Costantino
Figlio di un Giovanni, proveniva da famiglia di origine siriana, ma apparteneva al clero romano, dove aveva percorso la sua carriera ecclesiastica, raggiungendo il grado di suddiacono regionario (O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio, p. 381). Anche se le fonti non dicono nulla a proposito, era forse fratello di papa Sisinnio, come lui siriano d'origine e come lui figlio di un Giovanni.
La prima volta che viene menzionato dalle fonti a noi note è nel 680, quando, insieme con i presbiteri Giorgio e Teodoro e con il diacono Giovanni (il futuro pontefice, quinto di questo nome), fu scelto a rappresentare il papa Agatone e la Chiesa romana nella delegazione inviata a Bisanzio con l'incarico di difendere dinanzi al VI concilio ecumenico il punto di vista delle Chiese occidentali sulla controversia monotelitica, quale era emerso nel corso del sinodo romano del 27 marzo di quello stesso anno e quale appariva delineato nei due documenti che la legazione portava a Costantinopoli: la lettera collegiale, sottoscritta dai centoventicinque vescovi presenti ai lavori del sinodo romano, e l'epistola indirizzata per l'occasione dal papa all'imperatore Costantino IV. Facevano parte della delegazione inviata da Roma anche il presbitero Teodoro, in rappresentanza della Chiesa di Ravenna, ed i vescovi di Reggio, Giovanni, di Patèrno, Abbondanzio, e di Porto, Giovanni; nonché i delegati dei monasteri greci di Roma. Insieme con i colleghi, C. giunse a Costantinopoli il 10 settembre (F. Dölger, Regesten der Kaiserurkunden des oströmischen Reiches, I, München-Berlin 1924, nr. 244; erra il Liber pontificalis della Chiesa romana [p. 350], che pone tale arrivo al 10 novembre), e partecipò ai lavori del concilio, che, apertosi il 7 novembre 680, si concluse il 16 settembre dell'anno successivo. La notizia della scomparsa di Agatone, morto il 10 gennaio 681, e dell'elezione al soglio pontificio di Leone II, comunicata personalmente dall'imperatore il 10 marzo a C. ed agli altri delegati romani, se ridusse la possibilità di manovra di questi ultimi, non pregiudicò tuttavia i risultati del concilio, che sancì solennemente la condanna delle dottrine monotelitiche sulla base dei principi dogmatici definiti, nelle loro lettere, da papa Agatone e dai padri riuniti nel sinodo romano del marzo del 680. C. ed i suoi colleghi rientrarono in Roma nell'estate del 682 portando, nel loro testo greco, gli atti ufficiali del concilio, la professione di fede votata dall'assemblea e l'indirizzo di omaggio da questa rivolta all'imperatore nella seduta conclusiva, nonché la lettera con la quale i padri conciliari esponevano al pontefice - rivolgendosi ad Agatone come ancora vivente - la sostanza delle deliberazioni prese e gli chiedevano di approvarle con un proprio documento. Recavano inoltre, insieme con le ordinanze imperiali che ratificavano e rendevano esecutivi gli atti stessi del concilio (un editto e due rescritti, il primo dei quali, in data 13 dicembre 681, era indirizzato a Leone II, e l'altro, del 23 dicembre, era diretto alle Chiese sottoposte alla giurisdizione del vescovo di Roma), anche il consenso di Costantino IV alla consacrazione del nuovo pontefice e le "divales iussiones" con cui, giusta la richiesta di Agatone, veniva diminuito l'imponibile del patrimonium beati Petri in Calabria e in Sicilia. Poco dopo, il 17 agosto, Leone II venne consacrato papa.
C. doveva essere persona conosciuta e bene accetta a Bisanzio o, almeno, doveva essersi fatto apprezzare così nella capitale, come a Roma, in occasione del delicato incarico da lui svolto durante il VI concilio ecumenico, se nel 683 Leone II lo nominò suo apocrisiario presso la corte imperiale e volle affidargli il compito di portare a Costantino IV la sua risposta al rescritto del 13 dicembre 681.
Nella lettera, datata 7 maggio 683, il papa informava il sovrano dell'arrivo a Roma dei delegati occidentali di ritorno dal concilio; ratificava, con l'autorità di s. Pietro, le deliberazioni conciliari; sottolineava, in coperta polemica con il messaggio dell'imperatore, l'apporto decisivo che la Chiesa romana aveva dato alla definizione delle dottrine ortodosse ed al ristabilimento della pace religiosa; presentava infine, come suo inviato ufficiale, il suddiacono regionario Costantino. Mandandolo a Bisanzio, Leone II ottemperava ad un invito dello stesso sovrano, il quale nella sua missiva aveva posto in evidenza il valore della costante presenza nella capitale di un nunzio pontificio.
Dopo quest'anno, per quasi un quarto di secolo il nome di C. non ricorre più nelle fonti a noi note. Nulla possiamo dunque dire circa i progressi della sua carriera sotto i pontefici che, dopo la morte di Leone II (3 luglio 683), si succedettero sulla cattedra di s. Pietro: Benedetto II, Giovanni V, Conone, Sergio I, Giovanni VI, Giovanni VII, Sisinnio. Allo stesso modo, nulla possiamo dire della sua posizione nei confronti del dissidio religioso e politico riapertosi fra Roma e Bisanzio da quando, tra il 693 ed il 695, Giustiniano II aveva tentato di far arrestare il papa Sergio I, che si era rifiutato di confermare e di sottoscrivere gli atti della Quinisexta synodus in quanto vi ravvisava contenute norme "extra ritum ecclesiasticum".
L'immediata reazione dei reparti imperiali di stanza nell'Esarcato, nella Pentapoli e nel Ducato di Roma, aveva allora impedito al protospatario Zaccaria, incaricato dell'arresto, di portare a termine la sua missione, salvando il pontefice da un destino simile a quello toccato al papa Martino I, ma aveva inflitto all'autorità centrale una umiliazione che aveva portato ad una crisi del regime. Sul finire del 695, infatti, Giustiniano II era stato rovesciato da un pronunciamento militare, mutilato del naso e della lingua, esiliato a Cherson, in Crimea. Il succedersi sul soglio imperiale, in rapida vicenda, di Leonzio (695-698) e di Tiberio III Apsimaro (698-705) e le convulsioni che si accompagnarono a tali avvenimenti, furono lo specchio della gravità della crisi. In Italia, nel 701, solo l'intervento e la mediazione di Giovanni VI, da poco consacrato papa, avevano posto termine ad una sedizione delle truppe bizantine contro il patrizio Teofilatto, l'esarca inviato da Tiberio III, ed avevano permesso al rappresentante dell'imperatore di superare il difficile momento. Tornato sul trono con l'appoggio del khan dei Bulgari, Tervel, Giustiniano II aveva colpito con ferocia disumana i suoi nemici, dando inizio ad un regime di terrore sistematico (705, seconda metà). Una volta catturati, Tiberio III e Leonzio erano stati esposti al pubblico ludibrio e giustiziati; la stessa fine avevano fatto i loro principali fautori e quanti, nel 685, avevano appoggiato la rivolta. Il patriarca stesso di Costantinopoli, che aveva sostenuto ed incoronato Leonzio, era stato deposto ed accecato. Non doveva tardare il momento in cui, una volta consolidatosi al potere in Oriente, Giustiniano II avrebbe preso le sue vendette anche nei confronti di chi, nei territori italiani di dominio bizantino, aveva contribuito all'umiliazione dell'autorità imperiale nelle persone del protospatario Zaccaria, prima, e del patrizio Teofilatto, poi. Un primo avviso di ciò che si preparava per l'Italia, monito a coloro che l'imperatore riteneva colpevoli di alto tradimento, era stato dato dall'arrivo a Roma del deposto ed accecato patriarca Callinico. Poco dopo erano giunti nella città due vescovi, latori di un messaggio col quale Giustiniano II sollecitava dal papa la convocazione di un concilio che risolvesse i problemi sollevati dalla Quinisexta synodus, di cui trasmetteva gli atti. Giovanni VII, compiendo un gesto che sollevò un vivo malcontento negli ambienti del patriarchio lateranense, aveva preferito non prendere posizione, rimandando indietro gli emissari imperiali senza aver ratificato le discusse definizioni sinodali, ma anche senza avervi apportato modifiche.
Scomparso Sisinnio (4 febbraio 708), venne eletto a succedergli C., che fu consacrato il 25 marzo. Sulla sua elezione, così come su quella dei suoi predecessori da Conone allo stesso Sisinnio, dovevano aver senza dubbio pesato considerazioni che lo facevano ritenere in quel momento come l'unico candidato bene accetto così alle autorità bizantine come agli ambienti cittadini ad esse più favorevoli, e non sgradito ai gruppi di potere e agli elementi più legati alla tradizione romana. Il nuovo papa assumeva tuttavia il pontificato in un momento particolarmente difficile per l'Italia e per la stessa Chiesa di Roma. Ai timori di ciò che era logico attendersi da Giustiniano II, si aggiungevano le preoccupazioni destate dalla potenza araba in continua espansione e l'incombente minaccia rappresentata dai Longobardi di Benevento. Non era stato ancora inviato un nuovo esarca che sostituisse Teofilatto, richiamato a Bisanzio. Rivelano lo stato di tensione esistente in Roma sia il fatto che la locale Zecca aveva cessato di battere moneta, sia il provvedimento preso dal papa Sisinnio, subito dopo la sua consacrazione (15 gennaio 708), di far attivare le fornaci per la calce necessaria ai lavori di ripristino della cerchia muraria cittadina. Quanto a Giustiniano II, l'imperatore, prima di iniziare la repressione nei territori di dominio bizantino nella penisola, cercò di manovrare in modo da spezzare l'unità d'intenti che si era stabilita in Italia intorno alla persona del papa: da un lato, fece in modo che il pontefice abbandonasse - sia pure temporaneamente - Roma; mirò, dall'altro, a separare Roma da Ravenna, puntando sull'antica aspirazione di quest'ultima all'autonomia, autonomia che le era stata riconosciuta solennemente dall'imperatore Costante II all'epoca dell'arcivescovo Mauro (circa 644-673) con un privilegio di autocefalia, cui aveva però poco dopo rinunziato l'arcivescovo Teodoro (673-693). Uno dei primi risultati dei maneggi dell'imperatore fu un episodio gravemente lesivo dell'autorità di C. e della stessa Sede apostolica, accaduto alcuni mesi dopo la scomparsa dell'arcivescovo di Ravenna Damiano, morto il 13 maggio 708. Tale episodio, che venne interpretato negli ambienti del patriarchio lateranense appunto come il frutto di pressioni bizantine, stette ad indicare come si fosse allora spezzato l'accordo che negli ultimi trenta anni aveva caratterizzato l'azione delle Chiese di Roma e di Ravenna.
Il successore di Damiano, Felice, dopo essere stato eletto, si recò, per ricevervi la consacrazione episcopale dalle mani di C., a Roma, dove giunse nell'aprile del 709, secondo l'attestazione di Agnello (ma nel 708, dopo il 13 di maggio, se si accetta quanto afferma un'iscrizione dell'antico campanile di Comacchio, che lo indica come vescovo già in quell'anno: A. Samaritani, I vescovi di Comacchio, Padova 1961, pp. 6 s.). Nel corso della cerimonia, però, il nuovo presule si rifiutò di sottoscrivere, in aggiunta alla promissio fidei (la professione scritta di fede ortodossa), anche gli altri due documenti che i vescovi sottoposti alla giurisdizione di Roma erano tenuti a firmare: la cautio, cioè l'impegno scritto ad attenersi alle norme disciplinari e liturgiche del ministero pastorale; e l'indiculum iuramenti, cioè il testo del giuramento episcopale a s. Pietro e al papa, che il neoconsacrato doveva deporre sulla tomba del principe degli apostoli. Fu lo stesso C. che, di fronte al fermo diniego di Felice, depose in sua vece i documenti prescritti "in sacratissima confessione beati Petri apostoli".
Lo sbigottimento prodotto dal gesto offensivo di Felice fu in parte compensato dall'impressione causata da altri eventi, che ebbero allora larga eco e che furono testimonianza di fede cristiana e insieme di devozione alla Sede di Roma. In quello stesso anno 709, tra gli altri pellegrini "ad limina apostolorum", giunsero a Roma due principi anglosassoni: l'anziano re di Mercia, Cenred, e l'erede del Regno dell'Essex, Offa, "iuvenis amantissimae aetatis et venustatis". Li accompagnava il vescovo di Worcester, Ecgwin. Dopo aver piamente visitato i luoghi santi, Cenred volle abbracciare la vita religiosa e rivestire l'abito monastico nella città ove si venerava la tomba del principe degli apostoli; e presso S. Pietro, in ritiro di penitenza, il sovrano chiuse di lì a poco la sua vita. L'esempio venne seguito dal giovane Offa, il quale, "pari ductus devotione mentis" nei confronti dei ss. Pietro e Paolo, nell'Urbe si fece dare la tonsura e qui, come monaco, volle concludere la sua esistenza. Di eguale devozione nei confronti di Roma e della sua Chiesa dette prova il vescovo di York Wilfrid, il quale, prevedendo di non poterlo fare, come si era ripromesso, aveva poco prima della sua morte, avvenuta il 24 aprile 709, affidato ad inviati speciali l'incarico di portare in dono alle basiliche di S. Paolo fuori le Mura e di S. Maria Maggiore la quarta parte del tesoro del monastero in cui aveva trovato rifugio, dopo che il re di Northumbria lo aveva privato della sua sede episcopale.
Il 5 ottobre 710, accettando una proposta di Giustiniano II, C. si imbarcò a Porto per recarsi a Costantinopoli in visita ufficiale, l'ultima compiuta da un papa nella capitale dell'Impero. Nulla dicono le fonti sui rapporti sin'allora intercorsi tra il pontefice e l'imperatore. Si può tuttavia presumere che fossero state avviate trattative per una soluzione dei vari problemi religiosi, politici ed amministrativi ancora pendenti fra la Sede apostolica e l'Impero; che, in seguito ad esse, il sovrano si fosse convinto dell'utilità di un suo incontro personale col pontefice per esaminare e concludere autorevolmente i negoziati; che avessero accompagnato l'invito formale assicurazioni tali da far perdere a quest'ultimo ogni contenuto ed implicazione coercitivi, quali aveva avuto, invece, ai tempi di Sergio. C. si recava infatti a Bisanzio liberamente, nella pienezza dei suoi poteri e della sua dignità di capo della Chiesa cattolica. Lo dimostrano, da un lato, le istruzioni impartite da Giustiniano II ai funzionari dell'amministrazione imperiale, perché al pontefice, in qualsiasi luogo si recasse nel corso del suo viaggio, fossero tributati gli onori riservati alla persona dell'imperatore; e, dall'altro, il rilievo e il numero dei personaggi che in tale occasione fecero parte del seguito del papa: due vescovi - Niceta di Silva Candida e Giorgio di Porto -, i presbiteri Michele, Paolo e Giorgio, il diacono Gregorio (poi papa secondo di questo nome), il "secundicerius notariorum" Giorgio, il "primus defensorum" Giovanni, il "sacellarius" Cosma, il "nomenculator", lo "scriniarius" Sergio, e poi altri chierici di diversi ordini. Si trattava dunque dei maggiori esponenti della burocrazia pontificia e dell'episcopato e del clero immediatamente dipendente da Roma. C. toccò successivamente Napoli, dove si incontrò col nuovo patrizio ed esarca d'Italia, Giovanni "Rizocopo", Palermo - e qui fu accolto con grandi onori dal rappresentante imperiale in Sicilia, lo stratego e patrizio Teodoro -, Reggio, Otranto, dove passò l'inverno. Ripreso il mare nei primi mesi dell'anno successivo, C. fu accolto nelle acque dell'isola di Ceo da una squadra condotta dal comandante delle forze navali dell'Egeo, lo stratego Teofilo, che lo scortò con i suoi vascelli sino alla rada di Costantinopoli. Giustiniano II non era allora nella capitale, ma si trovava a Nicea di Bitinia, perciò C., quando sbarcò, trovò a riceverlo, al VII miglio da Bisanzio, Tiberio, il giovane figlio di Giustiniano e suo collega nel governo dell'Impero. A dargli il benvenuto, insieme con il sovrano, c'erano le alte cariche dello Stato e dell'amministrazione cittadina, il Senato, il patriarca Ciro con le rappresentanze del clero. Tra due ali di popolo festante, il papa ed il suo seguito, montati su cavalcature riccamente bardate appartenenti alle scuderie imperiali, fecero il loro ingresso solenne nella città attraverso la Porta d'Oro e, seguendo la via principale, raggiunsero il palazzo imperiale. Come residenza venne loro assegnato il palazzo di Galla Placidia, sede abituale degli apocrisiari pontifici.
Anche se il papa non doveva, a causa dell'origine orientale comune così a lui come a molti dei suoi più diretti collaboratori, essere stato alieno dall'accogliere l'invito di Giustiniano II e dall'intraprendere il viaggio a Costantinopoli, non gli doveva tuttavia essere sfuggito che i modi di ossequio formale, di amicizia e di venerazione ostentati nei suoi confronti dalle autorità bizantine e dallo stesso imperatore potevano in realtà coprire precisi progetti ai danni di Roma e che, nel momento in cui egli l'avesse lasciata, avrebbe fatto mancare alla città la difesa più efficace e l'avrebbe abbandonata alle rappresaglie imperiali. Fu appunto quello che avvenne non appena C. fu partito dall'Italia. Il nuovo esarca, Giovanni "Rizocopo", giunto con i suoi uomini a Roma, fece arrestare e decapitare, sotto l'accusa di alto tradimento, alcuni alti funzionari dell'amministrazione pontificia ed alcuni esponenti del clero: l'abate e presbitero Sergio, il diacono Saiulo, che ricopriva la carica di "vicedominus", l'"ordinator" Sergio e l'"arcarius" Pietro, tutti in fama di essere i capi dell'opposizione interna. Il drastico provvedimento non provocò reazioni tra il popolo, forse troppo provato dalla carestia che, dagli inizi del pontificato di C., desolava la città. Nessuna reazione neppure da parte delle truppe imperiali di stanza nell'Italia centrale e nell'Esarcato: a differenza di quanto era avvenuto in passato, Roma venne abbandonata a se stessa. Le milizie ravennati, tuttavia, si misero dopo questi avvenimenti in allarme e quando, tra la fine del 710 ed i primi dell'anno seguente, l'esarca giunse nella città adriatica per prenderne possesso, lo assassinarono. In questi tragici avvenimenti si volle riconoscere, a Roma, la mano vindice della giustizia divina. Allo stesso modo, quando alcuni mesi dopo il patrizio Teodoro soffocò nel sangue la rivolta di Ravenna - i principali responsabili furono trucidati, dopo un giudizio sommario; lo stesso arcivescovo Felice venne abbacinato ed esiliato nel Ponto -, il biografo di C. registrò questi fatti come punizione di Dio e di s. Pietro inflitta ai Ravennati per la superbia loro e per le colpe dei loro arcivescovi.
A Nicomedia, città sita ad eguale distanza da Costantinopoli e da Nicea, C. si incontrò con Giustiniano II, il quale davanti alla folla plaudente manifestò la sua venerazione per il pontefice chinandosi a baciargli i piedi e quindi scambiando con lui l'abbraccio di rito. Il convegno, di cui fu protagonista il diacono Gregorio, si concluse con una intesa generale raggiunta su basi tali da soddisfare ambedue le parti se al termine dei lavori il papa celebrò la messa ed amministrò la comunione a Giustiniano II, e questi confermò solennemente a C. i privilegi che Foca e Costante II avevano concesso alla Chiesa di Roma. Senza dubbio il papa era già stato informato, allora, dei tragici avvenimenti romani, ma doveva aver ritenuto più importante raggiungere un compromesso ragionevole con il sovrano, su cui poter basare un'intesa fra papato ed Impero. Nell'autunno del 711, dopo un viaggio reso lungo e tormentoso dalle frequenti indisposizioni che lo afflissero dopo la sua partenza da Nicomedia, C. sbarcò a Gaeta ed il 24 ottobre faceva il suo ingresso a Roma, fra il giubilo della popolazione. Quando, ai primi dell'anno successivo, giunse la notizia che Giustiniano II era morto assassinato nel dicembre del 711, grande fu il cordoglio di C. e degli ambienti a lui più vicini, anche a causa della politica religiosa perseguita dal nuovo imperatore, Filippico Bardane. Questi convocò nel 712 un conciliabolo, dal quale fece condannare i canoni approvati dal VI concilio ecumenico, ed inviò al papa una professione di fede ispirata alle dottrine monotelitiche, invitandolo ad accoglierla. C. rispose invece respingendo, spalleggiato dalla cittadinanza e dal clero romano, la professione di fede propostagli; fece poi esporre alla venerazione dei fedeli nella basilica di S. Pietro un'arca, sulle cui pareti esterne erano rappresentati i sei concili ecumenici e nel cui interno erano custoditi i loro atti.
Dal campo religioso, l'opposizione romana passò ben presto a quello politico. Le autorità cittadine si rifiutarono di riconoscere come sovrano legittimo Filippico Bardane, l'usurpatore macchiato di eresia, e decretarono di non accogliere documenti emessi a suo nome, né di accettare monete che portassero la sua effigie e la sua iscrizione; vietarono di datare gli atti pubblici e le carte private secondo i suoi anni di regno; non permisero che egli venisse ricordato, come era uso, durante la celebrazione della messa e che il suo ritratto fosse posto nella cappella palatina di S. Cesario.
Attenendosi alla linea di condotta già seguita dai suoi predecessori in analoghe circostanze, C. rimase tuttavia estraneo a tale presa di posizione delle autorità municipali e cercò di mantenere la sua opposizione a Bisanzio nell'ambito strettamente religioso. Questo atteggiamento, motivato dalla preoccupazione di evitare la rottura dell'equilibrio delle forze in Italia in un momento in cui sempre più inquietante si profilava sull'Urbe la minaccia dei Longobardi di Spoleto, indusse C. ad intervenire quando, nel 713, la destituzione di Cristoforo, il duca di Roma favorevole alla linea politica adottata dalle magistrature cittadine, e l'arrivo di Pietro, il nuovo duca inviato da Filippico Bardane, provocarono violenti disordini e sanguinosi tafferugli, culminati in uno scontro sulla via Sacra, a poca distanza dalla chiesa di S. Adriano. Il papa, che risiedeva probabilmente nell'episcopio fatto costruire da Giovanni VII presso S. Maria Antiqua, inviò un gruppo di sacerdoti i quali, le croci ed i volumi del vangelo in mano, si intromisero fra i contendenti, ponendo fine alla zuffa: i sostenitori del duca Pietro poterono così porsi in salvo, proprio quando stavano per soccombere ed essere massacrati. Nonostante gli sforzi del pontefice, tuttavia, la situazione in Roma rimase assai tesa: il gesto di C., anzi, fu deplorato dai circoli dirigenti locali e negli stessi ambienti del patriarchio lateranense. Solo la notizia, giunta a Roma nel mese di settembre, che il 3 giugno Filippico Bardane era stato travolto da un colpo di Stato e che gli era succeduto sul trono Anastasio II, poté pacificare un po' gli animi, facendo allontanare lo spettro di possibili rappresaglie bizantine nei confronti della città ribelle.
Una maggiore distensione portò, durante il suo soggiorno romano, il nuovo esarca d'Italia, il cubiculario e patrizio Scolasticio, il quale rassicurò C. sul problema religioso e, pur confermando la nomina di Pietro a duca di Roma, poté garantire alle autorità municipali che l'imperatore non avrebbe punito la loro precedente resistenza al potere centrale ed ai suoi rappresentanti nell'Urbe. Scolasticio era tra l'altro latore di una lettera di Anastasio II al pontefice, nella quale il sovrano dichiarava di professare la fede ortodossa secondo i canoni del VI concilio ecumenico. Anche il patriarca di Costantinopoli, Giovanni (VI), inviò suoi messaggi al papa: si giustificava per l'appoggio dato a Filippico Bardane e per l'azione svolta in favore del monotelismo; presentava poi una professione di fede in senso ortodosso e chiedeva infine il perdono per le proprie colpe. Un clima di buona volontà e di cooperazione sembrò essersi finalmente instaurato fra Roma e Bisanzio. In quello stesso torno di tempo C. riuscì a stabilire nuovamente buoni rapporti anche con la Chiesa di Ravenna. L'arcivescovo Felice era stato liberato dopo la rivoluzione che aveva rovesciato nel 711 Giustiniano II; era rientrato in patria dove, "licet oculorum lumine privatus", aveva riassunto il governo della sua diocesi. Qualche tempo dopo, certamente in seguito a contatti con Roma, si indusse "poenitentia motus" a fare ammenda dei suoi errori, sottomettendosi alla Sede apostolica e rimettendo al pontefice quei documenti che si era rifiutato di consegnare nel 709, nel momento della sua consacrazione. Il papa gli fece avere la sua assoluzione. C. dovette mantenere cordiali rapporti anche con la corte di Pavia: lo prova il modo con cui risolse il conflitto giurisdizionale fra la sede metropolitica di Milano e quella vescovile di Pavia.
La fuga dei presuli milanesi dinanzi all'invasione longobarda nel 569 ed il trasferimento della loro sede a Genova, in territorio di dominio bizantino, avevano di fatto cancellato i rapporti di dipendenza gerarchica che legavano alla sede metropolitica milanese le sue suffraganee. Così era stato anche per Pavia, i cui vescovi, durante la secolare assenza del loro metropolita, si erano abituati a far riferimento, per ogni occasione, direttamente a Roma. Questa tendenza verso un'autonomia sempre maggiore era senza dubbio appoggiata dai sovrani longobardi, che dovevano desiderare, per la loro capitale, un ordinamento speciale anche sul piano ecclesiastico. Dopo la conquista di Genova da parte di Rotari ed il rientro degli arcivescovi di Milano nella loro sede di titolarità, il problema giurisdizionale dei rapporti con le antiche suffraganee non venne affrontato: ve ne erano altri, e di più grave momento, che esigevano una soluzione immediata. Solo nel 711, quando era stato eletto alla cattedra di Pavia Armentario, l'arcivescovo di Milano, Benedetto, sollevò la questione, affermando che il nuovo eletto aveva l'obbligo di ricevere dalle sue mani la consacrazione episcopale. Armentario rispose contestando a Benedetto ogni titolo per intromettersi negli affari interni della sua diocesi e, rifacendosi alla prassi instauratasi negli ultimi cento anni, proclamò l'autonomia della sua Chiesa che, ribadì, era soggetta solo a quella romana. La vertenza venne portata davanti al papa. Sebbene Benedetto avesse compiuto un viaggio a Roma ed avesse esercitato pressioni per ottenere una soluzione favorevole, C. sanzionò solennemente la dipendenza diretta della Chiesa di Pavia dalla Sede apostolica, dichiarando che così era stato "a priscis temporibus". Con questo gesto amichevole il pontefice intendeva - come appare probabile - ringraziare in qualche modo il sovrano longobardo per la "donatio in litteris aureis" con cui il re Ariperto II aveva provveduto, tra il 705 ed il 707, a restituire alla Chiesa di Roma i beni fondiari che avevano costituito il patrimonium Alpim Cottiarum e che erano stati incamerati dal fisco regio all'epoca della conquista di Rotari.
C. morì a Roma il 9 aprile 715 e fu sepolto, come riferisce il Liber pontificalis, nella basilica di S. Pietro.
Con lui si chiudeva, come fa osservare il Bertolini (Roma di fronte a Bisanzio, pp. 422 s.), "l'epoca dei compromessi con Bisanzio caldeggiati dai papi di origine greca od orientale successi a Martino I"; dopo, "sarebbero prevalse [...] le correnti cittadine che, coscienti della propria forza, propugnavano un'azione più combattiva in difesa degli interessi spirituali e materiali di Roma [...] contro le offese degli imperatori e contro le violenze dei loro funzionari".
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