DALMAZIA (A. T., 24-25-26)
Situazione e nome. - La Dalmazia è una regione geografica naturale, costituita dalla sottile fascia costiera orientale dell'Adriatico e dal suo corteo di isole, dal golfo del Quarnaro alla foce della Boiana. Nettamente isolata alle spalle, verso la Penisola Balcanica, dall'orlo precipite delle Alpi Bebie (Monti Velebit) e delle Alpi Dinariche, ha caratteri geografici, climatici e biologici contrastanti col retroterra balcanico, cosicché risulta terra a sé stante ed essenzialmente adriatica.
Strabone vuol far derivare il suo nome da Delminio (v.), antica capitale dei Dalmati (v. appresso), i quali fin dal sec. II a. C., scesi dall'interno, occuparono la zona costiera meridionale, estendendovi il nome Dalmazia. Divenuta provincia romana, nel sec. I, sotto Augusto, abbracciava tutta la costa orientale dell'Adriatico, e si estendeva nell'interno fino alla Sava (v. illirico). Al termine del sec. III, arrivava ancora fino al Lago di Scutari; e solo con l'invasione slava del sec. VII si restrinse alla parte costiera. Si conservò poi, attraverso alle numerose vicende storiche, tra il Quarnaro e le Bocche di Cattaro, fino alla fine del sec. XVIII; mentre in seguito questo nome si restrinse alquanto, poiché nel 1809 furono separate dalla Dalmazia tre delle cinque grandi isole del Quarnaro (Cherso, Veglia, Lussino) e unite al circondario di Fiume e al governo di Trieste.
Entro i suoi confini dell'anteguerra la Dalmazia, allungata da NO. a SE., si estendeva fra 44°53′ (Isola Gregorio a nord di Arbe) e 4206′ (Vallone di Spizza al confine montenegrino) di lat. N., e 15° (Scoglio di Gruizza nel Quarnaro) e 18°7′ (Spizza) di long. E., con un'estensione in linea d'aria di 461 km. e una superficie di 12.835 kmq. comprese le isole.
Geo-morfologia. - La costituzione geologica della Dalmazia è data da un'enorme piega a ginocchio di calcare cristallino compatto, fessurato, del Cretacico ed Eocenico, che costituisce l'orlo precipite degli altipiani interni croati, bosniaci, erzegovinesi e montenegrini, e che scende a picco, per più di 1200 m., sopra un basso e breve zoccolo pure calcareo, che si riattacca geologicamente all'Istria e alla penisola Salentina. Questo è ondulato in pieghe strette e parallele alla costa, nelle cui concavità affiorano rocce argillose eoceniche, più facilmente erodibili. Tutta la regione è stata soggetta a una sommersione geologicamente recente, per cui il mare si è insinuato a formare golfi e insenature complicate, staccando a forma d'isole, più o meno allungate, le creste calcaree delle pieghe sommerse.
Alle spalle il ripido pendio delle Alpi Bebie chiude la Dalmazia dai brulli altipiani croati, come una muraglia inaccessibile, scendente a picco sul canale della Morlacca per più di 1500 m. e che solo si deprime, verso 700 m., alle sorgenti della Zermagna e della Cherca. Ma subito dopo la muraglia si rialza nelle Dinariche, attorno ai 1800 m., con eguali caratteri di dirupata e selvaggia asprezza, fino al solco del fiume Narenta, che solo incide questo aspro bastione impervio. Esso prosegue poi più depresso sull'orlo del mare, per rialzarsi quasi a ridosso di Cattaro al Monte Orien (m. 1895) e al M. Leone (Lovćen, m. 1759), completando il netto isolamento orografico della Dalmazia. La soggiacente piattaforma, alta 100-200 m. s. m., presenta varie serie allungate di dossi calcarei, nudi o coperti di terra rossa, fra i 300 e gli 800 m. di altezza, con numerose manifestazioni carsiche, separati talvolta da valli chiuse, che rappresentano la parte più fertile della regione. L'orlo della terraferma dalmata è fortemente frazionato in golfi allungati ("valloni") e insenature diramate e profonde, come le "Bocche" di Cattaro, e i "canali" di Sebenico, mentre manca di spiagge, salvo che alla foce paludosa della Narenta. Fronteggia la costa il mondo insulare dalmato diviso in due arcipelaghi, separati dal promontorio di Punta Planca, i quali occupano nel complesso 2387 kmq., il 19% dell'intera superficie della Dalmazia. Di queste isole circa una cinquantina sono assai estese, fino ad alcune centinaia di kmq. (Brazza kmq. 388,5; Lesina 288,3; Pago 287,6; Curzola 259,2; Lunga o Grossa 116,6, ecc.); le altre, piccole o piccolissime, distinte col nome di "scogli" (circa un migliaio), sorgono attorno alle maggiori e dànno un alto valore strategico alle coste dalmate.
Idrografia. - La Dalmazia, come si è detto, è regione calcarea. Pertanto essa ha una superficie arida e un'abbondante circolazione carsica che originano copiose sorgenti sottomarine o presso la costa (come l'Ombla vicino a Ragusa). I fiumi veramente dalmati sono tre e hanno tutti la loro sorgente presso la congiunzione fra le Alpi Bebie e le Dinariche. La Zermagna, il Tedanium degli antichi (Zrmanja) volge a occidente nel mare di Novegradi ai piedi delle Alpi Bebie; la Cherca (Krka), il Tizio (Titius) classico, volge a sud, supera numerose cascate e presso Scardona si muta in vero e proprio canale largo, profondo e diramato; la Cetina, il Tilurius degli antichi, corre a sud-est e poi piega bruscamente a ovest, tra i monti Mosor e Albii (Biokovo), giungendo al mare ad Almissa.
Carattere di vero fiume ha la Narenta (Neretva), che però penetra in Dalmazia soltanto nei suoi ultimi 24 chilometri di corso, depositando verso la foce ciottolame e fanghiglia raccolti nel suo bacino erzegovinese, e formando una pianura acquitrinosa, entro la quale fu canalizzata e resa navigabile anche per piroscafi di medio tonnellaggio. Non mancano, negli avvallamenti chiusi, i laghi, che sono alimentati spesso per via sotterranea.
Numerose pure sono le zone paludose fra le pieghe calcaree, come quella di Signo (Sinj), e alla foce della Narenta.
Clima. - La ristretta fascia della Dalmazia ha un tipico clima mediterraneo, coi suoi miti e umidi inverni e le sue asciutte e calde estati; clima separato bruscamente da quello interno, alpino o pannonico, dominante negli altipiani croati e bosniaci (vedi tabella). La media temperatura annua è sempre superiore ai 12°, la media del luglio supera raramente i 25°; quella del gennaio, solo nelle parti interne ed elevate si abbassa verso i 0°; per cui la oscillazione media annua si mantiene intorno ai 16°. Questi caratteri termici sono accentuati specie nelle isole e lungo le coste, dove le temperature invernali sono addirittura primaverili.
Le precipitazioni vanno aumentando con l'avvicinarsi della barriera montuosa al mare. Così mentre sono inferiori agli 800 mm. annui nelle isole più esterne e a un metro e mezzo nella zona di terraferma, salgono rapidamente sui versanti montuosi fino a raggiungere i 2 m. sulle Dinariche, i 3 m. sulle Bebie e più di 4 e mezzo sulle falde del Monte Orien, a nord delle Bocche di Cattaro. La distribuzione nettamente mediterranea delle precipitazioni, a scarse piogge estive, si va accentuando da nord a sud, tanto che nel periodo piovoso invernale le precipitazioni sono il 36% nella Dalmazia settentrionale, il 30% a Lesina, il 33% a Ragusa, il 35% nella Crivoscia. La neve è quasi sconosciuta nelle isole e in terraferma presso la costa; invece copre, d'inverno, le pendici delle Alpi Bebie e delle Dinariche, come tutti gli altipiani interni.
Il regime dei venti è abbastanza vario; dalla primavera all'ottobre prevale il maestrale (NO.), nei mesi invernali la "bora" (NE.), fredda e violenta, che precipita a refoli dagli altipiani interni, mentre nella parte più meridionale della Dalmazia prevale l'umido e caldo scirocco (SE.).
Vegetazione e fauna. - Tutta la Dalmazia insulare e costiera ha, come l'Italia che le sta di fronte, una tipica flora mediterranea sempreverde, limitata, verso la flora pontica degli altipiani interni, dal bastione delle Alpi Bebie e Dinariche. In tutte le isole sugli scogli, lungo la costa si stende la tipica "macchia" mediterranea, alternata da boschi di Pinus nigra o di Pinus halepensis, una volta anche più estesi, insieme con cipressi e lauri; mentre nelle zone nettamente rocciose, si hanno associazioni erbacee di ginestre, salvie, rosmarini, timi, agavi e opunzie, insieme con alcune specie vegetali calcicole, che sono proprie e sole del Gargano, del Gran Sasso e della Maiella. Fra le piante utili si ha l'olivo (che prospera fino ai 300 metri d'altezza), la vite, il fico, il pesco, il carrubo (coltivato a Lesina, a Lissa, a Curzola, a Meleda), il melograno, la palma da datteri (ad Arbe, Lissa, Lesina, Sabbioncello, Ragusa), gli agrumi (a Spalato, Ragusa, alle Bocche di Cattaro). Segue nell'interno, fino a 900 e 1000 m. d'altezza, la zona dei boschi di quercia largamente devastati, intercalati alle zone a coltura (cereali, vite, patate) e a tratti calcarei nudi o a vegetazione arbustiva; più in alto si ha la zona di pascoli prealpini con radi boschi di faggi.
Anche rispetto alla fauna il diaframma montano fa da scudo verso il retroterra balcanico; solo attraverso la valle della Narenta penetrano elementi faunistici della regione pontica. La fauna malacologica in parte è comune con quella della penisola italiana e anche quella superiore ha caratteri d'insularità, come lo sciacallo, il Canis aureus di Sabbioncello e Curzola, la Vulpes melanogaster, la Lacerta oxycephala e la ricca fauna cavernicola.
Elememi etnici. - Tracce di abitanti neolitici furono trovate a Lesina, Lissa, Curzola, Pelagosa; e durante il periodo del bronzo, i "castellieri" sembrano dovuti agl'Illirî, la più antica popolazione storica della Dalmazia; in seguito, più dell'elemento greco, rimasto sporadico e limitato alla costa, ha importanza quello latino, che per quattro secoli colonizzò e civilizzò tutta la regione, facendola parte integrante della romanità, anche nella lingua dalmatica, i cui elementi si conservarono, nell'isola di Veglia, fino alla fine del sec. XIX.
L'invasione slava sopraggiunta attorno al sec. VII e rinforzata, dopo le invasioni turche del sec. XV, da forti emigrazioni bosniache, diffuse la propria lingua, senza tuttavia alterare, nei centri urbani, la preesistente cultura. I Serbi e i Croati, assunte abitudini sedentarie, divennero agricoltori, ovvero, in alcune località della fascia costiera, si dedicarono alla vita marinara, assimilando la cultura italiana e particolarmente veneziana. Questa si manifesta pienamente non solo nell'architettura delle città dalmate, ma nei costumi, nella religione, nella parlata di tipo veneziano, che si diffuse su tutta la zona adriatica orientale accanto all'antica lingua dalmatica (v. dalmatica, lingua) e a quella dei Croati e dei Serbi. Un altro elemento etnico importante è quello dei Morlacchi (v.), affini ai Romeni, che i Veneziani distinguevano nettamente dagli Schiavoni. Dalle statistiche austriache invece, basate esclusivamente sulla "lingua d'uso", essi furono sistematicamente ignorati e identificati coi Serbi e Croati del retroterra.
Quanto alla lingua oggi parlata dalla popolazione della Dalmazia, l'ultimo censimento austriaco (1910) dava 610.000 Croati e Serbi contro 18.000 Italiani, cioè un rapporto del 2,8% d'Italiani. Ma evidentemente le statistiche austriache erano a questo riguardo alterate. Infatti gl'Italiani, che rappresentavano il 12,5% della popolazione nel censimento del 1865, andarono ufficialmente diminuendo al 5,8% nel 1880, al 3,1% nel 1890 e al 2,6% nel 1900; diminuzione che è troppo in contrasto con la percentuale d'aumento verificatasi nella popolazione dalmata. Secondo poi l'ultimo censimento del regno S.H.S. (1921), in Dalmazia non sarebbero rimasti addirittura che il 0,7% d' Italiani, contro il 98,6% di Serbi e Croati!
I Serbi prevalgono nei distretti montani, alle sorgenti della Zermagna, della Cherca e della Cetina; i Croati nel resto. Nel 1910 il 62,8% degli abitanti superiori ai 10 anni erano analfabeti, con minimi nelle isole e lungo le coste (42,0%), e massimi nell'interno (Bencovaz 81%, Tenin 84%). Fra gli analfabeti slavi e italiani i rapporti percentuali rispettivi erano di 63,7% e 17,4%. La cultura latina vi si manifesta dovunque, nel carattere e nella vita del popolo; anche scrittori serbi riconoscono che le influenze occidentali sul litorale adriatico si fanno sentire nella mentalità delle popolazioni, nella vivacità, nel realismo, nell'equilibrio. Le manifestazioni più importanti di questa influenza occidentale sono da una parte la religione cattolica e l'alfabeto latino, che l'accompagna (in Dalmazia erano, nel 1921, cattolici 82,8% degli abitanti, ortodossi - i Serbi più recentemente immigrati - il 17 ,0%), dall'altra l'assenza, nell'organizzazione sociale, del regime patriarcale che prevale invece subito di là dalle Alpi Dinariche.
Colture e allevamento. - Non ostante la natura carsica del suolo, nel 1910 la superficie improduttiva della Dalmazia era solo di kmq. 418 (3,3% dell'area totale).
I pascoli magri (kmq. 5944), che rappresentavano quasi la metà dell'area totale (47) si estendono maggiormente nelle regioni interne e attorno a Sebenico, mentre sono scarsi nelle isole; ma il bestiame è in genere in poco buone condizioni. Predominano, specie nella zona interna, gli ovini, che nel 1910 assommavano a circa 1.400.000, cioè poco meno di 2000 capi ogni mille abitanti (in Italia 407). Scarsi invece erano i bovini (circa 100.000 capi), specie nelle isole, prevalenti sulle pendici delle Bebie e delle Dinariche. Anche i cavalli, piccoli ma resistenti (26.500), erano numerosi soltanto nella zona attorno al lago di Vrana (presso Zara) e a Spalato; asini e muli, in rapporto alla natura del terreno, erano invece più abbondanti (circa 37.000), specie nella zona costiera e nelle isole. I maiali erano oltre 70.000. Anche la bachicoltura, che una volta era abbastanza fiorente, ora è decaduta.
I boschi, già molto estesi, furono devastati fino dal Medioevo. Il governo austriaco aveva preso energici provvedimenti onde ricostituirli; cosicché oggi l'area boschiva misura kmq. 3809 (circa 30% dell'area totale), specie lungo la Zemiagna e in alcune isole (Curzola, Lesina); scarsi invece sono i boschi attorno a Sebenico e alla Narenta.
I terreni posti a coltura promiscua rappresentano complessivamente il 14,4% dell'area totale. I campi sono prevalenti nelle zone interne (attorno al 15,0%), specie lungo i corsi dei fiumi e nelle conche carsiche. Assai estesi sono pure attorno a Spalato (12,0%) e a Zara (10,5%); mentre le isole ne appaiono assai povere (Curzola 1,706, Lesina 4,3%, Brazza 2,2%). Quattro quinti delle terre arabili sono coltivate a cereali; oggi ha il primo posto il grano, cui segue, a breve distanza, il mais, vengono dopo orzo e patate.
La produttività del terreno è piuttosto bassa per la mancanza di concimazione e di metodi agricoli moderni, per cui la produzione dei cereali non è sufficiente all'alimentazione del paese. Assai estesa era in passato la coltura della vite, ma l'invasione della fillossera l'ha grandemente ridotta; da oltre 82.000 ettari, nel 1910, l'area vitata è scesa a poco più di 36.000. Essa è diffusa soprattutto nelle isole e nella zona costiera (Curzola, Lesina, Brazza, Sebenico); più scarsa è nelle zone interne, con un minimo nella vallata della Cetina (0,5%). Si distinguono in Dalmazia varie zone vinicole: la costa settentrionale da Zara a Spalato con vini rossi da taglio e vini fini; quella delle isole meridionali (Brazza, Lesina, Lissa, Curzola, Lagosta, Meleda), col rosso "Opollo"; e quella della costa meridionale di Macarsca e Cattaro con prodotti d'alto grado alcoolico, che sono ampiamente esportati. La coltura dell'olivo, estesa sotto il governo veneto, è andata poi decadendo, ma ora accenna a riprendere. Si contano circa 4 milioni di ceppi (Ragusa, Sebenico, isola di Brazza), con un prodotto medio intorno a quintali 40.000 annui. Fra le frutta hanno importanza: le marasche di Zara, Sebenico, e Macarsca, che alimentano l'industria locale del maraschino; i celebri fichi di Lissa e le mandorle largamente esportate, mentre in passato anche il crisantemo e l'alloro davano luogo a un certo commercio.
Pesca e miniere. - La pesca, scarsa nelle acque dolci, se si eccettuano le anguille della Narenta, è abbondante in mare per la varietà di pesci, che risalgono da mezzogiorno la costa dalmata. I centri maggiori di pesca sono: Zara, Spalato, Ragusa, ecc., con circa 12.000 pescatori dalmati che si limitano alle acque litoranee, dove sono in quantità sardelle, tonni e altre specie, che prima della guerra si esportavano per oltre 5 milioni di lire. La pesca d'alto mare è invece esercitata da Italiani, chioggiotti e baresi.
Non sembra che la Dalmazia possegga grandi ricchezze minerarie. Si hanno tracce d'argento nella regione di Tenin (Knin), di cinabro presso Traù, di alluminio a Spizza e si è estratto manganese a Castelnuovo, ferro a Spalato, mercurio a Spizza; si tratta tuttavia di giacimenti poco importanti. Al monte Promina, prima della guerra, si estraeva un milione e mezzo di q. di lignite picea, che era esportata in Italia. Nell'isola di Brazza e a Vergoraz si estraevano 50.000 q. annui di asfalto; ma la ricchezza maggiore è quella dei calcari marnosi di cemento, le cui cave migliori sono quelle di Spalato; mentre marmi pregiati si hanno presso Traù e nelle isole di Curzola, Lesina e Brazza. Le saline sono nelle isole di Pago e Arbe, e producono oltre 10.000 tonn. annue di sale.
Industrie, commerci e comunicazioni. - Se si astrae dalle piccole e diffuse industrie domestiche, l'unica grande industria recente, fondata da Italiani, è quella dei cementi, che, sfruttando i calcari marnosi di Spalato, produce quasi 200.000 tonn. annue, che prima della guerra s'esportavano per metà in Italia. Un'altra potente industria, pure dovuta ad iniziativa italiana, è quella del carburo di calcio, che sfruttando 31.000 HP. di forza della Cherca, produce, nello stabilimento di Sebenico, quasi 20.000 tonnellate annue di carburo. A queste si deve aggiungere lo sfruttamento elettrico delle forze della Cetina per oltre 60.000 HP. Fra le industrie minori della Dalmazia sono da ricordare: quella del maraschino di Zara, della polvere insetticida di crisantemo a Zara, Sebenico e Traù, dell'essenza di rosmarino a Lesina, ecc. L'industria navale fiorente un tempo, oggi è completamente decaduta, rimanendo solo attivi i cantieri militari delle Bocche di Cattaro, per la marina iugoslava.
Fascia eminentemente marittima, sbarrata all'interno dagli uniformi altipiani bosniaci, la Dalmazia ha comunicazioni quasi solo longitudinali. Dopo l'abbandonata rete stradale romana, che a scopo militare dal litorale portava nel cuore della penisola balcanica, soltanto ai primi del sec. XIX fu costruita la "strada mediterranea" che attraversa l'intera regione da Nord a Sud per 522 kmq. Più tardi l'amministrazione austriaca creò le vie strategiche da Zara alla Croazia, da Spalato all'Erzegovina e da Ragusa alle Bocche di Cattaro e a Cettigne. Allo scoppio della guerra europea, la Dalmazia aveva un totale di 3628 km. di strade, delle quali 1103 governative, 324 consorziali e 2201 locali.
La rete ferroviaria, fino al 1914, si limitava alla linea di 125,5 chilometri, a scartamento ordinario, che univa Sebenico con Spalato e questo con Tenin nell'interno. Vi erano poi linee a scartamento ridotto: Spalato-Signo (58 chilometri), Gravosa-Bocche di Cattaro (km. 100), Tenin-Strmica (km. 18), prolungata poi fino in Bosnia. Dopo la guerra, lo stato iugoslavo ha cercato con grandi sacrifici di riunire la Dalmazia col retroterra balcanico. Oltre alla vecchia ferrovia a scartamento ridotto, che per l'unico solco trasversale della Narenta penetra a Mostar e a Sarajevo, fu portata a compimento la linea a scartamento normale, che da Tenin sale sull'alto e disabitato pianoro carsico delle Alpi Bebie per riunirsi ad Oštarije, presso Ogulin, alla ferrovia da Zagabria a Fiume.
Anche oggi, come in passato, quasi tutti gli scambî avvengono per via di mare, sia tra l'un porto e l'altro della costa, sia con Fiume, Trieste, Ancona, Venezia, Bari. I suoi 329 porti e 160 scali indicano l'importanza della navigazione di cabotaggio per le comunicazioni costiere della Damazia. Nel 1914 la sua marina comprendeva 88 piroscafi e 9600 velieri, in buona parte per la navigazione adriatica e per la pesca. Nel 1912 erano entrate 78.000 navi nei porti dalmati, col massimo movimento di 6400 navi a Spalato. Ma il commercio esterno della Dalmazia, nel 1910, non superò i 3 milioni di q. di merci importate e i 7 milioni di esportate, in parte, come il legname di Bosnia, in transito a Metcovich sulla Narenta e a Gravosa, diretto in Italia e in Levante.
Alla testa di questo movimento si trovavano allora le bandiere austriaca e italiana; oggi, nonostante le sovvenzioni statali alla nuova marina iugoslava, una gran parte del commercio dalmata è servito ancora dalla bandiera italiana. È notevolmente aumentato il movimento del porto di Spalato, che nel 1925 vide entrare 15.000 navi.
Generi di vita: - L'economia dalmata è prevalentemente agricolopastorale nell'interno e marittimo-commerciale lungo la costa e nelle isole. Per il frazionamento delle proprietà la vita del contadino è povera; la proprietà rurale collettiva dei villaggi è ormai poco estesa, limitandosi ad alcune zone di macchia, dove ogni famiglia ha diritto di far pascolare le capre e raccogliere legna; mentre di là dalle Alpi Dinariche predomina ancora il possesso collettivo della tributi. Lungo la costa, come è naturale, prevale la vita agricola mediterranea, con le colture redditizie dell'olivo e della vite, integrata da quella marinara, di cui il prodotto della pesca rientra in buona parte nell'alimentazione di questa popolazione. I centri marinari e agricoli della costa sono, al contrario di quelli dell'interno, assai grandi con case addossate le une alle altre e con strette vie allineate lungo la marina.
Demografia. - La popolazione di fatto della Dalmazia amministrativa (escluso il territorio di Zara passato all'Italia) nel 1921 era di 621.429 ab., mentre nel 1910, sempre esclusa Zara, era di circa 625.000 ab. Per la guerra e l'emigrazione la popolazione era quindi, nel decennio, veramente diminuita. Invece fra il 1865 e il 1880 si era avuto un aumento medio annuo della popolazione del 4,9‰ ab., che raggiunse il 12,6 fra il 1890 e il 1900, per ridiscendere all'8,8 fra il 1900 e il 1910. La densità media, che nel 1910 era di 49,1 ab. per kmq., fu ridotta, nel 1921, a 48,8: i minimi di densità si hanno nei distretti interni (Bencovaz 27,6 ab. per kmq., Tenin 39,7, Signo 40,6), i massimi in quelli costieri e insulari (Spalato 68,3, Lesina 65,2, Sebenico 60,1).
La popolazione sparsa rappresenta circa il 37,5% del totale, con massimo nell'interno agricolo-pastorale (Imoschi 69,0% e Bencovaz 67,9% e minimi nelle isole a vita mediterranea e marinara (Lesina 8,3%, Brazza 3,3%).
Nei distretti insulari la quasi totalità della popolazione abita in centri, così come in Puglia. Simili caratteri hanno i distretti costieri con alcuni comuni che hanno accentrato il 95% degli abitanti. Generalmente i centri sono piccoli, con una popolazione media di 420 ab., che sale a 828 e 907 nei distretti insulari di Lesina e Brazza. Soltanto 16 centri superano i 2000 ab. e di questi soltanto uno, Signo, si trova nell'interno, ma 8 nelle isole e 7 sulla costa. Due sole città nel 1921 superavano i 10.000 ab.; Spalato (ab. 25.042) e Zara italiana (ab. 17.623); ciò che conferma che il centro della vita dalmata è sul mare e per il mare.
Divisioni naturali e amministrative. - Seguendo una divisione longitudinale naturale, nella Dalmazia si possono distinguere: una zona montuosa data dai versanti ripidi degli altipiani dinarici, a nevi invernali abbondanti, a vegetazione boschiva e prativa, a scarsissima popolazione e difficili comunicazioni; una zona litorale e insulare (slavo Primorje), piattaforma calcarea bassa sul mare, frazionata, estesa particolarmente fra l'isola di Pago e Sebenico e sulla costa dei Sette Castelli, presso Traù e Spalato, dove il clima, la vegetazione, la cultura e la vita è nettamente mediterranea e marinara; infine una zona intermedia (il Montano, sl. Zágorje), fra il litorale e i versanti dei monti (sl. Planine), estesa solo nella parte centrale fra il canale della Morlacca e le foci della Narenta, e che si distingue in Bucovizza (sl. Bùkovica) a nord della Cherca, e Dizmo a sud; regione carsica nuda, battuta dalla bora, ad economia povera agricolo-pastorale, scarsa di abitanti. Ma dal punto di vista geografico-economico la Dalmazia forma un'unità integrale, nettamente e solamente adriatica.
Amministrativamente, sotto il dominio austriaco essa era una luogotenenza (capoluogo Zara) divisa in 14 capitanati e 35 distretti. Attribuita dopo guerra la (meno Zara e l'isola di Lagosta, italiane) al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, entro i suoi vecchi limiti amministrativi essa formò una provincia (Dalmazia), divisa in 14 circondarî; meno il tratto a sud di Almissa, attribuito alle provincie dell'Erzegovina (Hercegovina) e del Montenegro (Crnagora). Con la riforma amministrativa del regno di Iugoslavia (3 ottobre 1929), la parte centrale della Dalmazia ha costituito il Banato del Primorje o del Litorale, con capoluogo Spalato, ma con esclusione, a nord, delle isole di Veglia, Arbe e Pago, passate al Banato della Sava, e a sud delle isole e della costa sotto la Narenta, passate al Banato della Zeta; mentre poi il confine interno del Primorje fu spostato fino ad includere la conca di Livno, sugli altípiani dinarici, gli alti bacini del Vrbas e della Narenta, noonché la conca di Travnik sul bacino della Bosna. Fu così spezzata un'unità millenaria naturale e storica.
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Storia.
Antichità. - Il nome di Dalmati (lat. Delmatae o Dalmatae, gr. Δελματεῖς) doveva in origine essere limitato a una tribù illirica che abitava l'interno della Dalmazia, probabilmente l'alta valle della Cetina (Tilurius): infatti di essi non troviamo menzione nello pseudo Scilace che invece pone nel territorio più tardi da loro abitato i Νέστοι e i Μανιοί, a cui subentrano poi gli Ardiei, spinti verso sud dall'invasione celtica. Del resto già la persistenza, fra i Dalmati, di costumi primitivi, quale la mancanza di monete, e un regime di vita quasi comunista per cui ogni otto anni dividevano i campi e traevano il loro sostentamento unicamente dai boschi e dai pascoli, sono una conferma che essi rimasero più di altre popolazioni, appunto per la loro lontananza dalla costa, estranei alla benefica influenza della civiltà greca. Solo durante il periodo aureo del regno ardieo i Dalmati dovettero riconoscerne il dominio, forse però più in apparenza che in realtà: infatti non appena cominciò la decadenza di quello, alla morte del re Pleurato, si ribellarono al successore Genzio e formarono un nucleo indipendente. Onde gl'Issei - le cui colonie di Epetium (Stobrech) e Tragurium (Traù) erano particolarmente minacciate - e i Daorsi si rivolsero a Roma per aiuto.
Ma l'ambasceria inviata dai Romani nel 158 a. C., della quale era a capo Gaio Fannio, poté trovare scampo solo nella fuga. Di qui deriva la serie delle guerre dalmatiche durate fino ad Augusto con alterne vicende. Infatti i Dalmati dopo la loro discesa al mare seppero, malgrado le sconfitte, non solo riunire in un solo stato le popolazioni del tratto di territorio che nel periodo della maggiore potenza si estese da Promona alla Narenta, dall'Adriatico agli altipiani della Bosnia, ma anche dar loro il proprio nome: sicché dopo la sconfitta degli Ardiei, quali avversarî dei Romani sono ricordati i soli Dalmati e da essi deriverà più tardi anche il nome della provincia. Capitale del nuovo stato fu in un primo tempo Delminio (v.).
Contro di essa si appuntarono naturalmente gli sforzi dei Romani, non appena nel 156 il console Gaio Marcio Figulo iniziò la prima guerra dalmatica. Ma l'onore di espugnarla rimase tuttavia al suo successore nel consolato, Publio Cornelio Nasica, che la prese nel 155 a. C.; il territorio fu devastato, la popolazione venduta in schiavitù. Ma i Dalmati non erano domati. Se il console Gaio Sempronio Tuditano nella sua marcia (129 a. C.) da Aquileia lungo la costa dell'Adriatico giunse solo sino al loro confine sul Titius (Cherca), il console Lucio Cecilio Metello dopo avere sconfitto i Giapidi, forse nello stesso anno 119 a. C., mosse contro di essi e ottenne nel 117 a. C. il trionfo, onde gli venne il soprannome di Delmaticus.
Nel 78 a. C. nuova insurrezione, per cui fu inviato nel paese il proconsole Gaio Cosconio che vi rimase due anni e prese Salona; è probabile anzi che allora venisse qui dedotta quella colonia di cittadini romani che vi si ritrova ai tempi di Cesare. Ma neppure questo giovò a far durare la pace: nel 51 i Dalmati conquistarono ai Liburni Promona. l Liburni si rivolsero a Cesare che organizzò una spedizione, presto, però, annientata senza che egli, preso dalla lotta contro Pompeo, potesse pensare a vendicarla. Ai Dalmati s'appoggiarono invece i Pompeiani: la sola Salona resistette. Cesare allora mandò il questore Quinto Cornificio con due legioni: temporeggiando egli riuscì a riconquistare talune città, tra cui Promona, e a riprendere parte della regione. Una grave sconfitta toccò invece presso Sinotium (Signo) al consolare Aulo Gabinio, che si salvò a stento a Salona, dove poco dopo morì (48-47 a. C.).
A Quinto Cornificio succedette Publio Vatinio, l'amico di Cicerone; egli sembra essere stato il primo governatore dell'Illirico (che si estendeva in quel tempo fino al Danubio, comprendendo, oltre alla Dalmazia, la Pannonia e la Mesia) costituito a organismo indipendente. Infatti anche se la sua prima origine risale alla distruzione del regno ardieo (167 a. C.), esso era rimasto sino allora alle dipendenze o della Macedonia o della Gallia Cisalpina. Vatinio rimase in Dalmazia anche dopo la morte di Cesare; nel 42 a. C. ebbe anzi gli onori del trionfo, per quanto sotto il suo governo cinque coorti al comando del senatore Belbio fossero state annientate perdendo le insegne (44 a. C.).
Grandi successi non sembra neppure che abbia riportato il suo successore Asinio Pollione. Una lotta più energica intraprese invece contro di essi Augusto, dopo le vittorie sui Giapidi. Egli prese Promona per quanto fosse saldamente difesa dal capo Versus; l'esercito dalmata fu allora disciolto e cominciò la guerra d'imboscata. La lotta si protrasse ancora parte sotto Ottaviano, parte durante la sua assenza sotto Statilio Tauro, fino al 33. Allora i Dalmati diedero ostaggi e restituirono le già conquistate insegne; anzi la regione fu considerata ormai così tranquilla che nella divisione delle provincie fatta nel 27 a. C. tra l'imperatore e il Senato, essa fu assegnata a quest'ultimo.
Ma nuove rivolte scoppiano, nel 16 contro il proconsole Publio Silio, nell'11-10 a. C. contro Tiberio, infine nel 6 d. C. che è l'ultimo serio tentativo dei Dalmati, alleatisi con i Pannonî, di riconquistare la libertà sotto la guida di due principi rispondenti entrambi al nome di Batone. La rivolta sembrò in un primo momento tanto pericolosa da far temere ad Augusto l'invasione dell'Italia. Dopo una guerra lunga e accanita in cui si segnalarono Tiberio, Cecina e Germanico, i Dalmati furono costretti ad arrendersi e Tiberio potè trionfare nel gennaio dell'11 de Pannoniis et Delmatis.
Da questo momento la romanizzazione dei Dalmati fa rapidissimi progressi. La provincia di cui fanno parte è detta nel primo impero, dopo che nel 6 d. C. ne fu staccata la Mesia e nel 14 la Pannonia, superior provincia Illyricum; ma sotto i Flavî essa prende il nome di Dalmatia, appunto dal nome della popolazione predominante che costituiva il nucleo più importante dei peregrini del conventus di Salona. Nel corso del sec. I o al principio del II i Dalmati devono avere ottenuto la cittadinanza romana: numerosissimi infatti nel loro territorio sono i centri romani degni di nota (Salona, Andetrium, Delminium, Municipium Magnum, Promona, Ridittie, Aequum, Novae, ecc.), collegati tra loro da una rete stradale perfettamente organizzata. I Dalmati furono poi sempre molto apprezzati come soldati e come marinai. Infatti una volta spezzato il loro spirito di rivolta si mostrarono fedelissimi a Roma, tanto che con l'avvento di Vespasiano anche le due legioni che vi avevano stanza furono trasferite altrove. La storia della regione in epoca imperiale, la sua organizzazione, le sue condizioni economiche sono trattate sotto illirico. Qui ricordiamo solo che l'imperatore Diocleziano, il grande dalmata riformatore dell'Impero, divise la regione, nel nuovo assetto da lui dato allo stato, in Dalmatia propria, che aveva a capitale Salona e in Praevalitana, con capitale Scodra.
Bibl.: G. Zippel, Die römische Herrschaft in Illyrien bis auf Augustus, Lipsia 1871; H. Cons, La province romaine de Dalmatie, Parigi 1882; C. Patsch, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., IV, coll. 2448-2455; V. Gardthausen, Augustus und seine Zeit, I, Lipsia 1904; G. De Sanctis, Storia dei Romani, IV, i, Torino 1923, p. 435 segg.; H. Dessau, Geschichte der röm. Kaiserzeit, I, Berlino 1924, pp. 397 segg., 428 segg.; E. De Ruggiero, Diz. epigrafico di antichità romane, IV, p. 20 segg.; G. Veith, Die Feldzüge des C. Julius Caesar Octavianus in Illyrien in den Jahren 35-53 v.C., in Schriften der Balkancommission, sez. ant., VII, Vienna 1914; D. Gribaudi, Synodium, in Rivista di filol. class., n. s., III (1925), p. 413 segg.
Epoca medievale e moderna. - Periodo bizantino (476-1000). - Le fortunose vicende che segnano il trapasso dall'evo antico al medio si svolgono quasi tutte in Dalmazia. Vi si trova nel 454, in qualità di comes rei militaris, il generale dalmata Marcellino che, appreso l'assassinio dell'amico suo Ezio, si stacca dall'Impero d'Occidente e gli si pone risolutamente contro. Tale atteggiamento è seguito dal suo nipote e successore Giulio Nepote, che è prescelto da Leone I suo collega d'Occidente. Giulio Nepote infatti, nella primavera del 474, penetra in Italia, prende il suo rivale Glicerio, lo fa vescovo di Salona, mentre egli nel luglio assume la porpora a Ravenna. Ma già il 28 agosto 475, sollevatosi Oreste, Giulio Nepote è costretto a tornare in Dalmazia, dove, sino al 480, anno del suo assassinio, non solo tenne la regione a lui fedelissima, ma non cessò di considerarsi legittimo imperatore d'Occidente. Dopo la sua morte, la Dalmazia passò a Odoacre (fino al 493) e poi a Teodorico e ai Goti. Iniziata in Oriente la restaurazione giustinianea, i Bizantini, come primo atto, s'insediano saldamente nella regione. Per la Dalmazia comincia allora un periodo di pace e di benessere. Fioriscono specialmente le città costiere adriatiche, tappe e scali necessarî sulla via di Ravenna. Specialmente Salona (v.) si afferma vero e grande centro della regione. Questo stato di cose dura fino ai primi anni del secolo VII, quando la Balcania è sconvolta dalle irruzioni avaroslave (v. croazia). La Dalmazia, invasa verso il 614, ne risente in modo terribile e l'irruzione di tipo turanico porta nella regione che va dall'Arsa ad Antivari e, nell'interno, sin quasi all'odierna Belgrado, la distruzione quasi completa. Oltre a singole strette zone litoranee, resistono le città di Zara, Traù e Budua, costruite su penisolette, e tutte le isole. Questi territorî, non piccoli se si pensi al grandissimo numero delle isole dalmate e alla loro vasta superficie, accolgono gran parte dei profughi dell'interno, conservano e tramandano il nome geografico di Dalmazia e mantengono poi nei secoli più o meno netto il loro carattere latino prima, neolatino poi. Ad essi si aggiungono le città di terraferma, fondate dai profughi subito dopo i primi orrori dell'invasione: Spalato (v.), Ragusa (v.), e Cattaro (v.). Le condizioni di questi territorî furono sul principio assai precarie; ma tutto fa credere che, già verso la fine dell'impero di Eraclio (morto nel 641), subentrassero tra Bisanzio e gli Slavi relazioni pacifiche. Ne beneficiò la Dalmazia che poté assestarsi politicamente e specialmente riorganizzare, sotto il pontefice dalmata Giovanni IV, la sua vita religiosa. Poco si sa della Dalmazia nei secoli VII-VIII. Certo è che la regione continuò a dipendere dall'esarca di Ravenna, sino a quando, forse già nella prima metà del secolo VIII, non formò un thema a sé (ϑέμα Δαλματίας), con a capo lo stratega e i funzionarî minori. Caduta Ravenna, la Dalmazia crebbe d'importanza, come posto avanzato per la difesa degl'interessi bizantini in Occidente. Zara specialmente assurse a grande centro politico, mentre Spalato, erede di Salona, continuò a governare la vita religiosa. Nell'800, conquistata da Carlomagno la Croazia, e attratte nell'orbita dell'influenza carolina Venezia e l'Istria, anche la Dalmazia pare per un momento staccarsi dall'Impero d'Oriente. Ma Bisanzio si mostra ancora abbastanza ricca d'energie ed è troppo potente sul mare perché l'importantissimo thema le sfugga. Nella primavera dell'806, l'ammiraglio bizantino Niceta ristabilisce facilmente l'equilibrio adriatico, turbato l'autunno innanzi da una flottiglia veneziana del partito carolino, e nell'810 il duca di Cefalonia, Paolo, costringe a ritirarsi una squadriglia di Pipino partita poco prima ai danni della Dalmazia. Questi insuccessi persuasero certamente Carlomagno a riconoscere, nella pace conclusa nell'812, il dominio bizantino sul thema dalmatico. La pace è però solamente formale, ché l'impero carolingio non cessa di svolgere la sua politica antibizantina, danneggiando le terre dalmatiche e favorendo lo sviluppo d'una marineria piratesca croata infestatrice della navigazione adriatica. Lo sviluppo di questa marineria è rapidissimo: tra l'830 e l'840 si presenta già tanto forte da affrontare e da strappare al thema dalmatico le isole di Curzola, di Brazza e Meleda. Nell'878 la Croazia torna a Bisanzio. Ma i Croati e i Narentani non possono essere indotti a rinunciare senza compenso alle loro gesta piratesche; per cui Basilio persuade le città dalmate navigatrici a versare agli Slavi, per amore di pace, la somma che sino allora veniva passata allo stratego. L'atto antipatico, tipico della politica greca, è il primo di tutta una serie di atti con cui Bisanzio cerca di cattivarsi e dominare gli Slavi a danno degl'interessi e della dignità dei Dalmati. Le città dalmate cominciano a far parte per se stesse. E si trovano d'accordo con Venezia, anch'essa interessata a rendere l'Adriatico un mare sicuro. La situazione, venuta formandosi durante il sec. X, è matura nel 1000, quando, invitato dai Dalmati, il doge Pietro II Orseolo salpa da Venezia con una formidabile flotta, sconfigge eroati e Narentani, ripulisce il mare dalla pirateria, riceve dai Dalmati tributi, omaggi e promesse di fedeltà e assume il titolo di doge di Dalmazia.
Periodo veneto-unghererese (1000-1420). - Questa impresa segna la rapida decadenza del dominio bizantino. Ormai, il thema bizantino è quasi disfatto.
Nella sua stessa organizzazione e nello spirito decentralizzatore che l'informava erano i germi del suo disfacimento. L'ininterrotta permanenza delle antiche istituzioni municipali romane non fa che accelerarne il processo di disintegrazione. All'organizzazione militare locale si sostituiscono autonomie locali. E si hanno, sin dal sec. X, i comuni di Veglia, Arbe, Ossero, Zara, Traù, Spalato, Ragusa e Cattaro retti da priori, tribuni, consoli e giudici. Il vescovo, eletto dal clero e dal popolo, pur non avendo dominio temporale, ha parte principalissima nella vita del comune. L'unità provinciale quasi più non esiste: il proconsole di Dalmazia che troviamo a Zara nel sec. XI è più titolo onorifico conferito a persona benemerita della nobiltà locale, che denominazione di funzionario con effettivo esercizio di determinate mansioni. La massa demografica, prima indistinta, è, intorno al 1000, chiaramente riconoscibile e differenziabile in maiores e minores, divites e inopes, nobiles e ignobiles. Tutti insieme formano l'universus populus che nell'arengo legifera, elegge e loda. Il popolo vive della terra, specie con la viticoltura e la pastorizia, del mare e dell'arte (oreficeria, setificio, lanificio, ecc.). I nobili sono tutti proprietarî fondiarî e navigatori. Nei comuni si svolge una vita ricca e potente che ha tante energie da irradiarsi anche tra i Croati: nel sec. XI, anche Zaravecchia (sl. Biograd) si rilatinizza e si dà costituzione comunale. Per tutto ciò la stessa politica esterna dei comuni assume un' impronta autonoma. I vincoli con Bisanzio, si allentano ancor più. I monasteri benedettini cassinesi, di cui la Dalmazia a partire dal 986 si va costellando, dànno direttive ancor più nette alla vita locale, già orientatasi verso Roma.
Nel risorto prestigio del papato, i Dalmati ormai ravvisano la formidabile potenza che, restituendo alla Dalmazia l'antico splendore, eliminerà forse per sempre il pericolo slavo. Sicché nel 1060, quando il legato papale Mainardo abate di Pomposa viene in Dalmazia per promulgare e applicare le costituzioni del sinodo pasquale lateranense del 1059, trova un terreno mirabilmente preparato. Gli è possibile anzi di svolgervi una forte azione di conquista nel regno croato. Conquista di larghissima portata, poiché mira a restituire alla chiesa spalatina la giurisdizione sui territorî dell'antica Dalmazia romana, allora in gran parte tenuti dai Croati. I comuni per riuscire vittoriosi, invocano (forse contro i desiderî di Gregorio VII che avrebbe preferito affidare l'impresa a un principe danese) il conte normanno Amico di Giovinazzo che nel 1075, preso il re croato, decide la lotta a favore del partito papale. La vittoria non è piena, perché Venezia, presentatasi nel febbraio 1076 come signora della Dalmazia e tutrice dei diritti di Bisanzio, ottiene che la sovranità del Cesare d'Oriente sia rispettata. Ne esce tuttavia il cosiddetto regno di "Croazia e Dalmazia" dove, se anche negli atti figura al primo posto l'imperatore d'Oriente, Roma e le città latine dominano nettamente: il re Zvonimiro presta giuramento di vassallaggio al pontefice e i vescovi croati giurano obbedienza al metropolita latino di Spalato. Ma già nel 1089 Zvonimiro cadeva ucciso dal partito croato. A suoi successori e vendicatori si presentano prima Ladislao, poi Colomanno d'Ungheria. Quest'ultimo, conquistata la Croazia (1097-1102), mira anche alla Dalmazia. I comuni, per vicendevoli rivalità, si scindono: Traù, Veglia e Ossero sono favorevoli a Colomanno; Arbe, Zara e Spalato lo avversano. Dopo aspra e indecisa guerra, si viene, nella campagna fuori delle mura zaratine, a un compromesso: i comuni giurano fedeltà ottenendo ampie libertà municipali. Così l'Ungheria mette piede in Dalmazia. Venezia, occupata in Oriente, non può far valere subito i suoi diritti. Ma nel 1115, fallite le trattative per decidere se il titolo di signore di Croazia e Dalmazia spetti al re o al doge, si viene alla lotta. Lotta trisecolare, laboriosa e complicatissima, che qui è impossibile narrare. È però possibile delimitare le zone di prevalenza: Venezia s'insedia e predomina dal Quarnaro a Zaravecchia, l'Ungheria da zaravecchia ad Almissa. Ragusa e Cattaro, rimaste per qualche tempo fuori del teatro della contesa, finiscono, la prima sotto Venezia (1205), l'altra sotto la Serbia (1186). Si delineano anche gli sforzi e i metodi delle due potenze per tenere e mantenere le loro zone: Venezia sostituisce al priore medievale un conte veneziano, che, sino alla serrata del Maggior Consiglio (1297), tende invano a farsi signore feudale specie nei centri di minor resistenza; ottiene che i vescovadi della sua zona dipendano da Zara, eretta in arcivescovado (1154) e posta alle dipendenze del patriarca di Grado (1155). Del resto, le libertà statutarie non sono intaccate. L'Ungheria concede libertà ancora maggiori, rispetta il reggimento comunale, tanto che in fine assume forme podestarili, ma lo sorveglia per mezzo dell'arcivescovo spalatino e dei presidî comandati da conti ungheresi. Ma nell'una e nell'altra zona, l'influenza veneziana è fortissima: non solo il reggimento comunale si modella sulla costituzione veneziana, ma la popolazione neolatina dalmatica si venetizza profondamente di lingua, di usi e costumi. Lo spirito e le energie comunali continuano tuttavia ad essere vivissimi e ad agire anche fuori della cerchia dei vecchi comuni. Aspirazione di ogni piccolo centro diventa il vescovado e il reggimento comunale. Sorgono così, nel Duecento, i comuni di Sebenico, Curzola, Lesina, Lagosta, Brazza e, più tardi, Pago. E arriviamo al principio del Trecento, quando, indebolitosi il potere dei re d'Ungheria, ad esso si sostituisce in alcune parti la tirannia dei Subich. Le loro angherie determinano la dedizione a Venezia, salvi i diritti del re d'Ungheria, di Sebenico (1322), Traù (1322), Spalato (1327) e Nona (1328). Lesina, Lissa e Brazza erano passate a Venezia sin dal 1278; Curzola infeudata ai Giorgi, patrizî veneziani, sin dal 1254. Così, tranne Cattaro, che si sottometterà spontaneamente a Venezia nel 1419, Venezia riacquistò tutta la regione. E la tenne sino al 1358, quando fu costretta, nella pace di Zara (18 febbraio 1358), a cederla a Ludovico d'Ungheria. Ma la ricuperò il 9 luglio 1409 per 100.000 ducati da Ladislao di Napoli che, passato e incoronatosi a Zara il 5 agosto 1403, aveva inutilmente tentato dalla Dalmazia di far valere le sue pretese al trono d'Ungheria. Tra il 1409 e il 1420 Venezia rioccupò la regione, tranne Veglia e Ragusa, di cui Ladislao non aveva potuto disporre, non essendone mai venuto in possesso.
Periodo veneziano (1420-1797). - Contro la vendita fatta da Ladislao insorse Sigismondo d'Ungheria, ma, dopo una vana guerra, finì anch'egli col cedere per 10.000 ducati i suoi diritti sulla Dalmazia (pace di Praga, 29 luglio 1437). Ai territorî ceduti da Ladislao si aggiunsero nel 1444 Poglizza e Almissa, nel 1452 il litorale di Macarsca e nel 1480 l'isola di Veglia. Nel Quattrocento, si opera la riorganizzazione amministrativa della regione.
Il comune non esiste più. Esistono invece delle città, con i rispettivi distretti, governate ciascuna da un nobile veneziano, inviato al governo per 24 o 36 mesi col titolo di conte e capitano. Gli statuti municipali non sono abrogati, ma diventano lettera morta che le fresche leggi veneziane mettono sempre più da parte. Il consiglio maggiore continua a raccogliersi, ma da assemblea legislativa si fa semplice rappresentante degl'interessi, per lo più economici, del corpo nobile. Forte è invece l'ascesa dell'artigianato e dei ceti popolari. Stretti dapprima in scuole e confraternite, si organizzano nel Quattrocento in università di popolo e cittadini e si contrappongono audacemente e vittoriosamente, talvolta in lotte sanguinose, alle comunità da nobili. Anche la vita economica si fa diversa: cessano navigazione e commerci, quasi tutti accentrati a Venezia, ma prende maggiore sviluppo l'agricoltura, favorita dagl'incrementi territoriali e dalla tranquillità dell'agro (i Veneziani favoriscono l'immigrazione degli Slavi cristiani dai dominî turchi), cresce con la sicurezza del mare il reddito della pastorizia, si sviluppano floridissime le arti e le industrie. La vivissima partecipazione della Dalmazia, con caratteri regionali proprî, al Rinascimento italiano è anche indice di forte benessere economico.
Il benessere e la fioritura quattrocentesca sono però interrotti e funestati dalle sette orribili guerre che Venezia, oltre che in Levante, combatté contro i Turchi in Dalmazia (1468-1479; 1499-1502; 1538-1540; 1571-1573; 1644-1669; 1684-1699; 1714-1718). I Turchi non riescono mai a penetrare nelle città costiere da Venezia magnificamente munite; ma i territorî di terraferma, nerbo delle economie cittadine, sono regolarmente devastati. In queste guerre i Turchi hanno dapprima la prevalenza e occupano qualche tratto della regione. Ma dal sec. XVII le vittorie dalmato-veneziane si susseguono e con esse si susseguono gli acquisti. Nel 1671, dopo la pace di Candia, la linea Nani delimita il cosiddetto acquisto vecchio; nel 1700, dopo la pace di Carlowitz (v.), la linea Grimani aggiungendo i distretti di Tenin, Signo e Dernis, delimita l'acquisto nuovo; nel 1720, dopo la pace di Passarowitz (v.), la linea Mocenigo, aggiungendo il territorio d'Imoschi, delimita l'acquisto nuovissimo. Così, tranne Ragusa (v.), si raggiungono i tradizionali confini amministrativi e si fissa l'attuale concetto geografico di Dalmazia. Del resto, l'unità provinciale e regionale fu sentita e prese corso sin dalla fine del sec. XVI, quando Venezia cominciò stabilmente ad inviare a Zara un "provveditore generale in Dalmazia e Albania", dal quale dipendevano, non solo i conti e capitani delle singole città, ma anche il "provveditore estraordinario dell'Albania veneta". Le guerre turche, oltre che turbare profondamente la vita economica, portano nella regione forti sconvolgimenti etnici: l'elemento latino, ormai venetizzatosi completamente, si assottiglia, ma forti ne persistono le facoltà assimilatrici: nelle città sono accolti gli Slavi del retroterra, che spesso vi s'insediano, determinando qua e là condizioni di bilinguismo; nell'agro, mille volte abbandonato e ripreso, v'è un continuo flusso e riflusso di profughi croati, serbi e specialmente morlacchi, che cancellano ogni traccia dei ceppi slavi medievali. Assai tristi, nel Settecento, le condizioni economiche e demografiche del nuovo e nuovissimo acquisto. Venezia e i Dalmati fanno di tutto per migliorarle: è emanata la legge agraria Grimani (1755), si fanno bonifiche (Nadin, Ostrovizza, Signo, Tenin), si progettano regolazioni di fiumi (Cherca, Butisnizza), si tentano nuove colture (tabacco), si fanno dal governo e nelle accademie economico-agrarie delle città studî ed esperienze. Nel pieno del fervore di questa attività, sopraggiunge la bufera napoleonica. Venezia è minacciata. D0dicimila Dalmati passano l'Adriatico per difenderla. Ma non hanno modo di battersi; ché il Maggior Consiglio, il 12 maggio 1797, abdica al potere.
Prima dominazione austriaca e periodo francese (1797-1813). - Caduta la Repubblica, ha luogo in Dalmazia un breve periodo di anarchia. Nella generale costernazione, gli odî delle masse si appuntano contro i "giacobini" miscredenti e abbattitori di Venezia. Disordini e assalti alle persone sospette di liberalismo avvengono quasi dappertutto. L'intervento pacificatore dell'Austria è desiderato. Vienna, che già a Leoben (7 aprile) aveva ottenuto da Napoleone la cessione delle terre venete, apprestato a Trieste e a Segna un corpo di spedizione al comando del generale Rukavina, occupa nel luglio il tratto da Veglia a Ragusa, e dal 20 agosto al 5 ottobre, non senza contrasto del vladika di Montenegro, le Bocche di Cattaro. Questa prima occupazione austriaca non porta nessun mutamento nell'assetto della regione. Con la pace di Presburgo (26 dicembre 1805) la Dalmazia passa ai Francesi che ne occupano la parte settentrionale nel febbraio 1806, pongono fine alla repubblica di Ragusa violandone il territorio (26 maggio 1806) e sciogliendone il Consiglio (31 gennaio 1808), e occupano infine, strappandole ai Russi, le Bocche di Cattaro.
Dal 1806 al 1809, la Dalmazia, con Ragusa, fa parte del Regno d'Italia ed è governata nel civile dal provveditore Vincenzo Dandolo, nel militare dal maresciallo Marmont. La regione, per opera del Dandolo, è completamente riorganizzata, ma non pacificata. Continue insurrezioni, favorite dai Russi, scoppiano nella parte bassa, media e insulare. Nel 1809, dopo la guerra franco-austriaca, la Dalmazia, menomata delle isole di Veglia, Cherso e Lussino aggregate all'Istria, fa parte delle "Provinces Illyrieennes". Caduto Napoleone, l'Austria, dopo viva resistenza dei presidî francesi, la rioccupa tra il novembre 1813 e il giugno 1814. Poi s'inizia un periodo di piatta vita provinciale sino al 1848.
Il dominio austriaco. - I moti rivoluzionarî del 1848 che scuotono sin dalle sue basi la monarchia degli Asburgo, trovano in Dalmazia un ambiente speciale. Colà non c'è alcuna tradizione asburgica, facendo la Dalmazia parte del complesso austriaco appena dal 1813, insieme con le provincie lombardo-venete. Ed è proprio in quel periodo di tempo che la borghesia italiana inizia i moti del Risorgimento nazionale. La Dalmazia, come sempre, guarda a Venezia, e alla rivoluzione del 1848-49 partecipa con Tommaseo e Seismit-Doda e con i suoi legionarî.
Con la caduta di Venezia nel 1849, la tradizione politica veneta in Dalmazia si spegne e la borghesia dalmata si scinde in due campi diametralmente opposti. I Dalmato-veneti si sentono italiani; sentono che devono rinunciare alle aspirazioni tradizionali venete; si persuadono che al disopra di esse esiste un netto e preciso indirizzo nazionale unitario e si fondono idealmente con la borghesia della penisola.
I Dalmato-slavi si trovano invece completamente disorientati. C'era poca possibilità d'intesa fra essi e le classi borghesi e contadine delle regioni italiane non venete. Dagl'Italiani che abitavano di là dai confini delle regioni venete non riusciva difficile, a chi vi aveva interesse, col pretesto della lingua diversa, differenziare il contadino slavo della Dalmazia e gli elementi slavi di recente assimilati dalla borghesia dalmatica. D'altro canto il governo di Vienna sentiva che i suoi possessi italiani erano minacciati, quindi sentiva che bisognava trovare una formula per salvare quello che si poteva salvare. Insomma, poiché meno paura faceva un qualsiasi moto nazionale slavo o illirico che il moto nazionale italiano, il governo di Vienna si persuase che, dando sviluppo a un movimento slavo in Dalmazia, incerto qual modo poteva garantirsi una parte dell'eredità veneta.
E un moto slavo, ancora incomposto, esisteva già: l'illirismo (v.), movimento di rinnovamento croato il cui fondatore era stato il Gaj. Codesto movimento tendeva alla ricostituzione dell'antico "regno" croato o Triregno (Croazia-Dalmazia-Slavonia), quindi all'annessione della Dalmazia alla Croazia e Slavonia, e trovava fautori nella borghesia dalmato-slava di recente assimilazione; la maggioranza della popolazione dalmato-veneta respingeva invece l'annessione trincerandosi dietro la formula dell'autonomismo. Perciò fra il 1848 e il 1866 in Dalmazia sorgono due movimenti politici: il movimento annessionista e il movimento autonomista che, in quindici anni di rapida evoluzione e sotto l'influsso delle vicende della penisola, e di riflesso di quelle della monarchia asburgica, si trasformano in croatismo asburgico e irredentismo italiano.
La prima fase. - I primi sintomi del moto annessionista si scorgono nella stampa del decennio che va fra il 1840 e 1850. Già dal 1844 usciva a Zara il giornale Zora dalmatinska (Aurora dalmata), che sosteneva la tesi annessionista. Intanto il movimento rivoluzionario di Francia si propaga anche in Austria; e mentre i Tedeschi chiedono la costituzione ed eleggono i loro rappresentanti per il parlamento di Francoforte, i Cèchi chiamano a Praga a congresso tutti gli Slavi della monarchia. All'appello rispondono i Croati di Dalmazia con un proclama sottoscritto da circa 200 persone. Pochi mesi dopo, un proclama della Dieta croata invitava tutti i municipî della Croazia, Slavonia e Dalmazia a mandare i loro deputati a una comune adunanza a Zagabria, sostenendo che tutta la gloria e tutta la fortuna dei Croati stava nella costituzione del Triregno di Dalmazia, Croazia e Slavonia. All'invito della Dieta croata non risposero che Ragusa e Macarsca; Spalato si dichiarò recisamente contraria all'annessione, e Zara rispose evasivamente, dicendo "non creder opportuno dichiararsi sull'annessione poiché, per quel che si riferiva alla lingua - fatta eccezione delle campagne - tutti gl'intellettuali parlavano italiano, e se mai si fosse giunti all'annessione, sarebbe opportuno lasciare ai Dalmati di decidere la questione della lingua". C'era poi un altro argomento contrario all'annessione: la Dalmazia era stata sempre contraria alle pretese della Corona ungarica alla quale erano unite la Croazia e la Slavonia.
L'abdicazione di Ferdinando I e l'ascesa al trono di Francesco Giuseppe, che nomina il generale Jelačić bano della Croazia a governatore di Fiume e della Dalmazia, dànno agli annessionisti grandi speranze. Intanto alla prima seduta del parlamento di Vienna, due deputati croati della Dalmazia fanno le prime proposte per la slavizzazione delle scuole, contro cui protestano tutti i ginnasî della provincia. La nuova era costituzionale iniziata nel 1861, dopo la ripresa assolutistica del 1850, permette le libere discussioni, e il dalmata Costantino Vojnović pubblica (1861) in lingua italiana un opuscolo intitolato Un voto per l'unione, nel quale prospetta con molta chiarezza il programma annessionista. La base storica del moto annessionista è la seguente: la continuità nazionale e politica della storia della Dalmazia è stata interrotta dal dominio veneto che durò per oltre 400 anni. Rimasero incolumi soltanto le libertà dei comuni aristocratici. Il governo veneto aprì un abisso fra i ceti superiori e la grande massa del popolo cui non si riconosceva alcun diritto. La ragione della tendenza annessionista è d'indole nazionale, e non una conseguenza del diritto storico di stato. Nell'opuscolo è esposto quindi un circostanziato programma per l'unione della Dalmazia alla Croazia-Slavonia, secondo il quale del "Triregno" Ragusa sarebbe divenuta il centro intellettuale Zagabria il centro politico, e Spalato il centro commerciale.
Un anno dopo (1862), inizia le sue pubblicazioni in italiano Il Nazionale, il primo giornale croato-annessionista, diretto dal prof. Nodilo, il quale nell'articolo-programma definisce la nuova tendenza. "In mezzo alla lotta - egli dice - dei tre partiti: centralista, dualista e federalista, i quali ora si dividono il campo della politica interna austriaca, noi, nell'interesse ben inteso dell'Austria, che sarà felice e prospera solo allora quando avrà accontentato tutti i suoi popoli, e nell'interesse stesso di nostra nazionalità staremo sempre entro i limiti della legge, con gli ultimi". E ancora: "è interesse degli Slavì di avere una Austria una e forte, ma che in pari tempo soddisfi ai giusti bisogni delle varie razze che la abitano, senza che un popolo preponderi comunque sull'altro". Alla pubblicazione di codesto programma segue quasi subito la polemica fra Tommaseo e Nodilo. Ne diede pretesto la Voce dalmatica la quale per combattere l'annessionismo che stava già trasformandosi in croatismo asburgico, sostenne con argomenti presi da scritti del Tommaseo, l'esistenza d'una nazionalità dalmata. La risposta del Nodilo, poco riverente verso il Tommaseo, che allora era all'apogeo della gloria, provocò un suo articolo pubblicato nella Voce dalmatica che pose tosto fine alla questione. Gli annessionisti si dichiarano solidali con Nodilo e vengono perciò espulsi da tutti i ritrovi sociali. Ci sono ancora a Vienna dei circoli e giornali non del tutto favorevoli agli annessionisti; la Donau Zeitung anzi accusa Il Nazionale di eccitare l'odio e il disprezzo contro i Tedeschi, e di tendere al distacco della Dalmazia dal nesso dell'Impero, ciò che impedisce al governo centrale di favorirli apertamente. Ma con la rimozione del barone Lapenna dalla Luogotenenza e la nomina del barone Filipović a governatore della Dalmazia, avvenuta il 17 ottobre 1865, il governo di Vienna inaugura la sua politica croatofila. La patente del 20 settembre 1865, sulla base della quale viene compilato l'indirizzo alla Corona della Dieta dalmata, ne è la base giuridica. Il 15 giugno 1866 scoppiò la guerra austro-prussiana, e il 20 dello stesso mese l'Italia intima la guerra all'Austria. Nel marzo 1867 esce il primo numero del giornale italiano Il Dalmata. La fisionomia e le tendenze dei due movimenti sono ormai ben delineate e s'inizia una nuova fase della lotta nazionale in Dalmazia.
La seconda fase. - Dal '60 al '66, sia dal punto di vista politico sia da quello amministrativo, gl'Italiani autonomi sono i padroni della provincia: i municipî sono amministrati dagl'Italiani; e Italiani sono, in gran maggioranza, i deputati alla Dieta e tutti i deputati al Consiglio dell'Impero. Sennonché l'atteggiamento degl'Italiani autonomi durante la guerra austro-italiana preoccupa vivamente il governo di Vienna. L'importanza della notizia che Givannizio e Boxich, due patrioti di Spalato, per incarico di Bajamonti, avevano avuto la sera avanti la battaglia di Lissa un colloquio con un emissario di Persano, non sfuggì al governo che corse ai ripari. L'8 novembre 1866 un decreto del governo croatizzava alcune scuole italiane. Il 1° dicembre dello stesso anno un altro decreto imponeva agl'impiegati dello stato la conoscenza della lingua croata. E la ragione di questi provvedimenti era sufficientemente illustrata da uno scrittore serbo di Ragusa, Mattia Ban: "Di fronte alle tendenze separatiste degl'Italiani - egli diceva - l'Austria aveva un supremo interesse di dare il massimo sviluppo possibile allo slavismo nelle provincie contermini all'Italia, e lavorate dalla propaganda italiana". Le elezioni dietali del 1867 dànno tuttavia ancora una volta la vittoria agl'Italiani. Fra il '67 e il '70 essi riescono ancora a conquistare la maggioranza in alcuni municipî. La grande borghesia italiana tiene ancora testa agli assalti della piccola borghesia slava, fiancheggiata dal clero che svolge una vasta propaganda nelle campagne. Le elezioni dietali del 1870 invece mutano completamente la situazione. La battaglia elettorale di Signo, che doveva dare ai Croati la maggioranza nella dieta, e quindi l'amministrazione della provincia, si svolge fra inaudite violenze; finalmente i Croati annessionisti s'impadroniscono del potere. Appoggiati dal governo, essi iniziano la violenta croatizzazione della provincia: le amministrazioni italiane vengono trasformate in croate, si favoriscono tutte le iniziative croate e si paralizzano quelle italiane e s'inizia la persecuzione degl'Italiani autonomi. Il primo municipio che cadde nelle mani dei Croati fu quello di Sebenico (1873), cui seguirono in un decennio quasi tutti gli altri e finalmente, con l'intervento di due navi da guerra austriache, anche Spalato (1883). Dopo l'assalto alle amministrazioni municipali e ai seggi della Dieta, si organizza l'assalto ai seggi nel Consiglio dell'Impero. Nelle elezioni del 1879 gl'Italiani erano riusciti a mandare al Parlamento di Vienna quattro dei nove deputati eletti dalla provincia. Ma il governo non voleva più sentire requisitorie sulle vessazioni dei Croati e del governo provinciale in Dalmazia, e perciò, alle elezioni del 1885, la parola d'ordine di Vienna fu: nessun deputato italiano deve essere eletto. Il luogotenente Jovanović, successore del barone Rodić, si mise all'opera, e dei quattro seggi, gl'Italiani non riuscirono a mantenerne che due: Antonio Bajamonti di Spalato e il conte Marino Bonda di Ragusa furono gli ultimi rappresentanti degl'Italiani al Consiglio dell'Impero.
In questo venticinquennio di lotta (1865-1890) nel campo degli Italiani autonomi, emerge la grande figura di A. Bajamonti che fino alla sua morte è il capo riconosciuto del movimento italiano. Intorno a lui a Spalato stanno Giovannizio, Rossignoli, Radman e con lui rappresentano la tendenza intransigente. La loro opera è integrata a Ragusa da Bonda e Gondola, a Sebenico da Federico Antonio Galvani, a Zara da Lapenna e Trigari. Questi ultimi due rappresentano la tendenza più transigente. Morto il Bajamonti, la sua eredità politica viene assunta dall'avv. Ercolano Salvi (senatore del regno dal 1920); pochi anni dopo la direzione del movimento passa nelle mani degli avv. Ghiglianovich e Ziliotto (senatori del regno dal 1920) e del dott. Krekich a Zara; dell'avv. Pini a Sebenico, dell'avv. Smerchinich a Curzola: i sei deputati alla Dieta dalmata, che rappresentarono gl'Italiani sino allo scoppio della guerra mondiale. Per impedire che con la nuova legge elettorale a suffragio universale riuscisse eletto un deputato italiano della Dalmazia al Parlamento di Vienna, il governo inquadrava Zara in un enorme collegio elettorale di ottantamila abitanti. Gli Italiani non abbandonano però la lotta: sino al 1900 si mantengono nel comune di Neresi nell'isola di Brazza, sino al 1910 nell'isola di Slarino di fronte a Sebenico. Fra i municipî più importanti quello di Cattaro ebbe per podestà Pezzi, italiano, sino al 1897; fra il 1890 e 1900 il comune di Ragusa fu amministrato da una coalizione serbo-italiana di tendenze anti-austriache e anti-croate, ed ebbe per podestà l'italiano Gondola. Dopo le affermazioni italiane a Spalato nel 1811, i Croati studiarono una riforma dietale, in forza della quale gl'Italiani avrebbero dovuto perdere i sei seggi che loro ancora rimanevano.
Cadute tutte le rappresentanze municipali, eccetto quella di Zara, nelle mani dei Croati; croatizzate tutte le scuole elementari e medie, eccettuate quelle di Zara; esclusi con brogli elettorali dalla camera di Vienna, gl'Italiani erano ridotti alla quasi inesistenza politica. Restavano ancora ai Croati due problemi da risolvere: la croatizzazione di Zara, e la soppressione della lingua italiana dagli uffici dello stato. Al primo servì un clamoroso processo che ebbe larga eco nella penisola (processo Masovčić). In seguito a una provocazione di ginnasti croati un giovane croato venne gravemente malmenato. Per ordine della luogotenenza di Zara vennero tosto arrestati undici giovani, dei quali otto studenti universitarî, sotto accusa di tumulto, sedizione e grave lesione corporale. Il processo durò 13 giorni e si conchiuse con la condanna di un solo accusato, e con la costituzione della polizia di stato (1910) che doveva facilitare la presa di possesso della città da parte dei Croati. Il problema della soppressione della lingua italiana negli uffici dello stato si doveva risolvere mediante un compromesso fra Italiani e Croati; però non erano ancora finite le discussioni fra i delegati dei due partiti che il ministro Bienerth il quale, all'atto della presentazione d'un progetto di legge per regolare l'uso delle lingue in Boemia, affermava solennemente che un atto amministrativo non era bastante per risolvere un tale problema, emanava invece, il 26 aprile 1909, l'ordinanza sulle lingue in Dalmazia. Per questo decreto puramente amministrativo, l'italiano non era più riconosciuto quale lingua ufficiale interna, cioè di servizio interno per il personale e per gli uffici statali tra di loro (le parti conservavano però il diritto di usare la lingua italiana a qualunque ufficio statale ricorressero). Fu questo l'ultimo e uno dei più gravi colpi che il governo di Vienna desse all'elemento italiano. Ormai agl'Italiani non rimanevano che due istituzioni nazionali: La lega nazionale e La Società degli studenti italiani della Dalmazia. La prima, fondata nel 1890, dopo la soppressione della Pro patria, in pochi anni riusciva a costituire un patrimonio sociale (1911) di oltre 300.000 lire, a mantenere oltre una trentina di scuole, istituire asili d'infanzia, sussidiare il convitto Nicolò Tommaseo di Zara. Zara sola, che contava 12.000 ab., versava alla cassa della lega da 50 a 60.000 lire l'anno. La seconda, per mezzo di gruppi in tutti i centri della provincia, teneva desto il movimento irredentista; con i suoi congressi annuali teneva uniti tutti gl'Italiani della provincia, e nei congressi interregionali attirava l'attenzione degl'Italiani delle altre provincie e d'Italia, sulle condizioni della Dalmazia.
La terza fase. - Con lo scoppio della guerra mondiale, la lotta nazionale in Dalmazia si arresta; la provincia, prima dell'intervento dell'Italia sorvegliata per timore di moti serbi nelle parti abitate da Serbi ortodossi, avvenuto l'intervento, diventa zona di guerra. L'autorità militare interna o confina tutte le pèrsone sospette, Slavi e Italiani. In seguito all'amnistia per reati politici concessa nel 1917 dall'imperatore Carlo, alcuni internati e i confinati ritornano in Dalmazia. Negli ultimi giorni dell'ottobre 1918, la monarchia comincia a sgretolarsi. Il 31 ottobre il consiglio municipale di Zara, già disciolto nel '15, presieduto dall'on. Ziliotto, con un gruppo di popolani costituitisi in guardia nazionale, disarma i soldati del presidio della città, impone al commissario imperiale e regio la riconsegna del comune. Gli stessi avvenimenti si svolgevano a Spalato e nelle altre città della Dalmazia; a Spalato si costituivano il Fascio nazionale italiano, che aveva a capo un comitato collegato con quello di Zara, e il Consiglio nazionale croato, il quale in nome del Consiglio nazionale di Zagabria prendeva possesso del comune. Si manifestava un immediato conflitto tra gl'Italiani e i Croati che facevano capo al Consiglio nazionale di Spalato. Il 2 novembre il conte Attems, che fu l'ultimo governatore austriaco, abbandonava Zara, e il giorno 4 novembre la torpediniera A. S. 55 appariva nel porto di Zara, e prendeva possesso della città.
Il 14 novembre arrivava a Sebenico e il 19 a Zara l'ammiraglio Enrico Millo, quale effettivo governatore della zona occupata in base alle clausole del patto di Londra. Il 15 novembre 1919 D'Annunzio viene a Zara a colloquio con Millo. Votato nel novembre 1920 il trattato di Rapallo per cui tutta la Dalmazia, eccetto Zara e Lagosta, passava al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, il 22 dicembre il governatore Millo veniva sostituito dal prefetto Bonfanti-Linares.
Fonti Le fonti cronistiche e molte documentarie sono raccolte nelle seguenti opere, vecchie, ma che tuttavia restano sempre fondamentali: I. Lucii, De regno Dalmatiae et Croatiae, Amsterdam 1666; D. Farlati, Illyricum sacrum, voll. 8, Venezia 1751-1819. Indispensabili poi i Monumenta e il Codex (v. croazia) pubblicati a cura dell'Accademia iugoslava di Zagabria, dove più di tre quarti dei materiali pubblicati si riferiscono alle città latine della Dalmazia.
Bibl.: Superate sono le storie generali: G. Kreglianovich-Albinoni, Memorie per la storia della Dalmazia, voll. 2, Zara 1809 e G. Cattalinich, Storia della Dalmazia, voll. 3, Zara 1834-1835; sempre buono T.G. Jackson, Dalmatia, the Quarnero and Istria, voll. 3, Oxford 1887; fondamentale A. Tamaro, La Vénétie Julienne et la Dalmatie, II-III, Roma 1919. Per il Medioevo: E. Mayer, Die dalmatisch-istrische Munizipalvrefassung im Mittelalter und ihre römischen Grundlagen, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, XXIV (1903), pp. 211-308 (ne esiste una traduzione italiana con osservazioni di U. Inchiostri e C. De Franceschi, in Atti e mem. della Soc. istriana di archeol. e storia patria, XXII, 1907, pp. 347-462); C. Jireček, Die Romanen in den Städten Dalmatiens während des Mittelalters, in Denkschriften der k. Akad. der Wissensch., XLVIII-XLIX, Vienna 1902-1904; H. Marczali, Les relations de la Dalmatie et de la Hongrie du XIe au XIIIe siècle, Parigi 1899; G. Gelcich, Il conte Giovanni Dandolo e il dominio veneziano in Dalmazia ne' secoli di mezzo, in Archeografo triestinom XXX (1906); S. Mitis, La Dalmazia ai tempi di Lodovico il Grande, in Annuario dalmatico, IV (1887), pagine 1-141. Per l'età moderna: Š. Ljubić, Ogledalo knijževne poviesti jugoslavjanske (Specchio della storia letteraria jugoslava), II, Fiume 1869, pagg. 5-296; T. Erber, Storia della Dalmazia dal 1797 al 1814, in Programma del Ginnasio superiore in Zara, XXIX-XXXV (1886-1892); P. Pisani, La Dalm. de 1797 à 1815, Parigi 1893, sul quale v. G. Alačević, in Bullettino di archeologia e storia dalm., XVII (1894), fascicolo 3 segg., pp. 41 segg.
Per la storia più recente, A. Anzilotti, Italiani e Iugoslavi nel Risorgimento, Roma 1920; J. Bulić, Jugoslavija i Italija, Spalato 1919; A. Chaboiseau, Les Serbes, Croates, Slovènes, Parigi 1919; F. Cvjetisa, Les Yougoslaves d'Autriche-Hongrie, in L'Avenir, Parigi 1915; A. Dudan, La monarchia degli Asburgo, Roma 1917; S.A. Evans, Les Slaves de l'Adriatique et la Route Continentale de Costantinople, Londra 1916; A. Gauvain, La question yougoslave, Parigi 1918; A. Giannini, Libro Verde (sui negoziati diretti fra il governo italiano e il governo iugoslavo per la pace adriatica), Roma 1921; (La questione agraria della Dalmazia), Mostar 1919; V. Klaić, Povjest Hrvata (Storia dei Croati), Zagabria 1899-1911; L. Leger, Serbes Croates et Bulgaries, Parigi 1913; L. Mandl, Die Hasburbger u. die serbische Frage, Vienna 1918; Z. Moravec, L'Italie et les Youglasvie, Parigi 1919; A. Mousset, Le royaume des Serbes, Croates et Slovènes, Parigi 1921; S. Osterman, Italija i Jugoslavia na Jadranu (Italia e Iugoslavia sull'Adriatico), Zagabria 1920; A. Giannini, Il trattato di Rapallo nei commenti della stampa, Roma 1921; [F. Salata], Il diritto d'Italia su Trieste e l'Istria, Roma 1915; Seton- R. V. Watson, Die südslavische Frage im Habsburger Reiche, Berlino 1913; F. Šišić, Geschichte der Kroaten, Zagabria 1917; G. Stefani, Il movimento iugoslavo, Trieste 1919; L. v. Südland (Ivo Pilar), Die südslavische Frage u. der Weltkrieg, Vienna 1918; L'Adriatico, Milano 1914; A. Tamaro, Italiani e Slavi nell'Adriatico, Roma 1915; id., La Vénétie Julienne et la Dalmatie, Roma 1919; id., La lotta delle razze nell'Europa danubiana, Bologna 1923; L. Vojnović, La Dalmatie, l'Italie, et l'unité Yougoslave, Ginevra 1917.
L'arte.
Italiana fu l'arte da Zara alle Bocche di Cattaro nei municipî medievali, nelle chiese e negli oratorî, nelle logge pubbliche e nei palazzi privati. Le forze ingenite dell'arte dalmata trovarono col tempo vigoria, per la riflessione perenne di nuove forme dalle sponde opposte dell'Adriatico, dalle Puglie e dalle Marche, dalla Romagna e dalla Venezia, per cui in Dalmazia fu somiglianza degli aspetti familiari con quelli d' Italia; concordanza con le nostre forme, potrebbe dirsi, casalinghe; la stessa fisionomia aperta del genio italiano.
La scultura preromanica, quale si può vedere nei frammenti del museo di Spalato, in quelli del museo di Zagabria (sec. IX), e della raccolta di Tenin (principio del sec. X), ha corrispondenza con i lavori di scalpello a intrecciature, che si ritrovano principalmente a Roma e nel Lazio, in Lombardia e sulle nostre sponde adriatiche. La susseguente scultura romanica ha rapporti stretti con Venezia e riflette, nelle forme umane, le bizantine, pur modificandole e deformandole. Si vedano, ad esempio, le lastre scolpite nel Battistero di Spalato, ove, sopra un trono, un imperatore con la croce pare che sia ricavato da un foglio di dittico imperiale bizantino dei bassi tempi.
Il fenomeno che si nota chiaramente a Venezia del richiamo delle antiche forme cristiane nell'arte romanica, si ripete nella Dalmazia, nei battenti di legno del duomo di Spalato, intagliati da Andrea Buvina nel 1214; nel rilievo dell'Annunciazione all'interno della porta di quel duomo; ove l'Annunciata che fila la porpora per il velo del tempio, secondo quanto narrano gli antichi Evangelî apocrifi, potrebbe figurare tra le più evolute sculture romaniche veneziane con le innestate bizantine.
Subito dopo il Mille, la civiltà d'arte veneziana abbellisce le terre dalmate. Stefano, figlio di Cressimiro III, che, per l'aiuto dei Veneziani, divenne re di Dalmazia, sposò una veneziana, una Orseolo, e Pietro, suo figlio, che gli successe nel trono, fu educato a Venezia. L'architettura romanica, da principio, si volse a Ravenna, esemplare nel Medioevo a tutt'Italia, per il S. Donato di Zara; quindi a tipi di chiese lombarde per la galleria dell'abside del S. Grisogono della stessa città; alla facciata di Santa Maria di Piazza in Ancona, con gallerie cieche sovrapposte, per la fronte della cattedrale in Zara stessa. Anche qui tuttavia, nonostante che la facciata non rispecchi Venezia, ecco che nei portali si fa ricorso alla città madre, per le arcate e le colonne a spira. Arcatelle a eliche, cornici a cordoni ritorti, tabernacoletti, si rivedono fino al '400, nella porta maggiore e nella laterale del duomo di Sebenico, opera di mastro Antonio di Pierpaolo Dalle Masegne. Anche nelle forme romaniche, a limite delle gotiche sopravvenienti, come nella porta maggiore della cattedrale di Traù, maestro Radovano scolpisce la porta del duomo, esprimendo la forma romanica italiana, quale aveva avuto svolgimento a Verona: sui pilastri le rappresentazioni dei pianeti, dei mesi, delle fatiche umane, secondo le stagioni, del tempo che Dio signoreggia, dei bestiarî a segno della lotta tra i vizî e le virtù, dei fasti del Vangelo, degli Apostoli assistenti al Redentore, dei santi intermediarî tra Dio e l'umanità; dai lati i leoni della Chiesa vincitrice delle potenze infernali; su di essi Adamo ed Eva, sotto a pilastri, gli Orientali, aggiogate cariatidi, oppressi dalle pietre sculte con sacre figure. Maestro Radovano è in ritardo, confuso, ma pur sente tutta la forza dell'arte romanica, la suggella anzi con ultimo impeto su dai cespi d'acanto, nei girari della mistica vite che si aggroviglia tra i mostri. Non così addensato si presenta a Spalato, nel bassorilievo del duomo, Magister Otto, con la rappresentazione della Natività nell'ordine superiore, con quella di S. Pietro tra i santi Doimo e Anastasio nell'altro inferiore, eseguite entrambe nella maniera antelamica diramatasi a Venezia.
Ben presto il nuovo incalza; e s'avverte, nello stesso campanile del duomo di Traù, il gotico, che arriva a modificare l'arte romanica uscita dal gran tronco della latinità. Il gotico trito, minuzioso, a colonnine tortili, a cornici cordonate, a dentelli, a scacchi, a tabernacoletti della fine del Trecento, proprio dei maestri Dalle Masegne, si ritrova in Dalmazia; anche tardi a Sebenico, nel portale maggiore del duomo, a Ragusa nella porta della Pietà della chiesa dei francescani, a Lesina nella porta del duomo. Il gotico dei Dalle Masegne vien soppiantato dal gotico fiorito, che a Venezia prende una forma particolare, grazie ai maestri lombardi, giunti da Milano con Matteo de' Raverti e con Michelino da Besozzo, dopo che ebbero lavorato nella cattedrale della metropoli lombarda, contrastando la supremazia ai maestri nordici. Diedero opera a parare la Ca' d'oro e a rinnovare l'esterno del palazzo ducale; e ne uscì un gotico fiorito, fiammante, veneziano, coi grandi quadrilobi entro cerchi tangenti, che forman rose, oculi, rote, croci, cavalli marini. Nulla della snellezza e dello slancio del gotico iniziale, ma è in esso un traforo marmoreo, un effetto pittorico dato dal contrasto del bianco e del nero, del nitore delle cornici con l'ombra profonda. Queste forme decorative si distendono in Dalmazia: a Traù si rivelano nelle finestre del palazzo del Comune, sulle pareti del campanile del duomo, sui festoni delle finestre del palazzo dell'ammiraglio Coriolano Cippico; a Curzola rivestono il chiostro di trifore trilobate, a Lesina il palazzo Paladini, a Spalato il palazzo pubblico. Si rivelano anche nelle arti minori, nelle oreficerie, negl'intagli degli stalli corali. Rappresentante di questa forma decorativa veneziana in Dalmazia è Giorgio della nobile famiglia Orsini di Zara (detto Giorgio da Sebenico per aver quivi lavorato a lungo); egli a Venezia, sulle orme di Giovanni e Bartolomeo Bon, s'appropriò i principî del gotico fiorito, che divulgò poi nella propria regione e nella Marca anconitana con una nuova libertà di forme, un'energia di vita, tali da far pensare, a volta a volta, al pieno Cinquecento e al Barocco.
La fioritura veneziana fu diffusa da Giorgio Orsini per la Dalmazia, a Curzola, Pago, Arbe, Zara, Sebenico, Traù, Ragusa. Contemporaneo di Giorgio Orsini, che sprigionava con forza indomita energie violente e quasi brutali nel marmo, il suo conterraneo Luciano Laurana (v.) esprimeva nel palazzo ducale di Urbino le armonie più profonde, l'eleganza più schietta dell'architettura italiana. L'architetto di quel palazzo, della rocca di Pesaro, dell'arco di Alfonso d'Aragona a Napoli, fu un "poeta della linea e della massa" il continuatore solenne del Brunellesco, fondatore dell'architettura moderna.
Un altro figlio di Zara, Francesco Laurana (v.), tempra artistica classicamente italiana, come quella di Luciano, idealizza i lineamenti delle sue figure, giunge a una perfetta astrazione, quando Giorgio da Sebenico orientava la sue forme verso il movimento. Francesco e Luciano Laurana, portano nell'arte la stessa facoltà di astrazione fantastica che, nella pittura, ebbe avvento per opera del grande riformatore umbro-toscano: Piero della Francesca. Grande plastico, Francesco Laurana porta nell'arte gli stessi principî di misura e di sintesi volumetrica che Antonello da Messina esprimerà col pennello, e Antonio Rizzo esplicherà poco più tardi a Venezia, e sono tra i caratteri fondamentali dell'arte nostra, essenzialmente plastica. Una profonda corrente del Rinascimento unisce artisti del centro, del settentrione e del mezzogiorno d'Italia, con vivo spirito d'italianità. Giorgio da Sebenico e Francesco Laurana hanno un punto di contatto nella tendenza alla concezione di massa, alla pienezza del rilievo. Concretano diversamente questa visione di forma, che è il substrato della loro vita artistica, questo concetto di peso, che rivela la loro comune origine dalmata. Così le forme della Speranza di un altro scultore di Dalmazia, di Giovanni di Traù, al confronto di quelle di Mino da Fiesole, di cui fu collaboratore nel monumento di Paolo II, mostrano una tendenza maggiore alla rotondità, al rilievo, al distacco della forma dal piano di base.
Anche nella pittura vi furono in Dalmazia maestri che fecero naturalmente proprio lo stile italiano. Quando a Padova apparve dominatore il Mantegna, ecco Giorgio di Tomaso Ciulini (Chiulinovich), detto Giorgio (o Gregorio) Schiavone (v.), attingere insieme con l'istriano Bernardo da Parenzo alle nuove scaturigini della pittura del Rinascimento. E quando a Venezia era passata l'arte di Giorgio da Castelfranco, e Tiziano regnava sovrano culoritore, un figlio della Dalmazia, Andrea Medula o Meldolla, detto Schiavone (v.), siede vicino a Tiziano, al Tintoretto, a Paolo Veronese, per giudicare i mosaici dei fratelli Zuccato nel vestibolo della basilica di S. Marco. Così tra i corifei dell'arte veneziana sedette il Meldolla, proprio nell'anno della sua morte, a segno della sua fama e del suo valore. Come nella scultura e nella pittura, così nell'architettura continua in Dalmazia l'arte veneziana. Si riconosce all'esterno del duomo di Sebenico, dove si sente un'eco del Coducci; nella chiesa di San Biagio a Ragusa, ove l'eco stessa è già alterata; in S. Salvatore a Ragusa, in cui i moduli del Coducci sono di proposito seguiti, ma da un artista lontano da quello spirito d'equilibrio e d'armonia che è fondamento all'arte di quel maestro architetto. Per l'interno della cattedrale di Zara, il modello, sia pure all'ingrosso è la basilica marciana; nei cortili dei palazzi privati, con l'adorna vera da pozzo nel mezzo, dappertutto è evidente l'impronta veneziana. E sembra che il ciclo artistico si chiuda con la porta di Terraferma a Zara, aperta dal Sanmicheli presso l'angolo che le fortificazioni cinquecentesche fanno col bastione Grimani. Ancora Verona col suo grande architetto richiama alla sorella dalmata la propria porta al Pallio, perfino con i simili scudi dogali dei quali si adornano le due porte magnifiche: fu condotta a termine nel 1543 la porta zaratina, saluto solenne della Serenissima alla terra devota.
Avvenne in Dalmazia, come tra le regioni della penisola, lo scambio continuo della produzione artistica. Furono tagliapietra veneziani a Zara, a Traù, a Sebenico, a Ragusa; un orafo lombardo recò l'arca per le reliquie del patrono Sant'Anastasio nel Duomo di Spalato; partì Michelozzo, compagno di Donatello, da S. Eustorgio di Milano per ornare il Palazzo del Rettore a Ragusa; arrivò dallo studio di Donatello, da Padova, Niccolò Fiorentino anche per coronare l'opera dell'Orsini nel duomo di Sebenico; si sparsero in Dalmazia, sugli altari, le pale dei Vivarini, dei Carpaccio, di Marco Marziale, di Tiziano. Così la Dalmazia fu parte dell'organismo forte, indistruttibile, unico, dell'arte italiana. Quando, al limitare dell'età moderna, le nazioni si distinsero con la parola e con le arti rappresentative, la Dalmazia, da Zara a Sebenico, da Sebenico a Traù, da Traù a Spalato e da Spalato a Ragusa, ebbe la stessa fede, lo stesso ideale delle terre italiche, la stessa materia creativa dell'arte. (v. tavv. LIX-LXVIII).
Bibl.: E. v. Eitelberger, Die mittelalterlichen Kusntdenkmäler Dalmatiens, Vienna 1884; T.G. Jackson, Dalmatia, the Quarnero and Istria, voll. 3, Oxford 1887-1889; U. Monneret de Villard, L'architettura romanica in Dalmazia, Milano 1910; G. Kowalczyk, denkmäler d. kunst in Dalmatien, Berlino 1910; H. Folnesics, Die illuminierten Handschriften in Dalmatien, Lipsia 1914; N. Bruck-Auffenberg, Dalmatien u. seine Volkskunst, Vienna 1911; L'architettura antica in Dalmazia, voll. 2, Torino 1910; A. Venturi, E. Pais, P. Molmenti, T. Sillani, Dalmazia monumentale, Milano 1917; A. Tamaro, La Vénétie Julienne et la Dalmatie, Roma 1918-1919; A. Dudan, La Dalmazia nell'arte italiana, Milano 1921 (sostiene, con efficaci confronti, che l'arte della Dalmazia, nettamente italiana, ispirandosi nel periodo romanico e più nel Rinascimento ai monumenti romani, specie dioclezianei (v. spalato), reca un originale contributo allo sviluppo artistico della Penisola, in particolare per opera dell'Orsini e dei suoi seguaci); Lj. Karaman, L'architecture dalmate et du haut Moyen âge et Byzance, in Acad. roumaine. Bull. de la section histor., XI (1924); Archivio storico per la Dalmazia, pubblicazione mensile fondata da A. Cippico, 1926 segg.; C.M. Iveković, Bau-und Kunstdenkmale in Dalmatien, volumi 6, Vienna 1927; I. Strzygowskki, Die altslavische Kunst, Augusta 1929; Lj. Karaman, Iz kolijevke hrvatske prošlosti (Intorno alle prime origini del passato croato), Zagabria 1930.