corporativismo
Dottrina politico-sociale tendente a realizzare il principio della collaborazione tra le classi e le categorie sociali, sulla base di organismi rappresentativi delle varie attività professionali (corporazioni). Si possono distinguere due concezioni del c.: quella cattolica – i cui principali teorici sono stati nei secc. 19°-20° R. de La Tour du Pin e J.-P.-A. de Villeneuve in Francia, W. Ketteler in Germania e G. Toniolo in Italia – e quella fascista, attuata in Italia e, con varie sfumature, in Spagna, Portogallo, Brasile ecc., e rimasta di ispirazione per movimenti politici e culturali di estrema destra. La concezione corporativa cattolica ebbe origine dalla reazione alla società liberale scaturita dalla Rivoluzione industriale e dalla Rivoluzione francese. All’individualismo economico e all’egualitarismo politico fu contrapposta la restaurazione di una struttura politico-sociale gerarchicamente ordinata secondo le norme etiche tradizionali. Quest’ideale corporativo fu alla base della dottrina sociale cattolica della seconda metà dell’Ottocento, che trovò la sua sistemazione dottrinaria nell’enciclica Rerum novarum (1892), nella quale Leone XIII sollecitò, in nome del solidarismo cristiano, la formazione di «corporazioni di arti e mestieri» costituite da soli operai, ovvero «miste di operai e padroni», per «unire le due classi tra loro». Il mancato riscontro in sede storica di questo modello corporativo portò nei decenni successivi al suo abbandono e alla creazione delle prime organizzazioni cattoliche di lavoratori. Tuttavia, il principio dell’interclassismo sostenuto dalla Chiesa fu ereditato dal nascente movimento politico cattolico. Nella versione fascista del c. fu determinante, oltre all’azione conciliatrice e autoritaria dello Stato (richiamandosi a essa, e ritenendo di abolire la lotta di classe per legge, il fascismo vietò gli strumenti dello sciopero e della serrata), il valore politico-ideologico che gli venne assegnato come supposta «terza via» tra capitalismo e socialismo. Il fascismo definì corporazioni dapprima, dal genn. 1922, i propri sindacati (la Confederazione delle corporazioni sindacali), che in teoria avrebbero dovuto organizzare unitariamente datori di lavoro e lavoratori. Dopo i «patti» di palazzo Chigi (1923) e di palazzo Vidoni (1925), che invece confermarono il tradizionale dualismo, le corporazioni furono gli organi dell'amministrazione statale ai quali fu attribuita la funzione di collegamento tra i sindacati di un ramo produttivo o tra una o più categorie di imprese. Il 2 luglio 1926 fu istituito il ministero delle Corporazioni, con vaste competenze su salari e organizzazione del lavoro ma anche nel campo dell’economia nazionale. Il c. fascista, il cui manifesto fu la Carta del lavoro (1927), liquidò di fatto i sindacati dei lavoratori intesi in senso proprio, assorbiti quasi completamente nello Stato; in misura molto minore incise sulle organizzazioni dei datori di lavoro. In sede teorica il c. fascista ebbe varie interpretazioni e, almeno nei primi anni, fu oggetto di vivaci polemiche, attraverso le quali si espressero le diverse tendenze interne al fascismo: da quella di A. Rocco, per il quale le corporazioni dovevano essere uno strumento essenziale per lo sviluppo della potenza economica italiana, a quella di U. Spirito, che vide nel c. la soluzione del problema proprietario. La legge del 5 febbr. 1934 assegnò alle corporazioni il diritto di emettere norme giuridiche (ordinanze corporative) riguardanti la disciplina della produzione, i rapporti di lavoro, le tariffe delle prestazioni e dei beni di consumo. I membri del loro Consiglio nazionale costituirono, insieme a quelli del Consiglio nazionale del Partito nazionale fascista, la Camera dei fasci e delle corporazioni (6 nov. 1938).