Corporatismo
di Stefano Gorini
SOMMARIO: 1. Concetti e tipologie di indagine. ▭ 2. L'indagine economica: creazione efficiente della ricchezza, competizione, cooperazione. ▭ 3. La cooperazione produttiva. ▭ 4. La cooperazione per la rendita. ▭ 5. La ricerca empirica. ▭ 6. Un diverso programma di ricerca. ▭ Bibliografia.
1. Concetti e tipologie di indagine.
Il 'corporatismo' è un fenomeno sociale multidimensionale. Esso include un insieme di fatti della vita sociale anche molto diversi, ma riconducibili in senso lato a quello della aggregazione di più attori - individui, imprese o altri soggetti - in una più o meno stabile organizzazione, al fine di perseguire con maggiore efficacia determinati loro 'interessi di gruppo o di categoria', cioè interessi (privati o comuni, secondo una distinzione 'tecnica' sulla quale torneremo più avanti) che un singolo attore condivide con altri in virtù dell'appartenenza a un medesimo status economico-sociale (occupazionale, professionale, di titolare di determinati diritti di proprietà, di utente-consumatore di determinati servizi, di operante in un determinato settore o tipo di attività, ecc.).
A questo significato socio-istituzionale se ne può affiancare uno psicologico-comportamentale e culturale, che indica come 'corporatistico' un atteggiamento ispirato alla precedenza dei propri interessi privati o comuni di gruppo, condivisi con altri appunto per l'appartenenza a un medesimo status economico-sociale, rispetto agli 'interessi comuni generali', o 'diffusi', condivisi con altri sulla base del semplice status di cittadino di una medesima comunità civile.
Il fenomeno del corporatismo viene studiato nella letteratura sociale da diverse angolazioni disciplinari: sociologica, politologica, giuridica, economica. L'indagine sociologica si concentra sulla genesi e sulla dinamica delle interazioni sociali che spingono i singoli attori ad aggregarsi in organizzazioni di gruppo per meglio promuovere, imporre o difendere i propri interessi nei confronti degli interessi altrui e del potere, e sul retroterra culturale e psicologico di tali interazioni (retroterra che costituisce il primo livello di analisi sociale, quello del cosiddetto 'radicamento sociale', dove si situano le istituzioni informali, i costumi, le tradizioni, i valori: v. Williamson, 2000, pp. 596-597). L'indagine politologica si concentra sui rapporti tra le aggregazioni-organizzazioni di gruppo e il potere politico-coattivo di governo, cioè sui contenuti e sulle modalità della rappresentanza degli interessi di gruppo nei processi cooperativi di formazione delle scelte politiche nei diversi livelli di governo. Quella giuridica riguarda primariamente le regole formali che disciplinano le modalità di appartenenza dei singoli attori agli interessi organizzati di gruppo, la loro struttura interna, la loro azione verso l'esterno e, più in generale, la loro collocazione nell'ordinamento giuridico complessivo. Quanto all'indagine economica, essa costituisce una parte del più ampio programma di ricerca avente per oggetto le relazioni tra le istituzioni formali e informali - nel senso ampio di norme (v. North, 1990) e organizzazioni - di un paese o regione e la sua performance micro- e macroeconomica. In questo contesto lo studio del corporatismo riguarda specificamente le relazioni tra la presenza, da un lato, di interessi organizzati di gruppo e di grandi imprese corporate (intese come organizzazioni di azionisti, managers, dipendenti, collaboratori esterni e altri attori esterni cointeressati - fornitori, clienti e simili -, i quali costituiscono nel loro insieme la galassia dei cosiddetti stakeholders), e la creazione efficiente, dall'altro lato, della ricchezza privata e pubblica nonché i risultati distributivi conseguiti dal sistema produttivo.
In questo articolo verranno sinteticamente illustrati i principali contenuti e risultati delle indagini economiche sul corporatismo condotte negli ultimi 10-20 anni. Essi costituiscono una base d'appoggio e di riferimento anche per le altre tipologie di indagine, che qui non saranno discusse.
2. L'indagine economica: creazione efficiente della ricchezza, competizione, cooperazione.
L'indagine economica sulle relazioni tra interessi organizzati di categoria, creazione efficiente della ricchezza privata e pubblica e distribuzione poggia sull'analisi di quattro fatti centrali della vita economico-sociale: gli interessi 'privati' (chiamati anche 'rivali' o 'individuali'), gli interessi 'comuni' (chiamati anche 'collettivi'), l'azione collettivo-cooperativa, l'acquisizione di rendita. La differenza tra interessi privati e interessi comuni è alla base della differenza, elaborata dalla scienza economica, tra le condizioni di efficienza nella creazione della ricchezza, rispettivamente privata e pubblica. Gli interessi privati o rivali sono quelli che un soggetto non ha in comune con altri, dove il concetto di 'non avere in comune' è reso preciso tramite la sua conversione nel concetto economico stilizzato di 'bene privato', inteso come bene le cui unità fisiche, se utilizzate da un soggetto, non possono essere utilizzate contestualmente anche da altri. Gli interessi comuni o collettivi sono invece quelli che un soggetto ha in comune con altri, dove il concetto di 'avere in comune' è reso preciso tramite la sua conversione nel concetto economico stilizzato di 'bene pubblico', inteso come bene la cui natura fisica è tale che tutti i soggetti di un gruppo o comunità ne beneficiano contestualmente, senza rivalità né esclusione. Riducendo il quadro all'essenziale, la creazione efficiente di ricchezza richiede che ogni fattibile attività produttiva che generi un beneficio marginale sociale maggiore del suo costo marginale sociale venga effettivamente intrapresa e portata fino al punto in cui tale beneficio sociale marginale diviene uguale al suo costo marginale sociale. Per la ricchezza privata ciò si realizza quando la domanda del mercato, costituita dalla sommatoria orizzontale dei benefici marginali, interseca la curva di offerta del mercato, costituita dalla curva dei costi marginali di produzione, cioè quando il beneficio marginale individuale - uguale per tutti gli utenti di un bene privato - diviene uguale al costo marginale di produzione (v. fig. 1, punto C; nella figura abbiamo rappresentato il caso di due soli attori, con identica curva AF dei benefici marginali, ma i concetti rimangono gli stessi con un numero grande a piacere di attori, ciascuno con preferenze diverse). Per la ricchezza pubblica ciò si realizza quando la curva (che non è una curva di domanda del mercato) costituita dalla sommatoria verticale dei benefici marginali individuali - in generale diversi gli uni dagli altri - diviene uguale al costo marginale di produzione (v. fig. 1, punto B). La semplicità di questa formulazione estrema non deve ingannare sulla sua portata, che è assolutamente generale. È vero che la produzione o l'utilizzo di molti beni privati può presentare più o meno rilevanti esternalità positive o negative (ossia benefici o costi individuali per i quali non sono istituiti nell'ordinamento giuridico sostanziale i diritti di proprietà e i mercati corrispondenti) che generano un divario tra le curve di domanda o di offerta del mercato e quelle dei benefici o dei costi marginali sociali. È anche vero che determinati beni possono presentare contestualmente, in proporzione varia, componenti sia di bene privato che di bene pubblico (un caso che rende bene l'idea di una siffatta possibile valenza multipla è quello, ad esempio, del bene giurisdizione civile, che presenta un 'nocciolo duro' a valenza nettamente privata per l'interesse dei litiganti a ottenere una definizione vincolante dei loro diritti e per la natura privata degli interessi in contestazione, ma presenta anche una rilevante potenzialità di effetti esterni positivi - perché quanto più la società è efficiente nel far rispettare gli obblighi riconosciuti dal suo ordinamento, tanto minori sono i costi di transazione in tutti gli scambi - nonché una componente di bene pubblico associata all'eventuale efficacia della giurisprudenza verso terzi). Inoltre, alla dimensione intratemporale dell'allocazione delle risorse, cui fa riferimento la figura, si deve aggiungere quella intertemporale e intergenerazionale. Ma il principio generale di efficienza sopra illustrato si estende senza cambiamenti di sostanza all'intera gamma dei possibili casi concreti.
Nelle economie politiche del capitalismo avanzato, la creazione della ricchezza privata avviene prevalentermente tramite l'attività di produzione e distribuzione svolta da attori - individui, imprese e gruppi di produttori - operanti nell'area del mercato, che è costituita da un tessuto di diritti di proprietà e di attività contrattuali di scambio e di relazione altamente sofisticato. Le modalità del coordinamento - ossia dell'interazione strategica - tra gli attori impegnati nella produzione e distribuzione della ricchezza privata nell'area del mercato vanno da un estremo fatto di relazioni di mercato individuali-competitive, verso l'esterno, e di gerarchia all'interno degli attori-organizzazioni (quando le prime risultano inadeguate), a un estremo fatto di relazioni collettive di cooperazione sia esterna che interna, passando attraverso tutte le combinazioni intermedie. Le proporzioni e le forme in cui queste due modalità di coordinamento coesistono e si combinano nell'area del mercato variano tra le culture e i paesi, i settori di attività, i periodi storici, e si traducono in corrispondenti diversità nazionali-regionali, settoriali e temporali negli assetti istituzionali della produzione e della finanza, nei sistemi di incentivi e nelle politiche pubbliche (v. Hall e Soskice, 2001, An introduction ..., pp. 1-21).
La creazione della ricchezza pubblica avviene invece necessariamente nell'area del non-mercato, tramite un'attività di produzione e finanziamento che assume prevalentemente una forma collettivo-cooperativa particolare: quella propria dei processi politici di formazione delle scelte di governo, intendendosi per governo il complesso delle istituzioni dotate di potere politico-coattivo. Nelle società liberal-democratiche il ricorso a questa particolare forma di attività collettiva-cooperativa non ha alternative, per due ragioni di base. La prima è che in materia di scelte concernenti la quantità e qualità dei beni pubblici da produrre, cioè degli interessi comuni da soddisfare, il coordinamento tra gli attori non può né basarsi su relazioni di mercato individuali-competitive, a causa della natura non commerciabile degli interessi comuni, né essere imposto per dittatura. Dunque si deve basare su relazioni collettive-cooperative. La seconda è che l'azione collettivo-cooperativa di più attori per il soddisfacimento di interessi condivisi, privati o comuni che siano, presenta, quando il numero degli attori è elevato, il noto ostacolo costituito dall'incentivo del singolo a comportarsi da free rider. In taluni casi i comportamenti di free riding possono essere contrastati creando incentivi selettivi che riescano a far dipendere in qualche misura la partecipazione del singolo ai benefici dell'azione collettiva, o a benefici collaterali, dalla sua partecipazione ai costi della stessa. Ma nei casi degli interessi comuni generali, ossia diffusi, il cui soddisfacimento è necessario per la sussistenza di una società civilizzata, la formazione di un potere politico-coattivo di governo è risultata storicamente sempre e dovunque inevitabile.
Una molteplicità di attori che in virtù di una loro comune condizione economico-sociale condivide determinati interessi, privati o comuni, di gruppo può dunque aggregarsi in una più o meno strutturata organizzazione corporatistica, onde soddisfarli più efficacemente tramite un coordinamento di tipo collettivo-cooperativo, anziché individuale-competitivo, delle loro azioni e interazioni. Se si tratta di interessi comuni nel senso sopra definito, ossia non rivali, l'azione collettivo-cooperativa è la sola possibile per portare il loro soddisfacimento a un livello accettabile, anche se non ottimale - per le note ragioni legate alla non commerciabilità dei beni pubblici. Se invece si tratta di interessi privati, ossia rivali, l'aggregazione-organizzazione e la connessa azione collettivo-cooperativa di gruppo costituisce soltanto 'una' delle possibili modalità di coordinamento delle attività dei singoli attori volte al loro razionale perseguimento.
3. La cooperazione produttiva.
Quale che sia la natura degli interessi di gruppo perseguiti - privati o comuni - l'aggregazione e la connessa azione collettivo-cooperativa volta a meglio promuoverli, imporli e difenderli, presentano due caratteristiche cruciali. Una riguarda l'ostacolo congenito a qualsiasi tipo di azione cooperativa di gruppo, costituito dall'incentivo del singolo a comportarsi da free rider, già menzionato, e la necessità di incentivi selettivi che inducano i singoli a partecipare ai costi della cooperazione; senza tali incentivi, infatti, al crescere delle dimensioni del gruppo la cooperazione tenderebbe a diminuire, fino a cessare del tutto (v. Olson, 1965). Su questa caratteristica non ci soffermeremo, perché non tocca direttamente il nostro tema. L'altra riguarda il fatto che la cooperazione di gruppo può perseguire due obiettivi totalmente diversi: quello di migliorare la cooperazione produttiva degli attori del gruppo stesso - tra loro, o tra loro e altri attori o gruppi - oppure soltanto quello di massimizzare la quota distributiva dei propri appartenenti su quanto viene prodotto, comprimendo corrispondentemente quella di altri attori o gruppi partecipanti alla produzione, o quella dell'intera comunità. In altre parole, può perseguire l'obiettivo non di migliorare o accrescere la produzione, bensì di potenziare la capacità dei propri appartenenti di acquisire benefici a spese di altri, ossia di acquisire rendita. Questa seconda caratteristica tocca invece direttamente la questione centrale del nostro tema, ossia la relazione tra il corporatismo, inteso come presenza e azione degli interessi organizzati di gruppo e delle grandi imprese corporate nel sistema economico-politico, da una parte, e la creazione efficiente di ricchezza e la sua distribuzione, dall'altra. Per tali ragioni la riflessione teorica suggerisce che la relazione suddetta non può essere, in generale, univoca. Nella misura in cui l'azione collettivo-cooperativa delle strutture corporatistiche fosse orientata alla cooperazione produttiva con gli altri attori o gruppi, sia nell'area del mercato che nell'area del non-mercato dei processi politici, il suo effetto sull'efficienza micro- e macroeconomica tenderà a essere quantomeno neutrale rispetto alla modalità alternativa di coordinamento tra gli attori, costituita dalle relazioni di tipo individuale-competitivo; e, a seconda delle particolari circostanze, potrà anche essere positivo. Non potrà invece che essere negativo nella misura in cui l'azione corporatistica fosse orientata all'acquisizione di rendita.
La letteratura economica che si è occupata dei modelli di interazione individuale-competitiva nei mercati perfettamente concorrenziali, di interazione strategica non cooperativa e cooperativa nei mercati imperfetti, e tra individui e gruppi nei processi di formazione delle scelte politiche generali e di politica economica, nonché delle relazioni tra queste tipologie di interazioni e la creazione efficiente di ricchezza, è ampia e complessa. Ma alcuni semplici casi di scuola sono sufficienti a evidenziare come la cooperazione per la produzione possa influire sull'efficienza sia nel mercato che nel non-mercato. Nell'area degli interessi privati e del mercato uno di questi casi è costituito dal 'monopolio bilaterale'. Su un versante del mercato di un bene abbiamo la domanda di un unico attore monopsonista, che coincide appunto con l'intera domanda del mercato. Sull'altro versante abbiamo l'offerta di un unico attore monopolista, che coincide appunto con l'intera offerta del mercato. Possiamo immaginare che il bene scambiato sia un determinato tipo di lavoro, il monopsonista un'unica grande impresa che è la sola a impiegare quel tipo di lavoro, e il monopolista l'unico sindacato che rappresenta quella categoria di lavoratori. L'analisi convenzionale di un siffatto mercato mostra che se le parti si comportano secondo il modello competitivo (non cooperativo), cercando ciascuna di esercitare pienamente il suo potere di mercato, il salario si collocherà a un livello (indeterminato) compreso tra due limiti nel cui intervallo si trova il livello concorrenziale, mentre l'occupazione e la produzione saranno comunque inferiori a quelle concorrenziali. Il risultato dell'interazione non cooperativa sarebbe pertanto inefficiente. Se invece le parti cooperassero, il risultato della loro interazione strategica cooperativa potrebbe essere un livello di salario reciprocamente accettabile, o comunque simile a quello del caso non cooperativo, e un livello efficiente (maggiore) dell'occupazione e della produzione. Un altro caso di potenziale superiorità, in termini di efficienza, del modello cooperativo rispetto a quello competitivo è quello noto come il 'dilemma del prigioniero'. Se i due attori-prigionieri non potessero o non volessero cooperare, si avrebbe una strategia non cooperativa di equilibrio (noto come 'equilibrio di Nash'), che non sarebbe Pareto-efficiente. Se invece essi cooperassero, si avrebbe una diversa strategia cooperativa di equilibrio, che sarebbe Pareto-efficiente e tale che con essa entrambi gli attori conseguirebbero un benessere maggiore di quello che avrebbero con la strategia non cooperativa. In entrambi i casi menzionati, affinché gli attori decidano di cooperare anziché di competere, sono necessarie, ancorché non sufficienti, determinate condizioni di natura relazionale e istituzionale di grande importanza: la credibilità dei reciproci impegni, lo scambio delle informazioni rilevanti ai fini della cooperazione (informazioni che siano, e siano ritenute, veritiere), il monitoraggio dei comportamenti concordati, la cognizione che eventuali inadempienze e violazioni del rapporto fiduciario sarebbero sanzionate (il lettore interessato a una discussione più completa dei due casi, dei quali qui abbiamo soltanto riassunto il significato in relazione al nostro tema, può trovarla in ogni buon manuale di microeconomia o di economia industriale; v., ad esempio, Pindyck e Rubinfeld, 20015, pp. 461-469 e 524-527).
Nell'area degli interessi comuni e del non-mercato la necessità della cooperazione produttiva in luogo dell'interazione individuale-competitiva, affinché sia possibile almeno avvicinarsi all'efficienza, appare evidente da un'analisi della fig. 1. Con pochi attori con preferenze simili (come già visto, nella figura sono due, con preferenze identiche), ciascuno otterrebbe una quota consistente del beneficio totale. Ciascuno avrebbe quindi un incentivo ad agire unilateralmente - almeno fino a un certo punto - per il soddisfacimento dell'interesse comune, e avrebbe anche un incentivo a interagire strategicamente o a negoziare con gli altri per portare il soddisfacimento dell'interesse comune a un livello prossimo a quello ottimale. Invece, al crescere del numero degli attori questi incentivi diminuiscono, fino a cessare completamente. L'incentivo individuale ad agire unilateralmente sarebbe nullo o cesserebbe molto prima del livello ottimale, e sarebbe inoltre nullo o trascurabile l'incentivo individuale all'interazione strategica o al negoziato per partecipare all'azione collettivo-cooperativa, perché il ritiro di un singolo dall'azione collettiva non avrebbe effetti percettibili sull'incentivo dagli altri a parteciparvi (v. Olson, 1987). Questo tipo di analisi aiuta a spiegare perché, come si è già detto, un accettabile livello di soddisfacimento degli interessi comuni diffusi non si possa avere senza la costituzione di un potere politico-coattivo di governo e i connessi processi politici cooperativi di formazione delle scelte collettive.
4. La cooperazione per la rendita.
L'aggregazione di gruppo per l'azione collettivo-cooperativa può perseguire la cooperazione produttiva, ma può anche servire a rafforzare la capacità dei singoli membri di perseguire l'obiettivo opposto dell'acquisizione di rendita, ossia l'acquisizione di benefici per sé attraverso un'equivalente perdita di benefici inflitta ad altri, anziché attraverso la produzione. Nell'area del mercato un attore - individuo, impresa o altro soggetto - acquisisce rendita tramite l'esercizio del 'potere di mercato', ossia il potere di determinare i prezzi delle transazioni. Il concetto di rendita che usiamo in questo contesto è quello proprio dell'economia neoclassica (il 'quarto livello' di analisi sociale di cui parla Oliver Williamson: v., 2000, pp. 597 e 600), dove nasce in contrapposizione ad allocazioni-distribuzioni ideali perfettamente competitive, e presenta due dimensioni inseparabilmente correlate, una distributiva e una di efficienza. Quella distributiva riguarda il fatto che un attore acquisisce rendita in quanto ottiene benefici superiori a quelli che potrebbe ottenere se fosse completamente privo di potere di mercato e, corrispondentemente, qualche altro attore viene privato di altrettanti benefici che potrebbe invece ottenere se non fosse soggetto a quel potere di mercato. Quella di efficienza riguarda il fatto che l'acquisizione di rendita comporta per definizione una perdita sociale di ricchezza, chiamata dagli economisti 'eccesso di pressione', nel senso che comporta una riduzione del prodotto (benessere) rispetto al suo livello potenziale (efficiente). Quando si parla di rendita, il riferimento più comune è agli extra-profitti realizzati dalle imprese, ma la nozione è assolutamente generale. Può assumere, in particolare, la forma non di extra-profitti, bensì di extra-costi dovuti a inefficienze manageriali-organizzative o a remunerazioni eccessive (non competitive) degli input, oppure di remunerazioni eccessive per prestazioni rese direttamente all'utente finale. Nell'area del non-mercato, dei processi politici di formazione delle scelte di governo, l'acquisizione di rendita da parte di un attore - individuo, impresa o altro soggetto - assume la forma tipica dell'influenza lecita o della corruzione con cui si fa leva sui singoli politici e sulle istituzioni di governo per distorcerne l'azione a proprio vantaggio e a danno altrui. Ciò può avvenire in due direzioni: una riguarda il soddisfacimento degli interessi comuni, l'altra quello degli interessi privati. Nel caso degli interessi comuni un soggetto può acquisire rendita distorcendo a proprio vantaggio, e a danno altrui, qualità, quantità e ripartizione dei costi nell'azione di governo volta alla fornitura dei beni pubblici. Diamo un'idea di ciò con un esempio estremo nella fig. 1. Idealmente, un'efficiente cooperazione produttiva pubblica porterebbe al livello OH di soddisfacimento dell'interesse comune, con una ripartizione del costo totale OKBH tra i due attori intorno al punto E. Invece, se uno degli attori puntasse a massimizzare la sua rendita e ne avesse la necessaria forza economico-politica, spingerebbe il governo a produrre OF e ad addossare sull'altro l'intero costo OKDF (nella figura, con due soli partecipanti in identica misura all'interesse comune, la distorsione allocativa associata a questo risultato può apparire modesta; ma con un numero elevato di attori, partecipanti in misura differenziata all'interesse comune, il potere di rendita di un attore o gruppo sugli altri può generare una distorsione allocativa enorme). Nel caso degli interessi privati, un soggetto può acquisire rendita orientando od ostacolando l'attività regolativa e amministrativa del potere politico in maniera da acquisire o rafforzare il proprio potere di mercato nell'area delle attività commerciabili. L'esempio di scuola, ma tutt'altro che unico, sono qui le azioni lobbistico-corporatiste per ottenere dal potere politico misure protezionistiche che consentano a un'industria di mantenere prezzi e occupazione sovracompetitivi. Costituiscono naturalmente rendite, per definizione, tutti i veri e propri trasferimenti di ricchezza (assegni, sussidi, esenzioni, prestazioni gratuite in natura, ecc.) a favore di singoli o di gruppi e a carico dei bilanci pubblici. Ma se è vero che anche l'azione pubblica ridistributiva è inevitabilmente distorta dalle pressioni lobbistico-corporatiste di singoli o di gruppi concentrati per ottenere benefici ridistributivi per sé a spese di altri gruppi diffusi (i contribuenti), è anche vero che là dove determinate politiche sociali ridistributive siano sostenute da un consenso diffuso esse non possono essere riguardate negativamente, alla stregua delle rendite acquisite tramite l'uso del potere di mercato nelle attività produttive commerciabili.
A seconda delle particolari condizioni dei mercati, e a seconda del particolare sistema di regole, incentivi e rapporti tra Stato e mercato, singoli attori possono avere una maggiore o minore capacità di rendita anche isolatamente, ma tale capacità può crescere enormemente nella misura in cui essi siano in grado di aggregarsi in gruppo per agire in maniera collettivo-cooperativa a tale scopo. La capacità di siffatte aggregazioni corporatistiche di gruppo, e delle grandi imprese corporate anche singolarmente, di infliggere perdite di efficienza al sistema economico, ossia di ridurre il prodotto effettivo rispetto a quello potenziale quando perseguano la rendita anziché la cooperazione produttiva, sia nell'area di mercato che in quella del non-mercato, può essere molto grande. La notevole nocività sociale potenziale di questo meccanismo perverso è ben rappresentata da un'equazione di facile lettura che chiameremo 'equazione di McGuire-Olson' e che riportiamo qui adattandone l'interpretazione al nostro tema e modificandone leggermente la notazione (v. McGuire e Olson, 1996, p. 77, eq. 4, e p. 86, eq. 20). Sia c la quota 'non di rendita' nel PIL dell'organizzazione corporatistica di categoria, o della grande impresa corporata, che indichiamo entrambe con il termine convenzionale di 'interesse', ossia la quota 'competitiva' del PIL che tale interesse guadagnerebbe se non avesse alcun potere di mercato; sia r l'ulteriore quota del PIL che l'interesse riesce ad acquisire come rendita, e sia Y(r) il PIL come funzione 'decrescente' di r: in tal caso l'ammontare totale S del PIL acquisito dall'interesse è dato dall'espressione:
L'equazione di McGuire-Olson definisce la condizione di massimizzazione di S rispetto a r:
ciente di distorsività della rendita', ossia l'ammontare di riduzione del PIL per unità di rendita acquisita. Nell'accettabile ipotesi che α(r) sia una generica funzione non negativa crescente che, quale che sia il suo valore iniziale non negativo, diviene maggiore di 1 nell'intervallo r ∈ [0,1), l'eq. (2) identifica la percentuale di rendita r* 〈 1 che massimizza l'ammontare totale S(r) di output acquisito dall'interesse, ossia la percentuale di rendita oltre la quale l'interesse non avrebbe convenienza a spingersi, anche potendo. Si riconosce inoltre subito che tale valore r* ('ottimale' dal punto di vista dell'interesse) è decrescente al crescere della quota non di rendita c che l'interesse stesso occupa nell'output. Attraverso alcuni semplici passaggi che omettiamo per brevità, l'equazione di McGuire-Olson determina anche quanto ampia debba essere la quota non di rendita c dell'interesse nell'output affinché l'interesse stesso non abbia alcun incentivo ad acquisire rendita, ossia per quale valore di c si abbia r*= 0. Tale valore è dato da
della rendita quando r = 0. Se il valore di α(0) è positivo e non trascurabile, affinché un interesse non abbia alcun incentivo ad acquisire rendita non occorre che esso coincida con l'intera economia, basta che ne rappresenti una quota consistente. L'equazione di McGuire-Olson rappresenta in maniera suggestiva il carattere "straordinariamente antisociale degli incentivi degli interessi organizzati di gruppo (a meno che essi non siano molto comprensivi)", ossia più in generale degli interessi speciali concentrati e organizzati, "a impiegare la loro azione collettivo-cooperativa per la lotta distributiva anziché per la cooperazione produttiva" (v. Olson, 1987, p. 476). L'intuizione circa l'entità del potenziale danno all'efficienza causato dal potere di rendita di un interesse organizzato molto concentrato (ossia con un valore di c trascurabile) può essere ulteriormente rafforzata facendo l'ipotesi semplificatrice di un valore α costante maggiore dell'unità, e combinandola con c = 0. Anche qui attraverso alcuni semplici passaggi che omettiamo per brevità si ottiene che il PIL effettivo corrispondente alla percentuale ottimale di rendita r* sarebbe pari a Y(r*) = Y(0)e-1, dove Y(0) è il PIL potenziale che si avrebbe in assenza di rendite. Un interesse che avesse un potere illimitato di acquisire rendita avrebbe l'incentivo a spingere tale sua attività socialmente dannosa fino al punto in cui il PIL effettivo Y(r*) sarebbe ridotto a meno della metà di quello potenziale Y(0), quale che sia il coefficiente α 〉 1 di distorsività della rendita stessa.
Di fatto, il caso di un interesse molto concentrato e organizzato, dotato di un potere praticamente illimitato di acquisire rendita (un interesse 'autocratico'), si può riscontrare solo in situazioni storiche e sociali particolari, mentre nelle società liberali a economia capitalistica avanzata non è realistico ipotizzare che degli interessi organizzati di gruppo possano avere un potere illimitato di acquisire rendita, anche qualora fossero in grado di ottenere dai singoli partecipanti la piena cooperazione individuale all'azione collettivo-cooperativa mediante un efficiente sistema di incentivi selettivi. E lo stesso vale per le grandi imprese corporate. Inoltre, il potere di rendita degli interessi organizzati di gruppo, di per sé non illimitato, trova un ulteriore limite nelle difficoltà congenite dei gruppi - sopra menzionate - a esercitare un'efficace azione collettivo-cooperativa. D'altro canto, le società liberali a economia capitalistica avanzata sono popolate da un grande numero di aggregazioni corporatistiche di gruppo di diverso tipo, aventi spesso relazioni privilegiate, talvolta anche ufficialmente riconosciute, con il potere politico-coattivo di governo. Pertanto, nella misura in cui esse perseguano - con successo - la rendita anziché la cooperazione produttiva, è possibile che la somma dei danni sociali-produttivi causati dalle loro azioni di rendita e di quelli causati dalle azioni di rendita delle grandi imprese corporate raggiunga un'entità macroeconomica non lontana da quanto rappresentato dall'equazione di McGuire-Olson (v. Olson, 1982 e 2000).
In tutte le società liberali a capitalismo avanzato sono presenti in misura variabile diverse aggregazioni di attori che riuniscono in organizzazioni più o meno durevoli e/o strutturate gruppi di individui o imprese accomunati da interessi condivisi (a cagione dell'appartenenza a un medesimo status occupazionale, professionale), di titolari di determinati diritti di proprietà, di utenti-consumatori di determinati servizi, di operanti in determinati settori o tipi di attività: sindacati-associazioni di lavoratori dipendenti, o di lavoratori autonomi dell'artigianato e delle professioni, di associazioni di proprietari, di utenti-consumatori o di altre categorie sociali, di associazioni-federazioni di imprese, e simili. Nella letteratura si è consolidata la tendenza a qualificare le 'economie politiche' nazionali come più o meno corporatistiche a seconda del maggiore o minor grado di: 1) numerosità, estensione, potere di controllo verso l'interno e potere negoziale verso gli altri attori e gruppi privati di siffatti interessi organizzati di gruppo, con particolare enfasi sulle grandi organizzazioni sindacali e, in subordine, sulle confederazioni industriali; 2) coinvolgimento formale o informale del governo nei processi centralizzati di contrattazione collettiva, e delle stesse organizzazioni sindacali, imprenditoriali, o di altre categorie sociali nei processi di formazione delle scelte governative di politica economica e sociale, ulteriormente potenziato nel caso di affinità ideologico-politica tra sindacati e governo; 3) presenza di grandi imprese, gruppi corporati, grandi banche e istituzioni finanziarie dotate di un rilevante potere di mercato, sia direttamente per la posizione dominante nello spazio economico in cui operano, sia indirettamente per la capacità di rafforzare tale potere influenzando il processo di formazione delle scelte politiche di governo tramite il loro controllo su enormi quantità di denaro (v. Schmitter, 1981; Lehmbruch, 1984; v. Bruno e Sachs, 1985; v. Crouch, 1985; v. Tarantelli, 1986; v. Calmfors e Driffill, 1988; v. Kreps, 1990; v. Phelps, 2001). Circa l'esistenza di una qualche relazione, con proprietà e andamento sufficientemente generali, chiari e riconoscibili, tra il grado di corporatismo di una determinata economia politica e la sua performance micro- e macroeconomica (livelli e dinamica di occupazione, prezzi, inflazione, salari reali, produzione, produttività, prodotto pro capite, innovazione, dispersione salariale, distribuzione), la riflessione teorica che abbiamo sopra riassunto suggerisce, come già si è detto, una risposta negativa: una siffatta relazione non dovrebbe esistere. Dal punto di vista della teoria non si può asserire che il grado di corporatismo in sé agisca negativamente o positivamente sulla performance economica, perché ciò dipende da due circostanze. In primo luogo, dalla misura in cui le istituzioni corporatistiche esercitano il loro potere di azione collettivo-cooperativa a fini di rendita, o invece di cooperazione produttiva. In secondo luogo, dall'esistenza o meno nelle economie politiche nazionali di sistemi di incentivi, di istituzioni pubbliche e private, di politiche pubbliche e, più in generale, di una cultura civile e politica che supportino o scoraggino l'acquisizione di rendita, ovvero la cooperazione produttiva, tra gli attori e le loro organizzazioni.
5. La ricerca empirica.
Nel corso degli ultimi due decenni si è sviluppata un'ampia letteratura economica empirica che si è occupata di questo tema nella prospettiva di ricercare relazioni econometricamente testabili tra grado di corporatismo e livello della performance economica. A tale scopo essa ha dovuto affrontare un problema le cui soluzioni si sono rivelate incapaci di resistere ai cambiamenti dei momenti storici e degli ambienti economico-politici e culturali: costruire indici quantitativi rappresentativi dei caratteri istituzionali di un sistema economico, le cui proprietà più essenziali sono, per l'appunto, non quantificabili e strettamente legate agli specifici momenti storici e ambientali - economico-politici e culturali - che li esprimono. Riconoscere ciò non significa negare validità scientifica ai programmi di ricerca che si propongono di applicare le categorie dell'analisi economica ed econometrica allo studio delle istituzioni e del loro impatto sull'economia, bensì riconoscere che in tali programmi è probabilmente più importante approfondire natura, motivazioni e struttura delle interazioni sociali di cui le istituzioni sono espressione (v. Williamson, 2000; v. Hall e Soskice, Varieties of ..., 2001), che non tentare in vari modi di tradurle in indicatori quantitativi suscettibili di stima econometrica. Questa letteratura economica empirica è stata preceduta, negli anni settanta, e poi accompagnata da una letteratura prevalentemente politologica, originariamente stimolata dalla constatazione della maggiore capacità dei paesi all'epoca più corporatistici, specialmente le piccole economie aperte dell'Europa settentrionale, di assorbire gli shocks petroliferi dell'offerta mantenendo più bassi livelli di disoccupazione e inflazione. Tale evidenza empirica contingente ha alimentato, pur con diverse impostazioni politico-ideologiche, la tesi di una correlazione positiva tra la presenza di assetti istituzionali corporatistici volti a facilitare la gestione cooperativa del conflitto sociale tramite una negoziazione centralizzata, esplicita e implicita, tra sindacati dei lavoratori, associazioni delle imprese e governi su tutti i principali aspetti del mercato del lavoro e delle connesse politiche sociali, da un lato, e la performance macroeconomica del sistema in termini di occupazione e stabilità dei prezzi, dall'altro (v. Pizzorno, 1978; v. Schmitter e Lehmbruch, 1979; v. Schmitter, 1981; v. Goldthorpe, 1984; v. Lehmbruch, 1984; v. Golden, 1993).
Muovendo da questi studi prevalentemente politologici, la letteratura economica empirica degli ultimi due decenni ha largamente concentrato la sua attenzione sulla ricerca di relazioni tra uno o più elementi (sopra ricordati) della performance economica e determinate caratteristiche corporatistiche delle istituzioni del mercato del lavoro e delle politiche del lavoro a esse collegate. Le caratteristiche del mercato del lavoro prese in considerazione riguardano molteplici suoi aspetti; in modo particolare, il tasso di sindacalizzazione di lavoratori e imprese, il tasso di copertura dei contratti collettivi (grado di applicazione di questi anche a lavoratori e imprese non sindacalizzate), il livello più o meno centralizzato della contrattazione collettiva, il suo grado di sincronia e coordinamento settoriale, intersettoriale e nazionale, la presenza di incentivi di guadagno strettamente legati alla produttività individuale, la partecipazione di rappresentanti dei lavoratori nelle sedi e nei processi di formazione delle politiche aziendali, la maggiore o minore partecipazione del governo alla gestione e regolazione del mercato del lavoro, sia tramite la partecipazione diretta ai negoziati collettivi tra le parti sociali, sia tramite interventi di estensione legislativa di determinati contenuti degli accordi sindacali e di legislazione autonoma in materia di protezione dell'occupazione (disciplina dei licenziamenti e della mobilità) e del salario (salario minimo). Due saggi recenti (v. Flanagan 1999; v. Freeman, 2000) contengono una rassegna sistematica di questa letteratura, sintetizzandone e criticandone i risultati. Pur riconoscendo che i lavori esaminati costituiscono utili contributi alla conoscenza del mercato del lavoro e del grado più o meno corporatistico delle sue istituzioni, le due rassegne evidenziano l'assoluta fragilità della asserita correlazione, positiva o negativa che sia, tra gradi di corporatismo delle istituzioni e della connessa protezione legislativa dell'occupazione e del salario, da una parte, e misure di efficienza della performance economica, dall'altra. La sola relazione che emerge come robusta e durevole, attraverso momenti storici, paesi e settori diversi, non riguarda l'efficienza, bensì la distribuzione, e sembra essere quella tra grado di centralizzazione della contrattazione collettiva (che è certamente una componente del grado di corporatismo) e dispersione dei salari. Come esempio significativo della tendenziale inconsistenza di relazioni univoche e ben definite tra corporatismo ed efficienza menzioniamo uno studio molto elaborato e molto citato di Lars Calmfors e John Driffill (v., 1988). In questo studio gli autori, combinando l'argomento olsoniano della 'comprensività' dell'interesse (la c nelle equazioni sopra riportate) con quello del suo potere di mercato, postulano e stimano una relazione 'a gobba' tra contrattazione collettiva a livello, rispettivamente, di impresa, di industria e centralizzato, e livelli dei salari reali, della disoccupazione e dell'inflazione, che risulterebbero più alti al centro e più bassi ai due estremi. Studi successivi hanno mostrato che i loro risultati non resistono a modesti cambiamenti degli intervalli temporali, e un'ampia ricerca dell'OECD (v., 1997) sui rapporti intercorrenti fra centralizzazione e coordinamento della contrattazione collettiva e performance economica conclude negativamente circa l'esistenza di un supporto empirico per l'ipotesi di Calmfors e Driffill negli anni novanta, mentre riscontra una robusta relazione tra struttura della contrattazione e dispersione salariale. Sulla stessa linea, un'altra ricerca OECD (v., 1999) sulle istituzioni del mercato del lavoro non riscontra alcun effetto apprezzabile sull'efficienza né della legislazione per la protezione del salario e dell'occupazione, né di vari altri programmi di protezione sociale. Uno studio più recente (v. Schneider e Wagner, 2001) si propone di superare i limiti intrinseci all'approccio della letteratura precedente costruendo un concetto molto ampio di istituzioni destinate a facilitare la gestione cooperativa del conflitto sociale, dove per istituzioni si intendono, nel senso di North (v., 1990), non le organizzazioni strutturate, bensì i sistemi di norme e regole formali e informali seguite dagli attori sociali. Lo studio cerca di stimare le relazioni tra tali istituzioni - tra le quali viene incluso anche il corporatismo, ma senza minimamente entrare nel merito delle sue caratteristiche - e i tassi di crescita del prodotto reale pro capite, usando i dati di 14 paesi europei relativi al periodo 1961-1995. Vi si assume, in particolare, che la percentuale della spesa pubblica nel PIL interagisca negativamente con le istituzioni per la gestione del conflitto sociale, accentuandone la tendenza a incentivare comportamenti volti al perseguimento di rendita. Lo studio, pur portando a risultati empirici estremamente generici e poco conclusivi, ha il pregio di tentare di includere nell'analisi la questione decisiva del contrasto tra ricerca di rendita e cooperazione produttiva, ma condivide con molte ricerche sui rapporti tra istituzioni e performance economica il difetto di una mancata valutazione approfondita delle istituzioni stesse. Tale difetto è destinato a indebolire seriamente anche risultati empirici apparentemente rilevanti e poggiati su una raffinata analisi econometrica.
6. Un diverso programma di ricerca.
Un diverso programma di ricerca sul nostro tema, più attento alla natura delle istituzioni corporatistiche e all'ambiente economico-politico-giuridico e culturale in cui si formano e operano, pone l'accento sul ruolo delle istituzioni corporatistiche come strumento di cooperazione produttiva alternativo a, e coesistente con, il mercato e la competizione (v. Hall e Soskice, Varieties of ..., 2001). In questa prospettiva, le società liberali a capitalismo avanzato vengono studiate a partire dal ruolo centrale che in esse svolgono non tanto i singoli individui (come lavoratori, consumatori e cittadini) e i governi (come istituzioni dotate del potere politico-coattivo e deputate a operare le scelte collettive), bensì le singole imprese, come attori impegnati "a esercitare e sfruttare le competenze specifiche e le capacità gestionali necessarie a sviluppare, produrre e distribuire con profitto beni e servizi" (v. Hall e Soskice, An introduction ..., 2001, p. 6). Lo svolgimento dell'attività produttiva pone le imprese in un tessuto di relazioni con una molteplicità di altri attori, sia verso l'interno, con i suoi dipendenti, sia verso l'esterno, con i suoi fornitori, clienti, collaboratori, finanziatori, cointeressati, sindacati, associazioni di imprese, governi. Da ciò nasce il problema del coordinamento tra l'impresa e l'insieme di tutti questi altri attori in diversi campi, principalmente in quelli delle relazioni industriali, dell'istruzione e formazione professionale, dell'accesso al finanziamento, delle relazioni con le altre imprese, della cooperazione interna con i suoi stessi dipendenti, dell'interazione coi poteri politico-coattivi di governo. Come si è già visto, tale coordinamento può avvenire tramite relazioni di mercato individuali-competitive verso l'esterno, e gerarchiche all'interno, o tramite relazioni collettive di cooperazione sia esterna che interna, passando attraverso vari gradi e forme di combinazione delle due modalità. Questa chiave di lettura sociale consente di individuare due tipologie principali di economie politiche del capitalismo avanzato: le economie di mercato liberali, con una larga prevalenza del coordinamento basato sulla gerarchia e la concorrenza, e le economie di mercato coordinate, con una larga prevalenza del coordinamento basato sulla costruzione di un sistema complesso di relazioni cooperative. Tra i grandi paesi industriali, sei rientrano chiaramente nella prima tipologia (Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Irlanda), altri dieci nella seconda (Germania, Giappone, Svizzera, Paesi Bassi, Belgio, Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia e Austria), mentre altri ancora presentano caratteri intermedi e peculiari (Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia e Turchia). A titolo di esemplificazione, gli Stati Uniti e la Germania possono essere presi come particolarmente rappresentativi delle due tipologie. Il prevalere dell'una o dell'altra modalità di coordinamento tende ad accompagnarsi, secondo un rapporto di interazione dinamica reciproca, con lo sviluppo di sistemi di incentivi, di istituzioni (norme, procedure e organizzazioni) private e pubbliche, e di politiche pubbliche coerenti con il supporto della modalità prevalente, anche attraverso una dislocazione regionale e internazionale delle attività produttive e innovative più consone con una determinata modalità, proprio là dove prevalgono le istituzioni che la supportano. Le aggregazioni-organizzazioni corporatistiche (non solo sindacati e associazioni industriali, ma anche le altre di cui si è parlato), come pure i connessi sistemi di relazioni non di mercato tra singoli attori e organizzazioni nell'area privata e nei rapporti tra questa e quella pubblica, tenderanno a svilupparsi di più, ad avere più potere e a svolgere un ruolo maggiore nei paesi a economia coordinata che in quelli a economia liberale. Ma, come si è già argomentato, non vi sono ragioni per ritenere che questa maggiore presenza e influenza corporatistica debba avere, in quanto tale, effetti generalmente positivi o generalmente negativi sull'efficienza economica del sistema. E lo stesso vale per il ruolo delle grandi imprese e istituzioni finanziarie corporate, diverso ma non a priori positivo o negativo, nei due tipi di economie. La buona salute o la degenerazione delle economie di mercato, sia liberali che coordinate, dipende largamente dal successo o insuccesso dei loro diversi sistemi di incentivi, istituzioni e politiche pubbliche nell'orientare il coordinamento, competitivo-gerarchico o cooperativo, degli attori verso la produzione e contro la rendita (v. Olson, 1996).
Come ci si dovrebbe attendere, anche un confronto tra queste diverse varietà di capitalismo in termini dei principali indicatori di performance economica (tassi di crescita del PIL, livelli del PIL pro capite, tassi di disoccupazione), calcolati su intervalli temporali sufficientemente lunghi, non mostra apprezzabili differenze, mentre i paesi a economia coordinata tendono a presentare, ad esempio, una minore disuguaglianza dei redditi, un maggior grado di protezione dell'occupazione e un più basso indice di capitalizzazione, definito come percentuale sul PIL del valore di mercato delle imprese domestiche quotate (v. Hall e Soskice, An introduction ..., 2001, pp 19-22). Più in generale, gli studi sviluppati all'interno di questa prospettiva mettono in evidenza che le più significative differenze strutturali tra i due tipi di economie riguardano aspetti non quantitativi, bensì qualitativi dello sviluppo economico (come ad esempio la specializzazione internazionale della produzione e le tipologie dell'innovazione) e naturalmente i modelli di incentivi, istituzioni e politiche pubbliche (v. i singoli saggi in Hall e Soskice, Varieties of ..., 2001, e la letteratura ivi discussa). Questa stessa prospettiva sembra anche la più promettente per indagare senza pregiudizio, e mantenendo il necessario raccordo tra analisi econometrica e sottostante comprensione sociale, su natura, ruolo ed effetti delle istituzioni corporatistiche nelle società liberali a capitalismo avanzato.
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