazioni internazionali tradizionali avevano il potere di negoziare accordi ad referendum: prendere decisioni che erano vincolanti per i membri ma la cui attuazione dipendeva dal governo nazionale, e prendere decisioni che l'organizzazione stessa poteva porre in atto. Il potere dell'Alta Autorità comunitaria di vincolare direttamente i singoli, soggetti alla legge nazionale, fu perciò una grande innovazione introdotta dal Trattato di Parigi, e fu riconosciuta come la caratteristica centrale della Comunità nella maggior parte delle analisi di quel periodo. Tuttavia l'introduzione di questa caratteristica del tutto nuova, per lo meno nei tempi moderni, non modificò in maniera sostanziale la natura del Trattato di Parigi dal punto di vista del diritto internazionale, poiché tale manifestazione di potere normativo direttamente applicabile era esplicitamente concordata dagli Stati membri firmatari del Trattato. In seguito, comunque, questo primo carattere della costituzionalizzazione fu sviluppato per via giurisdizionale in relazione al Trattato di Roma. In una serie di sentenze fondamentali la Corte europea di giustizia, nel corso degli anni sessanta e settanta, condusse questa dottrina molto più avanti di quanto consentissero le limitate disposizioni dei Trattati. Essa inizialmente ritenne, nella sentenza Van Gend en Loos vs. Nederlandse Administratie der Belastingen (1963), che, in certe condizioni, le disposizioni del Trattato di Roma - un Trattato che apparentemente assomigliava ad altri Trattati istitutivi di organizzazioni internazionali - avevano efficacia diretta conferendo diritti che potevano essere fatti valere tanto nei rapporti tra individui quanto in quelli tra Stati membri. Nonostante l'importanza di questa decisione divenuta celebre per le conseguenze sostanziali che poteva determinare relativamente a tutti gli articoli del Trattato che si dimostrassero conformi alle condizioni poste per l'efficacia diretta, la sua rilevanza principale risiede nel fatto che essa rappresentò il primo passo importante nella 'costituzionalizzazione' del Trattato di Roma, vale a dire la sua trasformazione, tramite l'adozione di un metodo di 'interpretazione costituzionale', in qualcosa di simile alla costituzione di un'entità sovranazionale. Nella decisione della Corte era implicito il concetto che gli Stati membri nei loro ordinamenti interni erano obbligati a rispettare le norme imposte dal Trattato internazionale. Un aspetto non meno rivoluzionario di questa sentenza era il fatto che questo vincolo derivava dall'accettazione reciproca del Trattato da parte di tutti gli Stati membri e non dal successivo rispetto dello stesso. L'inosservanza degli obblighi da parte di uno Stato membro poteva condurre a una sanzione ma non poteva essere usata come un precedente che liberava gli altri Stati dal rispetto dei loro obblighi. Anche l'individuo, sotto certi aspetti, era considerato alla stessa stregua dello Stato, un fatto generalmente riscontrato esclusivamente negli ordinamenti interni di ciascun paese. In altre parole, la violazione degli obblighi internazionali, o almeno di quelli direttamente applicabili e realmente capaci di conferire diritti agli individui, divenne una questione di diritto interno. Perciò gli Stati membri nei loro rapporti coi singoli individui non potevano più violare gli obblighi derivanti dal Trattato internazionale facendo affidamento sulla debolezza del diritto pubblico internazionale tradizionale. Questa debolezza dipendeva in parte dal fatto che all'individuo non veniva riconosciuta la qualità di soggetto diretto di diritti e doveri (né la legittimità di convenire in giudizio) e in parte dalla tradizionale riluttanza degli Stati nel promuovere azioni legali internazionali a favore di individui quando non è coinvolto l'interesse nazionale. La decisione della Corte aveva quindi una dimensione ulteriore, poiché creava dei nuovi ed efficienti guardiani degli obblighi internazionali: gli individui.
Dopo la decisione del 1963 la dottrina dell'efficacia diretta è stata estesa e approfondita ed è divenuta una regola generale di interpretazione applicabile a tutto il diritto comunitario. Tappe importanti di questa evoluzione sono state la sua estensione alle disposizioni del Trattato, così che esse possono creare diritti immediatamente applicabili nei rapporti reciproci tra individui, come pure la sua applicazione graduale anche a tipi di legislazione comunitaria secondaria (per esempio direttive) che, essendo indirizzati agli Stati membri, apparentemente non offrirebbero la possibilità di attribuire diritti e doveri agli individui. Il processo di perfezionamento è ancora in corso. L'elaborazione di questa dottrina fu assolutamente fondamentale per l'evoluzione del sistema e, per molti versi, può essere considerata la sua pietra angolare. Essa significò non soltanto un nuovo atteggiamento della Corte nei confronti dei Trattati istitutivi, né soltanto un consolidamento del sistema di controllo e di osservanza delle disposizioni: essa mise anche in moto un irreversibile processo evolutivo perché, come vedremo, rendeva necessario, in combinazione con il principio di uniformità incluso nel Trattato (art. 177 CEE), la costruzione del principio del primato (supremacy). E una volta che il sistema avesse consolidato questi due concetti intimamente affini, avrebbe dovuto confrontarsi con la questione della competenza esclusiva (preemption). Su un piano ancora più profondo, la coesistenza di organi preposti alla creazione del diritto e di un principio di efficacia diretta non dipendente dalla reciprocità significava che l'ordine comunitario si autodeterminava come un sistema di governo affine agli Stati piuttosto che come una fonte di obblighi normativi la cui osservanza dipendeva comunque dalla 'traduzione' e intermediazione dei governi nazionali.
Nello stesso periodo la Corte europea sviluppò la sua seconda cruciale dottrina, quella del primato (supremacy), che a sua volta conteneva un aspetto fondamentale, in quest'ambito, dei sistemi giuridici federali pienamente sviluppati. In un altro caso esemplare, la causa Costa vs. ENEL (1964), la Corte stabilì una chiara gerarchia di norme. La Corte, che secondo il Trattato di Roma è l'organo competente per quanto concerne l'interpretazione del Trattato stesso, stabilì che, nell'ambito di competenza della Comunità, il diritto comunitario sia primario che secondario prevale sul diritto dello Stato membro perfino se quest'ultimo entra in vigore successivamente ed è di natura costituzionale. Come nel caso della dottrina della 'efficacia diretta', la dottrina del primato derivava dal Trattato in quanto di quest'ultimo veniva data un'interpretazione in termini di diritto 'costituzionale' piuttosto che in termini di diritto internazionale. La tesi della Corte secondo cui la dottrina del primato è contenuta nel Trattato fu contestata dai governi degli Stati membri nella causa suddetta e in altre. L'accettazione di questo principio equivale in effetti a una rivoluzione silenziosa negli ordinamenti giuridici degli Stati membri. Infatti, rispetto a ogni materia di competenza della Comunità (cosa per la verità non sempre facile da determinare) le norme fondamentali sarebbero divenute quelle comunitarie, poste in tal modo alla base della piramide giuridica. In conseguenza di ciò, la natura evolutiva della dottrina del primato doveva necessariamente essere bidimensionale. Una dimensione consisteva nell'elaborazione dei parametri della dottrina da parte della Corte europea. Ma la seconda dimensione, cioè la piena accettazione della dottrina, dipendeva dalla sua incorporazione negli ordinamenti costituzionali degli Stati membri e dalla sua affermazione da parte delle Corti supreme nazionali. È relativamente facile seguire l'evoluzione della dimensione comunitaria della dottrina. Nella sentenza sulla causa Costa vs. ENEL, in cui tale dottrina fu presa per la prima volta in considerazione, la Corte affrontò il conflitto paradigmatico tra diritto sostanziale nazionale e diritto comunitario. In seguito la Corte europea, in modo controverso ma conforme alla sua precedente attività giurisprudenziale, ha insistito sulla immediatezza del primato, così che furono respinte perfino le statuizioni di alcune Corti nazionali che istituivano procedure interne atte a determinare quale fosse la corte competente a controllare la compatibilità del diritto nazionale con quello comunitario. Si intendeva così stabilire che il primato era non una questione di conflitto sostanziale, ma un principio che imponeva la sostituzione del diritto comunitario al diritto nazionale.Per quanto riguarda la seconda dimensione, il carattere evolutivo del processo è più complesso. Occorre ricordare che negli Stati membri originari non c'era nessuna preparazione costituzionale specifica per questo sviluppo ispirato dalla Corte europea. Il processo di costituzionalizzazione può perciò essere visto nell'accettazione graduale della dottrina da parte delle 'Corti supreme' dei sei paesi fondatori. Il decorso, benché ineguale, mette chiaramente in luce una evoluzione continua. In alcuni Stati membri la recezione del principio non creò problemi di rilievo (Benelux), in altri i tribunali accettarono la dottrina con riserve concernenti la possibile incompatibilità del diritto comunitario coi diritti fondamentali dell'uomo sanciti dalle rispettive costituzioni (Italia, Germania). Ora che la Corte europea ha dichiarato la sua disponibilità a rivedere il diritto comunitario in base a una 'legge più alta' concernente i diritti umani fondata, in parte, sulle tradizioni costituzionali comuni, queste obiezioni non avranno più ragione di esistere. In altri paesi ancora la magistratura è stata a lungo divisa, con un settore che accettava la dottrina e un altro che la rifiutava (Francia). Per quanto riguarda i nuovi Stati membri, specialmente quelli con una costituzione scritta, la questione era più semplice, poiché al tempo della loro adesione il primato era già un principio stabilito e poteva essere sancito formalmente nel procedimento di adesione. Il Regno Unito ha rappresentato un problema speciale, poiché rimangono dei dubbi circa la possibilità teorica di apportare nella Grundnorm una modifica del tipo discusso sopra. Il problema deriva dalla mancanza di una costituzione scritta e dalla difficoltà concettuale di adottare una normativa - quale ad esempio una legge che riconosca il primato al diritto comunitario - che vincoli i parlamenti futuri. Ma la legislazione britannica e le pronunce giudiziarie indicano un'accettazione della dottrina, nei limiti di ciò che è possibile nell'ambito dell'ordinamento costituzionale britannico.
È in questo ambito che si trova la terza e decisiva caratteristica della costituzionalizzazione. Nella sua forma estrema e più pura la competenza esclusiva (preemption) significa che, nei settori in cui la Comunità ha potere di operare delle scelte programmatiche, agli Stati membri è non soltanto interdetta la facoltà di promulgare leggi in contrasto con il diritto comunitario (in base alla dottrina del primato), ma anche la possibilità di intraprendere qualsiasi attività. Inizialmente, prima che la dottrina giungesse a piena maturazione, la Corte europea raggiunse questo obiettivo mediante le sue prime decisioni che proibivano di dissimulare la natura comunitaria delle norme. Tale metodo, tuttavia, si rivelò del tutto insufficiente. In seguito il principio venne affermato in maniera esplicita, sebbene esso sia ancora in via di evoluzione. La Corte di giustizia sta tuttora cercando di raggiungere un equilibrio tra il desiderio di promuovere la capacità della Comunità di operare delle scelte politiche (che costituisce l'essenza della dottrina della competenza esclusiva), per un verso, e la necessità pragmatica di regolamentare quei campi in cui la Comunità ha competenza, ma nei quali - per varie ragioni, come ad esempio problemi relativi al processo decisionale - essa non è stata capace di sviluppare politiche comunitarie di largo respiro. La Corte ha suggerito che in questi casi le lacune nelle politiche comunitarie dovrebbero essere colmate dall'azione degli Stati membri, e ha così dato un'interpretazione più flessibile del puro principio della competenza esclusiva. In questo la Corte seguirà le orme di tutti gli Stati federali, nessuno dei quali applica la competenza esclusiva in forma pura.In alcuni settori, come l'industria della pesca e il commercio internazionale, il principio è assoluto. In altri settori, ogni volta che la Comunità, con l'intento di attuare una politica comune prevista dal Trattato, adotta provvedimenti che prescrivono norme comuni, quale che sia la forma che esse assumono, gli Stati membri non hanno più il diritto, agendo individualmente o persino collettivamente, di contrarre con paesi terzi degli obblighi che possano alterare tali norme. Una volta che regole di questo tipo siano entrate in vigore, solo la Comunità è in grado di assumere e condurre a termine obbligazioni contrattuali nei confronti di paesi terzi che possono incidere sull'intera sfera di applicazione dell'ordinamento comunitario.
L'evoluzione della costituzionalizzazione è stata decisa e rapida e, fino a poco tempo fa, in larga misura coerente. Il motore ne è stato, come abbiamo visto, la Corte europea di giustizia, e il modo in cui essa ha interpretato il proprio ruolo nel processo di integrazione fornisce la chiave per comprendere tale sviluppo. In qualità di giudice supremo in un sistema non unitario, all'interno del quale esistono tensioni strutturali tra le istituzioni centrali e gli Stati membri costituenti, la Corte di giustizia poteva scegliere tra due atteggiamenti diversi. Dall'art. 164 della CEE, che affida alla Corte il compito di garantire "il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione del Trattato", si potrebbe desumere che il ruolo assegnato alla Corte è quello di remoto arbitro, assolutamente non coinvolto nei conflitti tra la Comunità e le nazioni rispetto alla sovranazionalità e all'integrazione europea. Secondo questa interpretazione il ruolo della Corte potrebbe perfino essere quello di impedire l'evoluzione normativa a meno che non vi sia un accordo specifico degli Stati membri. L'intera giurisprudenza della Corte di giustizia rappresenta un rifiuto di questo approccio. La Corte ha invece percepito il proprio ruolo come quello di amministratore fiduciario delle speranze e delle aspirazioni, degli scopi e degli obiettivi dei fondatori della Comunità.
Il concetto migliore alla luce del quale analizzare l'evoluzione istituzionale della Comunità è quello di 'sovranazionalità decisionale', che può essere definita come la capacità di determinare e imporre una volontà comunitaria che trascenda gli interessi specifici dei singoli Stati membri attraverso il processo decisionale della Comunità. La sovranazionalità decisionale e la sua espressione nell'evoluzione del processo decisionale all'interno della Comunità sono, rispetto al processo di costituzionalizzazione, meno facili da analizzare. Le ragioni di questa difficoltà sono molte. Stranamente (o, forse, saggiamente) le regole istituzionali poste nei Trattati sono piuttosto ermetiche. Un'interpretazione letterale dei testi dà scarse indicazioni circa le funzioni delle istituzioni e un'indicazione solo formale delle loro competenze e poteri. C'è inevitabilmente un'enorme divergenza tra queste indicazioni formali e la manifestazione di potere propria della Realpolitik all'interno della Comunità. Discutendo il processo di costituzionalizzazione abbiamo esaminato il ruolo preminente svolto dalla Corte di giustizia nell'ampliare e approfondire l'ambito e il significato del diritto comunitario. A prescindere dalle altre caratteristiche, nella sua parte operativa il processo giurisdizionale è caratterizzato da un'alto grado di trasparenza che facilita il compito dell'osservatore. Mentre è stato possibile identificare con relativa facilità e precisione le fasi evolutive della costituzionalizzazione, non è invece altrettanto facile individuare le pietre miliari nell'evoluzione del processo di decisione politica e di formulazione delle scelte politiche. Esso si configura piuttosto come un sottile processo di interazione fra le istituzioni. La tensione tra il tutto e le parti è, naturalmente, una caratteristica costante anche in quest'ambito, e si manifesta lungo due assi, talvolta convergenti: 1) rapporto della Comunità con gli Stati membri; e, all'interno della Comunità, 2) rapporto tra istituzioni non intergovernative e istituzioni più intergovernative. Sarebbe assai semplicistico ritenere che il processo decisionale possa essere spiegato facendo esclusivo riferimento a queste coordinate. La formulazione delle politiche comunitarie è un processo complesso che si svolge in più fasi, e il dualismo delle coordinate sopra viste si manifesta quasi a ogni fase. Questo sarà illustrato più avanti. Al tempo stesso, da un punto di vista più generale è possibile individuare nella sovranazionalità decisionale un processo in due fasi: un periodo di prolungato declino dalla metà degli anni sessanta fino all'inizio degli anni ottanta e segni recenti di rinascita.
Il declino degli elementi sovranazionali nel processo decisionale, nel periodo tra la metà degli anni sessanta e gli anni settanta, risultò evidente qualunque fosse il criterio utilizzato per caratterizzare la sovranazionalità decisionale: 1) l'indipendenza e l'autonomia decisionale e politica delle istituzioni intergovernative; 2) il peso delle istituzioni non intergovernative nei processi decisionali pluri-istituzionali; 3) la peculiarità delle caratteristiche sovranazionali all'interno delle istituzioni quasi-intergovernative; 4) l'esecuzione e la dettagliata attuazione legislativa delle politiche comunitarie.
Nei primi anni della Comunità del Carbone e dell'Acciaio, l'Alta Autorità godeva di ampia autonomia. Le sue competenze specifiche erano abbastanza limitate - ristrette appunto ai due settori in questione - e le sue funzioni erano simili a quelle dell'attuale Commissione, quali si configurano per esempio nel settore della concorrenza. La sua azione era diretta principalmente verso le imprese dei settori specifici e i dipartimenti governativi direttamente interessati, il che spiega forse la sua autonomia. L'attività dell'Alta Autorità aveva in teoria scarso effetto sugli Stati membri. Politicamente essa non rappresentava un punto di riferimento dotato di reale potere. Inoltre, la sovranazionalità normativa era ancora in uno stadio abbastanza embrionale. Potremmo dire che l'Alta Autorità era padrona solo a casa sua.La conclusione del Trattato di Roma ampliò enormemente il raggio d'azione delle Comunità da un punto di vista sia qualitativo che quantitativo. Nonostante il deliberato tentativo di minimizzare il carattere sovranazionale della Comunità, a partire dal 1958 i provvedimenti comunitari hanno avuto un'incidenza molto maggiore sulla vita nazionale: la creazione dell'Unione doganale, il perseguimento delle quattro 'libertà' comunitarie (libera circolazione di merci, lavoro, servizi e capitali) e la realizzazione di politiche comuni hanno intaccato in modo inevitabile e crescente le politiche, le competenze legislative, la libertà amministrativa delle varie nazioni. Forse, a priori, ci si sarebbe potuti aspettare un interesse e un coinvolgimento maggiori nelle politiche comunitarie da parte degli Stati membri. Un problema ulteriore era costituito dalla comparsa di un 'deficit democratico' della Comunità, problema caratterizzato da due aspetti strettamente connessi. In primo luogo, date le possibili - e spesso esagerate - tensioni tra gli interessi comunitari e quelli nazionali, si temeva che potessero essere sviluppati programmi comunitari che non tenessero nel dovuto conto gli interessi nazionali. I Trattati negarono al Parlamento europeo ogni voce in capitolo in materia di elaborazione e controllo degli indirizzi politici e dell'attività normativa. I membri del Parlamento non erano eletti direttamente, ma designati dai parlamenti nazionali tra i loro membri. Anche la Commissione mancava di qualsiasi legittimazione popolare diretta, e il Consiglio dei ministri - il principale organo legislativo - rappresentava gli esecutivi degli Stati membri. Era prevedibile che si sarebbe sviluppata una certa inquietudine riguardo al processo legislativo comunitario. In assenza di un controllo efficace e democraticamente legittimato sull'attività del legislatore da parte della Comunità, era inevitabile uno spostamento verso un controllo nazionale. Purtroppo i parlamenti nazionali hanno creato meccanismi di controllo degli atti comunitari assolutamente inadeguati. Invece, un Consiglio dei ministri dotato di ampi poteri, che fosse, almeno in teoria, responsabile di fronte al controllo dei parlamenti nazionali, poteva essere considerato una parziale risposta a questo aspetto del deficit democratico. Ma questa soluzione è largamente illusoria. Gran parte del lavoro del Consiglio è svolto da funzionari statali membri del COREPER, che non posseggono legittimazione maggiore della Commissione; inoltre, il controllo diretto sul lavoro ministeriale all'interno del Consiglio è scarso - tranne, forse, che da parte della Danimarca - salvo che per le questioni principali. In effetti - e questo è l'altro aspetto del deficit democratico che rimane a tutt'oggi senza risposta - i ministri nazionali possono usare il foro legislativo del Consiglio per far approvare una legislazione ostacolata o addirittura già respinta nei parlamenti nazionali.
L'altro organo di controllo dell'attività legislativa doveva naturalmente essere la Corte di giustizia. Agli inizi degli anni sessanta, tuttavia, la Corte ritenne di doversi occupare principalmente dell'evoluzione e del consolidamento delle istituzioni e delle politiche europee. Così, per esempio, quando un provvedimento comunitario sospetto di violare i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione di uno Stato membro fu portato davanti alla Corte per un controllo giudiziale, essa assunse un atteggiamento restrittivo e formalistico e dichiarò che in effetti i Trattati non imponevano il dovere di rispettare quei diritti. La Corte si preoccupava di non ostacolare in alcun modo il funzionamento delle istituzioni comunitarie e di non mettere a repentaglio il primato del diritto comunitario. In seguito la Corte si rese conto che il processo di integrazione sarebbe stato favorito anziché impedito da una coraggiosa politica di controllo giudiziale, ma il primitivo atteggiamento della Corte contribuì alla creazione del deficit democratico.
Nonostante l'enorme incremento della gamma di attività e delle competenze comunitarie e l'emergere del deficit democratico - due fattori che sembrerebbero suggerire un inevitabile aumento di importanza del Consiglio dei ministri - l'eclisse della Commissione non fu immediatamente evidente. Due fattori correlati contribuivano al mantenimento del potere della Commissione. In primo luogo, la Comunità Economica Europea nei primi anni di attività ricavò un supporto di legittimazione dal fatto che la conclusione del Trattato di Roma era ancora vicina nel tempo. Il Trattato e le sue norme erano stati discussi e approvati in tutti i sei parlamenti nazionali. In secondo luogo, fintantoché fu ritenuto che il ruolo della Commissione consistesse semplicemente nell'attuazione delle parti esplicitamente operative del Trattato, il deficit democratico non venne in luce. Dato che il compito principale della Commissione consisteva nella messa in effetto di queste politiche esplicite - soprattutto la creazione dell'Unione doganale - essa non entrò in conflitti politici rilevanti con il Consiglio. (In realtà si verificarono degli scontri di personalità, che erano indicativi di come i commissari e il loro presidente percepivano il proprio ruolo politico nei primi anni). La Commissione fu quindi in grado di acquistare un immenso prestigio grazie alla rapidità e alla competenza con cui coordinava il processo di attuazione e grazie all'abilità mostrata nell'adempire il proprio ruolo di mediatrice nella ricerca di soluzioni concordate e nella risoluzione delle dispute fra i governi degli Stati membri. Una volta che questi compiti furono sostanzialmente realizzati, comunque, il processo di erosione della posizione della Commissione cominciò a divenire sempre più evidente.I segni del declino della Commissione sono abbastanza chiari. Tra i più importanti possiamo ricordare la grande influenza che arrivò ad esercitare il Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER) quale autorevole intermediario tra la Commissione e il Consiglio, nonché l'iniziale esclusione e successiva tolleranza della Commissione nel nuovo organo preposto alla formulazione delle scelte politiche, il Consiglio europeo, che fu istituito al di fuori dei Trattati e divenne il foro istituzionalizzato per l'incontro fra i capi di Stato e di governo. La sua funzione non era soltanto quella di elaborare le nuove politiche della 'seconda generazione', ma anche di fungere da principale sede per la composizione di dispute intergovernative concernenti questioni comunitarie. L'ascesa del COREPER significava che le iniziative della Commissione erano soggette all'influenza intergovernativa già a uno stadio iniziale del processo della loro formulazione, con la conseguenza di sminuire il ruolo della Commissione quale portavoce del punto di vista comunitario. Questo processo di intervento nazionale si verifica non soltanto dopo che la Commissione ha avanzato una proposta e prima che essa sia sottomessa formalmente al Consiglio: vi sono dei 'comitati legislativi', comprendenti rappresentanti degli Stati membri e funzionari della Commissione, che esaminano le proposte allo stato embrionale, non appena sono state concepite dai servizi e dalle direzioni generali della Commissione. Una proposta può non aver alcun seguito a causa del dissenso nazionale ancor prima che essa compaia nell'ordine del giorno della Commissione. La nascita del Consiglio europeo ha contribuito a limitare il ruolo della Commissione come fonte di nuove idee per la Comunità e come mediatrice fra gli Stati membri. La Commissione era così limitata da due nuovi organismi che ne 'usurpavano' sia le funzioni tecniche che quelle politico-diplomatiche.
L'erosione della sovranazionalità decisionale non è risultata evidente solo nel declino della Commissione nei confronti del Consiglio (in entrambi i suoi derivati: il Consiglio europeo e il Consiglio dei ministri). Un declino delle caratteristiche sovranazionali si è verificato all'interno dello stesso Consiglio dei ministri. Abbiamo già segnalato come la crescente influenza del Consiglio europeo sia stata considerata un'indicazione del fallimento del tentativo del Consiglio dei ministri di affermarsi come organismo istituzionale capace di offrire una guida alla Comunità e di risolvere i suoi problemi. La necessità di ricorrere a un'organizzazione di vertice vecchio stile, debolmente strutturata, è un chiaro segno di regresso del ruolo del Consiglio dei ministri in quanto organismo comunitario.Il secondo e forse più importante segno del declino della sovranazionalità decisionale fu l'abbandono da parte del Consiglio dei ministri della votazione a maggioranza - che era stata scelta come la più chiara manifestazione della precedenza dell'interesse comunitario su quello nazionale nell'ambito del processo decisionale - in favore della decisione all'unanimità. Questo passo, voluto dalla Francia, inizialmente accettato a malincuore dagli altri cinque, e ratificato con l'Accordo di Lussemburgo, considerato giuridicamente discutibile, doveva diventare, con l'ingresso di tre nuovi Stati membri, una norma comunitaria accettata. Una delle caratteristiche autenticamente sovranazionali della procedura del Consiglio veniva in tal modo svigorita. Non che la votazione a maggioranza sia di per sé tanto eccezionale nelle organizzazioni internazionali: ciò che la rendeva peculiare era il potere legislativo del Consiglio e l'effetto di tale legislazione sugli ordinamenti giuridici nazionali, come implica il concetto di sovranazionalità normativa. Il potere di veto di cui attualmente dispone ogni Stato membro non paralizza necessariamente il Consiglio perché, come abbiamo visto, nelle aree controllate dalla Comunità il Consiglio deve alla fine prendere una decisione, se determinate scelte politiche debbono essere realizzate. Il potere di veto non dà a uno Stato membro la facoltà di imporre il proprio volere per quanto riguarda l'esito finale del processo decisionale. Piuttosto, tale situazione ha indotto i nove partners a prendere decisioni 'a pacchetto', ricercando compromessi non solo rispetto a ogni politica, ma anche tra diverse politiche. Tale sviluppo ha senza dubbio contribuito all'emergere del Consiglio europeo come sede dotata di grandi potenzialità di contrattazione politica, sebbene, come abbiamo rilevato prima, tale funzione avrebbe potuto essere assunta dal Consiglio dei ministri degli Esteri.
L'Accordo di Lussemburgo e il potere di veto non distrussero del tutto la supremazia della Comunità nel processo decisionale. In primo luogo, c'è il fatto che, sebbene richiedano sempre il consenso del Consiglio, molte questioni, segnatamente il bilancio, sono ancora decise con voto a maggioranza. In secondo luogo, il potere di veto degli Stati membri non implica necessariamente, come ritengono invece molti commentatori, l'arresto del processo sovranazionale comunitario. Ciò che risulta cruciale è il contesto legislativo in cui il potere di veto viene esercitato. Laddove il Trattato prevede esplicitamente che certe politiche siano adottate dal Consiglio all'unanimità, il potere di veto conferisce a ogni Stato membro la facoltà di bloccare direttamente qualsiasi misura ritenuta inaccettabile. E naturalmente vi sarà sempre questa facoltà in tutti quei casi per i quali l'Accordo di Lussemburgo estende il potere di veto a misure per le quali il Trattato prevede la votazione a maggioranza semplice o a maggioranza qualificata.Comunque, l'art. 149 della CEE prevede che nel caso di una proposta avanzata dalla Commissione "il Consiglio può emanare un atto che costituisca emendamento della proposta stessa soltanto con deliberazione unanime". In questo caso, quindi, il potere di veto di cui dispone ogni singolo Stato membro gli conferisce la capacità di impedire ogni modifica di una proposta della Commissione - il che può essere considerato un 'veto sovranazionale' - ma non la capacità di imporre un emendamento. La sola possibilità che resta a uno Stato membro le cui proposte di emendamento sono 'bloccate sovranazionalmente' dal veto di un altro Stato, che insiste sulla proposta originaria della Commissione, è di porre il veto sull'intero disegno di legge in discussione, il che è naturalmente una questione molto più seria e richiede un livello di interesse nazionale ben più alto. Il Parlamento ha fatto invero un uso sagace di questo principio in uno dei suoi più recenti contrasti con il Consiglio in tema di bilancio. Il sistema di porre delle 'scadenze' per la discussione del bilancio, onde impedire dilazioni indefinite, e la facoltà di tre Stati membri di bloccare mediante un 'veto qualificato' i mutamenti che il Consiglio voleva introdurre nel bilancio parlamentare supplementare del 1980 determinarono l'approvazione del bilancio da parte del presidente del Parlamento.
La rigorosa dottrina della separazione dei poteri, in base alla quale l'esecutivo deve semplicemente porre in effetto le politiche approvate altrove, non è probabilmente mai stata sostenibile e il ruolo cruciale degli esecutivi nella determinazione delle scelte politiche è così evidente da rendere superflua ogni analisi. La definizione della funzione dell'esecutivo nel sistema comunitario non è facile. Abbiamo già osservato che una funzione tradizionale degli esecutivi nelle democrazie occidentali contemporanee, quella di formulare proposte politiche e sottoporle al ramo legislativo - un compito che inizialmente spettava alla Commissione - è stata in larga misura assunta (tranne che in termini strettamente tecnici) dal Consiglio dei ministri e dal Consiglio europeo.C'è stato un analogo declino nella fase postlegislativa? La questione è complessa e le nostre conclusioni devono essere considerate provvisorie e congetturali. In alcuni settori ben delimitati, come quello della concorrenza, la Commissione agisce come un organismo federale con pieni poteri esecutivi, sebbene anche in questo caso essa debba far affidamento sugli ordinamenti nazionali per i provvedimenti esecutivi. In molti campi, tuttavia, la realizzazione pratica delle politiche e delle norme comunitarie, sia che queste riguardino il settore agricolo o l'applicazione della tariffa doganale comune, viene effettuata dalle amministrazioni nazionali che operano come rappresentanti della Comunità per questioni come la riscossione di imposte, la concessione di permessi, l'erogazione di sovvenzioni. Nella misura in cui questa rappresentanza è automatica e si esplica direttamente su provvedimenti comunitari e su istruzioni della Commissione, questa caratteristica non può essere vista come una debolezza del ruolo esecutivo della Commissione e come segno di declino della sovranazionalità decisionale.Comunque, le Comunità come sistema politico non sono sfuggite alla generale tendenza verso un aumento dell'attività di governo basata su azioni e norme amministrative. Perciò, mentre il potere legislativo (il Consiglio) emana misure autorizzative oppure formula i principî generali di una data politica, è poi lasciato all''esecutivo' il compito di porre in atto tali politiche mediante una serie di misure legislative secondarie e di atti amministrativi. Proprio come il COREPER fu introdotto dal Trattato sulla fusione degli organismi comunitari del 1965 come ulteriore livello di rappresentanza degli Stati membri con lo scopo manifesto di facilitare la preparazione tecnica delle sedute del Consiglio, ma in pratica determinò una limitazione nel ruolo specifico della Commissione - la formulazione dell'indirizzo politico -, così è possibile identificare una tendenza simile nell'istituzione dei Comitati degli Stati membri in relazione alle funzioni esecutive della Commissione.
Con la sostanziale espansione delle attività comunitarie, specialmente nel settore agricolo, è stata istituita un'ampia rete di Comitati, molti dei quali con lo scopo di facilitare l''attuazione legislativa' delle politiche comunitarie. Alcuni sono comitati consultivi: consultarli è obbligatorio, ma la loro opinione non è vincolante; altri, come i Comitati di gestione e i Comitati esecutivi, hanno un ruolo più decisivo. Per quanto riguarda i Comitati di gestione, particolarmente rilevanti nei settori dell'agricoltura e della pesca, la Commissione deve sottomettere loro una bozza dei propri provvedimenti. Il Comitato può approvare il provvedimento - mediante una maggioranza qualificata - oppure non pervenire a una decisione (se non si riesce a raggiungere una maggioranza qualificata), dopo di che la Commissione è libera di adottare il provvedimento, che acquisterà piena forza di legge. Se il Comitato riesce a respingere il provvedimento (mediante una maggioranza qualificata contraria) la Commissione può ancora approvare il provvedimento, ma esso diverrà effettivo solo dopo un certo periodo, durante il quale il Consiglio nella sua composizione ordinaria può, tramite una maggioranza qualificata, respingerlo. La procedura dei Comitati regolatori è leggermente più restrittiva per la Commissione.
Non si può fare a meno di notare come questi meccanismi indichino una riluttanza del Consiglio e degli Stati membri ad affidare alla Commissione l'esecuzione delle politiche, sia pure con la predisposizione di salvaguardie, come la presentazione di relazioni e di informazioni. In tal senso, perciò, la proliferazione dei Comitati può esser vista come un elemento del declino della sovranazionalità decisionale.
Bisogna ora cercare di fornire alcune ragioni di questa diminuzione di importanza della Commissione e del generale declino della sovranazionalità decisionale. Esse sono in realtà molte.
1) Abbiamo notato il successo iniziale della Commissione nel porre in atto le politiche specificamente previste nei Trattati. La necessità di sviluppare una 'seconda generazione' di politiche comunitarie basate su indicazioni di massima dei Trattati ma non chiaramente esplicitate - come la protezione dell'ambiente e del consumatore - ha attribuito alla Commissione un compito politicamente assai più delicato. Il potere di 'iniziativa' che le politiche di seconda generazione rendevano necessario era meno formale e tecnico, ovvero non c'era più bisogno di proposte che dessero forma legislativa a espliciti vincoli posti dal Trattato, ma di proposte più ampie e impegnative sul piano dei principî. Mentre le politiche della prima generazione erano negative - nel senso che gli Stati membri si impegnavano ad astenersi da certe azioni e la Commissione era incaricata dell'attuazione di questo regime negativo - le nuove politiche dovevano avere un concreto contenuto positivo, sul quale era più difficile raggiungere un accordo. La capacità da parte della Commissione di proporre nuove iniziative e di farle accettare fu perciò considerevolmente indebolita. Crebbe l'importanza del Consiglio dei ministri e del Consiglio europeo: erano ormai quelli gli organismi che potevano dare l'impulso a nuove politiche. In realtà, la Commissione manteneva la sua posizione come fonte di idee e di prospettive di sviluppo della Comunità. La politica ambientale, per limitarci a un esempio, non avrebbe potuto essere formulata senza un'iniziativa della Commissione. Ma spettava al Consiglio europeo di sanzionare tale politica, equilibrarla e vararla ufficialmente. La Commissione restava in qualche modo in secondo piano.
2) La necessità di politiche di 'seconda generazione' mise in evidenza il deficit democratico. Inoltre, con l'ampliamento delle attività comunitarie, i parlamenti nazionali si sentirono minacciati da un processo che avrebbe tolto loro ancor più potere. La Commissione, che aveva scarsa legittimazione democratica formale, divenne un bersaglio facile da attaccare.
3) La Commissione stessa, anche se si arricchiva di esperienza, era molto rallentata da una pesante burocrazia, come risultava non solo dalla crescita numerica dell'organico, ma anche dall'aumento dei tradizionali intoppi burocratici che riducevano in misura significativa la sua efficienza sul piano internazionale. La carenza di coordinamento interno, le distorsioni nei meccanismi della carriera e le rivalità personali e nazionali contribuirono a una caduta del morale sul piano interno e della considerazione sul piano esterno. Anche la posizione materialmente privilegiata dei funzionari della Commissione (come degli altri funzionari della Comunità), nel difficile clima congiunturale, può aver contribuito a questo processo.
4) L'indipendenza della Commissione e la sua imparzialità nell'attività giurisdizionale cominciarono a venir meno in un bizzarro processo dialettico. L'importanza stessa della Commissione induceva gli Stati membri non solo a occuparsi attivamente della nomina dei commissari - ciò che era costituzionalmente ammissibile - ma anche della carriera del personale all'interno della Commissione e dell'assegnazione dei portafogli ai commissari. La Commissione parve perciò perdere la sua imparzialità, un difetto singolare se consideriamo il suo istituzionale ruolo di mediatrice nelle divergenze del Consiglio. Sul piano interno, tale intervento governativo metteva a dura prova la natura collegiale della Commissione e l'autorità del suo presidente.
5) Infine, è possibile che lo stesso processo di costituzionalizzazione che abbiamo precedentemente descritto abbia avuto un effetto negativo, almeno come fattore aggiuntivo, sulla sovranazionalità decisionale, tanto nelle relazioni tra Consiglio e Commissione quanto all'interno del Consiglio stesso. La sovranazionalità normativa significava che l'impatto delle politiche e del diritto della Comunità era percepito come crescente non solo come ambito - coprendo un maggior numero di settori - ma anche come profondità - avendo un'efficacia legale più immediata e vincolante, alla quale gli Stati membri non potevano sfuggire. Quindi, per dare un esempio, la questione politicamente delicata del primato del diritto comunitario veniva contrastata dagli Stati membri che insistevano per mantenere il controllo della formulazione di questa legge 'suprema' e la facoltà di bloccarla. Questa interpretazione del ruolo e del potere dei governi nazionali fu energicamente denunciata dai settori favorevoli al mercato comune nel referendum del 1975 nel Regno Unito, che la usarono (in modo improprio) come strumento contro le accuse di 'perdita di sovranità' che l'appartenenza alla Comunità implicava.
Questo suggerisce che la correlazione tra l'approfondimento della sovranazionalità normativa e la diminuzione della sovranazionalità decisionale non è accidentale, ma, almeno in parte, causale. Come abbiamo notato, la Corte europea di giustizia non aveva escluso il delicato settore delle relazioni economiche con l'estero dagli effetti della sovranazionalità decisionale, pronunciando una delle sue sentenze fondamentali - la sentenza ERTA - sulla dottrina della competenza esclusiva in relazione alla capacità della Comunità di concludere trattati. Il Consiglio dei ministri e gli Stati membri, dal canto loro, hanno garantito che, nell'attuazione della politica estera della Comunità, la Commissione fosse tenuta sotto stretto controllo e che gli Stati membri, secondo un'interpretazione giuridica dei limiti della competenza comunitaria, fossero parti attive nella conclusione di molti accordi.
Una valutazione dei cambiamenti nel processo decisionale è resa difficile non solo per la diversità dei criteri che possono essere impiegati, ma anche perché i fatti non si prestano comunque, quale che sia il criterio adoperato, a conclusioni semplicemente positive o negative. Si vedrà piuttosto che il bilancio finale è ibrido, il 'bene' e il 'male' sono strettamente intrecciati. In questa valutazione i criteri che verranno adottati saranno quelli di efficienza, democrazia e sovranazionalità.
Efficienza. - In termini di efficienza è chiaro dalla nostra analisi che il sistema è stato appesantito dall'aggiunta di ulteriori organi - come il COREPER e i suoi ausiliari - che, assieme agli intralci di tipo burocratico all'interno della Commissione, hanno contribuito a determinare la cosiddetta lourdeur del processo. Benché indubbiamente la velocità del processo decisionale della Commissione abbia subito un rallentamento e la necessità del consenso nazionale faccia sentire la sua presenza, è pur sempre possibile dare un'interpretazione positiva di questi fatti. In primo luogo, non bisogna dimenticare l'essenziale ruolo tecnico del COREPER: senza la sua attività di vaglio, il Consiglio non avrebbe assolutamente potuto operare in modo efficace. Già il volume dell'attività legislativa comunitaria avrebbe messo in crisi un organo meramente politico come il Consiglio. Secondo questo punto di vista il COREPER è diventato indispensabile e si può tranquillamente affermare che senza di esso sarebbe stato approvato un numero di gran lunga inferiore di atti comunitari. È anche chiaro che la Commissione non ha e non potrebbe avere tutta la competenza tecnica e politica necessaria per redigere una legislazione professionale in settori economici e sociali altamente tecnici, una legislazione che deve, per giunta, essere capace di adattarsi senza troppe difficoltà a dodici sistemi nazionali abbastanza diversi. Sono il COREPER e i gruppi di lavoro a fornire questa essenziale competenza professionale. Nonostante che si sia tanto parlato della crescente burocratizzazione, in tutta la Commissione vi è un numero di amministratori professionali inferiore a quello della maggior parte dei dipartimenti governativi degli Stati membri di medie e grandi dimensioni. Anche il problema del consenso unanime nel processo decisionale è aperto a una duplice interpretazione in relazione al criterio dell'efficienza. Infatti, se da un lato la necessità del consenso e il potere di veto degli Stati membri hanno contribuito molto a imprimere al processo decisionale un carattere più diplomatico da legislativo qual era, dall'altro hanno anche consentito agli Stati membri recalcitranti di ostacolare il processo o differirlo indefinitamente. Al tempo stesso, se si tiene presente che la Comunità non possiede un suo esecutivo e dipende dalle autorità nazionali - e principalmente dalle burocrazie nazionali - per la fedele attuazione, applicazione e imposizione del diritto e delle politiche comunitarie, si comincia a vedere più chiaramente il lato positivo della decisione consensuale. Anche se esistesse il voto a maggioranza, è facile immaginare che la Comunità potrebbe fare ben poco di fronte ad amministrazioni nazionali riluttanti, recalcitranti o perfino provocatorie, dato che queste controllano l'effettiva attuazione e applicazione del diritto e della politica comunitaria.Il grande vantaggio potenziale della decisione consensuale in un sistema nel quale una burocrazia è teoricamente responsabile della legislazione e un'altra della sua esecuzione è che aumenta la probabilità che il risultato finale del processo comunitario sia 'accettabile' e venga effettivamente recepito. La possibilità per ogni amministrazione nazionale di bloccare misure realmente dannose, e in generale di eliminare le difficoltà tecniche e politiche delle proposte della Commissione, accresce la probabilità che esse vengano in seguito attuate fedelmente. L'impegno psicologico e politico creato dalla partecipazione nazionale al processo decisionale, a Bruxelles, può portare da questo punto di vista dei frutti favorendo la successiva recettività di Parigi, Londra e delle altre capitali.
Democrazia e rappresentatività. - Il sistema comunitario si allontana in due aspetti fondamentali dai suoi equivalenti nazionali: la responsabilità parlamentare non è parte integrante del processo decisionale e inoltre la sua azione legislativa non è formalmente limitata da una legge superiore circa i diritti umani. Lo sviluppo della sovranazionalità normativa ha reso il problema più acuto perché ha accresciuto l'impatto giuridico di questa legislazione non soggetta a rendiconto democratico e anche teoricamente non controllabile in sede di responsabilità. Mentre la questione dei diritti umani è stata almeno in parte risolta dalla Corte europea di giustizia, la questione della responsabilità parlamentare rappresenta tuttora un problema critico. Sembrerebbe perciò che, almeno secondo i valori politici correnti, il sistema manchi delle caratteristiche essenziali della legittimazione formale. L'argomento in base al quale il problema in senso formale non si pone perché i meccanismi dell'ordinamento giuridico derivano dai Trattati (sebbene emendati) che sono stati ratificati dal popolo tramite i parlamenti nazionali, perde gran parte della sua forza proprio a causa del processo di approfondimento. Primato, efficacia diretta e tutto il resto non erano espressamente indicati dai Trattati. Essi rappresentano innovazioni fondamentali che, come abbiamo detto, rendono critico il problema della legittimazione.
Ma la legittimazione non è soltanto un problema di validità giuridica e responsabilità formale. È anche un problema di accettabilità sociale. Certamente questi elementi di responsabilità possono rappresentare dei fattori che contribuiscono all'accettabilità sociale, la quale può essere messa in forse dall'assenza di tali fattori. La validità giuridica e la responsabilità formale esercitano altre influenze che possono essere egualmente importanti. Non è il caso di affrontare una discussione teorica intorno alla legittimità né di avviare un'analisi sociopsicologica di quegli elementi che possono contribuire o meno all'accettabilità sociale. È comunque chiaro che la fedeltà agli organi tecnici che i primi funzionalisti avevano previsto non si è realizzata. In effetti la natura burocratica della Comunità - che è l'antitesi d'ogni weberiana nozione di carisma - può essere soltanto un ostacolo alla dimensione sociologica della legittimità.
Che cosa dire, allora, della sostanza dell'attività comunitaria? Certamente l'analisi di questa dimensione - rivolta all'effettivo contenuto del diritto - è resa difficile dall'assenza di discussione sulla politica comunitaria. Ma sappiamo anche che la legittimazione materiale dipende tanto dal processo in base al quale il diritto e i regolamenti sono adottati, quanto dal contenuto effettivo di tale diritto. È chiaro che le deficienze di responsabilità del processo decisionale riducono l'attuabilità della legittimazione materiale. Laddove il possibile impatto della mancanza di un controllo parlamentare è abbastanza evidente, c'è un'altra dimensione dell'attuale processo decisionale comunitario che può ostacolare la legittimazione materiale. Il processo decisionale negli Stati membri non si svolge interamente all'interno del Parlamento. Sia che si adotti un modello di democrazia rappresentativa o un modello neocorporativo, è chiaro che anche troppo spesso il contenuto normativo della politica nazionale è il risultato di un processo nel quale partiti, datori di lavoro, sindacati e altri gruppi di pressione interagiscono per influenzare le leve del potere - si trovino queste nel Parlamento, nell'amministrazione, o talvolta persino nella magistratura - oppure per determinare i risultati stessi. In questo gioco il governo e l'amministrazione possono essere soltanto due elementi tra altre forze. Questi gruppi nazionali di pressione spesso rappresentano delicati equilibri sociali, e si può talvolta ritenere che la loro conservazione contribuisca alla legittimità nazionale e perfino alla stabilità.Il sistema comunitario, quale si è sviluppato, sconvolge questi equilibri in molti modi. In primo luogo, a causa del gioco diplomatico comunitario, molte controversie devono essere ridotte alla forma di 'posizione nazionale' o 'interesse dello Stato'. Un governo deve prendere una posizione. In molti campi queste sono categorie artificiose il cui uso è spesso evitato in ambito nazionale. In secondo luogo, l'esecutivo e l'amministrazione dispongono a livello transnazionale di una libertà di cui, almeno in alcuni campi, potrebbero non godere a livello nazionale. Infine, l'equilibrio raggiunto a livello nazionale tra vari interessi e gruppi d'interesse può essere turbato, con implicazioni pericolose per la successiva accettabilità delle politiche concordate. Così, per esempio, certi gruppi di pressione, come l'industria automobilistica, possono trovare molto più semplice, data la relativa concentrazione e le ampie risorse di cui dispongono, trasferire la propria forza di pressione sulla scena europea. La loro capacità di raggrupparsi a livello transnazionale e di controllare e influenzare efficacemente il processo decisionale può essere di gran lunga superiore a quella, per esempio, di gruppi di consumatori. Questi ultimi si contraddistinguono per il carattere diffuso degli interessi che rappresentano e per le ben note difficoltà organizzative e finanziarie, tutte amplificate a livello europeo. Una volta che il centro decisionale - per quanto riguarda, ad esempio, le misure di sicurezza per le automobili - viene trasferito alla Comunità in quanto rientra nei compiti di appianamento degli ostacoli al commercio, si può vedere come l'equilibrio delle decisioni nazionali possa essere turbato. Mentre l'industria automobilistica può perfino trarre un profitto dalla concentrazione delle decisioni, i gruppi di consumatori possono trovarsi in una situazione sfavorevole. Innanzitutto, essi dovranno organizzarsi transnazionalmente -compito ben più arduo, vista la quantità dei gruppi di consumatori e la natura diffusa dei loro interessi. In secondo luogo, mentre nell'arena nazionale i consumatori, a causa del loro potere elettorale, possono riuscire a controbilanciare il potere dei produttori esercitando un'influenza a livello parlamentare, a livello europeo questo classico strumento gli è negato. Se c'è dunque qualche verità nell'accusa che le direttive per quanto concerne il settore automobilistico sono 'scritte dall'industria', abbiamo sia un'illustrazione di come il processo decisionale comunitario può contribuire alla mancanza di legittimità materiale, sia una spiegazione dei motivi di tale mancanza. Come abbiamo suggerito comunque all'inizio, i mutamenti che si sono verificati riguardo al processo decisionale contengono luci e ombre.
È possibile sostenere che anche in questo caso i mutamenti nel processo decisionale comunitario contengano elementi che attenuano la controversia intorno alla legittimità formale. Da questo punto di vista formale, lo spostamento in direzione della decisione consensuale può, almeno teoricamente, mitigare il problema della responsabilità. Mentre in un sistema di votazione maggioritaria un ministro potrebbe sempre sostenere davanti al suo parlamento nazionale che una decisione comunitaria è stata presa nonostante la sua opposizione, la facoltà di veto per gli Stati membri limita questa possibilità. Crescono in tal modo le potenzialità della responsabilità indiretta, sebbene in pratica sia difficile per i parlamenti nazionali esercitare una efficace supervisione sul proprio esecutivo a livello comunitario.
Sul piano dell'accettabilità sociale e del contenuto materiale la disputa è più sottile e incerta. È certo vero che, nella misura in cui la controversia politica comunitaria è percepita - a torto o a ragione - come imperniata sul conflitto tra interesse nazionale e interesse comunitario, il dominio dei politici nazionali, soprattutto al più alto livello - di Consiglio europeo, per esempio - renderà più tranquilli i circoli nazionali e più accettabili le direttive comunitarie. Anzi, si potrebbe sostenere che i governi spesso interpretano deliberatamente in questo modo il processo decisionale, onde accrescere e legittimare il ruolo dominante da essi assunto in settori nei quali potrebbero avere un potere ben più ridotto a livello nazionale. C'è sempre una tendenza ad accettare l'azione governativa - soprattutto nell'arena delle relazioni internazionali - quando si tratta di temi nei quali sia in gioco un presunto interesse nazionale. Infine, e in modo meramente ipotetico, il grande prestigio degli Stati membri negli organismi comunitari può aiutare a 'trasferire' la legittimità che i governi hanno sul piano interno al processo comunitario nel suo insieme. Tuttavia, non è stata ancora del tutto superata la contrapposizione tra i singoli Stati e la Comunità, la quale viene spesso usata dai governi come un utile capro espiatorio per i loro problemi interni.
Sovranazionalità. - È chiaro dall'analisi precedente che i mutamenti nel processo decisionale hanno ridotto il carattere sovranazionale della Comunità. È comunque importante indicare con precisione gli elementi che determinano tale riduzione.Certo il prevalere della decisione consensuale è l'elemento più importante in questo declino. Occorre tuttavia essere cauti nel valutare l'importanza di questo fattore. In primo luogo occorre ricordare che la crisi di Lussemburgo e il successivo Accordo che istituiva il potere di veto per gli Stati membri si verificarono prima che fosse completato il periodo di transizione. Solo dopo questo periodo doveva entrare in vigore il voto a maggioranza. A rigore l'Accordo non aboliva una prassi esistente, ma ne impediva l'entrata in vigore. Inoltre, anche dopo che il voto a maggioranza fosse entrato in vigore, il Trattato stesso prevedeva l'unanimità in quei campi della politica comunitaria che erano considerati cruciali. In senso stretto l'importanza dell'Accordo di Lussemburgo era limitata a quelle aree operative del programma del Trattato nelle quali l'unanimità non era prevista. Si può comunque affermare che l'Accordo ebbe un'importanza che andava molto al di là del potenziale sconvolgimento di quelle aree operative: esso era il simbolo che lo spirito 'comunitario' si era trasformato in un atteggiamento più egoista e pragmatico di valutazione dei costi e dei benefici da parte degli Stati membri. Era un cambiamento di 'costume' inizialmente respinto dai cinque ma che in seguito - soprattutto dopo il primo allargamento della Comunità - tutti fecero ben volentieri proprio. In questo senso il danno arrecato al carattere sovranazionale della Comunità fu sostanziale.In secondo luogo è importante puntualizzare che la pratica della decisione consensuale non è omogenea. Non solo, come abbiamo visto, il voto a maggioranza è ancora in uso nei vari comitati istituiti per 'aiutare' la Commissione a mettere in atto la politica comunitaria, ma anche nel processo decisionale stesso possiamo distinguere diverse situazioni nelle quali specifiche costellazioni di diritto e di fatto determinano differenti categorie di creazione del consenso. La differenziazione di queste categorie dipende dall'esistenza di stimoli al consenso, i quali possono sussistere come questione di diritto contenuta nella dottrina della competenza esclusiva, come questione di fatto, laddove sussista una 'competenza esclusiva fattuale', oppure come risultato di fattori politici e diplomatici contingenti.La prima categoria è determinata dall'assenza di competenza esclusiva giuridica e dalla presenza minima o dalla totale assenza di competenza esclusiva di fatto. In un settore come quello della protezione del consumatore, la competenza della Comunità deriva essenzialmente dall'accordo spontaneo degli Stati membri in base agli artt. 100 e 235. Non c'è obbligo esplicito di adoperarsi in questo settore e, cosa cruciale, nel caso che la Comunità non abbia promulgato leggi in merito gli Stati membri sono liberi di perseguire le politiche nazionali. Non v'è alcuna competenza esclusiva giuridica. Anche il livello di integrazione del mercato nella Comunità non ha raggiunto lo stadio - evidente invece negli Stati Uniti - in cui le lacune normative forniscono un forte stimolo economico-politico per creare una competenza esclusiva di fatto: cioè una situazione in cui, in assenza di accordo a livello comunitario, l'opzione a favore della politica nazionale non rappresenta un'alternativa praticabile. Ne risulta che ogni Stato ha un ampio margine di discrezionalità mentre è scarso lo stimolo a ricercare misure concordate a livello comunitario. Usare tecniche dilatorie e insistere sulle priorità nazionali è facile e, soprattutto, la penalizzazione, sia giuridica che di fatto, per il mancato raggiungimento di una decisione è praticamente assente. Il processo decisionale all'interno di questa categoria è in effetti molto simile a quello di una conferenza diplomatica internazionale per arrivare a un trattato.Una seconda categoria è costituita dalla decisione consensuale nel contesto della competenza esclusiva giuridica e fattuale. Per illustrare questa categoria possiamo utilizzare la determinazione annuale dei prezzi agricoli nell'ambito della Politica Agricola Comune. Difficilmente si può immaginare un settore della politica comunitaria più controverso e 'nazionalistico'. Negli ultimi tempi questo evento annuale è diventato quasi una crisi istituzionalizzata. Ci sono tutti gli elementi per la mancanza di consenso. Eppure c'è il fattore cruciale della competenza esclusiva: se gli Stati membri non raggiungono un accordo, essi non possono, legalmente, adottare misure nazionali unilaterali in assenza di una decisione comunitaria. Si è addirittura verificato il caso che alcuni Stati membri abbiano minacciato di rompere l'obbligo determinato dalla competenza esclusiva. In una o due occasioni sono state ammesse lievi deroghe, ma il danno politico arrecato alla struttura della Comunità nel suo complesso è stato tale da non pregiudicare il principio della competenza esclusiva giuridica. Come conseguenza, ogni anno si assiste a una sorta di rituale: trattative prolisse, incontri interminabili, rinvii e minacce. Ma invariabilmente si arriva al consenso nonostante il potere di veto.
Tra queste due categorie è possibile naturalmente trovare molte variazioni dello stesso tema. Un esempio interessante è la procedura per il bilancio. In questo caso gli Stati membri, ancora una volta in un ambito controverso, non dispongono di una completa libertà di disaccordo. Il Parlamento europeo può intervenire in circostanze speciali, e un totale insuccesso nel bilancio danneggerebbe virtualmente tutti gli Stati membri. Per conseguenza, i governi hanno concordato di valersi della votazione a maggioranza per la procedura di bilancio.La terza categoria è costituita dai fattori politici e diplomatici contingenti. Anche in assenza di competenza esclusiva giuridica o di fatto è possibile raggiungere il consenso o attraverso un effettivo accordo sull'utilità di certe misure, o attraverso una contrattazione e i tradizionali strumenti diplomatici. Non bisogna dimenticare che nel periodo intorno alla metà degli anni settanta, allorché il declino della sovranazionalità era assai marcato, la Comunità emanò oltre 600 direttive e molti importanti regolamenti (accanto alle migliaia di misure adottate come ordinaria amministrazione, la struttura della Politica Agricola Comune, PAC, la Politica Commerciale Comune, PCC, e altre politiche). Essa promosse anche accordi internazionali, spesso sostanziali, tra decine di nazioni in una struttura decisionale nella quale l'esigenza dell'unanimità era ancora più pressante, a causa della tecnica dell''accordo misto'.Come abbiamo visto in precedenza, il ruolo dell'unanimità e della decisione consensuale nel declino della sovranazionalità è controbilanciato da molti fattori. Qual è dunque l'essenza di questo graduale declino? Si è già indicato il mutamento nel 'costume' di cui il potere di veto è stato espressione, contribuendo inoltre a rafforzarlo. Ma al di là di questo è lecito suggerire che l'elemento generale più importante è stato la pervasiva presenza dell'interesse nazionale a ogni livello del processo decisionale. Se colleghiamo tutti gli elementi della precedente analisi vedremo che la crescente importanza del Consiglio europeo, la preminenza dei gruppi di lavoro e del COREPER, il voto a maggioranza e la proliferazione dei Comitati indicano che a ogni stadio del processo gli Stati membri dispongono di una posizione di controllo. La presenza dei governi nazionali è chiaramente percepibile nell'iniziativa politica (Consiglio europeo), nell'elaborazione tecnica (gruppi di lavoro, COREPER), nell'adozione finale (potere di veto) e nella successiva elaborazione e attuazione (Comitati) dei provvedimenti. Inoltre vi sono le inevitabili 'tecniche' diplomatiche associate a tutto questo - la segretezza (onde non compromettere accordi raggiunti con difficoltà), l'orgoglio nazionale e tutto il resto. L'interesse complessivo a perpetuare lo 'spirito' della Comunità è diminuito, mentre è cresciuta la tendenza a ricercare il 'minimo' comune denominatore capace di tenere insieme la Comunità. Il processo decisionale comunitario è così meno sovranazionale.
Come abbiamo precedentemente ricordato, nel 1987 entrò in vigore l'Atto unico europeo, che emendava i Trattati. Era il risultato di una intensa opera di pressione, in primo luogo da parte del Parlamento europeo che aveva precedentemente adottato il Progetto di trattato che istituiva l'Unione Europea, onde invertire il declino istituzionale della Comunità. Nonostante l'intenso dibattito e le grandi aspettative, l'Atto unico non modificava se non in piccola misura le strutture sopra analizzate. Molte delle disposizioni in esso contenute riguardavano eventi già verificatisi a cui veniva dato riconoscimento formale. Così il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo veniva ora riconosciuto come organo comunitario. Cresceva d'importanza nel processo legislativo il ruolo del Parlamento europeo, che passava da una funzione consultiva alla cooperazione, senza peraltro che gli venisse accordata alcuna funzione decisiva eccetto che nella conclusione degli accordi di associazione. L'Accordo di Lussemburgo veniva ignorato e restava perciò immodificato, e l'unico cambiamento di vasta portata fu un accordo degli Stati membri in base al quale, nell'ambito delle misure di armonizzazione, da allora in poi il Consiglio avrebbe adottato il sistema di voto a maggioranza. (Questo fu associato a un dispositivo a tutela degli Stati membri in minoranza, onde assicurare l'equilibrio comunitario di base). Tuttavia, nonostante i limitati cambiamenti formali introdotti dall'Atto unico, l'atmosfera nella Comunità è cambiata in modo significativo. I fattori principali che spiegano questo mutamento e inversione di tendenza sono due: in primo luogo, l'adozione della strategia proposta dal Libro Bianco e il progetto del 1992 (il Mercato unico europeo) conferiscono un nuovo prestigio alla Commissione. L'adesione degli Stati membri a tale progetto indica palesemente una rinascita del ruolo della Commissione quale agente politico e interprete indipendente delle questioni della Comunità. Il secondo - ma non meno significativo - fattore è l'accordo per adottare il voto a maggioranza per la maggior parte delle misure necessarie a raggiungere il Mercato unico. Sebbene il numero delle votazioni formali non sia cresciuto molto, l'attività negoziale portata a termine nella Comunità in anni recenti è stata caratterizzata non tanto dal veto quanto dal voto. Questo ha determinato non solo una maggiore efficienza, ma anche una maggiore aderenza agli interessi della Comunità enunciati dalle proposte della Commissione. Anche se rimane la possibilità di invocare l'Accordo di Lussemburgo, i costi politici sono cresciuti, ed è improbabile che si faccia ricorso a tale possibilità se non per interessi nazionali ritenuti davvero vitali. Al momento di entrare nella fase caratterizzata dalla data del 1992, ci sono segni che la Comunità si stia riprendendo dal suo malessere istituzionale.
Lo schema economico originario della Comunità era basato su due premesse: a) l'impegno ad adottare il modello di economia misto come delineato nell'art. 3 citato in precedenza. La Comunità doveva trarre profitto dal commercio, così come le merci e i servizi dovevano essere prodotti in modo più efficiente e venduti in modo più competitivo nel contesto di un mercato unico; b) la progressiva integrazione economica che prevedeva la necessaria evoluzione verso l'unione economica attraverso le tappe dell'unione doganale, del mercato comune e dell'unione economica finale.Queste premesse contenevano però un vizio d'origine. In primo luogo, l'idea che si potesse raggiungere un mercato comune pienamente sviluppato nei fattori di produzione senza assegnare alla Comunità competenze monetarie e fiscali piene o almeno parziali risultò fatale. In secondo luogo, perfino lo scopo più limitato di convertire i frammentati mercati europei in un mercato unico di merci e servizi era destinato a non realizzarsi a causa delle strutture politiche - che erano un fattore di debolezza - e dell'ottimistica fiducia che gli Stati membri sarebbero riusciti a operare delle scelte razionali di lungo periodo, anziché assumere - sotto la pressione di politiche pre-elettorali - atteggiamenti protezionistici di breve periodo.L'ostacolo più serio che impediva la realizzazione di un vero mercato unico era l'esistenza in Europa, già negli anni cinquanta e poi negli anni sessanta e settanta, di una grande quantità di misure regolamentari nazionali. Negli Stati membri erano in vigore regolamenti interni per il controllo della salute e dell'ambiente come pure standard tecnici per il commercio. L'apertura delle frontiere non poteva essere assoluta: i Trattati (ad esempio l'art. 36) ammettevano deroghe alla libera circolazione in aree per le quali gli Stati membri disponevano di una regolamentazione nazionale. La creazione di un mercato unico dipendeva dalla capacità di sviluppare standard comunitari omogenei o, in altre parole, di sostituire la funzione regolamentatrice degli Stati nazionali con quella comunitaria. Poiché il potere di veto consentiva agli Stati membri di bloccare tale legislazione armonizzatrice, non si riuscì a raggiungere l'obiettivo del mercato unico. Tale fallimento fu il risultato di una combinazione di protezionismo per un verso e autentici disaccordi sugli standard comunitari auspicati per altro verso. A trent'anni dalla sua nascita, sebbene fossero stati eliminati i dazi sul commercio intracomunitario, la Comunità non era ancora riuscita a raggiungere l'obiettivo del mercato unico quale era stato realizzato, ad esempio, dagli Stati Uniti o dal Canada, e restavano ancora in vigore numerosi regolamenti nazionali che ostacolavano la libera circolazione all'interno della Comunità.Da un punto di vista empirico, è molto difficile misurare l'impatto economico dei successi ottenuti. Fino all'inizio degli anni settanta si può osservare una crescita piuttosto rapida del commercio intracomunitario, sia come percentuale del commercio totale, sia come percentuale del prodotto interno complessivo. A partire dagli anni settanta solo i nuovi Stati membri hanno riscontrato tali incrementi. È difficile valutare in che misura tale crescita sia un risultato delle strutture comunitarie che non si sarebbe realizzato altrimenti.
Anche le divergenti politiche monetarie e fiscali adottate dagli Stati membri hanno contribuito alla sconfitta del concetto di mercato unico. Similmente, nell'area di integrazione positiva la storia della Comunità è composita: la Politica Agricola Comune è stata un successo nel senso che è riuscita a imporre una disciplina comunitaria, ma pagando un caro prezzo in termini di sprechi e di sussidi per produzioni che, sulla base delle tendenze mondiali, non erano redditizie. In altri settori, come i trasporti, la politica sociale e soprattutto la politica industriale, i risultati raggiunti dalla Comunità sono stati piuttosto limitati. Nel settore del commercio internazionale la Comunità ha raggiunto un potere commerciale che non è sempre proporzionato alla sua forza effettiva. Per un verso, l'istituzione della tariffa esterna comune e la creazione di una Politica Commerciale Comune (con la Comunità a sostituire gli Stati membri nel GATT) resero la Comunità uno dei principali interlocutori nel commercio internazionale, ma le disparità di vedute degli Stati membri rispetto agli auspicati livelli di libero scambio internazionale hanno spesso ridotto l'influenza e il potere contrattuale che la Comunità avrebbe potuto esercitare considerando la sua forza economica interna. Tali difetti sono sfuggiti agli organi comunitari.Abbiamo già ricordato il progetto del Mercato unico, che stabiliva che entro il 1992 la Comunità avrebbe rimosso le residue barriere al commercio intracomunitario e raggiunto così finalmente un vero mercato unico interno. Analogamente, già negli anni settanta, il varo del Sistema Monetario Europeo, che limitava le fluttuazioni dei tassi di cambio all'interno della Comunità entro limiti prestabiliti, indicava che strumenti macroeconomici erano ritenuti essenziali per ottenere anche il limitato obiettivo di un vero mercato comune. Nel settore delle politiche di intervento attivo la Comunità ha tentato di affrontare il problema della riforma della Politica Agricola Comune tramite meccanismi come quello delle quote, pur senza riuscire a concordare alcuna riforma radicale. Ma è proprio in circostanze di questo tipo che i paradigmi politico e giuridico interagiscono con quello economico per produrre l'attuale situazione di crisi dalla quale sembra che la Comunità non riesca a districarsi. Per un verso l'ordinamento giuridico impone una disciplina che, mentre garantisce l'osservanza delle norme, contiene elementi di rigidità che frenano la disposizione degli Stati membri a trasferire ulteriori poteri alla Comunità. Inoltre, il sistema giuridico impedisce in molte aree qualsiasi azione unilaterale degli Stati membri volta a perseguire politiche autonome. Per altro verso, il farraginoso processo politico-istituzionale premia gli Stati membri riluttanti, che possono bloccare i progressi dell'intera organizzazione politica. La frattura emergente, all'interno della Comunità, tra Nord e Sud e l'aumento degli Stati membri rendono questo dilemma ancora più acuto. È possibile che solo un'autentica crisi politico-economica possa costringere la Comunità a cambiamenti strutturali del suo modo di operare che consentano di adottare le necessarie misure economiche nelle aree di competenza già esistenti all'interno della Comunità. Fino a che non si attuerà un tale mutamento qualitativo, la Comunità rimarrà un'entità politica ibrida, a cavallo tra l'integrazione federale dal punto di vista giuridico, e confederale da quello politico, con un certo grado di integrazione economica che la pone un po' al di sopra della semplice unione doganale, con molte caratteristiche di un mercato comune ma ben lontana da una vera unione economica.C'è tuttavia la speranza che l'attuazione del progetto di Unione Europea discusso a Maastricht nel dicembre 1991 possa determinare questo auspicato mutamento qualitativo. Ma solo il futuro dirà se la nuova struttura tripartita dell'Unione Europea darà vita a un'entità di tipo federale oppure costituirà un semplice approfondimento dell'integrazione europea, secondo la tipica forma mista che ha caratterizzato la vita e lo sviluppo della Comunità fino a oggi. (V. anche Federalismo; Integrazione internazionale; Organizzazioni internazionali; Trattati internazionali).
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