CULTO (lat. cultus, da colo "venero"; fr. culte; sp. culto; ted. Kultus; ingl. worship)
Culto significa in generale adorazione di Dio, relazione con ciò che è sacro, e in questo senso equivale a "religione"; ma significa anche, in particolare, le usanze e gli atti per mezzo dei quali il sentimento religioso si esprime. Nel passato si badò meno a questo aspetto esteriore, e le religioni vennero giudicate di preferenza dal punto di vista delle loro dottrine e dei loro miti. Ancora per F. Max Müller (v.), l'elemento mitico era nelle religioni antiche quello essenziale, e corrispondeva a una funzione originaria dello spirito umano primitivo. Questa concezione è oggi combattuta soprattutto per l'influsso dell'antropologia inglese (A. Lang, J. G. Frazer), in quanto vi si considera come elemento primario quello cultuale-rituale, e solo come secondario quello mitologico. E la ricerca si dirige ora di preferenza verso i costumi e le usanze del culto, che contornano le religioni, per scoprire attraverso di essi quel che vi è di caratteristico nelle singole religioni e in ultima analisi anche le radici dalle quali spunta la vita religiosa in generale.
Per tutti gli usi e simboli del culto son valide le parole di H. B. Alexander: "deve sempre tenere in mente (ed è troppo spesso dimenticato) che le idee religiose o sono delle immagini o non sono nulla. Il grande fatto psichico elementare è che l'atto del culto non è mai un atto realistico. Esso si muove e vive in un'atmosfera di doppio significato: la penna, il ciotolo, il segno geometrico, la parola cantata, il pane sacramentale, la carne dei sacrifizî non sono mai quel che sembrano essere nella nuda realtà sensibile. Le loro sacre qualità derivano da modi soprasensibili di esperienza".
Il culto nelle religioni extracristiane.
Culto e magia. - Si parla tuttavia di culto anche nel senso più ristretto della parola, distinguendo gli atti veri e proprî del culto da quegli usi inferiori, che vengono designati di solito col te mine di "magia": è praticamente utile per l'analisi storico-religiosa il conservare questa distinzione soprattutto per i casi in cui gli usi superiori e quelli infenori si scindono gli uni dagli altri, o in cui, invece, s'intrecciano e confondono insieme. E si constata con ciò, nel fondamentale atteggiamento religioso, una distinzione essenziale pur nella difficoltà di determinarne bene i limiti. Si è tentato di far questa delimitazione intendendo come culto quello rivolto agli esseri superiori, alle divinità personificate, mentre la magia sarebbe diretta soltanto verso esseri demoniaci, o tutt'al più verso spiriti non personali o verso le anime dei defunti. Questa distinzione è in generale giusta, ma non è sempre sufficiente nei singoli casi, giacché la distinzione fra potenze demoniache e potenze divine è molto oscillante, come si vede già nell'uso greco della parola daimon. E anche quanto alle anime si potrebbe parlare ora di culto, ora di magia; oltre a ciò, infine, vi sono riti magici che non hanno relazione né con l'uno né con l'altra. Più conveniente di questa definizione fatta secondo l'oggetto del culto è quella che tien conto del rapporto che vi si manifesta rispetto alla potenza, che ne è oggetto: magico è, in questo senso, il procedimento di esorcismo e di scongiuro, cultuale quello di adorazione.
Le usanze magiche corrispondono alla concezione più primitiva della natura, secondo la quale si crede all'immediata esistenza, nella natura, di forze e volontà, causa di tutti i fenomeni naturali, che, senza dipendere da coordinamento di sorta, agiscano solo secondo il proprio capriccio. Perciò l'uomo deve tenere a freno queste forze o piegarle in suo favore, per creare le condizioni più favorevoli per la sua vita. Per quanto appaiano differenti i singoli casi, essi sono con ciò collegati tutti da questo elemento comune, che il mago sta al di sopra di quelle potenze in quanto conosce l'arte di difendersene o, meglio ancora, di impadronirsene. L'esorcismo o lo scongiuro consistono appunto in tale costrizione della potenza a cui si riferiscono. La volontà dell'uomo è qui l'elemento decisivo, al quale quelle realtà devono sottomettersi ciecamente. Il mago, il medico, il capo, il sacerdote, e forse anche il padre di famiglia, posseggono la forza soprannaturale o sanno conquistarla. Per questo la magia è distinta, e anzi diametralmente opposta, all'adorazione religiosa vera e propria, che pone il suo oggetto come entità superiore, in quanto il devoto riconosce la sua inferiorità e cerca appunto aiuto e beneficio dall'essere a cui rivolge le sue suppliche. Solo nel caso in cui si osa di voler dirigere la divinità secondo il proprio desiderio, la funzione del culto assume, invece, il carattere magico. Il che accade spesso là dove la tecnica del culto è talmente avanzata nel suo sviluppo da diventare autonoma, inducendo a credere che l'esatta esecuzione del sacrificio eserciti una potenza coercitiva sulle divinità (allo stesso modo che un'esatta formula magica sui demoni), come appare in modo particolarmente chiaro nel sistema sacrificale dell'antica India.
Culto e società. - Nei tempi più recenti si è rilevato di preferenza il carattere sociale nella vita del culto, secondo una concezione rappresentata soprattutto dal francese Émile Durkheim e dalla sua scuola (Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, Parigi 1912; Hubert e Mauss, Mélanges d'histoire des religions, Parigi 1909), e si è molto insistito - senza voler con ciò segnare i limiti fra la magia e la religione - sull'importanza dell'individuo nella magia a differenza di quel che accade nel culto. Secondo questa concezione, mentre la funzione del culto viene compiuta in nome della collettività, il procedimento magico dipende solo dal singolo mago o capo. Ma vi sono molte cerimonie, e proprio presso i primitivi, che esprimono i desiderî e manifestano la forza della tribù, e che devono certamente essere definite come magiche (danze e giuochi prima della caccia o della guerra, cerimonie funebri ecc.). E si deve anche tener presente l'osservazione su cui lo stesso Durkheim insiste molto, che l'individuo primitivo esiste solo come parte della tribù e che il capo e il sacerdote posseggono il loro potere solo in quanto sono rappresentanti della tribù.
Questo elemento collettivo si manifesta ancora più chiaramente nella vera e propria "religione di culto": questa è sempre un'organizzazione, al di fuori della quale il singolo individuo resta privo di valore. Viene stabilita una sfera sacra, la quale, per così dire, forma l'anima della società, un centro intorno a cui si svolgono i rapporti con le potenze soprasensibili, che dominano la collettività e signoreggiano le condizioni della sua vita: insomma una sorgente di forze, alla quale però si può attingere solo in forma collettiva ed ufficiale, e nella maggior parte dei casi solo per mezzo di intermediarî, i quali rappresentano da una parte la società e dall'altra le potenze superiori: i sacerdoti. Di qui la definizione del Durkheim: "Una religione è un sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cose sacre, cioè separate, interdette: credenze e pratiche che uniscono in una sola comunità morale, detta chiesa, tutti coloro che vi aderiscono" (Les formes élément., p. 65). Ma questa definizione della "religione" vale in realtà solo per la "religione di culto" (Kultreligion). In tutte le religioni superiori vi è o un'evoluzione generale o singole tendenze, che si allontanano dalle "cose sacre", dalla santità che si può toccar con mano, e vedono proprio nella religiosità collettiva un pericolo per la vera devozione. Così nel cristianesimo protestante come nel buddhismo, nel taoismo cinese, e dappertutto nella mistica e nella religiosità filosofica, esiste una tendenza verso lo spiritualismo e l'individualismo, che si ribellerebbe alla definizione della religione su riportata. Di questa tendenza la storia delle religioni deve tener conto come di qualunque altro fenomeno religioso; ma da essa si può fino a un certo punto prescindere nella considerazione della vita del culto.
La sfera del culto. - In ogni luogo dove esiste un culto tipico, viene determinata una sfera sacra, in cui sono concentrate le potenze e dalla quale parte la salvezza. Questa sfera si estende nello spazio e nel tempo, cioè occupa un determinato luogo, e un determinato periodo di tempo, che vien fissato dal ciclo delle feste. Questi due elementi sono i portatori della vita universale ed appartengono in modo essenziale all'organizzazione della coscienza primitiva. Perciò una tale sfera è immancabile già nel più primitivo stadio religioso, ed è caratteristica anche per la magia. Il cerchio magico, il momento opportuno appartengono alla maggior parte degli atti magici; il principio però si sviluppa propriamente solo nelle grandi religioni. Il presupposto dell'intero sistema è il tabu, il divieto di accostarsi a certe cose o persone, che non si possono toccare, perché sono piene di un potere sinistro. Questo potere è di fatto la stessa forza benefattrice della tribù, che, per un contatto indebito, andrebbe perduta. Questo divieto si estende anche a intere caste o classi, ai nomi, ai momenti e ai luoghi sacri, a tutto ciò che appartiene agli dei e agli spiriti, ai sacerdoti, insomma alla sfera del sacro. Quel che importa è il conservare intatta questa sorgente di forza; perciò si tiene il più possibile lontano il profano dal sacro, per poter trarre da questo, all'occasione, tanto maggiore utilità.
Il luogo sacro si trova già presso i popoli primitivi: sentiamo infatti parlare di quei luoghi misteriosi, i quali, contornati da pietre, da pali intagliati o da pertiche con teste di cavalli, si manifestano come tali che nessun profano possa entrarvi. Qui vengono compiute le sacre cerimonie, qui viene consacrata la gioventù all'età virile, qui vengono offerti i sacrifizî e sono tenuti i conciliaboli importanti. Si sente anche parlare di un luogo in una foresta dove dimorano gli spiriti degli antenati. Ivi si recano le donne per aver prole, ivi vengono conservati i sacri oggetti (p. es. i churinga dei negri Australiani) nei quali stanno nascoste le anime e la felicità della tribù. Tacito racconta di una sorgente salina, che si trovava nel paese degli Ermunduri, dove si potevano trovare gli dei e dove gli uomini potevano essere esauditi nei loro desiderî. E riferisce anche che i Batavi si riunivano in un bosco sacro per macchinar piani contro i Romani. E così dovunque. La Palestina era tutta piena di luoghi sacri, la storia dei quali, cioè le leggende che vi si riferiscono, occupa gran parte del Genesi. I profeti protestarono contro i sacrifizî offerti sulle colline: e così in Grecia e in altri paesi le colline offrirono luoghi preferiti per il culto. L'antico templum romano non era in origine un edificio, ma un luogo delimitato, probabilmente di forma quadrata, dove aveva luogo l'osservazione del volo degli uccelli (e a ciò corrisponde l'etimologia della parola templum "quel che è separato, tagliato" come il greco "recinto sacro", da τέμνω "taglio"). Il sacrifizio indiano antico (vedico) era offerto all'aria aperta su un posto scelto a tale scopo, che veniva in precedenza consacrato da cerimonie di ogni sorta, fra le quali quella del solco fatto con l'aratro per segnarne i limiti rispetto al territorio profano. Anche i Persiani, seguaci di Zarathustra, offrivano sacrifizî all'aperto, che i Greci guardavano con meraviglia. Solo dai tempi dei più tardi Achemenidi è attestato in Persia un servizio divino celebrato nel tempio. La forma primitiva corrispondente al tempio edificato è la grotta o l'antro, dove sta nascosta la divinità, forse nell'aspetto di qualche animale, o un'abitazione, dove viene tenuto un culto degli antenati.
Fra i luoghi sacri, particolarmente ricchi di forze che assumono importanza per l'andamento della vita umana, sono gli oracoli. Queste forze promanano nella maggior parte dei casi dalle potenze sotterranee; perciò gli oracoli sono situati generalmente in prossimità di grotte o crepacci o presso i luoghi di sepoltura. In Grecia la maggior parte dei culti di oracoli erano dedicati alle divinità ctonie (sotterranee), come p. es. a Delfi, alla dea della terra, Gea. In Dodona la gente si sdraiava per terra per ricevere predizioni in sogno, e tali incubazioni erano usate ancora alla fine dell'età classica nel tempio di Asclepio a Epidauro. I popoli primitivi cercano di preferenza luoghi abitati dalle anime degli antenati, e l'uso degli oracoli è in fiore dovunque si trovino culti animistici.
Col progresso della civiltà i luoghi sacri vengono contraddistinti con l'edificazione di un tempio, che per lo più serve per abitazione delle divinità, la grotta o la semplice abitazione non rispondendo più alle nuove esigenze. Veri e proprî templi furono eretti per la prima volta nei luoghi in cui un più complesso servizio sacro, o immagini di divinità più artisticamente elaborate esigevano un riparo, o in cui (come in Egitto, a Delfi, ecc.) un numeroso gruppo di sacerdoti aveva bisogno di essere alloggiato. Il tempio antico (come risulta già dalla parola greca ναός, che deriva da ναίω "abito"), era l'abitazione del dio, che soggiornava poi propriamente in una piccola cella, la quale, per le costruzioni che, insieme con porticati, vi furono annesse davanti e dietro, venne a formare un edifizio di considerevoli dimensioni. L'altare era situato al di fuori, sulla spianata davanti al tempio. A Roma, dove i templi erano generalmente di piccole dimensioni, sembra che il tempio di forma rotonda, di cui ci dànno esempio quelli di Vesta a Tivoli e a Roma, sia stato un'imitazione dell'antica casa italica. In forma caratteristica, l'originaria abitazione è stata conservata in funzione di tempio dallo shintoismo giapponese. Così, gli Jacuti siberiani, quando vogliono celebrare un ufficio divino, costruiscono una "jurta" cioè una casa di tipo antico, con un'apertura nel tetto per l'uscita del fumo. E, analogamente, il santuario degli Ebrei era in origine solo una tenda (v. tempio).
L'antico culto reso all'abitazione del dio era, soprattutto nelle religioni animistiche, concentrato attorno al focolare: la dea Hestia dei Greci non era quasi certamente altro che il focolare stesso. Qui si scorge uno (ma non l'unico) dei modi in cui ebbe origine l'altare (v.). All'aperto l'altare trae origine spesso - come si vede presso gl'Israeliti - da una pietra sacrificale, o da un mucchio di pietre. L'altare ctonio dei Greci era una fossa preparata appositamente per ricevere il sangue e per condurlo poi giù agli esseri sotterranei. Al culto dei morti si riferiscono altari eretti sulle tombe, al culto del cielo altari edificati all'aperto, che sono derivati dal culto prima tenuto sulle colline. Il più grande altare del mondo, l'altare del cielo di Pechino - una colossale terrazza rotonda di marmo - tradisce ancora, con la sua forma, tale sua origine. In alcuni culti, come p. es. in quello shintoistico, troviamo in luogo dell'altare la semplice tavola domestica. Tali mensae si trovavano anche nel tempio romano. Un nuovo e maggior tipo di tempio, rispetto a quello dell'antichità, sorse con la chiesa cristiana (v. basilica e chiesa) e in quanto vi si radunava una comunità e vi si bandiva un verbo, lo spunto architettonico poteva esser preso dalla basilica (cioè dall'edificio del mercato) dei Romani. Nello stesso modo anche la moschea maomettana si trasformò in una casa della comunità, mentre il primitivo masgid era soltanto (secondo il significato della parola) un luogo di preghiera.
La sfera del culto si estende poi, in culti pienamente sviluppati, a più vasti campi, venendo posta in relazione col cosmo, per acquistar con ciò un'assoluta stabilità. L' "orientamento" in rapporto a costellazioni o al corso del sole sta a base della costruzione dei templi egiziani, allo stesso modo in cui l'antico templum romano è situato secondo i punti cardinali. Questo orientamento, che domina anche in antico, nelle fondazioni delle città (come si può vedere tuttora a Pechino), mira evidentemente a realizzare l'idea, attinta dall'astrologia, di un riflesso di leggì celesti sulla terra. La costruzione del tempio o della città riceve, per tale corrispondenza con l'eterna struttura del cielo, un che di eterno, di invincibile, una certa importanza cosmica; la città diventa una città eterna. Anche la misurazione del terreno civico posto fuori delle mura fu fatta a Roma seguendo principî analoghi. L'originaria "limitazione", da cui secondo il diritto romano dipendeva ogni proprietà fondiaria, era stata tracciata da Giove subito dopo la creazione del mondo; e quando essa veniva ulteriormente compiuta, era considerata come un atto di Iupiter Terminus, sotto la protezione del quale stavano tutti i limites. Anche la proprietà privata, che fosse stata misurata secondo queste regole eterne, diveniva partecipe della stessa eterna protezione divina, di cui fruiva lo stato. La misurazione e la consacrazione religiosa del terreno viene compiuta ancor oggi in Cina secondo la scienza magica del fêng-shui (vento e acqua) con grande dottrina e con la tecnica più raffinata. Specialmente nella costruzione delle tombe si procura che il "Tao" ossia il corso dell'universo, che produce il clima (determinato dal vento e dall'acqua), possa agire senza ostacolo e, per così dire, concentrarsi. Tutto il territorio viene sottoposto a questo sistema di geomantica, in quanto gli esperti del fêng-shui pongono a base delle loro determinazioni di luogo le forme dei monti e dei colli, le sinuosità dei fiumi e dei ruscelli, perfino le sagome delle case, dei templi, delle rocce e delle pietre. Nel campo cristiano si è conservato un certo orientamento nella costruzione delle chiese e dei cimiteri.
Non meno degne di considerazione, per la loro efficacia normativa sulla vita, sono le determinazioni temporali del culto, che al culto forniscono il contenuto. Infatti la "festa" è un centro di forze, e il tempo della festa deve essere misurato più in senso qualitativo che quantitativo: le feriae possono durare un giorno o un mese, ma la loro efficacia sta sempre nel singolo momento. In origine distribuite in rapporto ai lavori dell'anno, soprattutto in rapporto ai periodi della vita agricola (come si riconosce chiaramente nelle antiche feste degli Ebrei: Pasqua - festa degli agnelli; Pentecoste - raccolta del grano; festa dei Tabernacoli - vendemmia, e così via) le feste, e con ciò il computo del tempo, furono a poco a poco fissate secondo i fenomeni astronomici, in quanto si venne attribuendo ai corpi celesti un sempre maggior influsso sulla vita; in tal modo le fasi della luna vennero a costituire il fondamento della maggior parte dei calendarî delle feste. Più tardi si aggiunsero le feste solari; il solstizio d'inverno, p. es., influì sulla fissazione della festa del Natale cristiano.
La festa significava prima, e significa spesso ancora, un rifiorire della vita, un rinnovarsi della gioia di vivere e della socievolezza. Insieme, si svilupparono nella festa molti elementi estetici: danza e musica, processioni e canti, rappresentazioni drammatiche ecc. Presso gli antichi Greci, come presso gli odierni Indù, la festa sacrificale non consisteva soltanto in sacrifizî e in altri atti rituali. Era insieme festa popolare e mercato, dove si avvicendavano spettacoli ginnastici e teatrali con processioni solenni e, presso gl'Indù, con atti di ascetismo. La festa religiosa assunse così, in origine, una grande importanza sociale e divenne per la vita intera del popolo una forza impulsiva, senza la quale esso difficilmente avrebbe potuto innalzarsi al di sopra delle innate tradizioni di famiglia e di tribù. Quale importanza non hanno avuto, per il panellenismo, la festa panatenaica, o le feste olimpiche? E quale movimento hanno prodotto nell'umanità i pellegrinaggi degl'Indù e dei maomettani, così come dei cristiani!
Procedimenti del culto. - Fra gli atti del culto il sacrificio appare come il più importante. Esso abbraccia un così vasto campo di vita religiosa ed ha un così lungo sviluppo storico, che, dalle sue origini magiche giù giù attraverso il politeismo, dove esso tocca il culmine del suo sviluppo, assume sempre più un'importanza superiore al mero aspetto materiale del culto, e continua a vivere, in conformità della sua ideale natura, nella liturgia monoteistica e nella religiosità morale e spiritualizzata. Circa le singole funzioni sacrificali e le varie specie v. sacrificio: qui indicheremo solo le linee direttive del suo sviluppo. In linea generale si può distinguere un procedimento sacrificale negativo e uno positivo. Il primo appare essenzialmente come un atto di difesa e di espiazione; il secondo come un atto di donazione, di acquisto, o di alleanza, o come preghiera e ringraziamento. Il sacrificio compiuto allo scopo di difesa ha la sua origine nella magia, ma si può seguirne lo sviluppo anche in gradi assai superiori dell'istituzione sacrificale. Chiari esempî di sacrifici offerti a scopo di difesa sono p. es. quelli compiuti in occasione di costruzioni, in cui un essere vivente, animale o uomo, viene ucciso o addirittura sepolto vivo nel luogo della costruzione per placare l'ira del demone, che possedeva in origine il terreno. Il sacrificio delle primizie e le usanze concernenti l'ultimo covone si possono spiegare nello stesso modo: anche il campo coltivato appartiene a un demone, il quale permette che se ne raccolgano i frutti, se viene soddisfatto in qualche modo. La μῆνις ("ira") degli dei greci, che si cerca di placare con offerte di sacrifizî e con processioni, ha lo stesso carattere demonico. Infatti il sacrificio serve qui per lo scongiuro dell'evento naturale: un procedimento che si può osservare anche nei molti sacrifici offerti alla pioggia, come, anzitutto, nel grande sacrificio del soma nella religione vedica. I sacrifici offerti nei singoli momenti dell'anno, come quelli del novilunio, del plenilunio, del solstizio ecc., mirano anch'essi, in fondo, a contribuire all'andamento regolare di questi eventi importanti. Essi acquistano con ciò un aspetto positivo, ma il loro intento è pur sempre quello di prevenire un male che può accadere. In occasione di eventi pericolosi per la vita di un popolo (guerra, peste e simili) questi sacrifici possono assumere un andamento sinistro: si pensi ai grandi massacri umani dei Cartaginesi, degli Aztechi, e perfino dei Germani. Già qui agisce l'idea dell'espiazione, in quanto nella calamità si vede l'ira del dio o delle potenze della natura. Ma vi si aggiunge presto un momento soggettivo ed etico, quando la disgrazia che si cerca di allontanare viene considerata come un fatto accaduto per colpa degli uomini. I sacrifici che in tal caso vengono offerti mirano a compiere la purificazione di un uomo, di una tribù o di una località, in quanto, con atti sia di semplice purificazione, sia di penitenza o di espiazione, si cercano di ristabilire i buoni rapporti fra il dio e l'uomo. Dalla sfera universale ciò trapassa poi anche in quella individuale, e si realizza per mezzo di sacrifici di penitenza e di purificazione personale, di ascetismo e di altri esercizî espiatorî.
Più simpatica è la considerazione del lato positivo del sacrificio: i doni, i sacramenti e le espressioni della preghiera e della devozione, che accompagnano questi atti. A base di essi sta infatti il presupposto generale, che fra la divinità e l'uomo vi siano rapporti di amicizia. Presso i Semiti questo presupposto si sviluppò nell'idea, che la divinità e l'uomo avessero stretto un patto di alleanza (berit), a vantaggio d'interessi comuni, e cioè della lotta contro i demoni e contro la loro ostile potenza nella natura. Un'alleanza che ha per scopo di contribuire al progresso degli uomini e del loro mondo per mezzo del benevolo aiuto degli dei, e così anche di rendere più efficace la sfera d'azione della divinità, appare anche chiaramente nella religione di Zarathustra, dove la comune lotta contro il diavolo abbraccia tutto l'andamento del mondo e dovrà poi condurre alla vittoria finale. Di genere assai inferiore erano invece i rapporti con la divinità in una grande religione di culto quale fu quella degli antichi Indù. Le pompose offerte di doni che le venivano fatte avevano per fine abbastanza evidente un incremento del benessere materiale degli uomini. Un do ut des dava a tutto il procedimento un aspetto antipatico di contratto di compra-vendita: "ecco l'offerta, dove sono i tuoi doni?". Questo motivo domina anche generalmente l'offerta di doni votivi, i quali, per tale loro riferimento a un voto, costituiscono una specie di pagamento anticipato, e con ciò una coazione di futuri atti della divinità. I doni votivi ricevettero, tuttavia, col progresso della civiltà, l'aspetto più nobile del ringraziamento: come, soprattutto, presso i Greci, tra cui questa forma di sacrificio ebbe il massimo fiore (v. voto). In generale si può dire che i rapporti con le divinità ebbero presso i Greci un'accentuazione meno utilitaria che presso gli altri popoli politeistici. Un più pio sentimento predomina nell'età aurea di questa religione: anzitutto la coscienza che ogni bene della vita sia dono degli dei e che il destino degli uomini dipenda dagl'immortali.
I sacrifici cruenti sono giustamente considerati, a paragone degl'incruenti, come una forma di culto più rozza; e sono stati di fatto aboliti col progredire della civiltà e con l'elevarsi del sentimento religioso; tuttavia essi mirano spesso al rapporto con la divinità in modo più diretto che non molti sacrifici di vegetali, che hanno solo un valore magico. Certo, il sangue può agire anche solo in funzione di scongiuro; l'uccisione dell'animale ha però un significato che supera il semplice spargimento del sangue e la mera offerta della carne. Qui vale la definizione: "Il sacrificio è un mezzo, per il profano, di comunicare col sacro per l'intermediario di una vittima" (Hubert e Mauss). Quando questo rito sacrificale si trova nella sfera del culto degli animali e del totemismo, è permesso di considerare, col Robertson Smith, l'animale del sacrificio come un rappresentante della divinità, poiché la consacrazione preliminare dell'animale lo identifica in certo modo col dio. Il banchetto sacrificale, che segue, mira a raggiungere una comunione, anzi addirittura una certa identificazione fra il dio e i seguaci del suo culto: come si vede chiaramente nelle religioni semitiche, e anche nel culto greco di Dioniso e in altri misteri simili. I riti di mistero sono infatti dei culti chiusi, riservati per una certa cerchia di devoti, nei quali s'insiste energicamente sull'idea della parentela con la divinità, che le cerimonie mirano appunto a stabilire. Siamo con ciò condotti nella sfera delle usanze che in certo senso potrebbero dirsi sacramentali, le quali si possono rintracciare già nel totemismo, ma influiscono in tutti i banchetti sacrali, e dovunque contribuiscono a ingenerare l'idea dell'unione fra l'uomo e Dio - in questo senso, quindi, fomentano il più profondo motivo della fede in Dio. Però i sacrifici servono nello stesso tempo anche al diretto mantenimento degli dei, quando essi vengono considerati come esseri umani: un'usanza che si sviluppò evidentetemente sul terreno dell'animismo, dove sorge spontanea l'idea di conservare la forza vitale, nelle tombe, a quelle anime dei defunti dalle quali dipende il bene della tribù e della famiglia. Ciò può farsi col semplice spargimento di sangue, come per es., a Micene "per saziare di sangue le anime", o con l'offerta di cibi prelibati, come accade specialmente in Egitto o in Cina. L'influenza che questo esercita sui culti divini risulta chiara dalle narrazioni babilonesi ed egiziane del diluvio universale o dal mito greco di Demetra, dove agli dei si procura appunto il vitto per mezzo di sacrifici, quando gli uomini sono afflitti dalle maggiori calamità.
Attorno al rito sacrificale si sono sviluppate le altre usanze di culto; le purificazioni e le penitenze della consacrazione preliminare, le danze e i giochi (che divengono poi drammi), i canti e la musica. Ognuna di queste usanze ha nelle varie religioni il suo campo, in cui risalta in modo speciale. Dove cessa il sacrificio cruento e predomina il sentimento morale, come nel parsismo, nel tardo giudaismo e, in parte, nell'Islam, le purificazioni appaiono come regola religiosa. Nell'India si sviluppa, accanto al culto sacrificale, l'ascetismo, che assume la parte principale nella vita religiosa. Presso i Greci, esteti di lor natura, in prima linea stanno i giochi sacri e i drammi; mentre l'innografia si eleva a splendida altezza, sia in rapporto col culto sacrificale, sia al di fuori di questo rapporto, nei Veda, nel libro dei Salmi e nella Chiesa cristiana.
Con la spiritualizzazione della religione passano in seconda linea anche le immagini divine, che nella maggior parte dei casi sono collegate col culto dei sacrifici. Religioni elevate, come il parsismo e il giudaismo, erano fin dalla loro origine prive di immagini: un fatto che destò molta sorpresa nella tarda antichità. Come i profeti infierirono contro le immagini divine delle religioni circostanti, così i filosofi dell'antichità classica derisero il culto delle immagini quasi con le stesse parole usate poi dall'apostolo Paolo. Questo culto è tuttavia ancora in fiore in grandi religioni dell'odierno paganesimo, nell'induismo e in Cina; e l'ingenua idea primitiva, che il dio sia presente nella sua immagine e quindi abiti personalmente nella sua casa, dove viene servito e mantenuto come un principe, è ancora viva nell'induismo. Dove sparisce l'idolo esso viene per lo più sostituito da simboli; o, quando si mantengono le immagini, esse vengono considerate come simboli, e a volte anche unicamente come opere d'arte.
Col maggior approfondimento del rapporto fra l'uomo e la divinità la vita del culto si concentra sempre più attorno alla preghiera. Da figurazioni pervenuteci fin dai tempi più antichi (già fin da quelli sumerici, v. babilonia e assiria), conosciamo la serie delle posizioni usate nella preghiera, che si connette strettamente con l'andamento della vita religiosa. Queste posizioni hanno una origine in parte sociale e in parte magico-ascetica. Il prostrarsi, il toccar la terra con la fronte, il semplice genuflettersi, sono da intendere come atteggiamenti di sottomissione, d'incapacità di difesa. La posizione retta e rivolta in alto dei Babilonesi, Israeliti, Greci e Romani è certo più dignitosa, ma pur sempre espressione di varî stati d'animo, come si vede nella differenza fra l'atteggiamento franco dell'adorante greco e la testa avvolta del romano. La genuflessione, conservatasi nella religione cristiana, esprime una devozione più profonda, al pari delle mani giunte, che in origine possono avere significato l'incapacità di difesa, o la voluta inazione. I movimenti del corpo, i battimani e i salti durante la preghiera o le processioni sono in origine esercizî estatici. Sono di origine magica molte delle posizioni delle mani che accompagnano la preghiera e la contemplazione. Ciò vale soprattutto per le posizioni delle dita usate dai buddhisti (mūdras), a ognuna delle quali viene attribuito un significato riposto. Nello sviluppo della preghiera sta la vera misura della religiosità. La grossolana aspirazione a beni materiali, che assume persino il carattere della compra; l'interessata adulazione, che ricorda lo stile delle corti orientali; la paura della vendetta o dell'invidia della divinità capricciosa; la sfiducia nel proprio valore di fronte all'ira dell'inesorabile, e lo snervante languore della mistica erotica: tutti questi sono stadî inferiori o degenerati della preghiera, al disopra dei quali s'innalzano i più nobili stati d'animo delle religioni profetiche: le preghiere, in cui parla la sicurezza della fede, la gioiosa coscienza della salute, fuoco interno ed entusiasmo, speranza e riconoscenza. Anche dove la preghiera ad alta voce viene separata dalla oratio mentalis (come accade negli ambienti mistici), l'anima può elevarsi a quell'universale senso d'intimità, venerazione e riconoscenza, di cui è compenetrata ogni vera religiosità e che si manifesterà sempre come il più nobile atteggiamento spirituale dell'uomo.
Bibl.: Chantepie de la Saussaye, Lehrbuch der Religionsgeschichte, 4ª ed., Tubinga 1925; Hastings, Encyclopaedia of Religion and Ethics, art. Worship, pp. 752-812; A. Lang, Mith, Ritual and Religion, 2ª ed., Londra 1899; S. Reinach, Cultes, Mythes et Religions, Parigi 1905-13; Goblet d'Alviella, Croyances, Rites, Institutions, Parigi 1911; A. van Gennep, Religions, moeurs et légendes, Parigi 1908-14; F. B. Jevons, Introduction to the history of Religion, Londra 1908; A. C. Haddon, Magic and Fetishism, Londra 1906; R. R. Marett, The Threshold of Religion, Londra 1914; F. Heiler, Das Gebet, 4ª ed., Monaco 1921; H. Nissen, Orientation, Berlino 1906-10.
Il culto cristiano.
È il complesso di atti, riti e usi diversi mediante i quali si rende onore e ossequio a Dio nella società religiosa istituita da Gesù Cristo, che è la Chiesa, la quale ricevette dal suo Fondatore il mandato di custodire e di trasmettere a tutte le genti un divino deposito di insegnamenti, precetti e riti, costituenti l'essenza della religione cristiana. La parte più importante del culto cristiano consiste negli atti dell'intelligenza e della volontà, che costituiscono il "culto interno", condizione indispensabile di ogni sincera pratica religiosa; mentre il "culto esterno" (manifestazioni sensibili con parole, gesti, ecc.) ne è la naturale esplicazione e il necessario sussidio.
Storia. - Il culto cristiano, come il cristianesimo di cui è parte, non è, almeno nei suoi elementi essenziali, il risultato di un'evoluzione puramente naturale della religiosità umana, ma istituzione di Gesù Cristo che diede molteplici insegnamenti ed esempî personali circa il culto privato e pubblico (quindi necessariamente esterno) e istituì alcuni riti aventi speciale significato ed efficacia, intimamente connessi con il dogma e con la morale cristiana, e che costituiscono l'essenza del nuovo culto da lui stabilito. Gesù dopo quaranta giorni di ritiro, digiuno e preghiera, vuole ricevere nel Giordano il battesimo da Giovanni (Matt., III, 15); insegna la necessità della continua preghiera (Luca, XVIII, 1) umile, fiduciosa e senza molte parole, fatta nell'intimità della propria stanza, e ne propone una formula nel Pater noster (Matt., VI, 6 segg.); loda quella del pubblicano pentito (Luc., XVIII, 16); ammonisce che deve essere accompagnata dall'osservanza dei divini comandamenti (Matt., VI, 21), e riprende i Farisei per essere il loro culto puramente esteriore (Matt., XV, 1-20; XXIII, 13-36). Interviene al servizio religioso della sinagoga e del tempio, partecipa alle feste giudaiche, specialmente alla Pasqua, e quando prega alza gli occhi al cielo (Giov., XI, 41), si prostra profondamente (Matt., XVII, 39), ripete la stessa preghiera; approva le manifestazioni di pietà della peccatrice pentita (Luc., VII, 33 segg.) e la pia offerta della povera vedova al tempio; e infine annuncia alla Samaritana l'inizio di un nuovo culto "in spirito e verità" (Giov., IV, 21 segg.), che deve sostituire tanto i falsi culti (come quello dei Samaritani) quanto quello fino allora legittimo (il giudaico), che però come culto pubblico era ristretto a un sol luogo (Gerusalemme) e a un solo popolo.
Oggetto del nuovo culto è Dio quale con più piena rivelazione Gesù Cristo lo ha manifestato, non quasi dominatore severo la cui infinita grandezza incuta prevalentemente timore, ma piuttosto come padre che all'infinita santità e giustizia unisce un'infinita bontà e misericordia, e perciò ha mandato sulla terra il suo Figlio unigenito, per redimere il mondo e fare degli uomini altrettanti figli adottivi mediante i meriti e la grazia di Cristo; questa viene conferita all'anima fedele per mezzo di alcuni riti, istituiti da Cristo stesso (v. sacramenti), i quali la purificano da ogni colpa di peccato e la uniscono sempre più intimamente con lui autore della vita soprannaturale, unico e necessario mediatore della riconciliazione tra cielo e terra, e centro necessario di tutto il culto cristiano. Di questi riti basterà qui accennare ai principali: il lavacro (v. battesimo) "in acqua e Spirito Santo" (Giov., III, 5), "nel nome del Signore Gesù" (Atti, II, 38; e passim), sostanzialmente diverso da ogni abluzione rituale giudaica e dallo stesso battesimo di Giovanni il Battista (Matt., III, 11; Giov., I, 26-33), è il segno esteriore obbligatorio per l'ammissione alla comunità cristiana (Atti, X, 44-48; XI, 25 segg.). La Cena del Signore (v. eucaristia) è il vero sacrificio del Corpo e del Sangue di Cristo, offerto a Dio Padre per la santificazione del mondo, e come tale è l'atto massimo del culto cristiano; ma insieme è pure sacramento partecipato ai fedeli per trasformarli spiritualmente in Cristo, mediante la virtù della carità. La Comunione eucaristica costituisce fino dalle origini il segno sensibile della permanente adesione alla legittima comunità e gerarchia, e il centro di tutta la vita cristiana. Dopo la morte di Gesù, gli apostoli, che ne hanno ricevuto, oltre al potere di giurisdizione e di magistero, anche la pienezza del sacerdozio cristiano (v. ordine sacro), celebrano il sacrificio della nuova legge e regolano le pratiche del Maestro. Se per qualche tempo continuano a frequentare il tempio giudaico nelle ore della preghiera, tuttavia presiedono altrove alle adunanze di soli cristiani per rinnovare la cena del Signore; dànno particolari prescrizioni circa la diversa attività e il diverso abbigliamento degli uomini e delle donne nelle adunanze di culto (I Cor., XIV, 34 segg.; XI, 4 segg.) eliminano inconvenienti ed abusi (ivi, XI, 17-34) e se lasciano anche a semplici fedeli dotati dei carismi (v.) una certa libertà di improvvisare preghiere ed esortazioni morali, vigilano tuttavia a mantenere inalterata la genuinità e l'unità sostanziale del culto cristiano, proclamando che, come vi è un solo Dio, così si ha una sola fede, un solo battesimo (Efesî, IV, 5), un solo pane eucaristico (I Cor., X, 17), e che chi partecipa ai sacramenti di Cristo non si può contaminare né con riti idolatrici (ivi, X, 20) né con i sacrifici dell'abrogato culto giudaico (Ebrei, VII).
Fin dall'età apostolica s'inizia un ciclo cristiano di tempi sacri, poiché la domenica, giorno commemorativo della risurrezione di Cristo, e in cui viene rinnovata la celebrazione eucaristica, si sostituisce come festa religiosa al sabato giudaico; ai giorni di digiuno settimanale parimente giudaici, lunedì e giovedì, si sostituiscono il mercoledì e venerdì; infine la solennità di Pasqua e di Pentecoste, che ricordano i più importanti misteri cristiani, costituiscono l'inizio e la base di una serie annuale di feste religiose propriamente cristiane (v. calendario).
Dopo i tempi apostolici le manifestazioni del culto si sviluppano in conseguenza dell'esuberante vitalità della Chiesa e della progressiva intelligenza del dogma cristiano, come pure dell'adattamento, o della reazione, alle vicende storiche che la Chiesa attraversa: talvolta è lo stesso imperversare delle eresie che rende necessaria l'affermazione della vera dottrina, redatta in opportune formule (dossologie, inni, simboli) che vengono inserite tra le preghiere delle pubbliche adunanze. L'evoluzione del culto è propriamente omogenea secondo i principî contenuti nella rivelazione cristiana e sotto la direzione della legittima gerarchia. I riti stabiliti da Cristo restano immutati, ma intorno ad essi sorge progressivamente una fioritura di pratiche accessorie che, parlando ai sensi e all'intelligenza dei fedeli, rendono loro più accessibile il significato e l'efficacia delle istituzioni divine, e insieme meglio dispongono il loro animo a parteciparne più fruttuosamente.
Prescrizioni intorno alla preghiera privata, da farsi più volte al giorno, troviamo verso la fine del sec. I nella Didaché, I, 8 (v. apostolo), e, più tardi, in Tertulliano, Origene e S. Cipriano nei loro trattati sull'orazione. Ordinariamente si pregava stando in piedi con le braccia stese in forma di croce: di questa si rinnovava sulla fronte il segno a principio delle principali azioni. Del culto pubblico abbiamo notizie nella stessa Didache (IX, X, XIV); nella I Apologia di S. Giustino (capp. 51, 55-57), che descrive lo svolgimento già complesso del battesimo e dell'Eucaristia quale avveniva alla metà del sec. II; in S. Clemente papa (Corinzî, c. 59 segg.) che ci conserva il tipo della solenne preghiera cristiana quale soleva recitarsi dal vescovo nelle adunanze di culto; nelle lettere di S. Ignazio di Antiochia, che insiste sull'assoluta necessità di conservare l'unità del culto mediante la piena unione e subordinazione al vescovo come a Cristo in persona (Ad Trall., II, 1-2; Ad Smyrn., VIII, 1-2; Ad Philad., IV). Altre notizie si desumono dalle varie opere di Ippolito, dalla Didascalia e dalle Costituzioni apostoliche, dal Testamentum Domini e altri scritti antichi (v. liturgia).
Circa la fine del sec. II l'iscrizione di Abercio (v.) ci attesta l'unità della fede e del culto eucaristico nelle chiese dell'Oriente e dell'Occidente da lui visitate, e il legittimo uso cristiano della preghiera per i defunti. Già la lettera della chiesa di Smirne intorno al martirio di S. Policarpo e quella della chiesa di Lione sui martiri della Gallia, rispettivamente degli anni 155 e 177 (in Eusebio, Hist. Eccl., IV, 15; V, 1), ci dimostrano che la venerazione dei martiri "emuli e imitatori di Cristo", e delle loro reliquie "sante spoglie mortali... più preziose delle gemme insigni, e più eccelse che l'oro" era in quel tempo legittima e antica consuetudine. Al culto dei martiri seguirà, dopo la pace della Chiesa, quello dei santi, cioè vescovi, asceti, vergini consacrate a Dio, che nell'imitazione delle virtù di Cristo dànno prova di un eroismo incruento equivalente a un quotidiano martirio (Clem. Aless., Stromata, IV, 4; VII, 3; Girol., Vita Paulae, 31). Anche il culto della Vergine madre di Cristo, che già partecipava degli onori resi a Cristo nelle feste della natività e dell'infanzia, diviene esplicito e distinto, ed avrà poi sviluppi ulteriori a mano a mano che si svolgerà in forme sempre più varie la devozione fondamentale, che è quella verso Gesù Cristo (v.).
Dal principio del sec. IV nuove circostanze contribuiscono a intensificare e ampliare lo sviluppo delle forme esteriori del culto. Il cristianesimo, che con Costantino non è più religio illicita, diviene con Teodosio religione esclusiva dello stato. L'organizzazione del culto risente di questa nuova atmosfera di libertà e di favore, e insieme si adatta alle esigenze spirituali dei nuovi convertiti.
Vengono costruite sontuose basiliche (v.) dove si svolgono funzioni e officiature solenni, e viene largamente accolto il sussidio sia delle arti figurate sia del canto sacro. Si sviluppa ulteriormente il simbolismo delle cerimonie, e appropriate formule di preghiere ispirate alle principali verità della fede si vengono ormai fissando stabilmente. Si svolgono pubblicamente le processioni religiose, e si fanno più frequenti le lunghe peregrinazioni ai santuarî venerati, specialmente in Palestina, e alle tombe dei martiri. All'intima educazione religiosa del popolo fedele contribuiscono direttamente le esercitazioni di ascetismo e di culto praticate da catecumeni (v.) e, per coloro che dopo il battesimo sono notoriamente caduti in colpe gravi, le istituzioni penitenziali, anche pubbliche, dalla Chiesa aggiunte come complemento al sacramento della penitenza. Allo sviluppo del culto contribuiscono anche la nuova disciplina del sacramento del matrimonio e il culto tributato ai santi. Si diffonde ampiamente anche il culto delle reliquie (v.) dei martiri, della croce (v.) di Cristo e, con maggiori cautele e non senza contrasti, quello delle immagini sacre (v.). Che la Chiesa, nell'ammettere queste pratiche della pietà cristiana non si mostrasse troppo condiscendente verso forme di culto sostanzialmente paganeggianti, è dimostrato dagli scritti dei Padri e dagli atti dei concilî, che, respingendo ogni vera innovazione riguardo al dogma, non potevano poi tollerare infiltrazioni eterogenee nelle istituzioni di culto che hanno con quello così intima connessione. Tanto più che essi, particolarmente nei secoli IV e V, combatterono senza posa le varie forme di paganesimo latente nelle rozze moltitudini recentemente convertite (S. Agost., De morib. Eccles., c. 34; Contra Faust., 20, c. 21: istruttivi a questo proposito anche i ragguagli che dà Sulpicio Severo nei suoi scritti dedicati a S. Martino di Tours) e dovettero difendere le istituzioni ecclesiastiche dalle accuse di derivazioni pagane, non solo riguardo ai riti esteriori, ma anche riguardo all'oggetto stesso del culto (politeismo e idolatria), che venivano ripetute, dalla fine del sec. III in poi, da neoplatonici, manichei ed eretici, particolarmente da Porfirio, Jerocle, Giuliano l'Apostata, Fausto e Vigilanzio. Ad essi risposero specialmente San Girolamo e S. Agostino, ben distinguendo le varie forme di culto legittimo e debito da quelle indebitamente rese a divinità false, e rilevando che talune somiglianze, o soltanto apparenti o almeno in sé non riprovevoli, non costituivano alcuna difficoltà per il cristiano, che dal pagano differisce essenzialmente per la vera fede, la speranza, la carità e la vita virtuosa (S. Girol., Contra Viqil.; S. Agost., Sermo de Kalend., c. 2, n. 2; Contra Faust., 20, c. 23). Con queste discussioni può dirsi che le controversie intorno alle caratteristiche fondamentali del genuino culto cristiano sono ormai sostanzialmente esaurite. La venerazione delle immagini sacre sarà nuovamente trattata in occasione dell'aspra lotta dell'iconoclastia (v.), e poi solennemente definita nel II concilio ecumenico di Nicea del 786. Nei secoli successivi l'evoluzione del culto avviene, secondo la varia opportunità storica e l'utilità spirituale dei fedeli, in base agli stessi principî che l'hanno diretta nei primi secoli. Tali principî tradizionali furono dalla Chiesa solennemente riassunti e confermati nel concilio di Trento in occasione della Rifoma protestante.
Relazioni del culto cristiano con il giudaico e con i culti pagani. Poiché nei primi tempi la società cristiana era formata di persone provenienti dal giudaismo, non farà meraviglia il riscontrare alcuni elementi comuni di culto, quantunque non essenziali, tra le primitive adunanze cristiane e quelle delle sinagoghe della diaspora, specialmente quanto all'uso di alternare salmodie ed altri canti a letture di libri sacri, ad esortazioni corali e preghiere di ispirazione biblica, tanto più che i Salmi e gli altri libri dell'Antico Testamento furono accettati come ispirati dalla Chiesa cristiana, di cui anche molti usi cultuali accessorî hanno in tali Scritture fondamento e giustificazione. Ma a dimostrare l'originalità del culto cristiano sta il fatto che i suoi riti essenziali sono tutti di nuova istituzione, mentre quanto vi era di più sostanziale nella religione giudaica, come la circoncisione, l'unico tempio, i varî sacrifici, il riposo sabbatico, le feste religiose con carattere nazionale giudaico, la distinzione di animali puri e impuri, fu abbandonato.
Quanto ai culti pagani le somiglianze sono più apparenti e superficiali, e le dissomiglianze più profonde, a causa della sostanziale differenza tra il contenuto dottrinale e morale di ogni forma di paganesimo da una parte, e della religione cristiana dall'altra. Dal punto di vista storico la stessa opposizione che nel campo religioso fu tra pagani e cristiani nei primi tre secoli rendeva impossibile il passaggio di elementi essenziali di culto dagli uni agli altri; e dopo tale periodo il culto cristiano era troppo bene costituito in base a principî nuovi e con fisionomia propria, per poter accogliere infiltrazioni veramente eterogenee. Certe somiglianze molto generiche nell'uso di gesti determinati, processioni, lumi, acqua, incenso, fiori, vesti e ornamenti preziosi, oppure in riti simbolici di purificazione, o di unione mistica con la divinità, attestano soltanto l'unità fondamentale dell'umana natura in tutti i tempi e sotto tutti i climi, che ha modi molto limitati di esprimere sensibilmente concetti e sentimenti religiosi, e che, anche fuori del cristianesimo, ha cercato di dare da sé come meglio ha potuto una soluzione al problema religioso. Il culto cristiano quindi venne incontro, sia pure perfezionandole ed elevandole a un ordine superiore, alle migliori aspirazioni della natura umana. Né si può considerare come derivazione o sopravvivenza di usi pagani l'industriosa sostituzione, fatta dal sec. IV in poi, di forme secondarie di culto legittimo cristiano a feste, celebrazioni o osservanze di culti idolatrici o superstiziosi, per le quali le rozze popolazioni conservavano talora tanto più forte quanto più ingiustificato attaccamento (specialmente a boschi sacri, alture, fontane); lo stesso si dica dell'adattamento di templi pagani a chiese cristiane, che però generalmente non avviene prima del sec. V, mentre in Roma il primo esempio certo non è anteriore alla consacrazione cristiana del Pantheon dell'anno 610.
Il culto cristiano, quale è stato insegnato e praticato dalla Chiesa, dista ugualmente dalle concezioni estreme di chi lo vorrebbe ridotto esclusivamente, o quasi, a un culto interno, e di chi, pur ammettendo un complesso di pratiche esteriori, ne estenua il necessario fondamento razionale e dogmatico; ambedue queste concezioni concordano nel dare una spiegazione naturalistica all'origine, al contenuto e all'efficacia del culto e di tutta la religione cristiana, escludendone ogni elemento propriamente soprannaturale. Il culto professato dalla Chiesa per le sue doti di maestà religiosa e di piena corrispondenza alle esigenze umane, di estetica, e di pratica efficacia per elevare spiritualmente gl'individui e le moltitudini ha apportato nelle varie età un preziosissimo contributo al progresso dell'incivilimento umano in ogni campo.
V. tavv. XXV e XXVI.
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Il culto nel diritto canonico.
Nel diritto canonico si considera il culto divino - cioè quello che consiste nell'omaggio, nel riconoscimento della perfezione di Dio, della sua superiorità eminente e dei suoi diritti su ogni creatura, e che si estende anche ad altri esseri e a cose che hanno una speciale relazione con Dio - in quanto l'ordinare una tale materia rientra fra gli oggetti della podestà di giurisdizione o di governo che è nella Chiesa al fine di condurre gli uomini all'eterna salvezza. Il culto si distingue in tre specie: culto di latria, di iperdulia e di dulia (Cod. iur. can., c. 1253). Il culto di latria (λατρεία) è il culto supremo riservato al solo Dio, e cioè alla SS. Trinità e alle singole persone di essa, e a Cristo anche sotto le specie eucaristiche. Il culto di dulia (da δοῦλος, schiavo, servo) è il culto subordinato reso ai santi. Il culto di iperdulia è un culto speciale reso alla Vergine Maria in ragione della sua eccellenza particolare.
In relazione all'obbietto cui viene prestato, il culto si distingue ancora in assoluto (o diretto) e relativo. Quello assoluto concerne le persone (Dio, la Vergine, i santi); quello relativo le cose connesse alle persone della santità delle quali in certo modo partecipano; in quest'ultimo senso è ammesso il culto delle reliquie e delle immagini sacre, cioè non per sé stesse, ma in rapporto alle persone cui si riferiscono (can. 1255, § 2). Il culto può essere pubblico e privato. È pubblico se deferito in nome della Chiesa alle persone legittimamente deputate a ciò, mediante atti che per istituzione della Chiesa non possono avere per oggetto che Dio, i santi o i beati. Diversamente è culto privato.
Alla S. Sede soltanto appartiene di regolare il culto pubblico cattolico e i sacri riti. Le forme e i modi delle cerimonie e delle manifestazioni nelle quali il culto si esplica formano oggetto della liturgia (v.). Da questa va distinto il diritto liturgico, che definisce la competenza e il modo di ordinare il culto, e che solo si fa rientrare nel diritto canonico.
Il principio anzidetto, sancito nel Cod. iur. can. (c. 1257), per cui il diritto liturgico è riservato alla competenza della S. Sede, alla quale spetta in conseguenza di ordinare la sacra liturgia e di approvare i libri liturgici che contengono le regole e le formule ufficiali del culto (Messale, Breviario, Martirologio, Rituale, Pontificale, Caeremoniale Episcoporum), è stato introdotto nella Chiesa da tempo relativamente recente. Anteriormente era materia regolata dai diversi vescovi e concilî provinciali, onde grandi diversità rituali tra le chiese anche di una stessa nazione. Così si formarono le cosiddette diverse "famiglie liturgiche" (ad es. le liturgie occidentali si suddivisero secondo le regioni in Romana, Ambrosiana, Ravennate, Gallicana, Spagnola o Mozarabica, Celtica, costituitesi dal sec. V al sec. VIII). In seguito, essendo apparsa più opportuna, a mantenere l'unità della fede contro gli scismi e le eresie, l'unità della liturgia, i papi si adoprarono energicamente a tale scopo, e in tal senso si pronunciava il concilio Tridentino. Peraltro la S. Sede volle rispettare le liturgie orientali, e anzi ha fatto divieto agli orientali di mutare il proprio rito senza suo espresso consenso (v. da ultimo la costituzione 30 novembre 1894 Orientalium Dignitas Ecclesiarum, di Leone XIII).
Tra le norme in questa materia poste dal diritto canonico sono anzitutto da notare quelle che regolano la cosiddetta "comunicazione" con gli acattolici. Mentre non è proibita ai fedeli tale comunicazione nelle materie civili o profane, essa è vietata nelle cose sacre. Perciò è inibita la partecipazione o l'assistenza attiva alle cerimonie cultuali acattoliche: può soltanto essere tollerata una presenza passiva o semplicemente materiale per ragioni d'ufficio o di rappresentanza, e per gravi motivi (can. 1258).
Nell'esercizio del culto i ministri della Chiesa devono dipendere unicamente dai superiori ecclesiastici (can. 1260). Con questo principio si è voluta affermare l'indipendenza dell'autorità ecclesiastica, in materia di riti sacri, dall'autorità civile. La disposizione acquista interesse, se si consideri in rapporto all'intervento già voluto esercitare dagli stati in questa materia (v. chiesa, X, p. 36).
In ordine all'intervento dei fedeli nell'esercizio del culto pubblico, l'antica disciplina voleva che in chiesa gli uomini e le donne stessero separatamente. Il legislatore attuale non ne fa rigoroso precetto, pur raccomandandolo. Ai magistrati, per ragione del grado e della dignità, può essere assegnato in chiesa un posto distinto. A nessuno dei fedeli può invece essere riservato un posto speciale senza espresso consenso dell'Ordinario, e sempre avuto riguardo alla comodità degli altri fedeli. Tale concessione è sempre revocabile nonostante il decorso di qualsiasi tempo (can. 1263), così che ad essa è estraneo ogni carattere di servitù reale.
Nell'esplicazione del culto hanno grande importanza il canto e la musica sacra (v.), considerati parte integrante della liturgia. Precise norme e giustamente severe sono dettate al riguardo in leggi speciali (Motuproprio 22 nov. 1903 Inter pastoralis di Pio X; Costituzione 20 dicembre 1928 Divini cultus di Pio XI), con le quali va integrata la regola tradizionale, già accolta dal concilio di Trento (Sess. XVII, decr. de observandis; cfr. anche Caeremoniale Episcoporum, I, 28, nn. 11-12) e riprodotta nel codice, che vuole bandita dalle chiese ogni musica nella quale "vada frammisto alcunché di lascivo o di impuro" (can. 1264, § 1).
Dopo le disposizioni di carattere generale dianzi esposte, il diritto canonico detta varie norme particolari. Specialmente importanti quelle intorno alla custodia e al culto dell'Eucaristia (canone 1265-1275), nonché al culto dei santi (v.) e delle sacre immagini e reliquie (v.), rigorosamente disciplinato (can. 1276-1289). Di peculiare interesse giuridico sono le norme relative alle suppellettili sacre (can. 1296-1306) e che ne regolano l'uso, la cura, la benedizione, la consacrazione, ecc., nonché la loro devoluzione alla morte dei prelati e dei chierici beneficiarî, in genere, di cui esse si trovino in possesso. Rientrano infine nella materia cultuale, come atti straordinarî del culto divino, il voto (v.) e il giuramento (v.). Il diritto ne regola le forme, l'efficacia obbligatoria, le dispense (can. 1307-1321). Sono delitti contro il culto divino la superstizione, la bestemmia, il sacrilegio, la simonia.
Bibl.: F. X. Wernz, Jus decretalium, 2ª ed., Roma 1908, III, ii, p. 313 segg.; Ferreres, Institutiones canonicae, 2ª ed., Barcellona 1920, II, nn. 192-279; F. Cathrein, Filosofia morale, trad. ital., II, Firenze 1920, p. 42 segg.; Blat, Comment. textus cod. iur. can., III, ii, Roma 1923, nn. 119-193; Vermeersch e Creusen, Epitome iur. can., 2ª ed., Malines-Roma 1925, II, nn. 571-653; Cocchi, Comment. in cod. iur. can., III, iii, 2ª ed., Torino 1926, pp. 168-268; Chollet, Culte en general, in Dict. de théol. cath., III, Parigi 1923; Cange, Le Code de droit canonique, III, 2ª ed., Parigi 1929, nn. 54-79; e in genere i Commenti al Libro III, parte 3ª, del Cod. iur. can., con bibl.
Il culto nel diritto italiano.
I ministri del culto. - Il concetto di ministro del culto può assumere una diversa portata a seconda che lo si consideri rispetto al linguaggio ecclesiastico, o al significato dato usualmente all'espressione negli ordinamenti e nelle legislazioni degli stati.
Nella Chiesa cattolica il termine ministro, implicante l'idea di famulato o di servigio (cfr. Corinzî, IV, 1; Matt., XX, 26), si è applicato fin dai primi tempi in modo particolare al clero, come servitore di Dio e della società dei fedeli. Riferita al culto la parola assume però un significato più ampio. Invero ministri del culto si considerano non solo i chierici, cioè gli ascritti alla gerarchia di ordine - che sono peraltro i principali ministri del culto divino - ma anche le altre persone ecclesiastiche non ordinate, come gran parte dei regolari, e in senso più lato gli stessi laici. In particolare ministro dei sacramenti non è sempre necessariamente un chierico, e nel matrimonio ministri sono gli stessi contraenti. In molte comunioni protestanti, con uso che data da Calvino, sono chiamati ministri, semplicemente, i pastori o predicanti.
Nel linguaggio comune e legislativo per ministri del culto si intendono ordinariamente solo gli ecclesiastici e in genere, per i culti acattolici, le persone particolarmente addette alla loro amministrazione. La condizione di ministro di culto intesa nel senso predetto è produttiva, nel diritto dello stato, di determinate conseguenze giuridiche. Vigono in proposito disposizioni comuni a tutte le confessioni e disposizioni particolari a quella cattolica.
Norme comuni. - La posizione dei ministri del culto è qualificata nel diritto italiano principalmente: 1. Dalla incompatibilità (che talora sussiste per tutti i ministri di culto, e talora solo per quelli aventi cura d'anime) con talune cariche od uffici. Si tratta di incapacità stabilite volta a volta dal legislatore in considerazione dello speciale carattere di certe funzioni e della ritenuta convenienza che non vengano affidate a chi sia ministro di un culto. Tra queste incapacità sono quelle di coprire la carica di podestà, gli uffici di notaio, di esattore delle imposte, di esercitare le professioni di avvocato e di procuratore, ecc. Non ve n'ha alcuna invece per l'eleggibilità a deputato. In contrapposto alle restrizioni predette, vi hanno alcune speciali prerogative. Tali l'elettorato politico concesso in base al solo requisito di essere ministro di culto; l'appartenenza alle commissioni di vigilanza degli orfani di guerra; qualche agevolazione nel servizio militare, ecc. 2. Dalla concessione di particolari facoltà, quale quella di ricevere testamenti nei luoghi in cui domini la peste o altra malattia riputata contagiosa (art. 789 cod. civ.), e di celebrare matrimonî con effetti civili (v. matrimonio). Però, quanto ai ministri dei culti acattolici, nessun effetto civile può essere riconosciuto agli atti del proprio ministero da essi compiuti se la loro nomina non abbia avuto l'approvazione governativa (art. 3 cap., legge 24 giugno 1929, n. 1159). 3. Da una particolare protezione, consistente in una pena maggiore comminata per i delitti commessi contro di loro nell'esercizio o a causa delle loro funzioni (art. 61, n. 10 cod. pen.); e dalle più gravi sanzioni penali stabilite contro di loro per i delitti che essi commettano con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla loro qualità (art. 61, n. 9 cod. pen.), la quale viene inoltre ad essere assunta come elemento costitutivo di particolari delitti (quali l'eccitamento, nell'esercizio delle proprie funzioni, al dispregio delle istituzioni o all'inosservanza delle leggi e delle disposizioni delle autorità o ai doveri inerenti a un ufficio o esercizio pubblico, ovvero l'apologia di fatti contrarî alle leggi, disposizioni e doveri predetti: art. 327 cod. pen.). Infine non possono essere obbligati a deporre in giudizio penale su ciò che abbiano appreso nell'esercizio del proprio ministero (art. 351 cod. proc. pen.).
Norme particolari ai ministri di culto cattolico. - Questi assumono nel diritto italiano una posizione speciale, in relazione al carattere riconosciuto alla religione cattolica di religione dello stato (art. 1 dello Statuto del regno; art. 1 del Trattato fra la S. Sede e l'Italia, 11 febbraio 1929). Occorre premettere che, in linea generale, dei ministri del culto cattolico il diritto dello stato considera principalmente gli appartenenti al clero in senso stretto, ossia le persone che hanno ricevuto il sacramento dell'ordine. Tale principio però, se è osservato agli effetti positivi dell'appartenenza al clero, in quanto lo stato non considera sacerdote se non chi sia dichiarato tale dalla Chiesa, non è seguito in tutte le sue conseguenze per quanto concerne la permanenza del carattere sacro (canonicamente indelebile) anche nel sacerdote apostata, degradato, laicizzato, ecc.; onde nel diritto dello stato, secondo l'opinione prevalente, un sacerdote apostata non dovrebbe più essere considerato ministro di culto, e quindi non sussisterebbero più nei suoi confronti le speciali incapacità e prerogative derivanti per legge da tale qualità. Una restrizione tuttavia a tale tendenza di considerare gli ecclesiastici che abbiano abbandonato il ministero equiparati senz'altro ad ogni altro cittadino può ora vedersi nel Concordato tra la S. Sede e l'Italia, per il quale in ogni caso i sacerdoti apostati o irretiti da censura non potranno essere assunti né conservati in un insegnamento, in un ufficio, né in un impiego, nei quali siano a contatto immediato col pubblico (art. 5 u. p.).
Dei diritti speciali derivanti dall'ordinazione secondo il diritto canonico e che si concretano soprattutto nei quattro noti privilegi: canonis (cfr. Cod. iur. can., c. 119); fori (c. 120 § 1); immunitatis (can. 121); beneficium competentiae (can. 122), non è rimasta traccia nell'ordinamento dello stato quanto ai primi due. In ordine al priv. immunitatis, e in particolare per ciò che concerne il servizio militare, dal Concordato sono riconosciute ai chierici ordinati in sacris e ai religiosi notevoli agevolazioni, restando sempre dispensati dal presentarsi alla chiamata i sacerdoti con cura di anime. Infine, quanto al ben. competentiae, cioè al privilegio per cui i beni del chierico non possono essere oggetto nella loro totalità ad esecuzione reale, e intorno al quale antecedentemente vi erano dispareri, il Concordato ha ora stabilito che gli stipendî e gli altri assegni di cui godono gli ecclesiastici in ragione del loro ufficio sono esenti da pignorabilità nella stessa misura in cui lo sono gli stipendî e gli assegni degl'impiegati dello stato. Non potrebbe vedersi invece un residuo del privilegium fori nelle norme speciali dettate dal Concordato per i procedimenti penali a carico di ecclesiastici o religiosi (avviso all'Ordinario separatamente dai laici) (cfr. art. 8), norme suggerite da evidenti ragioni di convenienza, ma che non derogano al principio che gli ecclesiastici vanno soggetti alla giurisdizione ordinaria degli organi dello stato.
Le spese di culto. - Alle spese necessarie per l'amministrazione del culto, e alle quali non siano sufficienti i beni ecclesiastici può essere sopperito con prestazioni economiche dello stato e dei diversi enti pubblici.
Benché nella legislazione italiana fosse penetrato il principio che lo stato non debba mai sussidiare alcun culto, e che perciò le spese cultuali debbano essere sostenute da appositi enti le cui entrate originariamente provenivano esclusivamente da beni della Chiesa (quali il Fondo per il culto, il Fondo di beneficenza e religione per la città di Roma, gli Economati dei benefici vacanti), tale principio venne abbandonato nei riguardi della Chiesa cattolica.
Tuttavia l'intervento statale in tale senso non avviene che eccezionalmente in modo diretto (ad es. con le spese per chiese distrutte dal terremoto calabro-siculo del 1908, per chiese parrocchiali nelle regioni devastate dalla guerra, ecc.), mentre per contro si verifica largamente in modo indiretto col sussidiare il Fondo per il culto (v.), al quale fa carico la parte più rilevante degli oneri economici a favore della Chiesa. Fra questi, principali gli assegni al clero bisognoso, l'officiatura delle chiese già appartenenti ad enti soppressi e passate nel patrimonio indisponibile dello stato, l'adempimento degli oneri gravanti sugli enti soppressi e di cui il Fondo per il culto è l'erede, le indennità e sussidî, a missioni religiose all'estero, ecc. Notevole rilievo assumono anche, per sopperire alle spese di culto, i cespiti costituiti dalle prestazioni di enti pubblici diversi dallo stato, e in particolare dei comuni. Questi sono principalmente tenuti in tutto il regno alle spese di conservazione degli edifici serventi al culto pubblico nel caso di insufficienza di altri mezzi per provvedervi. L'adempimento di quest'obbligo (imposto dall'art. 329 della legge comunale e provinciale, testo unico 4 febbraio 1915, n. 148, in via transitoria) è lasciato, quanto alla somma da destinarsi e al momento più adatto, alla discrezionalità amministrativa del comune.
Oltre a quest'obbligo, di natura sussidiaria, imposto ai comuni, gli enti pubblici possono essere tenuti a sostenere spese di culto per varî titoli: a) per obbligazioni assunte contrattualmente; b) per fondazione, od obbligo imposto loro da un dante causa, mediante lasciti cum onere; c) per disposizioni di leggi di ex stati, non abrogate dal diritto italiano.
Si è sostenuto che per le opere pie dovrebbe essere eliminata ogni spesa di culto non obbligatoria, dato il loro fine unicamente di beneficenza; ma si è giustamente opposto a ciò che la spesa di culto può essere ugualmente necessaria per raggiungere completamente le finalità benefiche dell'opera, che trascendono il semplice sollievo delle miserie fisiche. Una controversia specialmente importante è sorta a proposito di enti, e in ispecie di comuni, che da oltre 30 anni sostengano pesi di culto e abbiano iscritta in bilancio la relativa spesa, senza che ne sia noto il titolo. Diversi comuni hanno ritenuto di potere in tal caso sospendere le prestazioni, e contro tale deliberazione sono insorti i rappresentanti degli enti ecclesiastici a cui profitto andava la spesa. La questione è stata variamente risoluta dalla dottrina e dalla giurisprudenza giudiziaria e amministrativa. Non è qui il luogo di diffondersi su questa e simili questioni di cui abbonda la materia delle spese di culto, tanto più complessa in quanto risente in molti punti delle diversità legislative del regime degli ex stati, e che dovrà indubbiamente essere oggetto, con la revisione della legislazione ecclesiastica resa necessaria dal Concordato del 1929, di una completa sistemazione.
Bibl.: F. Ruffini, Le spese di culto delle opere pie, Torino 1908; A. C. Jemolo, L'amministrazione ecclesiastica, in Primo tratt. compl. di dir. ammin. it. di V. E. Orlando, X, ii, Milano 1916, p. 204 segg.; id., Elementi di dir. eccles., Firenze 1927, p. 392 segg.; N. Coviello, Manuale di dir. ecclesiastico, a cura di V. Del Giudice, I, Roma 1922, p. 309 segg.; Galante, Man. di dir. ecclesiastico, 2ª edizione a cura di A. C. Jemolo, Milano 1923, p. 546 segg.; e in genere le trattazioni generali di diritto ecclesiastico italiano.
I culti acattolici. - La posizione giuridica dei culti dissidenti, rispetto a quella della confessione religiosa dominante in uno stato, assume nella storia dei popoli i caratteri più svariati. Dai regimi antichi di persecuzione a quelli attuali di parità legale, la loro storia si svolge attraverso aspre lotte, in cui cozzano principî religiosi e più ancora interessi politici: è la storia della intolleranza e della libertà religiosa. Rimandando per questo alla voce libertà, ci si limiterà qui a considerare la posizione giuridica dei culti acattolici in Italia.
Lo statuto albertino disponeva all'art. 1: "La religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi". Con questo articolo, al quale era evidentemente estraneo ogni intendimento di una "parità" dei diversi culti verso lo stato, mentre si voleva il mantenimento di un'unica Chiesa riconosciuta come Chiesa di Stato, restava intesa la non ammissione di nuove confessioni religiose, la privazione di ogni attributo onorifico per i culti acattolici esistenti e la limitazione della loro attività secondo le norme in vigore; inoltre per queste confessioni acattoliche doveva mantenersi il divieto di ogni forma di culto pubblico (cfr. Jemolo, in Rivista di dir. pubblico, 1913, I, p. 249 s.). Ma la legislazione successiva andò subito orientandosi verso il principio della parità. Così la legge sarda del 19 giugno 1848, n. 735, estesa poi alle altre provincie, stabiliva che "la differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici e all'ammissibilia alle cariche civili e militari" e, più tardi, la dizione del Codice penale del 1859 (lib. II, tit. 11,) circa i reati "contro la religione dello stato e gli altri culti" veniva sostituita nel codice penale del 1889 dalla distinzione fra culti "ammessi" e "non ammessi". Però non fu mai formulata alcuna disposizione generale relativa ai culti acattolici, né dalla legislazione italiana era stato introdotto l'istituto della ricognizione o ammissione legale di un culto da parte dello stato. Nonostante quindi la dichiarazione contenuta nell'art. i dello statuto, lo stato accordò uguale tutela e protezione a tutti i culti e attuò la completa equiparazione dei cittadini di fronte a sé, indipendentemente dalla loro confessione religiosa. È da notare al riguardo come ai valdesi il godimento dei diritti civili e politici fosse già stato accordato prima dello statuto, con le LL. PP. 18 febbraio 1848; mentre per gli israeliti, non essendosi ritenuto che l'art. 24 dello statuto importasse la loro equiparazione agli altri cittadini, occorsero nuove norme (art.1, l. 17 marzo 1848; r. d. 29 marzo 1848 e r. d. 15 aprile 1848) per ammetterli a tale equiparazione; la ricordata legge 19 giugno 1848 stabiliva poi il principio della parità in linea generale.
In seguito alla sistemazione dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica, avvenuta col Concordato 11 febbraio 1929, il legislatore italiano ritenne opportuno disciplinare con norme precise anche quanto concerneva l'esercizio degli altri culti. Ciò fu effettuato con la legge 24 giugno 1929, n. 1159 e relative norme, per l'attuazione di cui al r. d. 28 febbraio 1930, n. 289. Il carattere informatore della legge veniva così precisato nella relazione alla Camera del ministro Rocco: "Riservata... come è giusto, una particolare situazione giuridica alla religione cattolica, che è la religione dello stato, devesi consentire, in omaggio al principio della libertà di coscienza, che nessuno stato moderno potrebbe ripudiare, il libero esercizio di tutti i culti, le cui dottrine o i cui riti non siano contrarî all'ordine pubblico o al buon costume. Tale permesso, accordato ai seguaci dei culti acattolici, di liberamente dedicarsi alle pratiche religiose secondo i proprî convincimenti, non significa indifferentismo dello stato in materia religiosa, né tanto meno, adesione alle dottrine di tali culti. Esso invece è la pura e semplice conseguenza del principio generale di diritto pubblico, che ogni attività, la quale non sia in contrasto con le esigenze fondamentali della vita della società e dello stato, deve essere ritenuta lecita, e come tale, consentita e tutelata dalla legge. La formula, pertanto, usata dalle leggi posteriori allo statuto, e nel presente disegno di legge "culti ammessi nello stato" se pur giustamente più riguardosa di quella dello statuto "culti tollerati", non ha, dal punto di vista giuridico, sostanzialmente diverso significato. Lo stato, cioè, pur professando la religione cattolica, che è la religione della quasi totalità degli italiani, consente, e quindi tutela, anche l'esercizio degli altri culti, quando non ne derivi danno ai principî essenziali che reggono la vita dello stato".
I principî sostanziali affermati dal nuovo regolamento dei culti acattolici non vogliono quindi discostarsi da quelli del regime precedente. Notiamo al riguardo come la legge abbia cura di riaffermare il principio che la differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici e all'ammissibilità alle varie cariche (art. 4), e quello, già contenuto nell'art. 2 dell'abrogata legge delle Guarentigie, della libertà di discussione in materia religiosa (art. 5); essa inoltre, sempre in omaggio alla libertà di coscienza, consente ai genitori che non desiderino sia data ai loro figli l'istruzione religiosa cattolica nelle scuole pubbliche di chiederne la dispensa (art. 6). Ammessi dunque nello stato culti diversi dal cattolico, e conseguentemente lasciato libero l'esercizio pubblico di essi (art.1), la legge stabilisce che essi possano essere eretti in ente morale (art. 2), assumendo così di fronte all'autorità pubblica i diritti e gli obblighi inerenti alla qualità di persona giuridica, fra cui quelli relativi alla necessità dell'autorizzazione governativa per gli acquisti e le alienazioni di beni, oltre alle speciali norme di vigilanza e di controllo che possono essere stabilite nel decreto di erezione in ente morale. Come conseguenza dell'ammissione di un culto, i ministri di esso devono essere graditi al governo; perciò le loro nomine (art. 3) vanno notificate al Ministero della giustizia per l'approvazione, in mancanza della quale nessun effetto civile può essere riconosciuto agli atti del proprio ministero compiuti da tali ministri. In coerenza al principio introdotto dal Concordato, che cioè il matrimonio possa produrre effetti civili anche se non sia celebrato davanti all'ufficiale dello stato civile, la legge 24 giugno 1929 stabilisce che anche gli appartenenti a culti acattolici ammessi possano fare a meno di questa forma di celebrazione e valga anche per essi agli effetti civili il matrimonio contratto davanti al proprio ministro di culto. Nei loro riguardi però il matrimonio resta integralmente regolato dal codice civile, e il ministro del culto acattolico in sostanza agisce in veste di delegato dell'ufficiale di stato civile (v. matrimonio).
Le norme fondamentali poste dalla legge hanno avuto ampio sviluppo nel r. d. 28 febbraio 1930, n. 289. È disciplinato così quanto concerne l'esercizio pubblico dei culti ammessi. L'apertura dei templi ed oratorî deve essere chiesta da un ministro di culto approvato a termini dell'art. 3 della legge, e viene autorizzata con decreto reale. I ministri di culto approvati godono poi in sostanza delle prerogative concesse a quelli del culto cattolico, per quanto concerne la pubblicazione libera ed esente da tasse degli atti relativi al loro ministero, e la libera effettuazione di collette nell'interno e all'ingresso dei proprî edifici di culto. Parimenti, per quanto concerne l'assistenza religiosa dei ricoverati nei luoghi di cura, o internati nei luoghi di pena (art. 5), l'assistenza religiosa in caso di mobilitazione di militari acattolici (art. 8), nonché l'esenzione dalla chiamata alle armi per i ministri del culto, e il ritardo del servizio militare per gli studenti delle scuole teologiche e rabbiniche (art. 7, 9). A prescindere dalle altre norme, fra cui specialmente notevoli quelle che concernono le forme per l'erezione in ente morale degl'istituti dei culti acattolici e l'egplicazione della vigilanza e tutela governativa su di essi (art. 10 e ss.), è importante ricordare da ultimo come nel caso che i seguaci di un culto siano nella maggioranza cittadini italiani, oppure al ministro del culto spetti la facoltà di celebrare matrimonî con effetti civili, il ministro del culto per essere approvato deve avere la cittadinanza italiana e saper parlare la lingua italiana (art. 21): principio analogo a quello stabilito dall'art. 22 del Concordato per i ministri del culto cattolico.
Nelle colonie e possedimenti italiani i culti acattolici assumono una particolare importanza, in relazione alla prevalenza numerica dei loro appartenenti. Principio generale è quello della libertà di coscienza e di culto, e in linea di massima è stata rispettata l'organizzazione preesistente allo stabilimento del dominio italiano, mantenendosi anzi privilegi giurisdizionali notevoli alle autorità religiose dei varî culti in materia di statuto personale (e per talune di essi anche in materia successoria) che rimane regolato dalle norme interne di ciascuna confessione.
Bibl.: F. Ruffini, La libertà religiosa, I, Torino 1901; id., Corso di dir. eccles. ital., Torino 1924; J. B. Sägmüller, Lehrbuch des katholischen Kirchenrechts, I, Friburgo 1925, §§ 14, 17; E. Rignano, Uguaglianza civile e libertà dei culti, 3ª edizione, Livorno 1885; C. Calisse, Chiesa, in Digesto italiano, nn. 214-232; A. C. Jemolo, L'amministrazione ecclesiastica, Milano 1916, pp. 380-410; id., Elementi di dir. eccles., Firenze 1927, pp. 437-456; Galante, Man. di dir. eccles., 2ª ed., a cura di A. C. Jemolo, Milano 1923. Cfr. poi le trattazioni generali di dir. eccles. ital. dello Scaduto e dello Schiappoli, passim, nonché G. Giorgi, La dottrina delle pers. giuridiche, VI, n. 132 segg.; A. Piacentini, La legge 24 giugno 1929, n. 1159, Roma 1929; A. C. Jemolo, Religione dello stato e confessioni annesse, in Nuovi studi di dir. econ. e politica, 1930, fasc. 1°. Per le colonie v. Galante, op. cit., p. 541 segg.; A. Bertola, Rassegna di dir. col., in Riv. di dir. pubblico, 1920; id., Studi sopra il regime dei culti nelle isole Egee, in Il diritto ecclesiastico, 1928 segg.; E. Cucinotta, Istituz. di dir. colon. ital., Roma 1930, p. 287 segg.