Conformismo
Per conformismo s'intende ogni modalità di condotta che, per effetto di una pressione sociale esercitata dalla collettività o da gruppi in essa influenti, produce una condizione di uniformità - nel campo dei costumi, dei valori culturali, dei principî morali e religiosi, ma anche degli orientamenti politici - capace di minimizzare gli attriti dell'interazione sociale. L'individuo conformista tende ad adattarsi alle norme sociali e a non differenziarsi rispetto agli altri soggetti del gruppo di riferimento (ceto, classe, gruppo parentale o professionale o di vicinato, sfera pubblica), arrivando a negare o a dissimulare le proprie convinzioni e a orientare l'agire alle aspettative degli altri membri del gruppo. In considerazione della sua funzione primaria, il conformismo può pertanto essere qualificato come una strategia di (auto)rassicurazione sociale che ha il suo imprinting nel processo di socializzazione, attraverso il quale l'individuo diventa destinatario di una domanda generalizzata di conformità.Le oscillazioni che si registrano sia a livello di linguaggio specialistico sia a livello di linguaggio comune costringono però a porre subito l'accento sull'ambiguità di collocazione del concetto e sulla polivalenza dei suoi significati. Con una certa approssimazione si può distinguere tra un conformismo nei confronti dei costumi di gruppo, delle convenzioni morali, dell'ethos, e un conformismo nei confronti dell'autorità e del potere, il primo dei quali può dirsi spontaneo e il secondo imposto (parallelamente, si tende a designare come influenza sociale un condizionamento involontario e come controllo sociale un condizionamento intenzionale e istituzionalizzato). L'uno si dispone su un continuum che va dall'estremo della tradizione a quello del mercato, per cui è possibile distinguere qui, in modo tipico-ideale, tra un conformismo della riproduzione culturale (dei modelli culturali dominanti) e un conformismo del consumo. L'altro si dispone su un continuum che va dal conformismo minimo imposto dal vivere civile in condizioni di libertà (democrazie liberali) al conformismo massimo imposto da un potere dispotico o tirannico o totalitario (come in varia misura si riscontra nei regimi dittatoriali).Nel lessico sociologico è centrale il concetto di conformità, che si riscontra in un'accezione più lata, a indicare la neutralizzazione delle differenze comportamentali a opera di influenze sociali, e in un'accezione più specifica, per cui s'intende l'interiorizzazione di norme, modelli di comportamento e aspettative di un gruppo a opera dei suoi membri. A proposito di questo significato più tecnico, prevalente in psicologia sociale, occorre distinguere a seconda che tale conformità sia puramente esteriore (per cui ricorre l'uso del termine opportunismo) oppure conseguenza del fatto che le norme del gruppo sono state effettivamente e durevolmente interiorizzate - e parimenti a seconda che il non conformarsi sia una conseguenza dell'indipendenza rispetto alla norma o sia invece espressione di consapevole e deliberata violazione della norma, nel qual caso si parla di anticonformismo oppure di devianza (v. Reinhold, 1997, p. 354). Alla violazione della norma può infatti essere attribuita una valenza positiva, quando è considerata sotto il profilo dell'innovazione e della creatività dell'agire, oppure una valenza negativa, allorché l'accento cade sugli aspetti dissociativi e conflittuali del comportamento deviante. Per la teoria dell'azione sociale la conformità costituisce la terza modalità paradigmatica del rapporto tra gruppo e individuo rispetto alla normalizzazione, che implica influenza reciproca tra il gruppo e l'individuo (v. Link, 1997), e all'innovazione, che implica il movimento del gruppo verso la posizione dell'individuo.
Anche all'interno di lessici meno specialistici, si parla di conformità quando un individuo modifica il proprio comportamento semplicemente allo scopo di armonizzarlo alle aspettative del gruppo. Conformità è pertanto un concetto più ampio e comprensivo di obbedienza, che designa l'azione di una persona che si sottomette a un'autorità istituzionale - mentre il conformista è colui che si sottomette all'autorità sociale diffusa del gruppo. La sanzione è nell'un caso la disapprovazione, nell'altro il ricorso alla coercizione. Già Stanley Milgram (v., 1974), in un lavoro ormai classico, distingueva tra conformità e obbedienza in base a quattro criteri: a) la prima presuppone un'eguaglianza di status (pur nell'asimmetria tra individuo e gruppo), la seconda invece una struttura gerarchica; b) l'una è fondamentalmente imitativa, l'altra esecutiva (l'esecuzione di un comando non è imitazione o ripetizione, ma agire innovativo); c) l'una consegue a una costrizione implicita, l'altra a un comando intenzionale; d) l'una si accompagna all'illusione della libertà, l'altra alla coscienza della sottomissione.
Nella critica della cultura di massa si è spesso associato il conformismo a questo elemento di falsa coscienza: il conformista è colui che, pur pensando e agendo in modo eterodiretto, s'illude di essere libero. Su questo momento hanno fatto leva coloro che hanno visto nel conformismo una componente essenziale dell'ideologia. All'interno della teoria sociale di derivazione marxistica il fenomeno è stato posto in connessione con il 'feticismo della merce', ovvero con la tendenza a considerare le cose non per ciò che sono ma per ciò che valgono - nel senso del valore di scambio e non del valore d'uso. Anche agli occhi di chi non adotta il concetto marxiano di ideologia, il conformismo si alimenta comunque di stereotipi e luoghi comuni e può essere ricondotto a una più generale categoria di ideologia intesa come pensiero condizionato e deformato dall'interesse. Dal punto di vista cognitivo, esso si presenta infatti in forma di credenze semplificanti e squalificanti, dunque intessuto di stereotipi e pregiudizi (v. Allport, 1954).
Il fenomeno della tendenza ad agire in conformità a prescrizioni sociali e modelli culturali è noto ovviamente a ogni società. Ma il conformismo in senso specifico presuppone l'instaurazione di una società di massa, caratterizzata dal predominio sociodemografico e socioculturale di strati medi e inferiori metropolitani inseriti in strutture produttive standardizzate e integrati attraverso il consumo omologante. Naturalmente anche qui il conformismo varia con il variare dell'istanza sociale che esercita (maggiore o minore) influenza o controllo sull'individuo: la famiglia, il gruppo di vicinato, la banda giovanile, il gruppo professionale, la comunità cittadina, il pubblico di consumatori; e varia nelle modalità e nel grado di accettazione delle idee e opinioni prevalenti (v. Lipp, 1975). Per designare fenomeni di interiorizzazione delle norme sociali e di apprendimento delle aspettative di ruolo in contesti storici anteriori alla genesi della moderna società di massa si tende invece ad adottare categorie differenti e a parlare di ritualismo o di tradizionalismo o (prevalentemente in ambito religioso) di ortodossia.
Ciò non esclude tuttavia che con conformismo si possano intendere e vengano di fatto intesi fenomeni tra loro eterogenei e in quanto tali spesso distinti dalle scienze sociali, come appunto ritualismo, tradizionalismo, stereotipizzazione, omologazione, convenzionalismo. Quest'ultimo termine, in particolare, è sovente usato come sinonimo di conformismo. Ma, a dire il vero, anche in questo caso è possibile tracciare una distinzione, osservando che chi assume una condotta convenzionale "si regola soprattutto guardando al passato" mentre il conformista è "prevalentemente condizionato dal presente, attento all'attualità, alla moda, a ciò che prevale qui e ora" (v. Mucchi Faina, 1998, pp. 11-12). Tradizionalismo e convenzionalismo inclinano alla conservazione e quindi alla staticità, mentre il conformismo può sposarsi con il cambiamento e le fluttuazioni (per esempio del gusto, della moda, dell'opinione). Come ideologie politiche, d'altro canto, tradizionalismo e conservatorismo si nutrono di coscienza storica, mentre il conformismo è appiattito sul presente e prigioniero di simboli di astorica universalità. Per stereotipizzazione s'intende la codificazione di ruoli nel contesto del potere tradizionale. L'omologazione, invece, è il conformismo peculiare della civiltà della tecnica.Nel complesso, pertanto, occorre rilevare come sia piuttosto difficile delimitare con precisione l'ambito degli studi sul fenomeno, dal momento che, accanto a un nucleo costituito dalle indagini di psicologia sociale sulle forme di relazione tra personalità e società, essi arrivano a lambire una pluralità di altri settori di ricerca, dagli studi sociologici sulla devianza, alla storiografia delle mentalità collettive, alle indagini politologiche sulle subculture.
Se il conformismo è stato di rado, probabilmente per il suo carattere amorfo, tematizzato dalla sociologia, la conformità è invece un concetto centrale della teoria sociale. Essa appare strettamente connessa ad alcune delle categorie strategiche della sociologia, quali adattamento, controllo sociale, convenzione, socializzazione, integrazione, identificazione, riconoscimento sociale. Ogni processo di socializzazione, inducendo l'individuo ad apprendere ruoli mediante l'interiorizzazione di norme, è un produttore di conformità; l'integrazione nel gruppo avviene attraverso adattamento, imitazione e identificazione; il controllo sociale consta di processi e meccanismi che si oppongono alle tendenze devianti; la conformità è inoltre un comportamento che viene premiato con il riconoscimento sociale (v. Brandt e Köhler, 1972).
Non è comunque difficile individuare nei classici della sociologia un interesse specifico per il fenomeno. Gustave Le Bon e i teorici della psicologia delle folle, da un lato, Gustave Tarde, dall'altro, sono stati i primi a sottolineare il ruolo strategico dell'imitazione e dell'emulazione nelle dinamiche sociali e in particolare nei grandi aggregati umani. Il conformismo collettivo che consegue al 'contagio emozionale' della folla è, accanto al conservatorismo, uno degli elementi psicologici della società di massa su cui più fortemente Le Bon richiama l'attenzione. Anche William Graham Sumner, studiando i costumi di gruppo, analizza il "conservatorismo delle masse" che "ha origine dall'inerzia" (v. Sumner, 1906; tr. it., p. 53). Assumendo l'imitazione a legge fondamentale della società Tarde mostra, dal canto suo, di essere consapevole dell'importanza di quelle forme di pressione sociale indiretta in base alle quali l'individuo, osservando il comportamento degli altri, ne desume la norma e la necessità di conformarsi. L'illusione di cui è vittima l"uomo sociale' è paragonata da Tarde a quella del sonnambulo, in quanto egli si lascia guidare da idee che crede spontanee e che invece gli sono instillate dal gruppo (v. Tarde, 1911, p. 83). Vilfredo Pareto, che dalle acquisizioni della sociologia di Tarde è condizionato, pur nello sforzo di depurarla dalle sue incrostazioni metafisiche, colloca nella classe IV dei residui, "residui in relazione colla società", il "bisogno di uniformità", e definisce l'imitazione un"'uniformità ottenuta operando su se stessi", distinguendola dall"'uniformità imposta agli altri", che si accompagna a un "sentimento di ostilità alle trasgressioni" (v. Pareto, 1916, parr. 1117 e 1126). Laddove analizza il "consumo vistoso" e i "canoni finanziari del gusto", Thorstein Veblen, per parte sua, pone alla base il "desiderio di conformarsi all'usanza stabilita" (v. Veblen, 1899; tr. it., p. 91) e indaga, anticipando di decenni il programma di ricerca di Pierre Bourdieu (v., 1979), il variare dei codici del gusto fra le classi sociali.
Un salto di qualità per la determinazione concettuale del fenomeno si compie in Max Weber. Dopo aver chiarito che la "mera 'imitazione' dell'agire altrui non può essere definita di per sé 'agire sociale"', in quanto è priva di orientamento dotato di senso in vista dell'agire altrui, si riconosce che di fatto i confini sono spesso fluidi - giacché "non sempre è possibile determinare in maniera univoca l'orientamento in vista di un atteggiamento altrui e il senso del proprio agire" -, finendo per ammettere che tanto il condizionamento di massa quanto l'imitazione "costituiscono casi-limite dell'agire sociale" (v. Weber, 1922; tr. it., vol. I, p. 21). Questa fluidità di confini e il carattere relativamente amorfo dell'agire imitativo sono all'origine delle difficoltà che la sociologia ha incontrato nell'analizzare il fenomeno. Pur senza adottare il concetto nello strumentario della sua sociologia (per altro piuttosto allergica agli 'ismi'), Weber è andato comunque oltre queste considerazioni metodologiche, indicando la dimensione entro la quale collocare il fenomeno: nel suo lessico il concetto più vicino è quello di convenzione. Se per "costume" si deve infatti intendere "una regola non garantita dall'esterno", alla quale l'individuo agente si conforma di fatto, senza consapevolezza della sua normatività, e se per "diritto" si deve intendere un ordinamento la cui validità è "garantita dall'esterno" in modo coercitivo, la "convenzione" costituisce una dimensione intermedia, nella quale la validità di un ordinamento normativo è garantita sì dall'esterno ma in maniera non istituzionalizzata e rigidamente regolata, "mediante la possibilità di andare incontro, in caso di deviazione, ad una disapprovazione generale, e praticamente sensibile, entro un dato ambito di uomini" (ibid.; tr. it., vol. I, p. 31).
Il passaggio dalle società conformistiche a quelle non conformistiche, parallelo alla transizione da forme di regolamentazione cerimoniale della vita sociale a forme di regolamentazione politica, costituisce uno dei temi di fondo della sociologia d'impianto evoluzionistico di Herbert Spencer (v., 1877-1896). Pochi anni più tardi, E. A. Ross (v., 1901) avrebbe specificato questa tendenza evolutiva nella forma del passaggio dal controllo esterno al controllo interiorizzato, inaugurando così uno dei filoni più fortunati della sociologia americana. Sarebbe così diventata una tesi corrente in sociologia e in antropologia l'affermazione che la pressione verso la conformità è molto elevata in società poco differenziate, mentre tende a decrescere nelle società differenziate. Anche Émile Durkheim si muove all'interno di queste coordinate e pone la questione dell'uniformità sociale al centro della sua sociologia. Ai fini del mantenimento della coesione sociale nelle società primitive è indispensabile che gli individui siano simili l'un l'altro; nelle società avanzate la solidarietà "organica" è garantita invece dalla divisione del lavoro e dalla specializzazione dei compiti. "L'uniformità delle coscienze" è per lui, insieme alla divisione del lavoro sociale, la fonte della vita sociale e della moralità: e se c'è "una regola di condotta il cui carattere morale sia incontestabile, è quella che ci ordina di realizzare in noi i tratti del tipo collettivo" (v. Durkheim, 1902; tr. it., p. 387). Ma il sentimento sociale "che deriva dall'uniformità è forte soltanto se l'individuo non lo è", quello invece che deriva dalla divisione del lavoro e dalla cooperazione "si sviluppa a misura che si rafforza la personalità individuale" (ibid.; tr. it., p. 233). In questa tensione immanente a ogni società fondata sulla specializzazione delle funzioni e sul principio della solidarietà organica è insito il pericolo della perdita di effettività delle regole e quindi dell'anomia.Il teorico eminente della conformità e della devianza è però Talcott Parsons. Egli definisce conformità e deviazione (che è il discostarsi dalla conformità ai criteri normativi di una cultura) come "concetti che si riferiscono a problemi di integrazione e di cattiva integrazione dei sistemi e dei sotto-sistemi sociali" (v. Parsons, 1951; tr. it., p. 260), conferendo loro, in questo modo, lo status di concetti generali della sociologia e non di una sua branca specifica. Parsons assume che di norma gli attori di un sistema sociale si comportino in modo conforme alle aspettative degli altri; devianza è per lui qualsiasi variazione del comportamento rispetto agli standard sociali. In rapporto più o meno diretto con il grande sforzo sistematico di Parsons, la sociologia americana ha proposto una pluralità di approcci al fenomeno. Affrontando il problema delle modalità di adattamento individuale Robert K. Merton ha distinto tra conformità, innovazione, ritualismo, rinuncia e ribellione, riconoscendo alla prima priorità nella misura in cui a garantire stabilità e continuità sociale è la conformità alle mete culturali e ai mezzi istituzionalizzati per perseguirle (v. Merton, 1957; tr. it., pp. 198 ss.). Hans Gerth e Charles Wright Mills (v., 1953) hanno elaborato una tipologia centrata sulle variabili della conformità interna ed esterna alle norme, in cui si distinguono rigoristi, conformisti (opportunisti), ipocriti e ribelli. David Riesman (v., 1950), muovendosi lungo lo stesso solco di indagini sui rapporti tra sistema sociale e struttura della personalità, ha proposto una distinzione tra epoche a seconda che vi prevalga l'individuo diretto dalla tradizione, l'individuo autodiretto - nella sostanza l'uomo moderno puritano - e l'individuo eterodiretto. Occorre però riconoscere che nessuna di queste tipologie è riuscita nell'intento di apprestare una descrizione convincente del comportamento conformistico e ancor meno in quello di fornire una spiegazione del suo diffondersi. In particolare, il tentativo di Riesman di accostarsi al fenomeno operando con una duplice classificazione, che combina 'tipi storici' (diretto dalla tradizione, autodiretto ed eterodiretto) e 'tipi universali' (adattato, anomico e autonomo), pur incontrando larghi consensi fra coloro che erano alla ricerca di un'immagine semplificante delle dinamiche della società di massa, si è rivelato carente e a ragione è stato sottoposto a critica severa soprattutto da parte di sociologi europei (v. ad esempio, sul "paradosso dell'eterodirezione", Dahrendorf, 1972, p. 203).
Nelle ricerche empiriche sulla conformità e sul conformismo condotte nel dopoguerra, le diagnosi epocali e le classificazioni metastoriche vengono però progressivamente rimpiazzate da più modeste ipotesi sulla dinamica di gruppo e sottoposte a verifica (o a falsificazione) sperimentale. A inaugurarle sono gli studi di Solomon Asch (v., 1957) sui fattori che inducono gli individui a cedere sul piano percettivo e cognitivo alle pressioni di un gruppo. Questi studi, che vertono sulla percezione visiva, approdano alla conclusione che, all'interno di un gruppo, un'alta percentuale di individui (fino al 75%) è indotta a commettere errori conformandosi alle percezioni della maggioranza, quando questa si presenti compatta e unanime. A partire da qui lo spettro delle ricerche si è rapidamente allargato, orientandosi, con autori come M. Sherif, G. W. Allport, E. P. Hollander, R. Crutchfield e molti altri, verso lo studio della conformità come modalità di comportamento finalizzata allo sviluppo e alla stabilizzazione della personalità, verso l'analisi della genesi di stereotipi e pregiudizi entro contesti sociali specifici e verso lo studio del rapporto tra gruppo e leader. In quest'ambito particolare si è cercato di conferire evidenza empirica alla tesi che, in condizioni di integrazione sociale, hanno maggiori probabilità di diventare leaders coloro che meglio sanno rispondere alle aspettative conformistiche del gruppo (v. Homans, 1951); e si è argomentato, a parziale correzione di tale tesi, che un comportamento conformistico consolidato conferisce al leader la libertà di prendere anche iniziative non conformistiche (v. Hollander, 1964).
In queste ricerche si è cercato in particolare di fornire risposta a due domande: quando si dia conformismo e perché le persone si conformino. Quanto alla prima questione, tre sono state, fondamentalmente, le variabili sottoposte a indagine: 1) le caratteristiche dell'individuo esposto alle pressioni del gruppo (in particolare il sesso, l'età e la nazionalità); 2) le caratteristiche del gruppo che è sorgente della pressione (la dimensione, l'unanimità o il pluralismo delle posizioni, la loro eventuale polarizzazione); 3) la relazione tra l'individuo e il gruppo (il livello d'interdipendenza in riferimento alle sanzioni positive - ricompense che possono essere comuni o individuali -, grado d'intensità dell'attrazione e dell'accettazione, status dell'individuo ecc.). Le ricerche hanno poi regolarmente messo in luce come le risposte di tipo conformistico dell'individuo alle pressioni del gruppo si modifichino significativamente nel corso del tempo e dipendano dalla conformazione dello spazio sociale (più o meno aperto o pluralistico).
Quanto alle ragioni del conformarsi, anche qui sono state prese in considerazione una pluralità di variabili e si sono sviluppate teorie divergenti e concorrenti. Alcuni lavori hanno messo in particolare evidenza la componente d'influenza informazionale, quando cioè l'individuo desidera ottenere una percezione esatta della realtà ed è insicuro delle sue conoscenze e della sua capacità di orientarsi, altri quella d'influenza normativa, vale a dire la ricerca del riconoscimento sociale e il desiderio di ottenere ricompense ed evitare punizioni, altri ancora hanno posto l'accento sulla negoziazione tra l'individuo e il gruppo, di cui la conformità sarebbe l'esito che meglio riduce il conflitto minimizzando la devianza (v. Levine e Pavelchak, 1989, pp. 40 ss.). Alla base del conformismo, la teoria psicosociale è comunque abbastanza unanime nel riconoscere strategie volte a dare risposta a tre particolari bisogni (v. Mucchi Faina, 1998, pp. 94-95): il "bisogno di approvazione sociale", il "bisogno di proteggere e potenziare il Sé", preservandolo da conflitti e neutralizzando meccanismi moltiplicatori di ansia, e quello che Parsons ha chiamato il "bisogno di un senso di adeguatezza", vale a dire il "bisogno di sentirsi capace di vivere all'altezza dei criteri normativi del sistema di aspettative" (v. Parsons, 1951; tr. it., p. 271).
Come molti termini del lessico sociale e politico moderno, anche 'conformismo' è un concetto teologico secolarizzato. La sua origine va infatti rintracciata in ambito religioso (v. Lipp, 1975, pp. 19-23). La storia del termine può essere fatta risalire ai dibattiti interni alla Chiesa anglicana all'indomani della promulgazione degli Acts of uniformity (1549-1662), che sanciscono l'alleanza e la reciproca dipendenza tra potere politico e ierocrazia: nata anch'essa sfidando la sovranità papale, la Chiesa anglicana non è però figlia della pressione riformatrice della comunità dei credenti o di una rivolta dal basso, bensì di un 'atto di supremazia'. Proprio a questa sua genesi è riconducibile la tensione tra established church e dissent che caratterizzerà la storia confessionale e politica inglese a partire dal XVI secolo. Il conformismo politico della Chiesa anglicana rappresenta infatti al tempo stesso una risorsa e un vincolo per le pratiche di controllo sociale, costringendo l'episcopato da un lato a una politica opportunistica di compromessi con il potere e dall'altro a dosate aperture nei confronti delle sette puritane e dei dissenzienti. L'entità della pressione conformistica esercitata, d'intesa con il potere politico, da questa istituzione ecclesiale è ben documentata dal Common book of prayer e dal suo impiego come strumento di regolazione della condotta sociale (v. Maltby, 1998).
Proprio in ambito religioso l'età moderna si connota per una straordinaria inventività sul piano dei meccanismi di controllo sociale e delle strategie di dissimulazione della devianza. Un'esemplificazione di questa nuova sensibilità sociale è offerta dalla vicenda del nicodemismo, vale a dire di quell'atteggiamento di simulazione o dissimulazione che nell'Europa riformata portò a celare la fede per timore della persecuzione. In un'opera apparsa a Basilea nel 1549 e destinata ad avere straordinaria fortuna nel continente lacerato dalle guerre civili confessionali, il Proscaerus di Eutychius Myon (pseudonimo di Wolfgang Musculus), accanto alla figura del nicodemita, colui che continua a partecipare alle cerimonie cattoliche pur essendo convertito alla nuova fede, viene presentata quella dell'opportunista, di colui cioè che, dopo aver apertamente aderito alla Riforma, è poi tornato per convenienza, sia pure senza convinzione, alla confessione cattolica. Ma nell'opera, che si svolge in forma di dialogo, sembra già essere tematizzata anche la dialettica di questi atteggiamenti: dal nicodemismo e dall'opportunismo è destinata a scaturire una posizione ulteriore, quella che degrada la religione a superstizione e pretesto di conformismo sociale (v. Ginzburg, 1970, p. 185). In questo contesto il conformismo sociale appare dunque, più specificamente, come prodotto della secolarizzazione di forme di opportunismo e nicodemismo religioso.
Nella variegata geografia confessionale dell'Europa post-riformata la più potente agenzia di conformismo religioso resta a ogni buon conto la Chiesa cattolica, in particolare attraverso l'Inquisizione e il suo evolvere "da tribunale dell'eresia a tribunale della moralità pubblica" (v. Prosperi, 1996, p. 465). Le tecniche di controllo delle coscienze attraverso la confessione, le pratiche volte alla costruzione della personalità, la subordinazione del foro penitenziale al foro esterno, l'istituzionalizzazione del controllo sociale mediante la censura e la sua interiorizzazione mediante l'autocensura configurano nel loro insieme il grande laboratorio della conformità, all'interno del quale l'accento viene progressivamente spostandosi "dal campo delle relazioni sociali oggettive a quello della disciplina interiore dell'individuo" (v. Bossy, 1975; tr. it., p. 59). È in seno alla Chiesa cattolica, in particolare con l'ordine gesuitico, che il conformismo assurge alla sua forma moderna, trovando elaborazione in quell'ideologia del 'desiderio di compiacere il mondo' stigmatizzata da Pascal in tutta la sua opera. La Chiesa, come istituzione che impone una disciplina rigorosa di obbedienza e uniformità, costituisce del resto il modello per l'azione uniformatrice dello Stato, grande macchina produttrice di conformismo attraverso la centralizzazione amministrativa. A questa prestazione dello Stato moderno le scienze sociali a partire da Max Weber avrebbero però preferito dare il nome di disciplinamento, intendendo con questo termine l'ammaestramento a un'obbedienza automatizzata mediante l"'esercizio" e la "coscienziosità", volto a produrre un'uniformità razionalizzata di condotta in una molteplicità di uomini (v. Weber, 1922; tr. it., vol. II, pp. 462-463). Ma anche Antonio Gramsci, interrogandosi nei Quaderni del carcere sulla "quistione dell"uomo collettivo' o del 'conformismo sociale"', interpreta in senso non troppo dissimile il "compito educativo e formativo dello Stato, che ha sempre il fine di creare nuovi e più alti tipi di civiltà, di adeguare la 'civiltà' e la moralità delle più vaste masse popolari alle necessità del continuo sviluppo dell'apparato economico di produzione, quindi di elaborare anche fisicamente dei nuovi tipi d'umanità" (v. Gramsci, 1975, pp. 1565-1566).
La grande disputa tra conformismo e anticonformismo è notoriamente alla radice del liberalismo moderno. Il non conformismo delle sette dei dissenzienti, esso stesso produttore di nuove forme di conformismo, dà l'avvio a quei processi che, in maniera tutt'altro che lineare e tutt'altro che indolore, portano alla formazione dell'individuo moderno. Con l'individualismo e la sua rivalutazione dell'eccentrico, dell'originalità, della creatività dell'agire si pongono altresì le basi per quella trasformazione della sensibilità che porterà a fare del conformismo un fenomeno malfamato e un bersaglio polemico della critica sociale. Al punto d'incontro tra queste tradizioni, il non conformismo delle sette e il liberalismo degli individui che si emancipano da vincoli sociali troppo condizionanti, si colloca Herbert Spencer, che al "non conformismo" ha dedicato un capitolo della sesta parte dei suoi Principles of sociology. Spencer è rilevante non solo perché, con la sua opera, il termine entra nel lessico sociologico conservando memoria del suo significato religioso originario, ma anche e soprattutto per altre ragioni: in primo luogo perché in lui è ormai ben chiara la consapevolezza che il non conformismo produce a sua volta conformismo, come ben mostra la vicenda delle sette (v. Spencer, 1877-1896, vol. II, p. 575: "le storie di questi vari corpi nonconformisti [...] ci mostrano la formazione, nel loro seno, di un nuovo governo coercitivo, simile a quello contro cui s'erano ribellati"); in secondo luogo per la tesi che "lo sviluppo del non conformismo è un risultato indiretto dell'industrialismo crescente" (ibid., p. 578).
Ma la società borghese del commercio, della manifattura e dell'industria costituisce essa stessa un laboratorio di produzione di conformità nella condotta sociale, nelle opinioni e nei modi di sentire. A denunciare i caratteri di questo nuovo conformismo, peculiare di una società fondata sul denaro e che ha ormai smarrito le originarie motivazioni religiose del capitalismo razionale, si diffonde nella pubblicistica dell'Ottocento un nuovo termine - anch'esso di derivazione scritturale: filisteismo. Dalla pubblicistica il termine non tarderà però a fare il suo ingresso nelle scienze sociali per designare una mentalità che nei suoi giudizi adotta il parametro dell'utilità immediata e del valore materiale (v. Arendt, 1968; tr. it., p. 261). Il filisteismo è qui associato alla prevalenza degli interessi economici e al desiderio di sicurezza, ma anche alla paura dell'innovazione, dell'apertura e dell'eguaglianza. Nel filisteismo il complesso degli atteggiamenti che costituiscono il carattere è tale da "escludere praticamente lo sviluppo di qualsiasi nuovo atteggiamento in certe condizioni di vita, poiché le capacità riflessive dell'individuo hanno ormai acquistato una tale fissità che egli è ormai accessibile a una sola specie di influenze - cioè quelle che costituiscono la parte più costante del suo ambiente sociale" (v. Thomas e Znaniecki, 1927; tr. it., pp. 546-547).
Nel lessico corrente per conformismo s'intende quell'atteggiamento che è effetto della pressione collettivizzante sull'individuo e che appare quindi antitetico all'individualismo. Questa contrapposizione, in effetti, si afferma nel lessico sociopolitico dell'Ottocento per segnare un criterio di demarcazione rispetto a incipienti patologie di una società liberale che si sta democratizzando. A partire da Tocqueville, il primo teorico della democrazia moderna, si fa strada l'orientamento a tematizzare criticamente la tendenza della società a imporre norme di condotta. Allo studioso francese appare evidente il nesso tra l'avanzare dell'eguaglianza come livellamento delle posizioni sociali e il prevalere di orientamenti conformistici. È lo sviluppo sociale più che quello politico a creare le condizioni per il progressivo indebolimento dell'individuo, lasciandolo in balia di credenze e opinioni di dubbie ascendenze ma di grande impatto: "l'opinione generale pesa immensamente sullo spirito di ogni individuo, lo abbraccia, lo dirige e l'opprime" (v. Tocqueville, 1835-1840; tr. it., p. 675). Per Tocqueville l'individualismo è un sentimento che induce il singolo a "isolarsi dalla massa dei suoi simili", rinchiudendosi nella sfera privata e abbandonando "la grande società a se stessa": in questo modo, spinto dall'eccessiva preoccupazione per il benessere del Sé, esso finisce paradossalmente per lasciarlo in balia delle pressioni conformistiche dell"'opinione generale". D'altro canto, l'instabilità comportamentale dell'individuo democratico induce a riconoscere l'improbabilità che si instaurino convenzioni rigide. Tocqueville non ritiene che lo sbocco del processo di democratizzazione debba essere costituito da un soffocante conformismo, almeno finché le democrazie sapranno resistere alla tentazione di cedere al dispotismo di un "potere immenso e tutelare". "Gli uomini che vivono nelle democrazie sono troppo mobili perché un certo numero di loro giunga a stabilire un codice del saper vivere e possa far sì che esso sia osservato. Ognuno agisce, quindi, press'a poco a modo suo e regna sempre una certa incoerenza nelle maniere, perché queste si conformano ai sentimenti e alle idee individuali di ciascuno più che a un modello ideale offerto in precedenza all'imitazione di tutti" (ibid.; tr. it., pp. 635-636).Se Tocqueville ha il merito di aver richiamato per primo l'attenzione sulla contaminazione di individualismo e conformismo che caratterizza costumi e mentalità della società democratica, John Stuart Mill è l'autore che a metà del secolo scorso scende in campo per difendere l'individualismo liberale dalla marea montante di un conformismo trasversale rispetto alle ideologie. In On liberty egli individua la minaccia di un nuovo dispotismo nella "tendenza della società a imporre come norme di condotta e con mezzi diversi dalle pene legali, le proprie idee e usanze a chi dissente, a ostacolare lo sviluppo - e a prevenire, se possibile, la formazione - di qualsiasi individualité discordante, e a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo modello" (v. Mill, 1859; tr. it., p. 27). A preoccupare il filosofo inglese è l'intolleranza della società contemporanea nei confronti di ogni manifestazione di individualità, la crescente uniformità del paesaggio sociale, il "dispotismo della consuetudine" che ostacola il progresso attraverso l'inibizione delle differenze. Il conformismo costituisce per lui il più insidioso nemico della mentalità liberale. "Queste tendenze attuali fanno sì che il pubblico sia più disposto di quanto non lo fosse in generale nel passato a prescrivere norme generali di condotta e a sforzarsi di far conformare tutti al criterio comunemente accettato" (ibid.; tr. it., p. 100).
A partire da queste acquisizioni della teoria sociale e politica comincia così ad assumere contorni più precisi, in una vasta pubblicistica del secondo Ottocento, l'idea che la mentalità conformistica costituisca un fenomeno concomitante del processo di modernizzazione. Il conformismo è per un verso il collettivismo della società di mercato e per l'altro il tradizionalismo della società democratica. Il conformismo è pertanto un orientamento della condotta che attraversa con funzioni di stabilizzazione tutte le ideologie che la modernità produce, anche se può superficialmente mostrare elementi di maggiore affinità con il conservatorismo, in virtù del comune atteggiamento tradizionalistico. Ma, a ben vedere, il conformismo costituisce piuttosto un surrogato del tradizionalismo entro condizioni sociali diventate inospitali per le tradizioni e dove il processo di secolarizzazione ha indebolito le capacità di controllo sociale delle istituzioni ecclesiastiche. Esso viene a svolgere, in società sottoposte a tendenze centrifughe, spinte dissociative, rischio permanente di anomia, una funzione di compensazione, generando quanto meno l'illusione dell'integrazione sociale e l'apparenza di una coesione a prova di dissenso.
All'indomani della prima guerra mondiale si moltiplicano nella cultura occidentale diagnosi più o meno pessimistiche sulla società industriale come civiltà che seleziona un nuovo tipo umano caratterizzato da edonismo amorale, perdita dell'esperienza e crescente suggestionabilità. In esse anche il tema del conformismo acquista, sia pure in una pluralità di accezioni, maggiore evidenza. Ortega y Gasset (v., 1929), che ne La rebeliòn de las masas si propone fra le altre cose di tracciare il "diagramma psicologico dell'uomo-massa", riconosce nella libera espansione dei desideri vitali e nella "radicale ingratitudine verso quanto ha reso possibile la facilità della sua esistenza" i tratti della personalità conformistica nelle condizioni sociali della massificazione. All'interno della cultura americana, Lewis Mumford (v., 1934) individua, con la sua pionieristica analisi della civiltà tecnologica, nella standardizzazione della produzione e del prodotto e nell'aumento dell'interdipendenza collettiva i fattori che più contribuiscono all'omologazione delle forme di vita e di espressione. Pressoché negli stessi anni Gramsci, riflettendo sulla genesi sociale dell"'uomo-collettivo" e riconoscendo che l'attuale standardizzazione del modo di pensare e di operare ha la sua base economica nella "taylorizzazione" o razionalizzazione del processo produttivo, rileva essere la "tendenza al conformismo nel mondo contemporaneo più estesa e più profonda che nel passato" (v. Gramsci, 1975, p. 862). Ma, nel suo caso, alla nozione di un conformismo "imposto" dall'alto e autoritario sul modello della Chiesa cattolica e dello Stato moderno, si contrappone un'accezione positiva di un conformismo "proposto" e cresciuto dal basso, il cui conseguimento è il risultato dialettico dello "sviluppo di individualità e personalità critica" (ibid., pp. 1110-1111). La convinzione comune alla più parte di queste eterogenee diagnosi è che nell'alveo della civiltà tecnologica sia nato un uomo nuovo, plasmato dalle esperienze delle trincee e dalla disciplina di fabbrica. Dove esse divergono è nella fiducia di poter governare questa rivoluzione antropologica e nella direzione da imprimere a quest'azione di governo.
Con l'età dei totalitarismi il tema della conformità imposta e forzosamente amministrata acquista una rilevanza prima sconosciuta. Le grandi ricerche sul conformismo e sull'autoritarismo di quegli anni segnano una svolta nella storia del problema, al centro della quale si colloca sicuramente l'attività della Scuola di Francoforte. Con le Studien über Autorität und Familie (v. Horkheimer e altri, 1936), ricerche condotte in diversi paesi europei sulla percezione dell'autorità nella famiglia, nella scuola e nel sistema economico, si inaugura un filone di indagini che condizionerà profondamente anche le successive ricerche empiriche sul conformismo. The authoritarian personality (v. Adorno e altri, 1950), d'altro canto, è una ricerca sull'individuo "potenzialmente fascista" e su un tipo di struttura della personalità particolarmente suscettibile alla propaganda antidemocratica (tale individuo è definito infatti "consumatore di propaganda"). Per quanto gli autori usino l'espressione conventionalism anziché conformism, non vi è dubbio che la relazione tra questo e l'autoritarismo è il tema di fondo della ricerca. Nel caso del soggetto "convenzionale" manca il consolidamento del Super-Io, per cui l'individuo è sottoposto all'influenza di istanze esteriori: il suo motivo predominante è la paura di essere diverso; nel caso del soggetto "autoritario", invece, un Super-Io esorbitante si trova incessantemente a combattere con forti e ambivalenti pulsioni dell'Es: il motivo predominante è qui la paura di essere debole.
Con l'opera più importante dell'esilio americano, Dialektik der Aufklärung, Horkheimer e Adorno (v., 1947) hanno sottoposto a rielaborazione filosofica alcune acquisizioni delle precedenti ricerche sociologiche della scuola, tematizzando le aspettative di conformità proprie del "mondo dell'organizzazione". Per una civiltà che ha il suo nucleo originario nella negazione della soggettività e nella concezione della libertà come coazione, l'esito del conformismo di massa appare scontato: il totalitarismo, nella misura in cui realizza la fusione di organizzazione e produzione in una totalità oppressiva in cui non esiste più alternativa al conformismo, costituisce soltanto la tappa estrema di un processo di asservimento dell'uomo alle logiche del dominio. Il principio di prestazione, la repressione e la sublimazione delle pulsioni diventano i vettori della normalizzazione degli individui e della produzione di conformità agli imperativi sistemici. Come meglio chiariranno gli studiosi del totalitarismo cresciuti ai margini della Scuola di Francoforte, e in misura eminente Hannah Arendt, la conformità totalitaria è inoltre il prodotto di tecniche manipolatorie di sperimentata efficacia anche se di più capillare impiego: distorsione dell'informazione, controllo dei meccanismi psicologici inconsci, manipolazione delle coscienze. Ma Dialektik der Aufklärung tematizza in primo luogo il 'dispotismo mite', come lo avrebbe definito Tocqueville, dell'industria culturale, mediante la quale "l'illuminismo diventa mistificazione di massa". L'intrattenimento che essa offre nel tempo libero non è che prolungamento del tempo di lavoro, la vita sociale si svolge canalizzata entro istituzioni che trasmettono l'illusione della sicurezza, la mobilitazione politica avviene sotto la regia di drammaturghi che hanno il terrore del vuoto. L'assenza di libertà è in ogni caso sperimentata in condizioni di narcosi sociale, in una situazione ovattata, in cui non è più possibile avvertire, nella condotta resa conforme, la pressione che su di essa è stata esercitata. In questa situazione domina la pseudo-individualità e il conformista altri non è che l'uomo rassegnato, che ha rinunciato a qualsiasi speranza di autorealizzazione e si è convinto che può conseguire il successo solo attraverso l'imitazione (v. Horkheimer, 1947; tr. it., p. 123).
Le tesi sull'industria culturale formulate da Horkheimer e Adorno, e radicalizzate da Herbert Marcuse, trovano collocazione entro una diagnosi epocale, in base alla quale i mezzi di comunicazione di massa, l'industria del divertimento e dell'informazione, l'universo delle merci plasmato dalla moda non solo generano atteggiamenti conformistici, ma finiscono per oltrapassare l'orizzonte stesso del conformismo in direzione della 'mimesi'. Nelle condizioni della civiltà industriale avanzata, infatti, diventa problematico assumere che l'individuo interiorizzi secondo modalità spontaneamente adattative i controlli sociali esterni: il termine introiezione richiama alla mente un processo in base al quale l'Ego "trasferisce l''esterno' nell''interno'", il che appare tuttavia irrealistico laddove sia venuta meno la separazione di una coscienza e di un inconscio individuali dalle istanze autoritative della società. "Oggi questo spazio privato è stato invaso e sminuzzato dalla realtà tecnologica. La produzione e la distribuzione di massa reclamano l'individuo intero, e la psicologia industriale ha smesso da tempo di essere confinata alla fabbrica. I molteplici processi d'introiezione sembrano essersi fossilizzati in reazioni quasi meccaniche" (v. Marcuse, 1964; tr. it., p. 30). Analogamente, anche se evitando il ricorso alla teoria psicoanalitica, argomenta Günther Anders, per il quale persino il concetto di conformismo appare ormai antiquato a fronte di una situazione sociale nella quale il soggetto è stato neutralizzato dalla tecnica e l'agire soppiantato da una passiva reattività. Non si danno più individui conformisti, ma soltanto individui conformati, che si illudono di essere ancora individui in quanto la totale automazione, rendendo ormai superflui anche comandi e divieti, alimenta l"'illusione della libertà" (v. Anders, 1980, p. 195). Non troppo diverse, d'altro canto, appaiono le diagnosi elaborate sul versante conservatore o fra i teorici democratici di una società che non conosce più conflitto. David Riesman si fa interprete del disagio di una società atomizzata in cui gli individui hanno perso la capacità non solo di modellare i loro destini, ma anche di dare senso alla loro esistenza strutturandola e ordinandola entro contenitori di senso: l'individuo eterodiretto è colui che "non pone limiti precisi fra produzione e consumo; fra l'adattamento al gruppo e la dedizione ai propri interessi; fra lavoro e svago" (v. Riesman, 1950; tr. it., pp. 192-193). Anche Hans Freyer (v., 1955) mette in luce come il bisogno di uniformità vada interpretato come reazione alla crescente solitudine dell'uomo nella società di massa. Richard Sennett (v., 1974) sottopone invece a indagine il conformismo 'intimista' dell'età del narcisismo sociale. Sul piano politico, queste diagnosi finiscono per convergere con quelle che proclamano la fine dell'ideologia (Daniel Bell), la fine dell'utopia (Judith Shklar) o la fine dell'opposizione politica (Otto Kirchheimer), postulando di fatto una specularità tra conformismo e apatia politica.Nella seconda metà del secolo queste analisi sfociano poi nella messa sotto accusa dei mass media come strumenti di diffusione del conformismo in un pubblico ignaro di subire passivamente la pressione della cultura di massa. Essi costituiscono i vettori del conformismo da villaggio globale. Impoverimento dell'esperienza, appiattimento delle credenze, non economizzazione ma inaridimento delle energie cognitive appaiono anche qui le conseguenze a largo raggio della diffusione di questi strumenti dell'industria culturale. Viene formulato il teorema della 'spirale del silenzio', secondo cui i mass media rispecchierebbero ed enfatizzerebbero opinioni e sentimenti prevalenti contribuendo però a soffocare le voci minoritarie e dissidenti (v. Noelle-Neumann, 1996). Omologando quanto è stato assimilato e secondando il gusto esistente senza promuovere un rinnovamento della sensibilità, i mass media esercitano una funzione conservatrice - anche se di una conservazione appiattita sul presente e incapace di coscienza storica (v. Eco, 1977, p. 36).
Sul piano degli studi, rispetto al dibattito sulla società di massa e sulle sue tendenze totalitarie, manifeste o latenti, i decenni recenti hanno registrato piuttosto lo spostamento del baricentro delle indagini verso l'ambito storiografico, sotto l'impulso delle ricerche di Michel Foucault sui meccanismi disciplinari e sulle forme di controllo sociale delle società moderne. In questo modo, tuttavia, la ricerca storico-sociologica tornava ad allontanarsi dalla fenomenologia psicosociale del conformismo per esplorare, in senso più generale, le multiformi regioni del controllo sociale. Più che alla tematizzazione del conformismo, infatti, le ricerche di Foucault erano state indirizzate, soprattutto con le opere degli anni sessanta, a partire dall'Histoire de la folie à l'âge classique, allo studio delle tecnologie di dominio impiegate dall'autorità pubblica per esercitare un controllo della mente; più tardi, a partire da La volonté de savoir e dal progetto sulla storia della sessualità, all'indagine delle tecnologie dell'autocontrollo. Nell'un caso come nell'altro, l'oggetto della riflessione non era tanto il processo passivo di adattamento conformistico quanto l'esercizio del potere sociale mediato da pratiche, oppure la partecipazione dell'individuo al processo di controllo disciplinare attraverso l'automonitoraggio e la sorveglianza della propria condotta.
Anche nell'ambito della psicologia sociale, del resto, si può osservare come le ricerche sul conformismo abbiano registrato negli ultimi decenni una minore vitalità, orientandosi in maniera crescente l'interesse verso lo studio della psicologia delle minoranze attive e innovatrici (v. Moscovici, 1979). La sfida alle opinioni dominanti, l'anticonformismo e la cultura delle differenze sono diventate temi prediletti delle correnti sociologiche che civettano con il 'postmoderno'. Sarebbe tuttavia errato inferire da questi orientamenti che il fenomeno stia perdendo rilevanza all'interno delle società contemporanee. La rassegna fin qui compiuta non autorizza tali conclusioni; essa mostra soltanto quanto sia problematico ricondurre il conformismo a una definizione unitaria. Significativo è semmai rilevare come dai movimenti sociali e politici che, a partire dagli anni sessanta, hanno animato, nel segno dell'anticonformismo, la scena della controcultura, della contestazione e della protesta siano scaturite nuove manifestazioni di conformismo che hanno contribuito a segnare il profilo della 'società postmoderna'.
Ancora più problematica risulta la determinazione del concetto se si rivolge lo sguardo alla società attuale, alla luce delle sue trasformazioni più recenti nell'ambito delle forme di vita e delle tecniche di comunicazione e condizionamento della personalità. L'unico denominatore comune che sembra potersi ancora individuare fra i comportamenti eterodiretti della società contemporanea è l'orientamento al consumo: e in questo quadro ha senso soprattutto parlare di conformismo consumistico (v. König, 2000). Rispetto alle teorie ormai classiche dell'omologazione di massa, cui ci si è prima richiamati, il senso di questa trasformazione sociale sul piano della teoria della personalità e dell'interazione tra individuo e gruppo è stato colto da Christopher Lasch (v., 1979) in un libro famoso sul narcisismo nella società contemporanea. In una società dominata dalla cultura narcisistica dei suoi membri anche il conformismo tende a mutare, accentuando ulteriormente caratteri di passiva e acritica ricettività. L'individuo narcisista, cresciuto all'interno di un ambiente familiare in cui l'autorità è debole e insicura, sviluppa a sua volta un'insicurezza che lo porta a dipendere dall'approvazione altrui e da appagamenti immediati, di tipo consumistico. In tali condizioni a prevalere non è la conformità imposta da un'industria culturale totalitaria ma il conformismo annoiato di un individuo che vive la propria solitudine nella promiscuità (v. Bellebaum, 1990). Subentra così un nuovo tipo sociale, quello del conformista 'mordi e fuggi', di cui Zelig, il protagonista del noto film di Woody Allen, è un'incarnazione esemplare (v. Mucchi Faina, 1998, p. 62). Da più parti, del resto, viene rilevato che almeno sul piano morale la tradizionale pressione conformistica di una società che imponeva modelli dominanti appare attenuata. Nella società dell"irresponsabilità organizzata' viene meno proprio l'istanza superiore del custode delle norme sociali. Il conformista della società borghese classica era tale perché si sentiva osservato da un'istanza morale. Dove questa si polverizza, dove perde di riconoscibilità nei confronti delle più potenti agenzie del conformismo consumistico, diminuisce anche il senso del controllo sociale. La società moderna, sempre più aperta, diventa incapace di produrre standard condivisi di comportamento conformistico; ma, al suo interno, alberga comunità sempre più chiuse, arroccate nell'autodifesa e nel mantenimento della propria identità: proprio queste comunità chiuse divengono il fertile vivaio di nuovi conformismi. Il ritorno alla comunità, che caratterizza in modo trasversale la dinamica culturale delle odierne formazioni sociali, dà espressione all'esigenza della ricostituzione di quel Super-Io sociale che è stato sommerso dalle pulsioni di un Es consumistico.
Nel bisogno di identificazione comunitaria si può ravvisare il nuovo conformismo a cavallo dei due secoli (ibid., p. 120). La società postmoderna viene abitualmente definita in base al pluralismo degli stili di vita, delle differenze, del controllo sociale degerarchizzato. Ma tale pluralismo, lungi dal risultare incompatibile con l'affermazione di una personalità conformistica, ne è la condizione, giacché proprio la rivendicazione della differenza esige dal gruppo che l'avanza omogeneità e coesione e dal singolo membro rinuncia a ogni comportamento e opinione dissenzienti. Gli studi di sociologia della devianza ne offrono convincente esemplificazione, mostrando come la criminalità non sia solo devianza ma anche conformità: le bande giovanili che orientano il loro agire di gruppo alla trasgressione non costituiscono una somma anomica di individui isolati, ma una comunità caratterizzata da un'insolita intensità di interazione e da uno spiccato conformismo. "Ogni differenza comporta l'individuazione di qualche criterio in base al quale tale differenza viene stabilita; ogni differenza è subordinata quindi all'esistenza di una norma, sia essa formale o informale, momentanea o duratura. E, nel momento in cui una norma fa la sua comparsa, appare anche la normalità e, con essa, la possibilità del conformismo" (ibid., p. 8). A questa regolarità dell'agire sociale non si sottrae nemmeno un comportamento che più di altri è esposto alla continua metamorfosi dell'identità. (V. anche Adattamento; Anomia; Atteggiamento; Controllo sociale; Devianza; Norme e sanzioni sociali; Ortodossia ed eterodossia; Personalità e società; Pregiudizio; Società di massa).
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